26.5.06

Calcio, la CdL in preda alla sindrome di Borrelli

di Marco Travaglio - L'Unità

Non basterebbe un plotone di neuropsichiatri, né un manipolo di criminologi, per spiegare le reazioni della Casa della Libertà Provvisoria alla nomina di Francesco Saverio Borrelli a capo dell'Ufficio indagini della Federcalcio. Reazioni decisamente più dure di quelle che avrebbero accolto la nomina di Al Capone. Il fatto è che, per la prima volta nella sua storia, il calcio italiano scivola via dalle mani della politica, che fin dai tempi del Duce l'aveva sempre usato come “instrumentum regni” e gestito come il cortile di casa. Scivola via, il calcio, e si dà un vertice totalmente sganciato dai partiti.Il commissario Guido Rossi e il procuratore Borrelli sono due marziani: hanno un'età, una storia, un prestigio, un peso specifico e un orgoglio financo un po' snobistico della propria autonomia da garantire assoluta libertà di movimento, al riparo da ogni condizionamento, ammiccamento, accomodamento.

Con due così, l'italica arte della strizzatina d'occhio, del darsi di gomito, dell' “aumma aumma”, del ricattuccio non attacca.

E tanto basta a spiegare lo sgomento di chi quell'italica arte ha elevato a programma di vita e poi di governo. Quelli che tuonano contro Borrelli sono gli stessi che 12 anni fa volevano Previti ministro della Giustizia e 10 anni fa avevano pronto un collegio sicuro per Dell'Utri e uno per Squillante (il primo fu eletto, il secondo fu arrestato appena in tempo). Pretendere da questa gente un giudizio sereno su Borrelli è come stupirsi se la Banda Bassotti detesta il commissario Basettoni. L'idea, poi, che a guidare le indagini sul calcio sia uno che sa guidare le indagini getta gli intoccabili nel più cupo smarrimento: all'ex procuratore di Milano avrebbero preferito di gran lunga un procuratore della Gea.

In fondo, bisogna capirli. Già duramente provati dalle indagini sui furbetti, dalle elezioni politiche, dalla cattura di Provenzano, dall'arresto di Previti e dalla condanna di Vanna Marchi, stanno vivendo come un incubo questa strana aria di legalità che si respira da qualche settimana. Il centrosinistra non c'entra, anzi: Prodi aveva pensato bene di offrire la Federcalcio a Gianni Letta, il quale ci aveva fatto la grazia di declinare, e solo a quel punto era saltato fuori Guido Rossi. Quel che si dice, per la politica politicante, un marziano. Un odioso e odiato “moralista” che parla di «etica negli affari» e «conflitto d'interessi», e che con la sinistra ufficiale c'entra poco o nulla (basti pensare alla sua fiera opposizione alla scalata Unipol a Bnl e all'immortale battuta sulla «merchant bank» di Palazzo Chigi ai tempi di D'Alema). Esattamente come Borrelli, protagonista di epici scontri con il centrosinistra ai tempi della famigerata Bicamerale e delle leggi-vergogna della legislatura dell'Ulivo. Per questo Berlusconi li detesta: sa benissimo che la sua litania sulla «sinistra che ha messo le mani sul calcio» è una balla sesquipedale, visto che né Rossi né Borrelli rispondono ad alcuno se non alle proprie coscienze e alle leggi penali e sportive. Ed è proprio questo che lo preoccupa. È più forte di lui. Quando sente parlare di legge, e peggio ancora di coscienza, mette mano alla fondina. O allo stalliere.

Come diceva Bossi quand'era lucido, «se Berlusconi piange, state allegri: vuol dire che non ha ancora messo le mani sulla cassaforte». Dunque stiamo allegri. Godiamoci questa boccata d'ossigeno, ovviamente passeggera, finchè dura: due uomini di legge di specchiata fama ai vertici del calcio. E ringraziamo l'ingorgo istituzionale, il vuoto di potere a Roma, le intercettazioni di Torino e di Napoli e le congiunzioni astrali che han consentito ad alcune pericolose schegge di legalità di insinuarsi proditoriamente nel corpo marcio del Paese, rischiando fra l'altro di creare un pericoloso precedente. Se non si provvede per tempo, queste tracce di Stato potrebbero contaminare irrimediabilmente l'Antistato e disorientare l'opinione pubblica non più avvezza a emozioni così choccanti.

È bello leggere, mentre le acque del Mar Rosso restano ancora miracolosamente aperte, i commenti di Cicchitto, Rotondi, Mantovano e altri giureconsulti di fama mondiale sul ritorno di Borrelli. Non potendo tirar fuori la solita menata delle toghe rosse, anche perché il Comintern non ha squadre nel campionato di serie A, sono a corto di argomenti. Detestano Borrelli, ma non riescono a trovare un solo motivo (confessabile, s'intende) per cui non dovrebbe diventare procuratore della Figc. E per di più sanno che i tifosi di tutt'Italia non capiscono a quale titolo i politici continuino a pontificare sul pallone e, auspicando una giustizia rapida e inflessibile, non comprendono perché mai Borrelli non va bene. È forse un dirigente di qualche squadra? Lo manda forse l'Inter, o la Juve, o il Peretola? Non sanno che dire, e allora delirano, dicendo cose che una persona normale si vergognerebbe di pensare. Berlusconi seguita a blaterare di «mani della sinistra sul calcio», ma solo perchè vorrebbe tenercele ancora lui («Ho detto a Galliani di non dimettersi»: come se la Lega Calcio la nominasse il capo dell'opposizione o il padrone di Milan). Intanto Fabrizio Cicchitto, con grave sprezzo del ridicolo, intravede «una manina che vuole recuperare il giustizialismo» e parla di «nomina incredibile e tutt'altro che innocente»: e lui, venendo dalla P2, di colpevoli se ne intende. La manovra, prosegue il boccoluto muratorino, punta a «riprendere a sparare a raffica in molteplici direzioni, e aumentare il potere di ricatto e di interdizione di alcuni ben precisi ambienti milanesi collocati a cavallo fra alcuni grandi studi legali, alcune banche, qualche potere editoriale».

Parole incomprensibili, da cifrario esoterico. «È un'altra prova del regime dell'Unione», tuona Isabella Bertolini, farfugliando di «uso politico della giustizia sportiva contro Berlusconi». Anche Alfredo Mantovano di An, magistrato-deputato («toga nera»?), sostiene che questa è «la risposta più adeguata all'intenzione di Berlusconi di tornare presidente del Milan». Capìta l'antifona? Borrelli potrebbe disturbare il conflitto d'interessi politico-sportivo di Berlusconi, dunque è meglio che si faccia da parte (a proposito: ma perchè Mantovano e Bertolini, a proposito del nuovo capufficio indagini, pensano subito al Milan? Sanno qualcosa che noi non sappiamo?). Sempre acuto l'ex ministro Gasparri: «Io non ho problemi perché sono romanista, ma se fossi milanista sarei preoccupato. Perché gli ex procuratori di Milano non vanno in pensione a fare i nonni?». Parola del responsabile di un partito che, all'Authority della Privacy, ha nominato un condannato definitivo per violazione della privacy. Il meglio lo dà l'on. avv. prof. Gaetano Pecorella: «Se Borrelli farà al calcio italiano quello che ha fatto alla politica, sarà la fine del calcio italiano». Tre cazzate in una: il calcio italiano è finito a causa degli scandali, ben prima che arrivasse Borrelli; la politica non è mai finita, anche se la presenza di Pecorella in Parlamento potrebbe farlo supporre; Borrelli non s'è mai occupato di politica e ora non si occuperà i calcio: s'è sempre occupato di reati, e se questi hanno attinenza con la politica e con il calcio, è colpa della politica e del calcio, non di Borrelli.

Un certo Ciocchetti dell'Udc vaneggia di «ferite che si riaprono» e di nomina che «spacca ulteriormente il Paese». Evidentemente ha notizia di moti di piazza fra borrelliani e antiborrelliani che, per il momento, non abbiamo notato. Per il segretario, con rispetto parlando, della Nuova Dc, Gianfranco Rotondi, la nomina di Borrelli è «un'operazione politica contro Berlusconi», addirittura «un ghigno mafioso»: parola di uno che ha portato in Parlamento due pregiudicati, De Michelis e Cirino Pomicino (ieri molto critico anche lui). Ora Rotondi minaccia di «lasciare il Paese», per la gioia dei più. E pare che si lamenti anche Mario Pescante di An, quello che dovette dimettersi da presidente del Coni perché nel laboratorio dell'Acquacetosa era vietato cercare il doping, onde evitare il rischio di trovarlo.

Politici a parte, gli unici commenti normali arrivano da due calciatori azzurri. Alberto Gilardino: «Borrelli è uomo di grande competenza, mai come ora ci aspettiamo molto dalla giustizia sportiva perchè il calcio torni pulito» (Gilardino è, o almeno era fino a ieri, l'attaccante del Milan). E Simone Perrotta: «Se Borrelli è riuscito a fare pulizia nel mondo politico, ci riuscirà anche nel calcio. Speriamo che ci riesca come ha fatto a suo tempo con il pool di Mani pulite». Ecco: quel che sperano gli sportivi è proprio quel che temono lorsignori.

