26.9.06

LA REPUBBLICA DI FALO'
di Marco Travaglio per L'Unità

Siamo sicuri che, imponendo per decreto ai pm di distruggere subito i dossier raccolti illegalmente dalla Telecom parallela, si eviterà - come dice Prodi - che "il marcio dilaghi"? Siamo certi che fare immediatamente un gran falò di tutta l'immondizia raccolta da Tavaroli, Cipriani & C. sia la soluzione migliore? Le obiezioni al decreto sono tali e tante da imporre di discuterne con calma.
1) Si fa un gran parlare di intercettazioni illegali, cioè di conversazioni, telefoniche e non, registrate abusivamente dalla security Telecom e dagli 007 al seguito. Ma, nell'ordinanza di custodia firmata l'altro giorno dal gip Belsito per arrestare i presunti 21 spioni, non si fa alcun cenno a intercettazioni: può darsi che costoro ne abbiano fatte, ma finora non se n'è trovata neppure una. Si parla invece di dossier, pedinamenti, tabulati, carte bancarie, "ascolti" ravvicinati, intrusioni varie. Nessuna telefonata carpita illegalmente. Lo sanno o no, coloro che si sono affannati tutti tremanti intorno al decreto?
2) Se si distrugge il dossier, si cancella un corpo del reato. E' come bruciare una busta di polvere bianca senza prima appurare se è farina o cocaina, o una pistola senza prima accertare se è un giocattolo o una P38: così, quando si processa il possessore, quello potrà raccontare che era farina, o un giocattolo, e farla franca. Un conto è stabilire, forse giustamente, che il contenuto dei dossier non può diventare "notizia di reato", cioè indizio o prova a carico degli spiati, un altro è cancellare la prova del reato degli spioni. Non solo: e se poi, nei dossier, si annidassero elementi utili per risalire agli eventuali assassini del povero Adamo Bove? Con che coraggio si può bruciarli, stabilendo a priori che qualunque cosa contengano dev'essere inutilizzabile?
3) Si dice che anche le lettere anonime sono inutilizzabili. E' vero: non possono diventare prove a carico di nessuno. Ma, se un anonimo segnala che Tizio sta per ammazzare Caio, la polizia va sul posto e cerca di salvare la vita a Caio, e se non ci riesce arresta Tizio e i giudici lo condannano: non in base all'anonimo, ma in base alle prove raccolte proprio grazie alla soffiata.
4) Ufficialmente, il decreto-falò mira a stroncare sul nascere possibili ricatti facendone sparire lo strumento: ma ciò poteva avere un senso prima che venissero inventate le fotocopiatrici, i floppy e i cd. Davvero si pensa che chi ha accumulato dossier per anni e anni ne abbia fatto una sola copia, proprio quella sequestrata dagl'inquirenti?
5) Si dice che, se non si distruggono i dossier sequestrati, questi potrebbero finire sui giornali, con pubblicazioni illegali e gravi violazioni della privacy. Ma è come dire che, a Napoli, bisogna distruggere tutti gli orologi e tutti i gioielli perché qualcuno potrebbe rubarli. Non riuscendo a impedire i furti e i borseggi, si fa sparire l'eventuale refurtiva. Invece, basterebbe anticipare per decreto l'unica parte ragionevole del ddl Mastella sulle intercettazioni lecite, quella che istituisce un "archivio riservato" presso le Procure, sigillato sotto la responsabilità di un custode (tipo il procuratore), e tutto il materiale sequestrato resterebbe chiuso lì dentro finchè, finiti i processi, i giudici non decidano che si tratta di roba inutile e può essere distrutta.
6) Per ogni dossier illecito, c'è almeno una vittima che ha diritto di denunciare gli spioni. Se si distrugge il dossier, stilando un verbale senza - dice il decreto - "alcun riferimento al contenuto", come potrà la vittima far condannare lo spione senza la prova di essere stata spiata? Lo spione potrà sostenere che il dossier era un esercizio di fantasia e nessuno potrà smentirlo (anche un turbogarantista come Pisapia, infatti, propone una modifica al decreto per anticipare l'acquisizione dei dossier prima del processo, con l'"incidente probatorio"). Insomma, secondo molti, il decreto viola il diritto delle difese e delle vittime, nonchè l'art. 111 della Costituzione: la prova si forma al dibattimento. Lo chiamavano "giusto processo": com'è che hanno cambiato idea?

