27.7.04

Riforme, il tavolo del pesce spada
di GIAN ANTONIO STELLA (Corriere della Sera, 27/07/2004)

Per ricomporre le risse sul tavolo della Casa delle Libertà, come ha spiegato Rocco Buttiglione con acuta analisi di falegnameria costituzionale, i litiganti hanno avuto un'idea luminosa: passare «dal tavolo delle commissioni al tavolo delle riforme». Tipo quello che l'anno scorso, a Lorenzago, tra pantagrueliche abbuffate e allegre scaraffate, fece così ben sperare che l'Ansa titolò: «Riforme, i saggi: trovato l'uovo di Colombo». A quel punto Roberto Calderoli, che per primo aveva lanciato l'idea di tornare in Cadore, si è sentito in dovere di far un passo in più. E come gesto di disponibilità ha proposto, lui, leghista, di trovare «una Lorenzago al Sud». Meglio se in Sicilia. Dai casunziei alla pasta 'ncasciata , dal capriolo al pesce spada a'sammurigghu : che c'è di meglio dei buoni sapori, per superare i dissapori? Questo disse ironicamente, l'anno scorso, il sottosegretario di fede berlusconiana Aldo Brancher, alla domanda se fosse rimasta qualche ombra tra i pensosi gitanti che in soli quattro giorni di porcini, grigliate e cabernet avevano ridicolizzato il lavoro dei bravi ma lenti padri fondatori della Repubblica riscrivendo mezza Costituzione: «Sì, non lo nego, effettivamente ci sono stati dei dissapori tra noi. D'Onofrio aveva serie perplessità sulla polenta che ho preparato per cena mercoledì: grigia, alla segale, l'ho fatta con una certa farina integrale che ci arriva da un mulino della Carnia». E rideva. I soliti giornalisti diffidenti! Possibile che non capissero che lì, nella Baita Sacra alla Patria, era già stato tutto risolto? «La riunione si è conclusa con un testo abbastanza dettagliato», spiegava trionfante Francesco D'Onofrio, «un documento traducibile in articolato in poche ore».
L'idea di fare in vacanza ciò che non è andato in porto durante il normale orario di lavoro, o perlomeno di approfittare delle atmosfere turistiche trovare margini di tregua nelle situazioni più complicate, in realtà, non è nuova. Già nella Prima Repubblica, per dire, la ricomposizione della frattura che nel 1947 aveva spaccato in due i socialisti, venne avviata da Pietro Nenni e Giuseppe Saragat a Pralognan, tra le montagne della Val d'Aosta. E ancora nei convegni a Saint Vincent (maglioni e pedule forzanovisti) e Lavarone (maglioni e pedule zaccagniniani) furono individuate le vie d'uscita montane a tanti governi balneari.
Per non dire della gestione del potere in Abruzzo e nel Molise, che zio Remo Gaspari amministrava accasciato su una sdraio davanti alla pensione Sabrina di Vasto dove assessori e sindaci e presidenti provinciali stavano in coda anche per ore, in giacca e cravatta, sotto il sole a picco.