25.5.06

I caimani nella palude del pallone

di Oliviero Beha - L'Unità

Debbo esternare tutta la mia ammirazione e presentare le mie scuse pubbliche. La prima è per il caimano, le seconde per Biscardi. Sono affascinato da Berlusconi che dovunque, nelle sedi istituzionali come con chi incontra per strada, a Roma dove pena e a Milano dove moratteggia, e naturalmente in tv dove attua proprio come prima delle ultime (e secondo lui «informali») elezioni, se la prende con la sinistra e il regime, adesso applicato al calcio. Pensare che prima c'era Carraro - alla Federcalcio -,e adesso c'è Guido Rossi. C'era Italo Pappa - all'Ufficio Indagini -,e adesso c'è Francesco Saverio Borrelli. Nel frattempo sono stati decapitati i vertici arbitrali, fioccano le dimissioni meno quella di Galliani dalla Lega (calcio), ogni giorno esce una profluvie di intercettazioni che rimbalzano su internet e sui giornali come elenchi telefonici se non proprio come una «colonna infame».
Ebbene, ce ne sarebbe abbastanza per strapparsi i capelli (non alla lettera..., non lui e Galliani), per l'Italia paese e per l'Italia calcistica ora materializzata nell'Italia squadra nazionale, e preoccuparsi - da vero statista qual è - di come uscire dal buco nero,bianconero, rossonero ecc. No, lui caimanescamente ce l'ha con un duo presentabile, dopo falangi di impresentabili, con uno che è stato più duro con D'Alema di quanto non lo sia mai stato lui caimano, con un altro che ha una carriera specchiata e non prescritta ma semplicemente pensionata per ragioni di età. Ora, il neopresidente del Milan ed ex presidente del Consiglio ha tutto il diritto sfrontato (alla lettera, la fisiognomica non è uno scherzo) di pensare e dire il peggio di Guido Rossi e Borrelli, nello stile in cui ha condotto l'ultima entusiasmante campagna elettorale. In fondo, non tratta tanto meglio neppure Fini e Casini.
Ma forse aiuterebbe la sua credibilità di idolum tribus, così carismatica da non aver bisogno di nessuna esemplificazione per i «non coglioni», il premettere delle banalissime note alle bordate contro l'occupazione del calcio da parte del regime sinistro.
Ad esempio: c'era lui, al governo e alla testa del calcio sia pure per interposto Galliani mentre maturava e marciva il pasticcio di Moggi e compagni (compagni... compagni non credo), oppure no? I rapporti con Moggi, a parte Mastella, li hanno avuti due suoi ministri, oppure no? E con Carraro lui c'entra qualcosa? E con i diritti tv, vera forza motrice di tutto l'inghippo non secondo l'opinione di vieti comunisti ma alla lettura delle conclusioni degli inquirenti e dei carabinieri in ascolto (delle telefonate), hanno avuto familiarità Rossi e Borrelli, oppure lui caimano? E via così.
L'impressione purtroppo è che come al solito Berlusconi si butti avanti per non essere trascinato indietro. Ha capito che se il nuovo governo dovesse - hai visto mai... - fare presto e bene nel calcio, ne guadagnerebbe in forza politica e in immagine presso tutti gli italiani, milanisti compresi, non realizzando una bonifica «di sinistra» bensì una pulizia concreta e simbolica buona per tutti. Così stride, nella palude, invece che prendere atto del tracollo del paese anche sub specie calcistica, e spera di buttarla «in caciara» ancora e sempre. In questo gli danno una mano i Galliani che non mollano la poltrona, pur essendo palesemente coinvolti nel fango, gli Spinelli, del Livorno e gli Zamparini, del Palermo, che fanno quadrato «a termine» nella palude, i Cannavaro che nello stesso stile si dicono orgogliosi di questo calcio in cui il metodo Moggi era semplicemente la norma. Di non rispettare le norme.
E tra un poco temo che agli schizzi politico-mediatici di Berlusconi si aggiungeranno quelli che arrivano dalle intercettazioni trascritte e non setacciate dai giornali, per cui ormai reati presumibilmente penali,colpe deontologiche e violenze al costume si impapocchiano senza distinzione, favorendo - temo - presto una saturazione da Moggiofobia, dopo i fuochi d'artificio su Moggiopoli.
Il che ovviamente mena a un «basta così» auspicato ormai sempre più spesso e sempre più chiaramente da tutti coloro che nello scandalo paludoso hanno banchettato,addetti ai lavori come complici e collaterali nelle varie categorie.
Questo il caimano l'ha già capito benissimo, e mette in pratica la sua peraltro non inedita strategia. Mentre Carraro difende sé attraverso la conservazione degli Europei 2012, che passa per Prodi oggi come passava per Berlusconi ieri. Chapeau, se ci riesce, gli uomini della palude sono formidabili.
Contro il caimano e i suoi, che volteggiano plastici nello Stige del pallone, sono dunque schierati Guido Rossi e Borrelli. Stalin e Vischinski, certo, adibiti ai calzoncini. Non sapranno particolarmente di calcio, anche se il primo ha una qualche esperienza interista e già viene fotografato con la maglia azzurra numero 10 per rassicurare Lippi con toppe di realpolitik, ma se possiedono un'etica difendibile possono tramutarla da subito nell'essenza dell'etica sportiva. E di etica professionale,di deontologia, di razionalità, di spessore culturale polverizzato raccontano appunto le trascrizioni delle intercettazioni, che i due settimanali «politici» principali si rimbalzano contro. Mischiando, a dire la verità, contenuti di sommo interesse pubblico a dettagli privati, senza filtro, senza scelta, suscitando a ragione (laddove sia stato violato il segreto istruttorio) le reazioni dei magistrati e ove invece sia stato pasticciato il tutto le reazioni dell'opinione pubblica più avvertita. In buona fede. Gli altri li conosciamo.
A questo proposito, il rischio è che Mastella, scopertosi di recente ministro di «grazie» e giustizia, invocando leggi più severe butti via con l'acqua sporca anche il bambino. Senza intercettazioni, ricordiamolo, staremmo come un mese fa a parlare con gli juventini di complemento in tv di sudditanza psicologica degli arbitri...
E in parecchi saremmo rimasti con un'impressione e un giudizio sbagliati sul «processo» di Biscardi, a cui come detto credo di dovere delle scuse dopo averne letto le avventure sul documento pubblicato dall'Espresso, una specie di tutte le intercettazioni parola per parola, per assonanza calcistico-radiofonica. Le pagine dedicate alla trasmissione sono numerosissime,un misto di trascrizioni e di commenti da esse suscitati nel maggiore dei carabinieri, l'Auricchio che redige con casareccia acribia il documento della Procura di Roma,indirizzato ai colleghi di Napoli.
Le mie scuse si riferiscono a come in questo quarto di secolo sia stato da molti considerato il «processo», e cioè una carnevalata becera in cui tutti davano il peggio di sé per incassare i dividendi dell'Auditel. Lo stesso, immortale Biscardi in tribunale si era autodenunciato come «cabarettista» per evitare condanne penali causa diffamazione. Si gioca, si insulta, ma è per finta e per il ventre molle dei tifosi, era in sostanza la tesi difensiva del «processo» sostenuta dal suo autore e conduttore, il rossodipelo «avvocato». E moviolisti, giornalisti «stanziali» e ospiti intermittenti stavano al gioco.
Le intercettazioni ci dicono tutt'altro, al punto che il maggiore Auricchio trasecola per iscritto: ma come, si chiede il graduato scandalizzato, nella virulenza degli interventi, già discutibile di suo come fomite dell'aggressività del tifoso, l'idea era che comunque si stesse parlando della bizzarria del caso, di un palo o di una traversa, degli errori arbitrali, della sorte benigna, insomma di uno Shakespeare alla pallonara senza Shakespeare nell'osteria del lunedì, e invece era il contrario?
Ma sì,tutto truccato a sentire telefonare Biscardi e gli altri pupi del teatrino,tutto mirato a fortificare ed estendere il sistema-Moggi, tutto strumentale ad avere altro, regali, raccomandazioni, posti di lavoro, visibilità ecc... Che di professionale in senso tradizionalmente accettabile non ci fosse quasi nulla, supplito dal cabaret biscardiano reoconfesso, era in effetti sufficientemente chiaro anche senza intercettazioni. Ma che ci fosse un doppio livello, che i pupari in scala recitassero una parte per ottenere altri risultati, beh, è una scoperta commovente e semioticamente fenomenale. Non sono, non erano cialtroni, erano, sono dei professionisti del magheggio, si sono messi al servizio del «caporale» Moggi con una disponibilità e un impegno assolutamente degni di encomio, conseguendo ciò che si proponevano. O meglio che si proponeva Moggi. Ci sono pagine e pagine in cui noti colleghi si fanno un punto d'onore e di professionalità estrema nel seguire a perfezione le direttive del solito «Licio». Che ne esce alla grande, almeno riferito a quella Compagnia del Giocattolone sub specie televisiva, rimpicciolendo nel fango tutte le altre formine.
Quindi è almeno giusto riconoscere una tecnica a chi veniva liquidato snobisticamente come un coro berciante. Nella palude svolgevano un compito, e lo svolgevano bene. A sentire Berlusconi, in una esegesi omeopatica che getta una luce torva sul passato e sul futuro, ne proveremo nostalgia... Forza, Rossi inteso come Guido...

Il sogno segreto del mondo del calcio:amnesia e amnistia

Italians di Beppe Severgnini - Corriere della Sera

Vi anticipo la frase storica: «Non possiamo rovinare il gioco più amato dagli italiani!». Nessuno avrà il coraggio di pronunciarla, ovviamente. Sarà sussurrata tra i complici di ieri, buttata lì agli amici di domani, lasciata sospesa come un velo sopra la nazione, che sarà messa di fronte a un ricatto di classe. Rivolete il vostro romanzo popolare? Allora non rompete le scatole.
Basta tendere l'orecchio e si sente, il rumore della sabbia che sale. Il suono soffice dell'ansia di rimuovere, della fretta di chiudere, del «bisogna guardare avanti». La nazione eterna, quella del «tutti colpevoli, nessun colpevole» si sta organizzando. Il gioco è riuscito con la politica, col ciclismo, con la sanità privata, con le banche: perché non dovrebbe riuscire col «gioco più amato dagli italiani»?
Qualcuno dirà: ora ci sono Guido Rossi alla Figc e Francesco Saverio Borrelli all'Ufficio indagini! È vero, sono capaci e perbene: ma quando vedranno cosa c'è nel corpaccione del calcio italiano, avranno la mano ferma del chirurgo? Non solo: per loro ammissione, sanno o poco nulla di pallone. Il rischio non è l'incompetenza, ma il fascino. L'entusiasmo di Guido Rossi quando gli hanno regalato la «maglietta della Nazionale personalizzata» la dice lunga. Se i marpioni del calcio s'accorgono di queste debolezze, è fregato. I tifosi — anche i commissari straordinari — sono bambini, e ci cascano. Chiedere a Domenico Siniscalco, che ne sa qualcosa.
Amnesia e amnistia sono il sogno segreto di tanti, in questi giorni.
Ascoltate il silenzio fragoroso degli allenatori, in attesa (salvo eccezioni) di capire chi vince questa partita. Cogliete il vuoto pneumatico nelle dichiarazioni dei giocatori, nelle ultime ore.
Gilardino assicura che a Coverciano «si ride e si scherza». Luca Toni, bontà sua, ammette: «Abbiamo un problemino». De Rossi ammonisce «Lasciate in pace Lippi!». Certo, è umano: Lippi è il (bravo) allenatore che li ha scelti, promossi, lanciati verso il Mondiale; ma era anche la (silenziosa) spalla della Triade torinese. Come chiedere ai giocatori di scegliere? Onestamente, non è facile.
Ma allora: i calciatori no, gli allenatori neanche per sogno, i procuratori meno che mai, i responsabili (?) federali figuriamoci. Chi ci aiuta a cambiare il calcio? I dirigenti delle squadre tacciono e aspettano: neanche nei depositi della Rio Mare ci sono tanti pesci in barile come nella Lega calcio oggi. Resterebbe il Parlamento, ma approfittando delle nomine di Rossi e Borrelli, i nostri rappresentanti l'hanno già buttata in politica. Succederà come con Tangentopoli: tanto fumo, poco arrosto.
Carlo Verdelli, che appena è arrivato alla direzione della
Gazzetta dello Sport s'è trovato tra le mani una patata bollente grande come un meteorite, si chiedeva ieri: «Dove sono i Lippi, i Capello, i Del Piero, i Cannavaro? Che ne pensano di quello che sta emergendo? Non si sono mai accorti di nulla? E anche se fosse, non trovano doveroso adesso prendere apertamente le distanze?». La risposta è facile: per ora, no. Resta una domanda: perché non vogliono o perché non possono?
Post scriptum. Ai Mondiali, la nazionale italiana si presenta fortissima. Sarà concentrata e determinata come non mai, roba che i detenuti di Fuga per la vittoria se la sognano: vincere in Germania rovescerebbe una tonnellata di sabbia benedetta su Calciopoli, e dimenticare sarebbe più facile. La cosa incredibile è che tutti ci auguriamo di vincere, pur sapendo cosa vorrebbe dire. Forza azzurri! dunque. A voce alta, ma con gli occhi bassi.

24.5.06

E TUTTI TACQUERO (PER CINQUE MINUTI)

di GIan Antonio Stella, Corriere della Sera

Romano Prodi ha detto: zitti! E il governo intero è ammutolito: è o non è il capo? Le interviste in corso si sono fermate, i registratori sono stati spenti, le telecamere sono state bloccate, le penne son rimaste a mezz'aria sui taccuini come se il vociante caravanserraglio fosse stato pietrificato dallo sguardo della Medusa. Erano le 10.08 di ieri mattina. E per cinque minuti (300 interminabili secondi!!!) ha dominato su tutto un magico silenzio.
Poi, alle 10.13, è arrivato Vincenzo Visco, aveva qualcosa nel gozzo sulle tasse, l'ha espulso ed è venuto giù il diluvio: alle otto di sera si sarebbero contati già 184 takes d'agenzia di esternazioni, reazioni e reazioni alle reazioni.
Un capolavoro. Che a qualcuno ha fatto venire in mente un vecchio e geniale titolo di Cuore: «Ci arrendiamo: basta che state zitti!» È una settimana infatti che i ministri «coesi» del governo «coeso» frutto della maggioranza «coesa», per usare la parola più abusata di questa primavera, se ne vanno ognuno per conto proprio. Sarà perché sono ancora spinti dalla forza d'inerzia dopo una campagna elettorale in cui ogni voce ha cantato per conto suo, sarà perché ognuno vuole dimostrare che il suo partito ha portato a casa un tozzo per i rispettivi elettori, sarà perché la vanità di dire qualcosa e di vederlo finire nei tiggì può essere irresistibile, fatto sta che parlano, parlano...
Intendiamoci, sono tutte posizioni legittime: chi vince, sia pure di strettissima misura, ha il diritto di governare. Di più: ogni singolo proponimento potrebbe essere perfino giusto, doveroso, sacrosanto.
Potrebbe aver ragione il responsabile dei Trasporti Alessandro Bianchi, che con quella somiglianza al mago Gandalf del Signore degli Anelli pare ancora più solenne quando s'erge contro il Ponte di Messina inutile e dispendioso. E così l'addetto alla Solidarietà Sociale, Paolo Ferrero, che come primi obiettivi dice d'essersi dato quelli di metter mano alla Bossi-Fini e abrogare la Fini-Giovanardi sugli stupefacenti e di puntare alla depenalizzazione delle droghe leggere dato che «anche alla Camera molti hanno fumato uno spinello e non mi sembra sia morto nessuno». E ancora Cesare Damiano, che vuole «superare e cancellare le norme più precarizzanti» della Legge Biagi, che pure Walter Veltroni aveva definito l'altra settimana come «la via giusta».
E potrebbe aver ragione Barbara Pollastrini a promettere come «uno dei primi atti da ministra delle Pari Opportunità» una legge «avanzata ed equilibrata» sulle unioni di fatto in accordo con le aperture di Rosy Bindi con cui si ripropone di fare «un lavoro coeso». E poi il verde no-global Paolo Cento che appena fatto sottosegretario al Tesoro ha spiegato che i mercati finanziari si devono adeguare al nuovo corso e dunque, dopo anni spesi a far soldi (puah...), devono «imparare che al centro devono essere messi i consumatori e i risparmiatori», per non dire dell'appello a non sfilare con le armi nella parata del 2 giugno nella scia dello slogan hippy («Mettete dei fiori nei vostri cannoni») cantato dai Giganti. E potrebbe aver ragione Livia Turco nel dichiararsi favorevole alla pillola abortiva RU486 essendo «per l'interruzione di gravidanza, che già è un fatto drammatico per le donne, con metodiche meno invasive e dolorose». E poi Clemente Mastella sull' abolizione almeno di una parte delle leggi volute da Castelli e Paolo Gentiloni sull' abolizione della Gasparri.
E così, per ultimo, potrebbe essere nel giusto Vincenzo Visco, quando dice tra lo scandalo delle destre che «siamo ben oltre il 4,5% del deficit-Pil» e che «l'eredità lasciata dal Polo è micidiale» e che «veniamo da mesi in cui hanno raccontato un mondo che non esisteva» e che i segnali di ripresa sono «modesti» e che il governo «agirà sia sulla tassazione delle rendite finanziarie sia sulle imposte di successione ».
Ma il punto è: a nome di chi parla? Parla per sé, sfogando la rabbia di essere stato sbeffeggiato per anni da Tremonti cui vuol render pan per focaccia rovesciandogli addosso le stesse accuse (il buco occultato, l'eredità disastrosa dei conti, la mediocrità professionale, la disonestà intellettuale...) che aveva ricevuto? O parla anche per Romano Prodi, Tommaso Padoa- Schioppa e insomma il governo nel suo insieme? I suoi colleghi sono d'accordo, sulle sue sortite? Vale per lui e vale per gli altri: anche Beppe Fioroni, per esempio, pensa che «di spinelli non è mai morto nessuno»? Anche Arturo Parisi, che sta alla Difesa e in gioventù si diplomò alla Scuola Militare della Nunziatella, vorrebbe vedere alla parata del 2 giugno tutti in borghese o magari, come sogna Fausto Bertinotti, fasciati dai colori della pace? E per pura curiosità, si stanno chiedendo Rosa Russo Jervolino a Napoli e Bruno Ferrante a Milano e Sergio Chiamparino a Torino e Rita Borsellino in Sicilia, l'ex ministro del Tesoro oggi «vice» alle Finanze e tutti gli altri Esternators di questi giorni sono stati informati che c'è una tornata amministrativa dove i candidati dell'Unione si giocano moltissimo? Hanno idea di come sia stato eroso in poche settimane il credito (risicato) che aveva il centro-sinistra? Hanno già dimenticato, come ricorda irritatissimo Daniele Capezzone, i danni creati nelle fasi finali della campagna elettorale dalle sventurate «ricette» per le tasse, sventolate da questo e quello nel caos totale con ingredienti e dosi sempre differenti? Sia chiaro, non è la prima volta. Non c'è governo, nella storia repubblicana, che non sia stato minato al suo interno dalla volontà di questo e quel ministro di affermare la propria linea per rassicurare i propri elettori. Basti ricordare la battuta di Alfredo Biondi in uno dei momenti caldi passati dagli esecutivi di Silvio Berlusconi: «Ormai la Casa delle libertà è diventata un casino. Con una sola differenza: nei casini c'era almeno la tenutaria che teneva l'ordine». Qualche anno fa, stufo di sentire qualche collega che parlava troppo e a sproposito, Enrico La Loggia sbottò: «Bisognerebbe recuperare uno strumento dal nome "parlapicca" utilizzato dalle mie parti per limitare la logorrea...». Pinuccio Tatarella lo conosceva bene, il rischio. E teorizzava: «Non occorre mentire, ma non sempre è bene dire cosa si pensa. Se tutti dicessero sempre cosa pensano andrebbe tutto in pezzi...». Dice oggi Romano Prodi: «Testa bassa e pedalare». Vale per tutti?