25.9.06

IRAN: TERRA DEGLI SCIITI E NON ARABISTAN!
da Mauro Mauri

Allah Akbar, oggi internet e' veloce. Sono a Yazd, bellissima cittadina, piena di memorie del glorioso passato persiano. Ieri io, mia moglie ed una coppia estone che era nel nostro albergo siamo andati al tempio del fuoco degli Zoroastriani, dove abbiamo conosciuto tre simpatici turisti locali che ci hanno portato in uno splendido posto, nel deserto, dove quasi in cima alla rupe una goccia d'acqua che zampilla dalla roccia ha dato origine alla vita: c'e' un po' di vegetazione con un grosso e sacro albero dalle radici ancorate nella roccia. Il posto e' un luogo sacro, con tanto di custode, dove i zoroastriani si ritrovano annualmente. Il tempio si chiama Ciak Ciak, goccia per goccia. Ciakciak e' giusto il rumore provocato dalla goccia d'acqua che cade nel secchio. Dimenticavo: i tre simpatici amici, sulla trentina, di famiglia bene, educati, incluso un architetto di fede zoroastriana, ci hanno caricato sulla loro nuovissima macchina, fortunatamente larga, con loro davanti e noi quattro dietro, incluso la ragazza estone, tralaltro giornalista, dalla mole mastodontica, una specie di Giuliana Ferrara bionda con gli occhi azzurri e tanto di velo in testa. Il bello dell'Iran e' che il turista straniero fotografa la gente locale mentre il turista iraniano fotografa i turisti stranieri. Sono possibili tanti paragoni tra Iran ed Italia: forse solo qui', come da noi, i musei d'estate sono chiusi per ferie. Venerdi', giorno di festa, la piu' bella moschea di Shiraz era chiusa, con ovvia incazzatura dei turisti locali. Leggo cosa dice Schiavone sui musulmani: prima cosa, al di la' delle apparenze, mai confondere sciti e sunniti. Precisato cio' anche qui'temono l'avanzata araba: se gli iraniani avessero diritto di voto in Italia credo proprio che sceglierebbero la Lega. Paradosso dei paradossi: sciolte le iniziali diffidenze un leghista ovunque sincero difensore delle tradizioni locali ha molti punti in comune con il sciur Brambilla persiano e l'equivalente locale della nostra casalinga di Voghera. Inversamente gli italioti che di fatto sono ottusi tutelatori dell'intolerranza integralista musulmano-sunnita- wahabita qui'sarebbero davero mal visti. A proposito di immigrati: gli afgani in Iran -per loro e' l'America- lavorano senza crear problemi: sanno che se non rispettano le tradizioni religiose locali e fanno casino sono rimandati a casa senza tanti complimenti. Da noi invece, caso della dodicenne a parte, alcuni possono permettersi il lusso di violentare le donne degli infedeli, consci del fatto che la legge degli infedeli quasi non condanna chi violenta le donne infedeli, a loro parere vestite come puttane e pertanto meritevoli di esser trattate come tali. Banale ribadire che per la stragrande maggioranza degli arabi musulmano-sunniti anche gli sciiti sono infedeli. Questa e' solo una sintesi, la realta' e' molto complessa e lunga da descrivere. Domani andremo a Isfahan dove cerchero' di rintracciare l'amico architetto zoroastriano.
PS: statement politically very uncorrect: a me' i razzisti hanno proprio rotto i coglioni, ma sicuramente molto meno di certi ottusi pseudo antirazzisti.