E come dimenticare la magica estate dei due mari del 1994? Sulla costa sarda del Tirreno, nella villa «La Certosa» non ancora ingentilita dalla costruzione (abusiva) delle cinque piscine di talassoterapia, Silvio Berlusconi cercava di rabbonire un Umberto Bossi che, perfettamente a suo agio sulle spiagge di Naomi Campbell e Daniela Santanché, si sdraiava con stratosferica disinvoltura sull'arena con la sua canottiera «metalmeccanico style» come fosse all'Idroscalo. Sulla costa dello Jonio, a Gallipoli dov'erano entrambi in ferie, Massimo D'Alema e Rocco Buttiglione avviavano la svolta che avrebbe portato al ribaltone davanti a un immenso piatto di crostacei. Cosa che avrebbe consentito a Gaio Fratini di tracciare una delle sue fulminanti strofette avvelenate: «D'Alema e Buttiglione / S'incontrano a cena / Per fare il partitone / Dell'opposizione / E han già trovato il simbolo: / un gamberone».
Eppure mai come l'estate scorsa, prima che il presidente del Consiglio si rifugiasse per cinque interminabili settimane nella sua villa sarda tirandosi addosso un diluvio di polemiche dalle quali riemerse roseo come un putto grazie al lifting, si era parlato tanto delle «vacanze di lavoro». Sembrò anzi, per qualche giorno, che le intere sorti del Paese fossero legate al destino di quei quattro villeggianti che si erano dati convegno nel paese dei Tremonti, dove un abitante su sei fa di cognome Tremonti e l'ultima sfida elettorale per le comunali ha visto Mario Tremonti contro Carlo Tremonti per sostituire Nizzardo Tremonti sulla poltrona di sindaco che i Tremonti occupano quasi senza interruzione da decenni nella scia di Lucillo Tremonti.
Nel solenne ruolo di «saggi», chiamati ad aggiornare la forma dello Stato disegnato da Cavour, Giolitti o Einaudi, i partiti della Casa delle Libertà mandarono la crema della crema: il notaio pescarese Andrea Pastore per Forza Italia, l'avvocato messinese Domenico Nania per Alleanza Nazionale, il professor Francesco D'Onofrio per l'Udc e per la Lega il dentista Roberto Calderoli, autore di una mondiale auto-biografia dal titolo «Mutate mutanda» nella quale aveva narrato di come avesse compiuto una «faticosa autopsia di se stesso» dissezionando la propria «sfera cosciente e l'iter emozionale» fino a «superare l'impeachment della timidezza».
Tra statisti, si sa, ci si capisce. E va da sé che il lavoro, sul quale vigilavano tra una biciclettata e l'altra Giulio Tremonti e Umberto Bossi («Io gli ho dato uno schema, poi loro lavorano») fu proficuo.
Pochi giorni e, assorbendo anche i rallentamenti operativi causati dagli abbiocchi pomeridiani («L'esperto di presidenzialismo è Nania», spiegò Brancher, «Se lui è a far la pennichella state certi che non affrontiamo l'argomento»), le tracce della nuova costituzione erano già nero su bianco. Al punto che i padri della neo-patria trovarono il tempo di fare una scampagnata a Pian dei Buoi per discutere di senato delle regioni tra la zuppa di farro, le cipolle e le costine di maiale del rifugio «Baion» o per tirar tardi la sera con l'Umberto al pianoforte che cantava «Parlami d'amore Mariù» e Tremonti che, travolto dal notorio spirito di collegialità, ritmava in compagnia: «O mare nero / o mare nero / o mare ne / tu eri chiaro e trasparente come me». Francesco Cossiga, di passaggio nel borgo, restò ammutolito: «Di fronte a un simile concentrato di saggezza e conoscenza non oso proferire verbo». Macché: un anno di discussioni e i saggi devono cominciare da capo. In Sicilia, stavolta. Stanno già cercando il posto giusto: Licodia, Limina, Linguaglossa, Lipari, Longi, Lucca Sicula... Ma chistu Lorenzagu siculo dove sta?