23.5.06

RITIRIAMOCI DAL MONDIALE DI CALCIO

Massimo Fini (da "Il gazzettino" 22/05/2006)

Io non penso che Marcello Lippi debba dimettersi da Commissario
tecnico della Nazionale italiana, come han chiesto "il Manifesto", "il
Riformista" e altri giornali. Credo invece che la nostra Nazionale
dovrebbe ritirare la propria partecipazione dai prossimi Campionati del
mondo. Non perché vi sia in qualche modo obbligata moralmente e nemmeno
perché lo scandalo potrebbe influire sul rendimento dei nostri
giocatori facendoci fare una brutta figura anche sul campo.
Il contraccolpo psicologico potrebbe essere addirittura positivo, come
accadde nel 1982 quando vincemmo grazie alla rabbia agonistica e alla
voglia di riscatto del nostro centravanti, Paolo Rossi, che rientrava
dopo due anni di squalifica per lo scandalo delle scommesse.
Un ritiro così clamoroso e choccante da quello che è unanimemente
considerato il più importante avvenimento sportivo, potrebbe essere un
utile "auto da fè" per il popolo italiano, un'occasione per ripensarci,
per meditare su che cos'è diventato in questi ultimi decenni, nel suo
complesso, e non solo e non tanto nel mondo del calcio che è
semplicemente un aspetto e una metafora del nostro attuale costume
nazionale. Perché, come ho già scritto, questo Paese è marcio, marcio
fino al midollo. E con ciò non mi riferisco solo alla corruzione, che
permea di sè ogni ambiente sociale, ma alla perdita, in nome
dell'adorazione di un unico Dio, il "Dio Quattrino", di alcune delle
qualità che hanno da sempre caratterizzato il popolo italiano: la
gentilezza, il garbo, la generosità, l'umanità, che ne compensavano gli
altrettanto notori difetti. Siamo diventati un popolo di una volgarità
(la volgarità cinico-romanesca che emerge dalle intercettazioni
telefoniche di Moggi) e di una grettezza che non ha pari.
L'altro giorno sono arrivato un po' in affanno alla stazione di
Bologna. Sul primo binario c'era un Eurostar in partenza. Ma non sapevo
se era il mio. Ho visto un uomo sulla quarantina, elegantemente
vestito, che stava riponendo nella sua borsa da viaggio di pelle "Il
Sole 24 Ore" e "La Repubblica", un tipico rappresentante della upper
class, che saliva in vettura e gli ho chiesto: "Mi scusi, è questo il
treno che va a Milano?"; "Non sono un ferroviere. Leggo i tabelloni
come lei" è stata la risposta. "La ringrazio per la sua gentilezza" ho
detto. "Mi pare molto italiana".
All'andata, nella tratta Milano-Firenze, sempre su un Eurostar, in
prima classe, era seduta accanto a me una bella ragazza bionda. Era una
giovane manager di una ditta di intermediazione fra aziende
farmaceutiche. Ha tirato fuori il suo computer portatile e per tre ore,
salvo brevissime interruzioni, ha parlato al cellulare, con voce
forzatamente molto alta per superare il frastuono del treno. Non che le
sia venuto in mente di chiedermi, almeno una volta, se la cosa mi
disturbava o di fare un piccolo sorriso, complice, di scusa.
Semplicemente io per lei non esistevo.
Viaggiavo in macchina sulla strada che da San Sepolcro, attraverso il
Casentino (una zona d'Italia ancora sufficientemente remota per essere
rimasta intatta, e splendida) porta a Bagni di Romagna. Accanto a me
una giovane rumena, di 27 anni. Laureata in economia e commercio nel
suo Paese lo ha lasciato perché, dopo la caduta di Ceausescu e
l'avvento del capitalismo, è quasi impossibile trovarvi lavoro.
Vive da quattro anni in Italia e fa la domestica. Il suo sogno è
diventare infermiera. Era una ragazza simpatica e schietta e le ho
chiesto che cosa pensasse degli italiani. Parlava la nostra lingua in
modo quasi perfetto e conosceva un po' la storia del nostro Paese, la
nostra letteratura, le nostre arti, il nostro cinema. Ha risposto: "Non
siete affatto cordiali, affabili, generosi, umani come venite dipinti.
Pensate solo ai vostri affari. Al business, al denaro. Italiani, brave
gente? Mah... Io credo che voi siate vittima di una falsa immagine che
vi siete fatta di voi stessi. Naturalmente sono qui da troppo poco
tempo per sapere se in passato eravate diversi, se corrispondevate a
questa immagine. Inoltre mi ha colpito la totale mancanza di rispetto
delle regole, di rigore, di disciplina, che c'è nel vostro Paese.
"Capisco che detto da una rumena ciò ti possa sembrare strano e anche
arrogante, perché dal mio Paese viene anche molta gente disperata che
si comporta in modo delinquenziale. Quindi io non mi sento tanto in
diritto di giudicare. Ma l'impressione che mi fate è quella che ti ho
detto, sgradevole sotto molti punti di vista. Appena potrò andrò a
vivere in Austria, dove la gente è forse altrettanto fredda ma c'è
almeno il rispetto delle regole".
Sono rimasto in silenzio. Umiliato. Perché non avevo nulla da
replicare. Ero sostanzialmente d'accordo con lei.
Siamo diventati un popolo cupo, privo di allegria, di "joie de vivre",
di buonumore, di sensibilità, di umanità. Incapace di sorridere.
Abbiamo perso la nostra antica bonomia, senza per questo acquisire il
rigore protestante. Del nostro antico modo di essere c'è rimasta solo
la cialtronaggine. E ogni volta che torno nel mio Paese, dopo qualche
soggiorno all'estero, qualsiasi estero, mi colpiscono la nostra
inguaribile, inguardabile, volgarità e la nostra maleducazione.
Un Paese corrotto, corrotto fino al midollo. Che si mente
continuamente addosso. Che si crede generoso perché partecipa alle
maratone volgari di Theleton, ma è incapace, come gli svizzeri, di vera
generosità, di una qualsiasi attenzione all'altro.
Non solo la nostra Nazionale dovrebbe essere ritirata dai Campionati
del mondo, ma il nostro campionato dovrebbe essere azzerato almeno per
un anno. Sarebbe uno choc salutare. Negli Stati Uniti lo si è fatto per
il baseball, che da quelle parti ha la stessa importanza che da noi ha
il calcio. E il mondo non è crollato. Certo il danno economico sarebbe
enorme, se si pensa agli interessi degli sponsor, ai diritti
televisivi, ai fantastici e insultanti ingaggi dei giocatori che non
sanno nemmeno più come buttar via tanto denaro (il portiere della
Nazionale, Buffon, ha perso, per noia, circa tre milioni di euro in
scommesse clandestine), a tutto il variegato mondo, giornalisti
compresi, che vive sul calcio, soprattutto quello parlato. Ma è proprio
questa enfiagione economica che sta uccidendo il calcio, questo
meraviglioso gioco, da praticare e da vedere, i cui motivi simbolici,
rituali, mitici e identitari sono stati spezzati via in nome del
business.
In una canicolare domenica di giugno di tre anni fa gli "ultras", i
terribili e sempre denigrati "ultras", in rappresentanza di 78 società
di calcio di A, B, C e delle serie minori, fecero a Milano, davanti
alla sede della Lega, a Porta Romana ("Porta Romana bella" cantava
Giorgio Gaber) una civilissima manifestazione, che non diede luogo ad
alcun incidente, al grido di: "Ridateci il calcio di una volta". Io,
usando il linguaggio sessantottino, "allargherei il discorso" e direi:
ridiamoci l'Italia di una volta. Meno ricca, meno indaffarata, meno
competitiva, più modesta, più semplice, più gentile, più in armonia con
i suoi panni, più se stessa, più simpatica, più onesta e più umana.

16.5.06

LUZ, di Andrea Garbarino (due)

HOMERO BORDEL E ZENO PARDI, UBRIACHI, DECIDONO DI UCCIDERE FIDEL CASTRO

« C’è gente che ha investito molto denaro in questo progetto” disse Homero Bordel. “E il 17 gennaio vuole passare all’incasso dei dividendi. Né prima né dopo. Il 17 è il centro geometrico di una tela di ragno. Quando Fidel ci finirà dentro, a muoversi saranno in tanti.»
«Con Ada in prima fila» osservò Zeno. Nella sua mente risuonò la frase d’addio della cubana.
«Sei fuori strada. Ada rientrerà nell’ombra da dove è venuta. È una principiante, una scartina. Riferirà ai suoi capi che siamo due cospiratori da operetta.» Zeno si disse che in effetti lo erano. Homero lo anticipò. «Rifletti, Zeno. Le persone cambiano. Ada questo non lo può capire. Ha ricevuto un’educazione rigida, in una società pianificata. Ma credo che persino lei, come milioni di cubani, ne abbia abbastanza di nascere e morire sullo stesso binario. A me in ogni caso non sta più bene. Una notte, nella cucina di Ada, ho cominciato a farmi domande. Non le solite. E a pretendere risposte originali. Da quel momento è cambiato tutto.» Bevvero ancora due bicchieri di grappa. Il miglior carburante dei loro discorsi.
«Guardati dentro» proseguì Homero. «Anche tu non sei più la stessa persona che è sbarcata a Cuba tre mesi fa, con la morte nel cuore. Ti sei ripreso una parte di te che avevi sperperato. Non ti senti più giovane?»
Il bello delle amicizie maschili è questo. Che uno non insiste. Ti cinge piano le spalle, ti ruota nella direzione giusta e lascia che sia tu a costruirti le risposte. A costo di non capirle, sa capirti.
«Allora si va?» chiese d’un tratto Zeno.
«Si va» rispose Bordel, senza esitazioni.
Si alzò, pencolando in cerca di un difficile equilibrio. La sua sedia rovinò su uno dei labrador. Al guaito del cane seguì un grido di battaglia.
«Morte al despota!»
Zeno scattò in piedi e levò il pugno declamando: «Io non ho parole. La mia voce è nella mia spada!».
«Atto quinto, scena settima!» chiosò Homero con sicurezza.