21.9.06

ATTACCO A BEPPE GRILLO
di Roberto Cotroneo sull'Unità

Ogni volta che una persona nota, o celebre, muore, in questo paese non ci si limita a fare un bilancio di chi sia stato e di cosa abbia fatto. Ma spesso comincia una partita doppia: su quello che ha avuto e su quello che non gli è stato concesso. Ogni volta è tutto un recriminare qualcosa. Sto parlando di quanto è stato dopo la morte di Oriana Fallaci: una grande giornalista, e una scrittrice di libri che rimarranno negli anni. Una donna di grande coraggio che ha lottato con una grave e terribile malattia per anni.
Era davvero difficile condividere una sola virgola di quello che Oriana Fallaci ha scritto dopo l’11 settembre 2001, ma il giudizio su di lei non si può ridurre agli ultimi cinque anni della sua vita. Solo che passino le visceralità della Fallaci, ma non certo i conformismi dei certi suoi seguaci. E mi riferisco in particolar modo a una persona che dell’anticonformismo, della lucidità di pensiero, ha fatto una battaglia personale e quasi ossessiva: Beppe Grillo.
Poche ore dopo la morte della Fallaci, Beppe Grillo, nel suo blog, commemorava in questo modo la scrittrice e giornalista fiorentina: «Morta Oriana Fallaci quanti giornalisti liberi di nazionalità italiana rimangono in giro? La Fallaci ha scritto cose che non condividevo e altre su cui ero d’accordo. Ma si è presa sempre dei rischi. Diceva la sua verità, ci metteva la sua faccia. Lascia, più che un vuoto, un baratro nel giornalismo italiano. Fare il giornalista non è facile, ci vuole il protettore. Giornalisti senza padroni non ce ne sono più, e quelli che resistono sono sempre più anziani. E anche ripetitivi, ma non ditelo a Eugenio Scalfari. Bisogna andare nella biblioteca comunale e leggersi vecchi pezzi di Montanelli per tirarsi un po’ su».
Beppe Grillo finisce mani e piedi dentro inesorabili luoghi comuni, e soprattutto mostra di avere, anche lui, uno scarso rispetto di questo mestiere, e del lavoro di molti che fanno questo mestiere, con coraggio, in condizioni molto difficili, e magari pagati quel che basta, e che spesso non basta. Grillo scrive banalità, e forse non sa che il giornalismo di grandi inchieste, di reportage rischiosi, in questo paese non è stato rappresentato soltanto dalla Fallaci. Che certo tutti ricordiamo sotto la tenda di Gheddafi, o ferita a Città del Messico, o con l’elmetto a Saigon. Oriana Fallaci apparteneva a una generazione di giornalisti che hanno trovato lo spazio e hanno potuto fare tutto questo. Erano in molti, e spesso erano molto bravi. E se Grillo anziché rileggersi il pur ottimo Montanelli andasse nell’archivio prima del “Corriere di Informazione” e poi del “Corriere della Sera” e cercasse sotto la voce “Corradi”, Egisto Corradi, scoprirebbe che gli inviati di guerra che rischiavano la vita per informare sulle cose che accadevano nel mondo non rispondevano soltanto al nome di Oriana Fallaci.
Se Grillo avesse la pazienza di andarsi a leggere vecchi e nuovi articoli di un signore che si chiama Bernardo Valli, forse capirebbe che non fu soltanto Oriana Fallaci a muoversi per il mondo e a raccontarlo come sappiamo. Se Grillo avesse la costanza, tra un post e l’altro del suo blog, di entrare in una libreria e cercare le opere di Guido Piovene e Goffredo Parise, scoprirebbe che si tratta di straordinari giornalisti con una penna quasi inarrivabile. Se, per andare in anni più recenti, sfogliasse le annate dell’“Espresso” tra il 1989 e il 1994 vedrebbe che Federico Bugno, scomparso tre anni fa, ha raccontato piazza Tien an Men o la guerra in Bosnia come pochi altri. E a piazza Tien an Men ha rischiato di essere ucciso dalle botte delle guardie cinesi.
Ma i luoghi comuni di questo genere hanno sempre un doppio fine. Esaltare Oriana Fal-laci, mettendola su un Olimpo che fino al 2001 ha in gran parte meritato. E buttare alle ortiche il resto del giornalismo italiano. Pazienza che personaggi come Elisabetta Gardini, (sic), dicano che i giornalisti non hanno la schiena dritta. Ma che lo facciano i campioni dei diritti, delle libertà, i geni dell’invettiva contro qualunque potere, è francamente troppo. Alla fine del suo post, infatti, Grillo, sentenzia: «I fighetti del giornalismo, “intellettualmente onesti”, con la cravatta giusta e la rubrica. Leggi i loro articoli e alla fine ti rimane un senso di vuoto. Non hanno più bisogno di mentire per coprire i fatti. Li annullano con il nulla. E non fanno neppure fatica. I Riotta, i Severgnini, i Mentana. Oriana, ci mancherai».