25.7.04

A scuola con i Nasi Forati
Satira preventiva di Michele Serra

Sono un nativo americano della tribù dei Nasi Forati. Abito in Italia da qualche anno e mi trovo benone, nonostante io sia l'unico Naso Forato di questo paese. Ho un figlio e vorrei farlo studiare. Secondo la legge italiana, tra l'altro, l'istruzione è un obbligo. Ero molto contento di mandarlo alla scuola pubblica, che mi piace perché è uguale per tutti. Ma ho saputo che, dopo le scuole cattoliche e le scuole ebraiche, si sta decidendo di introdurre anche le scuole islamiche.

Allora mi sono detto: perché loro sì e mio figlio no? Mi è stato risposto che esiste un problema di quantità, grosso come una casa. I cattolici sono moltissimi, gli ebrei sono una comunità piccola ma con identità e tradizioni culturali forti e radicate, i musulmani sono ormai il secondo gruppo religioso del paese. Mio figlio, invece, è il solo studente Naso Forato italiano, e probabilmente l'unico in Europa. Ho risposto che il ragionamento non regge, da nessun punto di vista: i diritti non sono mai un problema di quantità, sono un problema di qualità. Il mio diritto non è diverso da quello di cattolici, ebrei e musulmani solo perché loro sono tanti. In democrazia, la minoranza è sacra. E nessuno è più minoranza di mio figlio.

Ho dunque presentato al Tar, al Provveditorato, al Ministero e a una decina di altre istituzioni un capitolato molto ben scritto (ho tre lauree), giuridicamente agguerrito, chiedendo che venga istituita una scuola parificata per Nasi Forati. Naturalmente, ho vinto: nessun giurista, nessun democratico, nessuna persona dotata di buon senso poteva negare a mio figlio lo stesso trattamento che può spettare, qualora lo vogliano, ai ragazzi cattolici, ebrei e musulmani. Se le radici sono importanti, allora devono esserlo per tutti, nessuno escluso. E se si decide che le radici comuni offerte dalla scuola pubblica non bastano più, allora mi prendo anche io la mia giusta porzione di diversità.
Dal primo settembre, dunque, mio figlio frequenterà il primo Liceo Parificato Gufo Pedante (fu il più celebre pedagogista del nostro popolo). Non avrà sede: la nostra cultura non sopporta la stanzialità, e gli edifici in muratura ci opprimono. Sarà dunque un liceo all'aperto, che stabilirà di giorno in giorno dove tenere le sue lezioni, seguendo l'antica traccia delle migrazioni dei bisonti (come concessione alle usanze del paese ospitante, e per ovviare alla mancanza di bisonti in Italia, la scuola seguirà la migrazione delle beccacce). Le lezioni di tiro con l'arco saranno sospese durante l'attraversamento dei centri urbani. L'ora di grido di guerra avrà luogo solo a debita distanza dagli ospedali. L'accampamento per i nove docenti e le loro famiglie, e per l'unico alunno, comprenderà anche un wigwam palestra e un totem al quale legare il motorino di mio figlio.

Le materie principali sono caccia al bisonte, concia dei pellami, guerra, teoria e pratica dello scalpo, astronomia e orientamento, cavallo, arti sciamaniche, acconciatura, pagaia, epica orale e, ovviamente, religione. Mio figlio sarà educato nel culto del Grande Spirito, Manitù. Non disponendo di aule, non sarà possibile appendere al muro il simbolo del nostro culto, un tronco di sequoia lungo quaranta metri. Mio figlio, che l'hanno scorso ha frequentato le scuole medie pubbliche, ha provato ad appenderlo accanto al crocifisso facendosi aiutare dal genio civile, ma il parziale cedimento della parete lo ha dissuaso. In sostituzione, mio figlio ha appeso gli scalpi dei ministri Buttiglione e Moratti, ottenendo l'imprevisto e clamoroso appoggio di docenti e compagni di scuola. I costi?

Secondo i principi della nuova riforma della scuola, anche i costi delle scuole private parificate sono in buona parte a carico della collettività. Mio figlio pagherà la retta simbolica dei nostri avi, un tacchino vivo, che verrà consegnato solennemente al capo del governo, in segno di deferenza. La somma restante (un milione e settecentomila euro all'anno) la pagherete voi contribuenti. Ma non vi lamentate: se la vostra scuola di Stato vi sta così poco a cuore, dovete rassegnarvi a mantenere anche le scuole confessionali. Dice un antico proverbio dei Nasi Forati: chi ha ucciso il bisonte non lo rimproveri perché è morto. Augh!