15.5.06

GIUVENTUS!

da Peter Freeman

Caro Csf, parliamo un po' di Juventus (Giuventus, come dicevano i terun di Torino quando ero piccolino) e di calcio. Propongo però un inversione di metodo: si parte bastonando dal basso (il volgo) e si sale verso l'alto (triadi, monarchi torinesi, federcalcisti, e arbitroni). E' più divertente e consente di aggirare le facili indignazioni. Anche più democratico, secondo me. Premetto: sono giuventino dall'infanzia, la materia è di casa. E allora cominciamo bastonando quelli che "che schifo Moggi". Certo che fa schifo, ma se un mese fa Moggi si fosse messo all'asta ("lascio la giuve, chi mi vuole?") i prezzi sarebbero schizzati alle stelle: trovatemi una tifoseria, di quelle organizzate, che avrebbe detto 'no, io Moggi non lo voglio'. Mica scemi, loro: col Paletta si vince. Fermo immagine: assemblea azionariato popolare della Lazio di un anno fa, con Cragnotti già ingabbiato dalle fiamme gialle, interviste dei tiggì al popolino laziale (orgoglio, fede, solo chi cade può risorgere, il nostro onore si chiama fedeltà, sembrava un raduno delle SS) e dichiarazioni rivelatorie: rivogliamo Cragnotti, con lui si è vinto. Appunto. Proseguiamo bastonando la curva della Giuve che ieri ha esibito lo splendido striscione "15 anni di successi non si dimenticano. Onore e gloria alla triade". Ma sì, come direbbe Moretti Nanni: ve lo meritate, Lucianone. Rimbalzo a memoria lo striscione "Onore alla tigre Arkan". Faccio mia la linea Sermonti: la Vecchia Signora se ne va giù a battere nell'angiporto della B o della C. E' apocalittico ma ha il suo fascino. Ma ce n'è anche per altri: romanisti, interisti, milanisti e via scendendo in classifica. Il Moratti che difende la linea che i diritti tv ognuna se li contratta per conto suo: col cazzo che ci mettiamo alla pari con la Reggina, visto quello spendiamo e sprechiamo - giusto: provate a spendere come la Reggina e vediamo se vi salvate. I romanisti che Moggi l'hanno avuto in casa e che poi, faute de mieux, regalicchiavano agli arbitri i rolex d'oro, meschinetti. I milanisti che esigono, come il capo, due scudetti due (assieme al riconteggio delle schede elettorali?). Da evitare con cura le neo-vittime: gli Zamparini, i Dondarini, i Cellino e i Della Valle (sai, cara, alla fine mi sono adeguato). Bastonate pure anche il tovarisch Massimo Mauro: se vai in tivù, anche se sei rimasto legato alla Giuve, non puoi borbottare che sì, è grave ma così fan tutti, venendone infilzato da Tonino Di Pietro. Ancora: bastonare tutti quelli che "ci avete rubato il gioco più bello del mondo". Non è il più bello e voi siete dei gonzi, come quelli che si compravano i numeri al lotto da Wanna Marchi: fottere gli incapaci di intendere e di volere è un'aggravante, turlupinare i pirla no, soprattutto se si è pirla per colpa propria. Sono almeno due decadi che il calcio fa schifo e più schifo faceva più ai pirla piaceva. Poi è arrivata la banda della Magliana e ha deciso di prendersi tutta la torta: regolare, è così che si fa. Fosse arrivato Mamma Cocaina era lo stesso. Risaliamo la china. Un calcio in culo a Carraro l'eterno, uno che non si capisce se ci fa o ci è. Una bella colata di merda sull'intero Cda della Giuve, la proprietà che a tempo scaduto e con i carabinieri alle porte ha deciso che insomma, quei tre proprio non vanno e gli diamo il benservito. Stendiamo un pietoso teatro Tenda su una quota non irrilevante di giornalisti che si occupano di calcio, quelli che "ma sì, Luciano è grezzo e ruspante, ma sai com'è l'ambiente: a bandito, bandito e mezzo". A proposito, una domandina a La Sette: il prossimo anno ci ripropone il Processo di Biscardi? Proseguire risalendo verso la vetta: Romano Prodi che propone di mettere la federcalcio nelle mani di Gianni Letta come se il conflitto di interessi fosse una cosa televisiva. E per quanto riguarda gli arbitri, che volete che vi dica: se uno si fa minacciare e chiudere a chiave da un bullo di Civitavecchia nello spogliatoio, cosa pretendete da lui? Piccola proposta: sciogliere la CAF. Le partite le arbitriamo a turno Sabelli e io, con criteri e metodologie rugbistiche. Rosso alla prima protesta; cinque turni per ogni richiesta impropria di cartellino giallo; ammessa la scazzottatura in campo ma mai la gamba tesa e neppure il fallo tattico (espulsione diretta). Per i fuorigioco si tira a sorte. Accesso proibito agli spogliatoi per chiunque non debba giocare, indozzi un rolex, guidi un SUV e abbia più di un cellulare.

Tutti in montagna

S'ode a destra di Bruno Ugolini dall'Unità, 13 maggio 2006

Tutti in montagna Molti stanno preparando zaino e sacco a pelo. Intendono andare in montagna, come i partigiani di una volta. Sono soprattutto gli esterrefatti dirigenti di Forza Italia. Hanno appena ascoltato l'appello dell'illustre (si fa per dire) deputato Maurizio Bernardo. Ha dichiarato solennemente alle agenzie di stampa: «Prendiamo atto che oggi l'Italia non è più una Repubblica democratica, ma una nuova repubblica comunista». Come la Corea del nord. E Giorgio Napolitano è il nuovo Kim Il Sung.

A dire il vero il capo supremo Silvio Berlusconi è più cauto, anche perché preferisce il mare alla montagna. Ha assicurato: «Anche noi sappiamo organizzare gli scioperi». Li vedremo tutti all'alba davanti ai cancelli delle fabbriche, a fare i picchetti e a distribuire volantini. I focosi metalmeccanici non aspettano altro. Per ora, però - ha chiarito l'ex premier - si farà solo lo sciopero fiscale. Andranno nelle cartolerie ad impedire l'acquisto dei moduli per i 740 e 730. L'indignazione è grande. Anche perché quando avevano conquistato loro la maggioranza, i giochi erano stati ben diversi. Al Senato avevano eletto Marcello Pera che è una specie di Toni Negri di destra. E alla Camera Pierferdinando Casini che non è solo il fidanzato di Azzurra ma anche un esponente politico emiliano, quindi amico di tanti comunisti. E poi Forza Italia per dimostrare la propria generosità politica si era affrettata ad arruolare ex personaggi della sinistra come Sandro Bondi, Fabrizio Cicchitto, Renzo Foa, Giuliano Ferrara, Nando Adornato, Ludovico Festa, Piero Borghini.

Ed ora che faranno i nostri eroi? Insisteranno? C'è chi sostiene che sia tutta una sceneggiata per far rimanere eccitati gli elettori, fino alle imminenti elezioni a Milano, Roma, Torino, Napoli, Cagliari. E che zaini e sacchi a pelo saranno disfatti, subito dopo i risultati. Del resto anche durante le fumate quirinalizie il centrodestra ha messo in atto un comportamento singolare, imbarazzante. C'è chi voleva ritirarsi sull'Aventino (collina romana). Chi voleva introdurre carta straccia nella cosiddetta "insalatiera". Chi voleva a tutti i costi votare D'Alema per far dispetto. Chi voleva nascondersi dietro le colonne dell'aula parlamentare. Chi voleva mettersi in maschera, per non farsi riconoscere. C'era poi chi addirittura proclamava ai quattro venti che Giorgio Napolitano non solo era un personalità costituzionale perfetta, ma che era anche bello, buono, gentile, generoso, amabile, seducente. Chi lo dipingeva come un vero anticomunista, infiltratosi per sbaglio dai tempi di Togliatti nelle file del Pci. E però non lo si poteva votare. Insomma ne inventavano di tutti i colori. La verità è che si vergognavano di non poter scrivere quel nome sulla scheda. Alla fine, in preda a dolorosi contorcimenti, hanno prodotto una semplice scheda bianca. Un pizzino di 347 voti. Quasi a dire: scusaci Giorgio.

13.5.06

Re Giorgio il temporeggiatore

Satira preventiva di Michele Serra

Nella corsa al Quirinale i due schieramenti si sono comportati secondo la loro natura politica. Il centrosinistra puntava su personalità di esperienza e di sicura fedeltà istituzionale, come Cavour e Napolitano.

Il centrodestra su figure più spigliate e innovative, come Vallanzasca o Califano, oppure su una donna, che potesse effettuare il discorso di fine anno scosciata (molto curiosa la gaffe di Berlusconi, convinto che una donna fosse già stata presidente: Gronchi Rosa).

Negli incontri preparatori tra i due schieramenti si era molto parlato del metodo Saragat (una variante del metodo champenois che fece salire al Colle, per fermentazione, l'indimenticabile statista, detto anche "il senatore a vite"). Alla fine si è deciso di procedere con il metodo tradizionale, che consiste nel telefonare a oltranza, giorno e notte, a una ristretta rosa di persone anziane, sperando che almeno una senta la suoneria e risponda. Così è accaduto per Giorgio Napolitano.

La cui biografia politica, comunque, mette al riparo il Paese da ogni sorpresa.

Chiariamo una volta per tutte, intanto, il famoso gossip che lo vorrebbe figlio naturale di Umberto di Savoia. È falso: dei due, Napolitano è il padre. Figura storica del movimento operaio, fondò giovanissimo la corrente Attendista, che si proponeva l'instaurazione del socialismo per esaurimento naturale del capitalismo, al massimo in una decina di secoli. Fu tra gli oppositori della Comune di Parigi, da lui ritenuta un obiettivo troppo ambizioso, e prematuro per i tempi. In alternativa, propose la Comune di Mentone, per le dimensioni ridotte e il clima mite della cittadina rivierasca.

Pur essendo di carattere molto riflessivo, gli storici gli attribuiscono non pochi colpi di testa. Come quando, durante una sparatoria della polizia di Scelba contro un corteo operaio, avvicinò un vicequestore apostrofandolo duramente con una frase rimasta celebre: "Per cortesia, signore, sia così savio da sollecitare i suoi uomini a non aprire il fuoco su persone inermi, in modo da non mettere a repentaglio l'incolumità fisica di innumerevoli cittadini italiani il cui solo torto è prendere parte a una manifestazione pubblica autorizzata, come certifica il fascicolo che ho qui sottobraccio e che ora sottoporrò alla sua attenzione". Morirono 19 persone. Prudente, rispettoso degli avversari, molto attento alle forme, Napolitano non ha mai alzato la voce, nemmeno quando, durante una storica seduta della segreteria del Pci, rimase bloccato in ascensore per due giorni, silenzioso e paziente. Al congresso di Livorno del 1921, quando nacque il Pci, Napolitano era contrario alla scissione dai socialisti. Non solo: era l'unico che propugnasse, al contrario della scissione, l'allargamento della sinistra a tutto il resto del Paese, dal Rotary al Vaticano, dalla Juventus al Club Alpino.

Tessitore instancabile di rapporti politici cordiali e collaborativi, conquista i suoi interlocutori per sfinimento. Celebri alcuni episodi. Pur di levarselo di torno, il capo dei terroristi altoatesini, snidato da Napolitano in una malga della Val Passiria, giurò fedeltà a Roma e scese a valle per consegnarsi ai carabinieri. Durante la Resistenza, contrario agli attentati contro i nazifascisti perché il rumore assordante disturbava gli abitanti del quartiere, praticò una strategia alternativa: avvicinava i militari tedeschi per la strada e faceva 'bum' con la bocca, fuggendo poi velocissimo benché già anziano.

Fu tra gli oppositori più convinti delle invasioni di Ungheria e Cecoslovacchia: in entrambe le occasioni mandò al 'l'Unità' lo stesso, storico editoriale, intitolato 'Invadere un paese straniero è pura maleducazione'. Saputo della sua candidatura al Quirinale, Napolitano ha fatto sapere ai suoi sponsor che la dizione "corsa al Colle" gli pareva eccessiva, e poco consona alla dignità istituzionale dei candidati. Ha proposto di sostituirla con "lenta ma sicura camminata di avvicinamento al Colle". Secondo gli analisti, un'eventuale presidenza Napolitano avrebbe un'unica possibile controindicazione: che egli stesso si addormenti mentre pronuncia il discorso di fine anno.

Il crollo della triade chiude un'epoca: è la fine del "moggismo"

di MAURIZIO CROSETTI - Repubblica

CENT'ANNI di storia e dodici di vittorie, conquistate con i metodi che si comincia a intuire, distrutti in due settimane. Dopo la vergogna delle intercettazioni, per la gloriosa Juventus è la fine di un'epoca: sciolto il consiglio d'amministrazione, addio alla Triade (Moggi, Giraudo, Bettega), e terrore di precipitare in serie B per frode sportiva: un'ipotesi molto concreta per la vecchia società degli Agnelli, finita in mano ai trafficoni ma da ieri, forse, ripulita. Dopodomani, la Juve potrebbe vincere lo scudetto numero 29, però un giudice le potrebbe cancellare il numero 28, quello dei telefonini chiacchieroni.

Il ragazzo che ieri pomeriggio ha trasportato davanti alla sede della Juve il suo cartello artigianale, con la scritta a pennarello "Giraudo vattene", quando la brutta storia cominciò andava certamente alle elementari o forse all'asilo. Così si è perso tanti passaggi dell'epopea della Triade, però si è goduto il giorno della grande pulizia, quello che valeva la pena aspettare e che li riscatta tutti.