A parte il fatto che Enrica Mentana di solito non scrive articoli. Non si capisce molto bene cosa c’entrino Riotta o Severgnini e soprattutto cosa significhino la parole “intellettualmente onesto” messe tra virgolette in forma ironica. In realtà è sempre la solita vecchia storia. Ma quale “giornalismo fighetto”. Oggi i giornali sono profondamente cambiati. Non c’è più spazio e non c’è più possibilità di fare gli inviati alla Fallaci in giornali dove il mondo lo racconti cliccando su internet o accendendo la Cnn. Dove la misura media degli articoli si è ridotta a un terzo, altro che venti cartelle della Fallaci. Dove i reportage e gli inviati si devono abolire e togliere di mezzo perché costano troppo. E solo quei pochi grandi rimasti riescono ancora a raccontare qualcosa.
Il problema non è avere un’altra Fallaci che chiamava il direttore del “Corriere delle sera” in persona per leggergli gli articoli che scriveva (ed erano 20 cartelle alla volta, e due ore di telefono). Il problema è capire che questo mestiere caro Grillo, non è fatto soltanto da eroi con l’elmetto. Da interviste memorabili dove alla fine non sai bene chi intervista e chi è intervistato, è fatto da gente normale, che nei dieci anni di Berlusconi al potere spesso ha faticato non poco.
Pensa a quelli che hanno una notizia che interessa, e hanno trent'anni, e sono bravi, e hanno studiato tre lingue, e sono cresciuti con il mito del giornalismo capace di far di-mettere un presidente degli Stati Uniti. E stanno in un giornale con un contratto a termine, con uno stage spesso neppure pagato, nel senso che si devono mantenere da soli. Con la promessa di una assunzione tra cinque anni, o chissà quando. Pensa a quelli che si vedono assegnare 30 righe, o forse 20, che non hanno possibilità di fare questo mestiere come si dovrebbe. Pensa a quando i settimanali pubblicavano i grandi reportage, e non si occupavano solo di rimmel, mascara, balocchi, telefonini e profumi.
Caro Grillo inneggi al giornalismo “senza sé e senza ma”. Per fortuna il mondo è pieno di sé e di ma, e i filosofi da duemila anni non fanno altro che insegnare i sé e i ma, e si chiama dialettica, e si chiama logica, e si chiama ermeneutica. E quelli senza sé e senza ma, troppo spesso sono dei fascisti o degli stalinisti, perché è gente che non distingue. E questa è solo retorica. Ma quali senza sé e senza ma? Quale giornalismo in ginocchio e fighetto. Vai in una redazione di giornale e chiediti come lavora oggi un redattore, chiediti in che stato sono quelli stanno 18 ore ai siti internet, a quali stipendi, e a quali contratti, e chiediti perché la Fallaci per questa gente non è un modello, ma un marziano. E non solo la Fallaci. Ne avessimo di gente come Riotta nei giornali italiani, anche se porta la cravatta e non ha l’elmetto. Riotta è uno che in un paese normale faceva il direttore a 35 anni. Senza aspettare di averne 52, e ancora dicono che è giovane.
Certo, adesso che lo hanno chiamato a dirigere il Tg1 tu pensi subito che è uno che ha ceduto ai compromessi della politica e del potere. Ma anche Enzo Biagi è stato direttore del Tg1, e non era certo un uomo che obbediva alla politica e al potere. Infatti su quella poltrona è durato poco. Da Riotta ci aspettiamo come minimo l’abolizione (per l’eternità) del famigerato “panino”, con tutte le dichiarazioni dei politici messe in fila. E speriamo che lo faccia presto. Ma anziché fare battute sulle cravatte dei giornalisti fighetti (quelli con la sahariana vanno meglio?), chiediti quanti anni ha Franklin Foer il direttore del “New Republic”, ovvero “la rivista di bordo dell’Air Force One”. Te lo dico io: ne ha 41. Chiediti perché da noi è apprezzato solo un certo giornalismo spettacolare, e nei giornali fanno carriera solo quelli che scrivono di gossip.
Di giornalisti coraggiosi, bravi e senza elmetto ne abbiamo molti di più di quanto si cre-da, basta dargli la possibilità di farlo. Anche se a volte non hanno un nome e cognome di quelli che si ricordano per i secoli dei secoli. Sei libero di rimpiangere Oriana Fallaci e i suoi articoli sul “Corriere della Sera”. Ma è giusto che questa volta ti prendi l’appellativo di qualunquista, e anche un po’ di destra. Perché ci sta tutto.
Attentato alla democrazia
di Ezio Mauro