22.7.04

Mare nostrum
di GUGLIELMO RAGOZZINO (Il Manifesto, 21 luglio 2004)

Non è solo l'articolo 11 della Costituzione italiana a vietare la costruzione di portaerei. Vi è anche l'articolo 59 del trattato di pace e una legge del 1931, di gusto prettamente fascista, tuttora in vigore. Nella costituzione è scritto che «l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Se qualcuno è in grado di spiegare a cosa serva una portaerei, se non come strumento di offesa per fare la guerra e risolvere così le controversie internazionali, si faccia avanti. Prima di varare, come ha fatto ieri il presidente Ciampi, prima di costruire, come sta facendo la beata Finmeccanica per conto della Marina militare e del governo Berlusconi o anche prima di progettare portaerei, come hanno fatto i governi di centrosinistra, sarebbe stato necessario por mano alla Costituzione e riformarla, in senso militarista, cancellando lettera e spirito dell'articolo 11 . Nessuno lo ha fatto, nessuno ha avuto il coraggio di farlo. L'articolo 59, comma II, del Trattato di pace è di una chiarezza cristallina: «L'Italia non costruirà, acquisterà, utilizzerà, o sperimenterà alcuna portaerei». L'impegno che De Gasperi aveva assunto, per conto di tutti noi italiani, nel 1947 era un impegno di lealtà, da rispettare. E fu rispettato per una quarantina d'anni, fino ai tempi del falso incrociatore Garibaldi, in realtà portaelicotteri. Neppure allora ci fu una dichiarazione formale, del tipo: l'Italia da oggi disattende gli obblighi del Trattato di pace, cui è stata costretta da forze soverchianti, ecc. ecc. E neppure: a partire da oggi l'Italia ha deciso di fare la guerra, se le garba, e di bombardare con missili dal mare e dall'aria, i suoi eventuali nemici. Anche questa dichiarazione non c'è stata, anzi l'incrociatore Garibaldi aveva un doppio travestimento. Era una portaerei per l'uso interno e per le commesse dei cantieri nazionali, e una nave multiuso con solo qualche piccolo elicottero nascosto nella pancia, per gli alleati-rivali della Nato e per l'ormai disattenta Urss.

La legge del 1931 è un episodio della contesa tra marina e aviazione, tipica degli anni del fascismo. L'aviazione militare, non solo in Italia, era ostile a una marina che, contro natura, fosse capace di volare. Negli Stati uniti o in Giappone prevalsero le marine che ottennero aerei e campi di atterraggio galleggianti, dando luogo a fantastiche battaglie come quella delle Midway. In Italia, l'aviazione era la pupilla del regime e ottenne al contrario un successo completo, sottolineato da una popolare canzonetta «Gira gira l'elica, romba il motor/ questa è la bella vita, la vita bella dell'aviator». Mussolini dettò la linea; e fece scrivere sui muri che l'Italia non aveva bisogno di portaerei essendo essa stessa una portaerei al centro dei mari.

Dopo settanta e più anni la Marina è riuscita a rovesciare la politica nazionale. Ha dovuto però accettare una serie di compromessi. Ha sofferto nel prendere il nome di Cavour, un signore con i piedi ben piantati sulla terra, lasciando il ben più evocativo Andrea Doria. D'altro canto, dopo Garibaldi, nave con il nome di sinistra, perché non accettare un nome da nave liberale di centro, cattolica ma anche certamente laica? Cavour è un grande padre della patria, che ha portato i bersaglieri in Crimea (modello per il Kosovo di D'Alema) e senza bisogno di portaerei. In ogni caso non ha detto lui:«libera Nave in libero Stato»? E così avremo Cavour. Risulta, ancora irrisolta, una sorda disputa tra chi voleva soprattutto una portaerei, beninteso di pace, capace però di portare carri armati pesanti e chi preferiva invece mantenersi sul classico: aerei a decollo verticale, elicotteri quanto basta. La nave li avrà entrambi: carriarmati e aerei. Sarà probabilmente la prima portaerei Ro-ro, cioè concepita come una nave avanti-e-indietro (Fincantieri ha vinto così fantastiche commesse per modernissimi traghetti) e capace di andare fino alla riva per scaricare i marines, alla caccia di bin Laden. O di Sandokan, se necessario.