Si è perso, il ragazzo con la scritta, il momento in cui Moggi e Giraudo chiesero soldi per portare la squadra al "Trofeo Fortunato", il loro giocatore morto di leucemia. Si è perso l'arrivo semiclandestino di Moggi, reduce dalla vicenda delle "hostess" per gli arbitri europei del Toro. Si è perso l'inquietante trasformazione dei tifosi in clienti, pessima deriva del calcio dell'affarismo e degli intrallazzi. Si è perso il ricatto al Comune di Torino per avere un nuovo stadio ("Sennò giochiamo altrove!"), o almeno la ristrutturazione del vecchio, e metterci dentro un centro commerciale e - ci provarono - persino un casinò: forse si è ancora in tempo per bloccare tutto. Si è perso lo striscione contro Romiti ("Romiti, i bei tempi son finiti") commissionato e fatto appendere in curva per un antico regolamento di conti.

Lo sbarbatello col cartello avrà invece fatto in tempo a gioire per gli scudetti in serie, in campo Del Piero e Lippi, Trezeguet e Capello, al telefono Moggi. Avrà seguito il lungo processo per doping, finito con una condanna in primo grado e un'assoluzione in appello, però manca ancora la Cassazione, e non si sarà perso le piazzate in aula del brillante avvocato Chiappero: al confronto, Taormina è una sobria toga introversa. Avrà seguito le evoluzioni creative nello scrivere i bilanci societari, con acrobazie immobiliari e plusvalenze gonfiate come quadricipiti (Giraudo è indagato per falso).

Non può essersi perso, il giovane tifoso col sacrosanto cartello, lo stile untuoso e falsamente bonario di Luciano Moggi, la sua pletora di adulatori e servi, la sua strampalata corte dei miracoli dove c'era posto per fornai, cuochi, designatori, arbitri, procuratori, tassisti, giornalisti. Una combriccola casereccia come una trattoria e globalizzata come una holding, ma ancora peggio di Moggi è il moggismo: ha permesso e favorito la creazione della Gea, una mostruosità monopolista, con i figli complici di genitori illustri per ogni sorta di pressione, ricatto e violenza, che poi è la parola usata nel capo d'imputazione.

Una grande famiglia? No, per i magistrati un'associazione a delinquere. Torna in mente quell'antica battuta dell'avvocato Peppino Prisco: "Se stringo la mano a un milanista, me la lavo. Se la stringo a uno juventino, poi mi conto le dita".

Magnifico, in queste ore tragiche e ridicole, farsi un giro sul sito Internet della Juve e leggere una gigantesca pubblicità di carte di credito, con tanto di slogan: "Un vero juventino ha sempre la vittoria in tasca". Nessuno più ne dubita. Con la scusa dell'autonomia economica, Moggi e Giraudo hanno badato benissimo anche alla propria, mettendosi in saccoccia una quintalata di azioni: l'ex amministratore delegato sarà liquidato con una decina di milioni di euro, mica male come premio di consolazione della vergogna, lui che per avere quel pacchetto azionario aveva sborsato circa 900 mila euro.

Chapeau, anzi no. Moggi, Giraudo, Bettega: tre facce di facilissima lettura, ma i verbali di quattro Procure lo sono di più. Curioso che un telefonino, icona della modernità e della volgarità delle parole, abbia decapitato una creatura che pareva invincibile ma che si era fatta, per troppa tracotanza e sicurezza, abbastanza fessa, al punto di dire e chiedere in quella cornetta qualunque cosa. Tutto finito in un giorno di magnifico sole torinese, limpidissimo, e di aria pulita.

"Sono chiacchiere, un polverone, i moralisti saranno disintegrati" aveva detto Giraudo qualche giorno fa, perdendo il controllo delle parole e dei pensieri. Una volta, all'avvocato Agnelli che non si era mai fatto fotografare accanto a Moggi, ma che lo utilizzava eccome e con soddisfazione, chiesero in confidenza perché usasse un simile personaggio. Agnelli rispose: "Lo stalliere del re deve conoscere tutti i ladri di cavalli". Peccato che lo stalliere ormai si fosse messo in proprio. Peccato che quei cavalli, alla fine, fossero asini.

11.5.06

L'intervista di Fassino al Foglio

Roma. Piero Fassino si alza in piedi nel suo ufficio e legge un appunto. "Io la metto così: la guerra � finita, perciò la candidatura di D'Alema al Quirinale deve essere il primo atto di una pace da costruire e non l'ultimo atto di una guerra che continua". Il destinatario del messaggio � anzitutto Silvio Berlusconi. A lui e all'intera Cdl il segretario dei Ds – parlando con il Foglio – chiede "di valutare alla luce del sole la possibilit� di eleggere D'Alema alla presidenza della Repubblica". Fassino chiede i voti della Cdl? "Certo. O comunque un'intesa graduabile in diverse forme, purché esplicite". Il presupposto dell'iniziativa fassiniana � questo: "Il centrosinistra ha vinto le elezioni, ma sul filo di lana ed � innegabile che una met� del paese sia rappresentata dalla Cdl. Siccome l'Italia deve ritrovare la serenit� che le consenta di essere una democrazia normale, di riprendere a crescere e uscire dalla precariet�, bisogna smetterla di pensare che se vince Berlusconi ci sia il fascismo alle porte; e da destra che, se vince l'Ulivo, alle porte ci sia il comunismo". Come ha fatto in circostanze analoghe il premier inglese Blair a nome del governo laburista, così, dice Fassino, "il prossimo governo italiano si far� carico delle scelte di chi lo ha preceduto, nel nome dell'interesse nazionale". Di questo percorso, secondo il segretario dei Ds, D'Alema, se e quando candidato al Quirinale, vuole farsi garante. "Non siamo una Repubblica presidenziale, né lo dobbiamo diventare. Ma � essenziale che il prossimo presidente svolga un ruolo di garanzia e di coesione che contribuisca ad un clima nuovo e ad aprire una nuova stagione nella vita delle istituzioni della Repubblica". Fassino indica quattro punti fondamentali che riassumono queste sue intenzioni e le collegano al nome di D'Alema. Primo: "L'assicurazione che se il governo di Prodi dovesse entrare in crisi si torner� a votare, in base al principio tipico delle democrazie dell'alternanza per cui la legittimit� di una maggioranza e di un governo viene dal voto dei cittadini". Secondo: "Da capo del Csm, un presidente che eserciti la funzione di garanzia operando – come ha fatto Ciampi – per evitare ogni possibile cortocircuito tra giustizia e politica". Terzo: "Sulle grandi scelte di politica estera un presidente che favorisca la massima intesa possibile". Quarto: "All'indomani del referendum che – come noi auspichiamo – boccer� la revisione costituzionale della destra, si riprenda un confronto tra le forze politiche sulle istituzioni che consenta di portare a conclusione una transizione istituzionale da troppi anni incompiuta". Questo il manifesto presidenziale di un possibile candidato di nome D'Alema, che secondo Fassino potrebbe anche essere reso esplicito prima del voto delle Camere. L'obiezione � che il ruolo del presidente possa venire meglio interpretato da figure terze, "emerite" o di vecchia scuola o con venature tecniche. Come Giorgio Napolitano, Giuliano Amato, Mario Monti. In più, un certo establishment e alcuni poteri editoriali conservano delle riserve su D'Alema. Fassino: "Certo, non c'� una sola personalit� capace d'interpretare bene il ruolo di presidente, ma siamo in un tornante politico molto delicato e una figura tecnica rischia di rivelarsi una soluzione che coprirebbe a stento le tensioni, senza peraltro impedire che diventino virulente ed esplodano. Meglio un presidente di chiaro profilo politico. Quanto agli ambienti che diffidano di D'Alema, i timori sono figli della coazione a ripetere per cui si diffida di ciò che non si conosce più di quanto si creda in ciò che � noto. Io vedo in D'Alema un uomo politico dal profilo riformista, nel quale può identificarsi il centrosinistra, ma che ha l'intelligenza e la capacit� di cogliere e rappresentare anche le aspettative e le inquietudini del campo avverso". Il D'Alema capo dello stato proposto da Fassino � "quello che ha presieduto la Bicamerale, quello che ha impegnato l'Italia nell'operazione internazionale in Kosovo, quello che gestì l'elezione bipartisan di Carlo Azeglio Ciampi e quello che ha sempre rifiutato di demonizzare il centrodestra". E il centrodestra dovrebbe fidarsi? "Ai dirigenti del centrodestra chiediamo fiducia, sapendo che caricherebbero l'elezione dalemiana di un dovere in più, e anche pubblico, di onorare questa fiducia". La sinistra militante e radicale ha gi� pronta l'accusa contro il nuovo inciucio. Ma Fassino insiste a dire che "tutto deve avvenire alla luce del sole" e preannuncia: "Non escludo affatto che lo stesso candidato dell'Unione, se e quando verr� scelto dopo adeguate consultazioni, possa anticipare il modo con cui si propone d'interpretare il proprio ruolo". In altri termini D'Alema potrebbe presentare ai mille grandi elettori, che da lunedì voteranno, una specie di programma presidenziale sul quale chiedere un consenso diffuso. "E' un'ipotesi che rappresenterebbe una innovazione importante". In questo modo il Parlamento voterebbe sugli intenti futuri del candidato e non sulla storia di ieri del "comunista che divide", come ha detto ieri il Cav. in campagna elettorale a Napoli. "Quelle dichiarazioni non mi impressionano, ma sono ancora espressione di una guerra che vogliamo superare per aprire un ciclo nuovo". C'� pure un carattere da decrittare e D'Alema oscilla tra il decisionismo di Togliatti e gli strappi ammalianti ma non definitivi di Berlinguer. "D'Alema � spigoloso e a volte urticante. Ma � un vero laico, nel senso in cui lo intendo io dacché mio padre me lo spiegò quando ero quattordicenne: una persona in grado di cercare e cogliere il pezzo di verit� che c'� anche negli individui più lontani da lui. D'Alema � un uomo leale. E, soprattutto, sa tener conto dei sentimenti della gente, ma non per questo si lascia frenare se la decisione del momento richiede fermezza e anche impopolarit�. E sa onorare i patti". Da uomo di parte, però. "Lo erano anche Pertini e Cossiga. Ma, per me, un uomo politico più � dotato di identit� e profilo forte, più può onorare bene le responsabilit� istituzionali dello statista".

10.5.06

LUZ, di Andrea Garbarino

IL VECCHIO FIDEL MEDITA SUL NAUFRAGIO DELLA RIVOLUZIONE.
GLI SERVE UN SOGNO E L’ APPOGGIO DEL PAPA


Il primo aereo della giornata ruppe il silenzio dell’alba sopra la residenza di Centro Cero. Il vecchio Comandante scostò le tende del suo studio e constatò compiaciuto che le sue ossa non mentivano mai. Un altro giorno di pioggia e di opprimente umidità attendeva l’Avana. Si lasciò cadere sulla poltrona, davanti al grande schermo al plasma del televisore, dono d’una delegazione di imprenditori cinesi. Posò una risma di fogli dattiloscritti sulle ginocchia e si stirò i peli imbiancati della barba. Si ricordò della coppa di gelato conservata nel frigobar e si pentì d’essersi già seduto. Il gelato, la sua passione. Assieme alla pastasciutta, la storia antica, il Don Chisciotte e le partite di baseball. Sorrise amaramente. Una volta c’erano anche le donne, in questa lista. Anzi, in testa all’elenco. Ma ora... Ora avrebbe dovuto alzarsi dalla poltrona per arrivare sino al frigobar: un’operazione laboriosa e fonte di un’infinita frustrazione. Colpa del solito ginocchio. Era di nuovo franato a terra, sui bordi della piscina. Por suerte, non davanti a tutti.

Avrebbe potuto scampanellare, ma lo irritava chiedere aiuto per un infantile capriccio di gola.

Man mano che invecchio, constatò, divento come un bambino:ho bisogno degli altri, anche solo per un gelato. Le mie aspirazioni più semplici devono fare i conti con questo tramite scassato che mi porto addosso. E quelle dei cubani? Per difenderli dalle insidie del capitalismo ho finito per asfissiarli. Dopo la spinta collettiva di ogni rivoluzione, è la libertà individuale che tiene viva la voglia degli uomini a scalare il cielo. E io questa grande ricchezza l’ho sperperata, svenduta, incatenata a un ozioso collettivismo.

È difficile scrivere la Storia. Io l’ho fatto, cinquant’anni fa. Ma adesso? Se continuo così la Storia non mi assolverà. La Storia mi consegnerà alle generazioni future come un retrogrado e un tiranno. C’è troppa gente in prigione. Passi per gli infiltrati, i miserabili manovali della Cia. Ma i giornalisti? I poeti? I sognatori? È giusto che i sogni marciscano in galera? E quali sono questi sogni, poi? Quelli di una maggiore libertà e di un migliore tenore di vita.

E io, sono ancora capace di sognare? Martin Luther King,

lui sì che è amato dalla Storia. Era un ribelle e ha continuato a sognare. È morto sognando. Io ho sognato soltanto nascendo. Posso dire di me, oggi, I have a dream? Un sogno, mi ci vuole un sogno. Ma non un sogno qualsiasi. Una magnifica, irresistibile utopia. Cuba è un’isola, in questo è favorita. Può diventare l’Isola del Sole, in tutti i sensi. Come la Città del Sole di Campanella, uno che è stato in galera per trent’anni e appena uscito si è messo a difendere Galileo... Colto da una fulminante ispirazione, sul retro dei fogli che aveva in grembo (un discorso da tenere al Comitato centrale del Pcc), il Comandante iniziò a vergare schemi, brevi paragrafi, appunti veloci per un discorso decisivo ai cubani. La sua penna scorreva febbrilmente, come quella di un medium. Tanto per cominciare, basta con i dollari. Solo pesos cubani. Diritto di proprietà. Libertà individuali. Rappresentanze collettive. Insediamenti industriali e commerciali sulla costa nord, quella che guarda l’America. Un porto franco di cinquecento chilometri, da affittare ai cinesi, ai coreani, ai giapponesi. Una nuova porta d’Oriente sui mercati occidentali. All’interno, sulla Sierra Maestra, lungo gli itinerari della liberazione dal giogo di Batista, centri di studio e di meditazione.

La Sierra Maestra. Il Comandante posò la penna e socchiuse gli occhi. La sua memoria illanguidita tornò ai ricordi del ’56. Il discorso alla sua gente sarebbe partito da lì. Con la storia del Granma impantanato sulle coste cubane. Chiunque si sarebbe scoraggiato e arreso. Lui, no. Batista li aveva braccati, accerchiati, decimati. Li aveva dati per sconfitti e dispersi. Indomabile, il Comandante gli aveva fatto sapere: «Intendiamo mantenere la promessa. Saremo liberi o diventeremo dei martiri» . Il loro spirito allora era forte e leggero. Perché lo animava una meravigliosa utopia

Il Comandante riaprì gli occhi. Al 17 gennaio mancavano circa tre mesi. Poteva farcela. Lavorare sul suo sogno. In gran segreto. Per riscattarsi agli occhi delle nuove generazioni. Per combattere fino all’ultimo giorno da soldato. Della pace. Della fratellanza universale.

All’improvviso, un’idea gli attraversò la mente. Che ore sono adesso in Italia? Un po’ presto, si disse, ma non importa: capirà. E poi me l’ha detto lui, quando è venuto qui, di chiamarlo quando volevo. Con la mano tremante cavò una piccola rubrica dal taschino della camicia militare. Compose un numero riservato. Il telefono continuò a suonare a lungo, prima che qualcuno all’altro capo rispondesse, con una voce che sapeva di incenso.

«È importante» disse Fidel, controllando la sua leggendaria impazienza.

«Vedo se posso disturbarlo» mormorò la voce. Il Comandante tamburellò con le dita diafane sul ginocchio malato. Il tempo dell’attesa gli parve interminabile. Finalmente, all’altro capo del filo arrivò la persona che cercava. La riconobbe senza esitazione.

«Buongiorno, Santità» disse «sono Fidel Castro. Vorrei sottoporle un mio sogno.»

8.5.06

LE INTERCETTAZIONI DEI FURBETTI DEL PALLONE /4

UNA SEGRETARIA IN PIÙ
Lippi: «Accidenti. Ah senti ti devo dire una cosa. Oggi mi ha chiamato Carraro no? (...) Ieri sera quando te mihai telefonato e mi hai detto quella cosa lì. Io lì per lì non ho neanche capito bene no?»
Moggi: «Io ti facevo mettereuna segretaria a tua disposizione»
Lippi: «Sì, no, volevo dire che quando me l’hai detto ieri sera, io non ho capito benissimo quello che mi hai detto, poi mi hai detto tanto ci sentiamo domani. (...) Oggi poi mi ha chiamato Carraro no? (...) Era contento, mi ha fatto i complimenti, era tutto contento. Poi mi dice: senta un po’, ho parlato con il vostro amico, emi dice di metterle una segretaria a disposizione, ma io pensavo che lei con Vladovich si trovasse bene, no?»
Moggi: «No, ma non ha capito un c...» (...)
Lippi: «Come segretaria di Mazzini lo posso capire ma se viene fuori che Lippi ha una segretaria, viene fuori sui giornali, viene fuori sicuro, lo fanno venire fuori loro»
Moggi: «Ma mica a disposizione tua, a disposizione del club Italia»
Lippi: «Ecco, questo è un altro discorso (...) ma deve essere specificato bene, eh» (...)
Moggi: «Eh, ma perché le cose vanno bene Marcello, è qui che bisogna far andar le cose meglio, capisci? (...) L’abilità sta nel cogliere imomenti propizi per far andar meglio le cose siccome io conosco la maniera dilettantistica di questi qua allora è meglio metterli con il cappio subito in modo che capiscano che c’è un’organizzazione, dove però non ci deve essere Lippi che la chiede, deve esser fatta in modo che...» (...)
Lippi: «Eh, infatti, infatti. Tu però devi essere bravo a fargliela capire eh?»
Moggi: «Domani vado a quella riunione e ci penso io...

BASTONI TRA LE RUOTE
Baldas: «Intanto è stato Pairetto a mettere i bastoni tra le ruote all’Uefa, perché l’Uefa mi vuole tenere, mi vorrebbe tenere (...) Ho parlato con Eberle ed Eberle mi ha detto guarda, se la Federazione non l’Aia perché io non c’entro più con gli ispettori arbitrali no, mase la Federcalcio manda due righe all’Uefa loro mi tengono»
Moggi: «Chi, la Federazione dovrebbe mandarle?»
Baldas: «Sì, esatto» (...)
Moggi: «Eh, adesso sento un pochino»
Baldas: «Ascolta io ho fatto, ti ho preparato due righe di appunto, te le mando via fax in ufficio?»
Moggi: «Mandamele in ufficio»
Baldas: «Va bene, e comunque sarà poi mica Pairetto che mette i bastoni tra le ruote no?» (...)
Moggi:«Ma va’,maguarda se tu immagini che Pairetto può mettere i bastoni tra le ruote (risata)»

HO VISTO CHI BACIAVI
Moggi: «Però te t’ho vista abbracciata a Baldini, nonmi sei piaciuta»
donna (non identificata): «Nono, allora ti dico questo, che l’hanno trasmesso in televisione?»
Moggi: «Sì»
donna: «Allora, ho trovato Baldini e Girando che stavano parlando insieme (...)»
Moggi: «Giraudo t’ha salutato mentre baciavi Baldini»
donna: «(...) sai che gli ho detto, chiedi conferma a lui se non mi credi, dico, ‘‘ma che bella coppia che fate capito?’’»
Moggi: «Comunque è rimasto molto deluso»
donna: «Chi? Perché?»
Moggi: «E perché t’ha visto baci e abbracci »

IBRA VIENE ALLA JUVE
Raiola: «(...) Dice, guarda, diglielo a Zlata (è il presidente dell’Ajax che si rivolge a Raiola) questo, può fare guerra quanto vuole (...) noi non lo mandiamo via, perché se lui vuole andare via o va alla Roma, che già offre di più... No no, ho detto, lui non va alla Roma, e la Juve anche lei arriva a 12 milioni, non c’è problema. (...) Lui ha tirato fuori un fax del Monaco che mi ha mandato adesso, del Monaco, io gli ho detto guarda che il Monaco non ha neanche i soldi per accendere la luce nello stadio. E un fax del Lione che vogliono trattare intorno ai 20 milioni (...) Vuoi che te lo mandi il fax del Lione e del Monaco?»
Moggi: «Sì sì, ma intanto che me ne faccio io?»
Raiola: «No, va be’, non vorrei che quello scemo di Giraudo dicesse Raiola sta facendo lo scemo»
Moggi: «Mica vorrai confronta’ Juventus, Lione, Monaco, dai»
Raiola: «Tu devi essere un po’ più contento quando mi senti, capito?»
Moggi: «E certo»
Raiola: «Io ti do i gioielli»
Moggi: «Ma io infatti vedi ti...»
Raiola: «E Giraudo questo non lo capisce »

LE INTERCETTAZIONI DEI FURBETTI DEL PALLONE /3

REGGINA-MILAN
Moggi e Giraudo discutono con molti sottintesi di Reggina-Milan, penultima di campionato, con i rossoneri già campioni e i calabresi vincenti e salvi con un turno d'anticipo.
Giraudo: «Senti com'è andata poi con Carraro secondo te?»
Moggi: «Eccezionale, eccezionale, poi ti dico, ho saputo anche un'altra cosa importante dal ministro»
Giraudo: «Eh»
Moggi: «Ti ricordi di Galliani quel giorno che ti fece quel discorso?»
Giraudo: «Quel giorno?»
Moggi: «Che ti fece quel discorso»
Giraudo: «Su cosa?»
Moggi: «E poi ne parliamo, te lo dico poi domani»
Giraudo: «Vabbe', allora poi»
Moggi: «Comunque sai quando te mi chiamasti e mi dicesti ‘‘sai che mi ha detto Galliani''»
Giraudo: «Ah, e lui cosa dice?»
Moggi: «È stato lui che gliel'ha detto»
Giraudo: «Ah ho capito» §
Moggi: «È stato lui che gliel'ha detto ma non a lui, a Berlusconi eh»
Giraudo: «Ho capito! Ho capito!»
Moggi: «Poi ti spiego anche il meccanismo, oh ma hai sentito l'avvocato e il difensore dei...»
Giraudo: «Sì sì sì»
Moggi: «Meno male che noi non abbiamo l'abitudine né di comprare né di vendere cose a nessuno»
Giraudo: «No poi...»
Moggi: «Noi facciamo sempre la nostra strada ma comunque...»
Giraudo: «Chi è l'avvocato che l'ha detto»
Moggi: «De Luca, Luca De Luca, una roba del genere»
Giraudo: «Che è l'avvocato di chi?»
Moggi: «Del Chievo credo poi ci ha anche difeso perché ho letto l'Ansa no?»
Giraudo: «Eh»
Moggi: «Dice naturalmente non è che io possa pensare che c'è un illecito, è una baggianata, ma perché non si indaga su tutte le baggianate? Come dire per rafforzare la sua tesi difensiva no? E poi viene a rompere i coglioni a noi! E poi parla anche di Reggina-Milan»
Giraudo: «Esatto poi, quindi sai tutta questa storia qui sai è una buffonata e chiuso»

PUNTANO SULL'INTER
Giraudo (riferendosi a Lippi): «Sì sì sì, chiama anche Miccoli e Legrottaglie m'ha detto, son contento»
Moggi: «Senti un po' invece un'altra cosa, ieri sera c'avevo un ragazzino di Roma di Atalanta (è il designatore Paolo Bergamo, ndr), dell'Atalanta no»
Giraudo: «Sì sì quello là sì»
Moggi: «Porca puttana, l'Atalanta è un gran figlio di p...»
Giraudo: «Ah sì?»
Moggi: «Ha detto che noi, il campionato sarà sicuramente Milan-Inter»
Giraudo: «Secondo me, sai cosa mi ha detto Adriano, secondo me, mi ha detto guarda io ho saputo una cosa, bisogna chiamare questi due qua, mi ha detto ieri, mi ha preso da parte, m'ha detto, sappi mi han detto che puntano tutto sull'Inter quest'anno»
Moggi: «Eh mi sa mi sa sta sta a sentire, Milan-Inter, ma è andato anche oltre, ha detto tanto Moggi e Giraudo, alla fine dell'anno, Montezemolo li manda via»
Giraudo: «Eh questo già lo so»

MARINO NON È FURBO
Moggi padre e figlio parlano di Pierpaolo Marino sul passaggio di Jankulovski dall'Udinese al Cska
Alessandro Moggi: «...ora io un accordo con lui ce l'ho, però ora questo dice che fino a lunedì il contratto con l'Udinese non lo firma, io posso anda' a Mosca senza la firma a che le società non sono d'accordo?»
Luciano Moggi: «No, no e che sei matto, vai a fa' una girata invano»
A. Moggi: «...anche l'Udinese è strana, Marino sembrava che fino a stamattina se non convincevo Jankulovski ad anda' al Cska di Mosca non lo so, si sarebbe ammazzato, stasera quando gliel'ho detto, sembrava non gliene fregasse niente...»
L. Moggi: «Cioè che ti ha detto che non gli importava niente della cosa?»
A. Moggi: «No, non è che me l'ha detto è che lo sento io (...) non è che lui si è preoccupato tutta la giornata di chiama' questo per scrivere il contratto, io poi pensavo che ce l'avessero già un contratto in realtà, invece è a tutto a voce».
L. Moggi: «Eh ma Pierpaolo è un po' c... eh! Non è mica tanto furbo, eh?» Ti ricordi di Galliani che ti fece quel discorso? Poi ti spiego il meccanismo Quindi tutta questa storia è una buffonata e chiuso

LE INTERCETTAZIONI DEI FURBETTI DEL PALLONE /2

MI RACCOMANDO A STOCCOLMA

Pairetto: «Pronto»
Moggi: «Gigi? Dove sei»
Pairetto: «Siamo partiti»
Moggi: «Oh, ma che c... di arbitro ci avete mandato?»
Pairetto: «Oh, Fandel è uno dei primi...»
Moggi: «Ho capito, ma il gol di Miccoli è valido»
Pairetto: «No»
Moggi: «Sì, come no? (...) Ma poi tutto l’andamento della partita ha fatto un casino a noi»
Pairetto: «Gli assistenti non mi sono piaciuti molto, in assoluto, no, ma stavo pensando ad un altro, quello che aveva alzato era quello di Trezeguet che mi ricordo davanti»
Moggi: «Quello è un altro discorso. (...) Ora mi raccomando giù a Stoccolma, eh?»
Pairetto: «Porco Giuda, mamma mia, questa veramente dev’essere una partita...»
Moggi: «Ma no, masi vince, ma sai, si dice...»
Pairetto: «Ma questi sono scarsi»
Moggi: «Però con uno come questo qui resta difficile, capito?» (...)
Moggi: «Oh, a Messina mandami Consolo e Battaglia»
Pairetto: «Eh, l’ho già fatta»
Moggi: «E chi ci hai mandato?»
Pairetto: «Mi pare Consolo e Battaglia»
Moggi: «Eh, con Cassarà, eh?»
Pairetto: «Sì»
Moggi: «E a Livorno, Rocchi?»
Pairetto: «A Livorno Rocchi, sì»
Moggi: «E Berlusconi Pieri, mi raccomando»
Pairetto: «Non l’abbiamo ancora fatto»
Moggi: «Lo facciamo dopo»
Pairetto: «Vabbò, lo si fa poi»


CON GIGI È UNA CANNONATA

Giraudo: «...tu hai qualche notizia dicome tira l’aria lì a Sportilia (raduno degli arbitri, ndr)?»
Moggi: «Bene bene con Gigi (Pairetto, ndr)»
Giraudo: «Ma non è come l’anno scorso?»
Moggi: «No no, con Gigi è una cannonata»
Giraudo: «Però adesso bisogna dirgli che s’impegni per ’sto corvo perché non si può mica andare avanti con ’sta testa di c...»


L’ARBITRO SBAGLIATO

Moggi: «Pronto?»
Morena: «Signor Moggi buongiorno. Volevo comunicarle arbitro e assistenti per la partita di Champions League di domani sera»
Moggi: «L’arbitro chi è, Cardoso? »
Morena: «No, io vedo arbitro Poll Graham»
Moggi: «Uhm»
Moggi: «Di dov’è l’arbitro...»
Morena: «È inglese» (...)
Pairetto: «Pronto»
Moggi: «Buongiorno»
Pairetto: «Ohilà buongiorno»
Moggi: «Oh, all’anima di Cardoso, eh?...»
Pairetto: «Eh»
Moggi: «Paul Green (in realtà è l’arbitro Graham Poll, ndr)»
Pairetto: «Come?»
Moggi: «Paul Green»
Pairetto: «Allora è successo qualcosa all’ultimo momento, io ho Cardoso, è successo qualcosa... si vede che è stato male o qualcosa del genere»
Moggi: «Informati, informati un momentino»
Pairetto: «Sì sì, verifico subito»


MI RICORDO DI TE

Moggi: «Pronto»
Pairetto: «Ehilà, lo so che tu ti sei scordato di me, mentre io mi sono ricordato di te»
Moggi: «Ma dai»
Pairetto: «Eh, ho messo un grande arbitro per la partita di Amsterdam».
Moggi: «Chi è?»
Pairetto: «Meier»
Moggi: «Alla grande»
Pairetto: «Vedi che io mi ricordo di te anche se tu ormai...»
Moggi: «Ma non rompere, adesso vedrai, quando ritorno, poi te lo dico io se mi sono scordato»


MI SERVE UNA MACCHINA

Uomo: «Casa Agnelli buongiorno»
Moggi: «Sono Moggi buongiorno. Avrei bisogno di Nalla»
Nalla: «Ciao Luciano»
Moggi: «Io avrei bisogno in tempi rapidi perché siccome dobbiamo fare...»
Nalla: «Sì»
Moggi: «Per un amico importante, di una Maserati»
Nalla: «Sì»
Moggi: «Quattroporte»
Nalla: «Quattroporte?»
Moggi: «Sì. Ti diamo tempo una settimana dieci giorni, va bene?»
Nalla: «Va bene»


LA MACCHINA È A DISPOSIZIONE

Enzo: «Pronto?»
Pairetto: «Enzo?»
Enzo: «Ciao Gigi»
Pairetto: «Ascolta volevo dirti la macchina ce l’ho già praticamente»
Enzo: «Quale?»
Pairetto: «Quindi quando vogliamo andare poi a prenderla c’è a disposizione praticamente la Maserati»
Enzo: «Ma dai»
Pairetto: «Sì quindi»
Enzo: «Madonna»
Pairetto: «Adesso quando rientro domani chiamo direttamente la Casa Reale».


CREDE DI VINCERE LUI

Mazzini: «Perché questo cogl... (riferito a Carraro, ndr), ricordati che lui crede, che anche se passa così come vuole normalmente, di vincere lui. Invece devi metterglielo nel c... Ricordatelo».
Moggi:«Ooh se ti dico lasciamici parlare, poi domani io ho l’appuntamento»
Mazzini: «Va bene» (...)
Mazzini. «Venerdì vado a fare gli arbitri»
Moggi: «Venerdì vengo anch’io»
Mazzini: «Gliel’ho detto ad Anto’ e mi ha detto che non viene»
Moggi: «Lascia sta’, quello è un ambiente un po’ ibrido, meno uno ci si confonde e meglio è, e vale neppure la pena di starci alla lontana: io uno ci faccio partecipa’, o partecipo io o ci mando Alessio».


VOGLIONO FAR FUORI TUTTI

Alessandro Moggi: «...io l’altro giorno, tu prendila come informazione, poi, io non lo so, mi sono rivisto con Preziosi (ex presidente del Genoa, ndr), come sempre capita»
Luciano Moggi: «Uhm»
A. Moggi: «Mi ha incominciato a fare tutto un discorso, il calcio come cambia, bisogna stare attenti di qua, di là, Carraro, Galliani, poi mi fa, non vi fidate di Montezemolo. Dico perché? Perché io ho sentito una conversazione alla Juve, vogliono fare fuori tutti, rimane solo Giraudo»
L. Moggi: «Sì, ma questa è una cazzata»
A. Moggi: «Io te lo dico come cosa, siccome molte volte Preziosi è negli ambienti di questo genere qui, lui c’è dentro»
L. Moggi: «Non c’è mai»
A. Moggi: «Bé, pa’, io te lo dico perché, insomma...»
L. Moggi: «È esattamente il contrario».


CAMBIO DI PRESTITI

A. Moggi: «Mi ha chiamato Morabito (procuratore, ndr), in particolare Vigorelli (procuratore, ndr), per sapere se volevi fa un cambio di prestiti per pia’ Liverani»
L. Moggi: «No, no, ma perché ora lavorano per la Lazio?»
A. Moggi: «Che ne so, mi ha detto così?»
L. Moggi: «Porca miseria, da quando quello lì ha agganciato lì di sotto, mo ci voglio parla’ con quello, perché gli hanno dato Lopez e gli vogliono dare Marquez, a loro, eh?»
A. Moggi: «Eh, lo so»
L. Moggi: «Quindi è sicuro che sono riusciti a entrarci poco, perché lì non è che si possa anda’ granché, almeno che Cinquini (ex d.s. Lazio, ndr) non lavori ancora con la Lazio».


L’OROLOGIO DA 40 MILIONI

Biscardi: «Pronto?»
Moggi: «Vorrei il dottor Biscardi»
Biscardi: «Sono io»
Moggi: «Io sono Moggi Luciano»
Biscardi: «Uehh... Lucia’»
Moggi: «Allora ieri ho chiamato qui il nostro amico di Trieste...Baldas (ex designatore e commentatore delle moviole del «Processo», ndr). Gli ho fatto una bella cazziata, ma non ce n’era bisogno. Lui non ha colpa» (...)
Moggi: «Ma se non viene poi un cambio non prendo più nessuno, ma perché dobbiamo ammazzare il campionato?»
Biscardi: «No, tu non ammazzi un c..., magari l’ammazzavi l’anno scorso, mi dovresti da’ 40 milioni, hai fatto la scommessa con me e hai perso»
Moggi: «Aldo, ma io... sei come un orologio già assicurato, che vuoi che ti dica?»
Biscardi: «E dove sta?»
Moggi: «E lo sai che quando te lo dico...»
Biscardi: «E non lo so. Non me lo mandi mai...»
Moggi: «Ma vaff..., uno te l’ho dato costava 40 milioni»

LE INTERCETTAZIONI DEI FURBETTI DEL PALLONE

VEDI PURE QUELLO CHE NON C'È
21/09/2004 (conversazione tra Pairetto e Dondarini che arbitrerà Sampdoria-Juventus. La stessa sera è accertato che Pairetto andrà a cena a casa di Giraudo, presente Moggi)
Pairetto: «Pronto»
Dondarini: «Gigi, sono Donda»
Pairetto: «Ciao Donda, come stai? (...) Mi raccomando domenica che non ci salti tutto»
Dondarini: «Mercoledì, domani»
Pairetto: «Sì mercoledì ecco fai una bella partita, tu sai che lì... sai che son sempre...»
Dondarini: «Eh, son particolari (...). Con cinquanta occhi bene aperti»
Pairetto: «Eh, bravo per vedere anche quello che non c'è, a volte (...) non facciamo subito che si dica "Ah, bene, complimenti per le scelte» (Dondarini è appena stato designato arbitro internazionale, ndr).
Dondarini: «Vedrai che non vi deludo»

IL RIGORE C'ERA
23/09/2004 (conversazione tra Pairetto e Dondarini il giorno dopo la partita finita 3-0 per la Juve con un rigore contestato)
Dondarini: «Eh, bella battaglia hai visto?»
Pairetto: «Minchia»
Dondarini: «Ma questi della Sampdoria erano da fuori di testa (...) Guarda ti giuro se non c'erano i giocatori della Juve che mi aiutavano io non so come finiva (...). Poi sai ho dovuto dare quel rigore lì, guarda che è di un netto Gigi»
Pairetto: «Sì, ma ci credo perché poi dalla vostra posizione» (...)
Dondarini: «Certo, ma io ti dico, io ho cercato... di far sì, insomma, che la partita andasse a quella fine»

BATTI PURE SU MESSINA
20/09/2004 (prima del Processo di Biscardi)
Moggi a Baldas: «Mi devi salvare Bertini, Dattilo e Trefoloni. Sul Milan puoi battere quanto ti pare».
Baldas a Moggi: «Che dici, di Messina?»
Moggi a Baldas: «Messina giù»

DATTILO DIMEZZI L'UDINESE
26/09/2004 (Giraudo a Moggi sull'arbitro Dattilo che la settimana successiva dirige Juventus- Udinese)
«Se è un po' sveglio, gli dimezza l'Udinese».

GLIEL'HO DETTO: GIOCA MALE
23/08/2004 ore 9.37
Moggi: «Pronto»
Giraudo: «Tutto bene?»
Moggi: «Mica tanto»
Giraudo: «Cosa è successo?»
Moggi: «Hai visto che ci han cambiato l'arbitro? (...). È venuto Paul Green (in realtà Graham Poll, ndr), l'inglese»
Giraudo: «Porco Giuda»
Moggi: «I mortacci loro, io l'Atalanta (il nome per l'ex designatore Bergamo, ndr), cazzo, ora ora voglio sentì»
Giraudo: «Che strana cosa, oh»
Moggi: «Dieci giorni fa m'aveva detto quello (...). Gli inglesi sono tutti stronzi, mi informo un attimo poi ti dico»
Giraudo: «Sì sì (...) Ti ha mica detto niente Raiola (manager, tra gli altri, di Ibrahimovic ndr) di com'è andata ieri?
Moggi: «Ha fatto tre gol» Giraudo: «Lui (Ibrahimovic, ndr) è fatto così, ha vinto 6-2»
Moggi: «Ha fatto tre gol, ha dato spettacolo, m'ha fatto parla' con il giocatore (...)»
Giraudo: «(...) il giocatore eravamo rimasti d'accordo che finita la partita andava dall'allenatore e dalla società e diceva io adesso non gioco più, dovete vendermi. L'ha fatto o no questo?»
Moggi: «Ah, ma questo non me l'ha detto (...)»
Giraudo: «Ma che cazzo, io gliel'ho detto: gioca male. No, deve giocare benissimo, bene! Gioca benissimo, così almeno adesso sarà un casino a venderlo, lo valuteranno (...) Gli diceva, io adesso questo torna domenica, io non gioco più (...) vendimi perché tu hai ancora 10 giorni per comprarti il mio sostituto, sappi che poi non gioco più. Questo doveva dire»

IL BRINDELLONE
23/08/2004 ore 11.38 (conversazione con interlocutore sconosciuto su Cannavaro)
Uomo: «Ooh!»
Moggi: «Rigo!»
Uomo: «Dimmi caro»
Moggi: «Allora lo possiamo fare anche oggi: fai chiama' Ghelzi (in realtà è Ghelfi, vicepresidente dell'Inter ndr), gli dici che vuole anda' via»
Uomo: «Come?»
Moggi: «Fai chiamare Ghelzi ... come si chiama là, brindellone alto... il Presidente!»
Uomo: «Facchetti»
Moggi: «Facchetti. Fai chiamare Ghelzi e Ghelzi lo farà. Gli dici: guarda, io voglio anda' via perché non so' considerato dall'allenatore e stop»
Uomo: «Mmh»
Moggi: «Perché se no, lo sai che succede?»
Uomo: «Mmh»
Moggi: «Che vincendo domani...»
Uomo: «Mmh»
Moggi: «Tengono più difensori e lui sta a guarda' le partite (...) Categorico gli dici: guarda Ghelzi, il giocatore vuole andà via, non rompere i coglioni» (...)

MICCOLI NON FACCIA LO STUPIDO
31/08/2004 ore 11.37
Moggi: «Pronto»
U.: «Direttore»
Moggi: «Sì, ciao Galea (...) Ti dò un consiglio: digli a Miccoli di fa' meno lo scemo, perché se no gli metto giudizio io (...). La prossima volta però non lo faccio chiamare neppure in nazionale così gli metto io giudizio, perché in nazionale ci va perché ce l'ho mandato io»

7.5.06

Il superboss si pettina col rastrello

Satira preventiva di Michele Serra (L'Espresso)

Chi prenderà il posto di Provenzano su quell'appetibile set tv di grande successo che è il covo? In lizza Carmine Schiantalapecora, Calogero Imperitore, Maso Introietta e Jack Stramucchio

Il covo di Bernardo Provenzano è diventato un set tv di grande successo. In un paese dalle radici contadine come l'Italia, piacciono e quasi commuovono le condizioni igieniche precarie, la dieta a base di cicoria, le sedie sfondate, la grafia da semianalfabeta, l'usanza semplice e vigorosa di strozzare le persone con le proprie mani, l'abitudine di pettinarsi col rastrello, la tv sempre accesa su Michele Cocuzza (o Cucuzza, nessuno ha ancora capito come cazzo si chiama). Ma chi prenderà il posto del Capo dei Capi? Ecco l'identikit dei principali candidati.

Carmine Schiantalapecora È l'esponente di spicco della mafia di Bagaricchio, il quartiere di Palermo dove la polizia non riesce a entrare dal 1947 perché i semafori sono stati bloccati sul rosso dai boss del rione. Diventati ricchi e potenti grazie al contrabbando di materassi, gli Schiantalapecora hanno dapprima prevalso sul clan dei Santamadonna, uccisi a testate nello stomaco, poi su quello dei Giuffrella, 14 fratelli tutti soprannominati 'u Scimunitu' e tutti morti in 14 diversi incidenti sulla stessa motocicletta con i freni manomessi. Il capofamiglia don Carmine, 81 anni, è latitante da quando ne aveva 12, e ha dichiarato che si arrenderà solo a Mussolini o a Bing Crosby. Si dice che viva murato nella tromba dell'ascensore di un condominio e che per impartire ordini ai suoi gridi forte ogni volta che sente qualcuno salire in ascensore.

Calogero Imperitore Gli Imperitore vivono a Cusulicchio, il villaggio di montagna dove la polizia non è mai riuscita entrare perché la strada è interrotta da un gregge di pecore che sfila ininterrottamente dal 1961. Calogero, di età imprecisata, è latitante dalla nascita: la madre lo partorì alla macchia, in un antro nascosto tra i rovi (secondo altre versioni, a un concerto di Michele Zarrillo). Rispettatissimo, don Calogero controlla il traffico delle tapparelle e riscuote il pizzo dai risuolatori di scarpe in tutta la Sicilia orientale. Ha l'aspetto fisico di un vecchio nano miserabile, è sdentato e parla in un dialetto così stretto che non lo capisce neanche il suo cane volpino. Gli inquirenti, dopo avere ascoltato a lungo il pentito Girolamo Ucchiata, sostengono che Imperitore controlli cinque o sei ministeri e tratti da pari a pari con Wall Street, ma pare sia uno scherzo dello stesso Ucchiata annoiato dopo 16 ore di interrogatorio.

Maso Introietta Detto 'u Magru' perché vive in un'intercapedine abusiva alla periferia di Gela, nel quartiere Misericci dove la polizia non è mai riuscita a entrare perché gli abitanti non vogliono. Controlla il racket dei tappezzieri e punta al gigantesco business delle cialde da cannolo. La sua ultima fotografia conosciuta lo ritrae, dodicenne, mentre cerca di aggredire la macchinetta automatica delle fototessere. Gli studiosi della mafia si chiedono come possa lo Stato essere tenuto in scacco per interi decenni da un relitto umano che ha fatto solo la seconda elementare, si scaccola con le dita dei piedi e parla male anche il dialetto. Ma non riescono a rispondersi.

Jack Stramucchio Gli Stramucchio sono un clan ricchissimo e ambizioso, e il giovane Jack ha studiato a Oxford, ha un master in economia e commercio, veste in modo raffinatissimo e ha sposato miss Universo. Soprannominato 'u Ricchione' a causa del fatto che usa correttamente congiuntivo e condizionale, Jack ebbe parecchie difficoltà ad affermarsi in Cosa Nostra. Suscitava molta diffidenza il fatto che al posto dei rotoli di banconote usasse la carta di credito, e al posto delle mani la forchetta. Recentemente gli si attribuisce una svolta tradizionalista: per farsi accettare, il boss avrebbe abbandonato il suo attico a Manhattan per trasferirsi in un porcile dove vive con una statua di Padre Pio, circondato dalle teste mozze delle sue vittime e da altri raccapriccianti reperti, tra i quali tutti i cd di Michele Zarrillo. Ha abbandonato la moglie, un'attrice canadese ventitreenne, per sposare una contadina barbuta, racchia, bassa e grassa, dalla quale durante la latitanza ha avuto nove figli per corrispondenza. Crudelissimo, Stramucchio uccide le sue vittime inghiottendole ancora vive, con la tecnica dell'anaconda. Punta al record di latitanza: solo 21 anni, che però valgono il doppio perché trascorsi in gran parte come vigile urbano a Palermo.

6.5.06

MARCO TRAVAGLIO SU MICROMEGA

Il Presidente della Repubblica non deve essere figura “super partes” nel senso di equidistante tra le due coalizioni, o imparziale rispetto ai valori in conflitto. Il Presidente della Repubblica rappresenta l’unità della nazione nel segno della Costituzione. E’ il CUSTODE della Costituzione, il suo garante, dunque l’intransigente difensore dei valori da cui nasce la Costituzione repubblicana. In questa senso preciso, quale candidatura (e perché) è più indicata per un Presidente di tutti gli italiani?Ha ragione Claudio Rinaldi: non s’è mai visto, in Italia, un presidente della Repubblica che sia il “dominus” di un grande partito. Saragat era segretario di un piccolo partito. Gronchi, Segni, Leone e Cossiga erano outsider nella Dc, e Pertini lo era nel Psi, mentre Einaudi e Ciampi erano tecnici prestati alla politica ma estranei ai giochi di partito. Massimo D’Alema è indiscutibilmente l’azionista di maggioranza dei Ds. Senza contare che gli eredi del vecchio Pci, usciti dalle elezioni con meno del 30 per cento della somma dei voti, hanno già avuto la terza carica dello Stato con Bertinotti: attribuire loro anche il Quirinale parrebbe francamente eccessivo rispetto agli orientamenti emersi nel Paese dalle ultime elezioni. C’è poi il problema del presidente della Repubblica come “custode e garante della Costituzione”: che custode e garante potrebbe essere un D’Alema, che come presidente della Bicamerale firmò una controriforma che faceva a pezzi l’intera seconda parte della Costituzione, violando anche alcuni principi contenuti nella prima e accettando indecenti compromessi al ribasso sulla giustizia e l’indipendenza della magistratura? Lo stesso dicasi per Giuliano Amato, grande architetto della cosiddetta “Grande Riforma” costituzionale in senso presidenzialista- cesarista ai tempi di Craxi. Giuliano Amato, Massimo D’Alema, Franco Marini? Due accaniti e autorevolissimi sostenitori di Berlusconi come Giuliano Ferrara e Vittorio Feltri stanno svolgendo una martellante campagna mediatica a favore della candidatura di D’Alema. E favorevoli a D’Alema si sono nella sostanza dichiarati altri pasdaran berlusconiani come Paolo Guzzanti e don Gianni Baget Bozzo. Non c’è il rischio che una elezione di D’Alema avvenga nel modo più equivoco, con franchi tiratori del centro-sinistra compensati da franchi tiratori (a lui favorevoli) del mondo berlusconiano, mentre quello stesso mondo griderà alla “occupazione comunista” dello Stato?Oltre agli sponsor di D’Alema già citati, vorrei ricordare che D’Alema è anche il candidato di altri autorevoli personalità come i pregiudicati Marcello Dell’Utri e Paolo Cirino Pomicino, il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri, il latitante Oreste Scalzone, Lanfranco Pace, Francesco Cossiga, Piero Ostellino, Pietrangelo Buttafuoco, Marcello Veneziani, Carlo Rossella, Falco Accame. Bisognerebbe domandarsi perché mai D’Alema piaccia così tanto a personaggi simili. E che cosa si aspettino da lui simili personaggi. E se magari sappiano qualcosa che noi ancora non sappiamo. A questo proposito, vorrei aggiungere qualche concreto elemento fattuale che dovrebbe caldamente sconsigliare l’ascesa al Colle più alto di Massimo D’Alema. Il presidente Ds si è salvato per prescrizione in un processo relativo a un finanziamento illecito di 20 milioni di lire ricevuto a metà degli anni 80 da un imprenditore barese colluso con la Sacra Corona Unita, il re delle cliniche pugliesi Francesco Cavallari, che poi ha patteggiato una condanna per concorso esterno in associazione mafiosa (perché, fra l’altro, ingaggiava esponenti delle cosche baresi nelle sue cliniche per far pestare a sangue i sindacalisti della Cgil che scioperavano contro le violazioni dello Statuto dei lavoratori e rifiutavano di iscriversi a un sindacato “giallo” allestito dallo stesso imprenditore). D’Alema confessò di aver ricevuto denaro in nero da quel soggetto al termine di una cena nella di lui casa, senza registrarlo fra i contributi elettorali come prevedeva (e prevede) la legge. Insomma, confessò di aver commesso un reato. Può il responsabile accertato di un reato penale aspirare a diventare capo dello Stato e, soprattutto, presidente del Consiglio superiore della magistratura? C’è poi il problema delle amicizie non proprio raccomandabili che Massimo D’Alema ha intrecciato nel corso della sua carriera politica. Un capo dello Stato non solo non dev’essere ricattabile, ma non deve neppure sembrarlo. Nella sua Puglia, il nome di D’Alema è associato allo scandalo della Missione Arcobaleno, che ha visto coinvolti alcuni uomini a lui vicini indagati dal futuro sindaco di Bari Michele Emiliano; e alla Banca del Salento, poi Banca 121, gestita da suoi amici con risultati disastrosi soprattutto per i risparmiatori (centinaia di persone sul lastrico per i famosi investimenti nei fondi “My Way” e “Four You”). Quando è stato presidente del Consiglio, D’Alema ha diretto i giochi della più controversa delle privatizzazioni, quella della Telecom, affidata a una congrega di finanzieri senza blasone ma soprattutto senza soldi, che acquistarono il colosso a debito, cioè con i soldi delle banche, riempiendolo di buchi (che oggi ammontano ormai a 53 miliardi di debiti). L’operazione fece dire a Guido Rossi che Palazzo Chigi somigliava a ”una merchant bank dove non si parla l’inglese”. Anche perché la congrega dei “capitani coraggiosi” approdati a Telecom era formata dal ragionier Colaninno, dal dottor Gnutti e dell’ingegner Consorte. Il secondo e il terzo si sono poi ritrovati, insieme ad altri vecchi amici di D’Alema, nella scalata dell’Unipol alla Bnl, che i giudici di Milano definiscono “associazione per delinquere” finalizzata a una serie di gravi reati. Di quella scalata D’Alema s’interessò attivamente: sia in pubblico con dichiarazioni a sostegno di Consorte, in difesa di Gnutti e anche di Ricucci e degli altri “furbetti”; sia in privato, come risulta dalle sue telefonate intercettate con Consorte (diverse volte) e da un contatto telefonico (poi abortito) addirittura con Fiorani. Intanto il senatore suo sodale Nicola Latorre parlava sia con Consorte sia con Ricucci. Seguiva la pratica Unipol lo studio Zulli, da sempre associato con Giulio Tremonti. Quelle telefonate, diversamente da quelle di Piero Fassino subito pubblicate dal “Giornale” berlusconiano, restano al momento segrete. Ma, secondo le denunce degli stessi Ds, Berlusconi sarebbe in possesso del “dischetto” completo delle intercettazioni disposte dai magistrati milanesi. In questo caso, noi non sappiamo che cosa contengano quelle conversazioni, ma Berlusconi sì. Quale uso ne viene o ne può essere fatto, visto che il Giornale ha improvvisamente interrotto la pubblicazione dei testi appena finito con quelli di Fassino? Non sarebbe il caso di renderne noto il contenuto, per dissipare ogni sospetto di ricatti? Finchè ciò non avverrà, intorno a Massimo D’Alema permarrà un fumus oggettivamente ricattatorio. Che è totalmente incompatibile con le sue aspirazioni per la Presidenza della Repubblica. Non è doveroso che tutto avvenga alla luce del sole, poiché è questo che distingue radicalmente la trattativa dall’inciucio? E poiché tocca alla maggioranza cominciare, non sarebbe giusto che il centro-sinistra formuli una rosa di nomi, che comprenda oltre a politici di partito (D’Alema e Marini) e a politici di confine con la società civile (Amato) anche personalità estranee ai partiti, come la costituzionalista Lorenza Carlassare o il giurista Franco Cordero?Aggiungerei all’elenco personalità super partes come Giovanni Sartori, Gustavo Zagrebelski, Tullia Zevi e Mario Monti.