All'ombra della più grande azienda italiana, la Telecom, è cresciuta per anni una centrale di spionaggio illegale che non ha precedenti nella storia del nostro Paese. Giuliano Tavaroli, l'ex capo della Security di Pirelli e Telecom arrestato ieri con altre 20 persone, aveva ai suoi ordini un esercito aziendale di 500 dipendenti, ma soprattutto era al centro di un network fuorilegge che secondo i magistrati formava "una vera e propria ragnatela parallela" in grado di usare "tutti i mezzi concretamente esistenti sul mercato" per raccogliere "qualsiasi tipo di informazione", violando "i principi costituzionali fondanti di questo Paese".

Gli spiati sono soprattutto imprenditori e finanzieri (Benetton, De Benedetti, Della Valle, Geronzi, Tanzi), ma i file illegali sono più di centomila. Lo spionaggio avveniva attraverso la sicurezza Telecom, le agenzie d'investigazione privata di Emanuele Cipriani, longa manus di Tavaroli, le intercettazioni abusive, l'uso dei tabulati telefonici, l'abuso sulle intercettazioni legali della magistratura, che fino a qualche tempo fa avvenivano attraverso il "Centro nazionale autorità giudiziaria" controllato proprio da Tavaroli. In più, con la corruzione si compravano notizie riservate sulle banche dati del ministero degli Interni, dell'Economia, della Giustizia, "nonché informazioni e atti svolti da agenti e pubblici ufficiali dei servizi segreti italiani e stranieri".

Una colossale banca privata - e ovviamente fuorilegge - di informazioni riservate e illegali, coltivata e nascosta nel cuore della modernità d'impresa, tra i telefonini e le fibre ottiche. Con un legame diretto con il Sismi non soltanto sul terreno operativo, ma anche nel vertice, visto che l'ordinanza del Gip parla di "rapporti pericolosi" con i servizi segreti e in particolare con l'ex numero due del Sismi Marco Mancini, fino all'istituzione di un canale segretissimo "per le informazioni più delicate e riservate", sul quale operava proprio Mancini, in connessione con Tavaroli e Cipriani: un terzetto che nell'ordinanza un teste chiave definisce "la banda Bassotti".

Questa enorme massa di informazioni illegali e di dati riservati era commissionata "per la stragrande maggioranza" da uomini Telecom e Pirelli "e pagata con denaro di tali società". Non solo. L'attività di Tavaroli non era soggetta a controllo alcuno "se non a livello di vertici aziendali". Gli atti criminali avevano "come destinatario, come soggetto interessato" qualcuno "posto al di sopra di Tavaroli", che le utilizzava "a propri fini".

Questo è il quadro di un sistema illegale che attenta, per le sue dimensioni e le sue ramificazioni, alla democrazia sostanziale del nostro Paese. Quando "Repubblica" lo ha svelato, con l'inchiesta di Giuseppe D'Avanzo e Carlo Bonini, il vertice Telecom ha parlato di "attacchi esterni per indebolire l'azienda". Oggi è chiaro invece che l'azienda è minata al cuore da questo scandalo, non dal suo disvelamento giornalistico. I vertici, o gli ex vertici, dovrebbero dire tutto ciò che sanno, aiutando la democrazia, e non solo la magistratura, a estirpare questo cancro: che - attenzione - è ancora pericoloso
Chi ha munto la vacca dei nostri telefoni
di Eugenio Scalfari (Repubblica.it)

ROMA- L'affare Telecom approda in Parlamento; in Senato col ministro Gentiloni avremo la prova generale, poi alla Camera la prossima settimana con Prodi in persona. L'affare Telecom - come ama chiamarlo usando un francesismo peggiorativo l'ex ministro Tremonti - in realtà non è un "affaire", ma è certamente un problema. Del quale giova esaminare la dimensione, le incognite, le possibili soluzioni. E i protagonisti: Prodi (e Rovati), Tronchetti Provera, Guido Rossi. Nello sfondo del passato Colaninno; nello sfondo del futuro forse Berlusconi. Al centro l'azienda telefonica, malamente privatizzata e di fatto ancora in posizione monopolistica.
Proprio dall'azienda deve cominciare la nostra analisi. Dai suoi debiti. Dai suoi ricavi. Dai suoi (insufficienti) investimenti. Dal suo azionariato. Con una prima precisazione per sfatare un luogo comune ripetuto in questi giorni da tutti, nessuno escluso: non è affatto vero che Telecom sia schiacciata dal suo debito. Non è quella la sua malattia. Esso ammonta a 41 miliardi; probabilmente, calcolando operazioni a breve su titoli "derivati", si arriva a 45. Si tratta certamente d'una mole imponente e tuttavia gestibile. In buona parte sotto forma di bond a tasso fisso e lontana scadenza, e di anticipazioni bancarie a lungo termine.
A fronte di questo debito ci sono ricavi e "cash flow" altrettanto imponenti e un attivo patrimoniale di tutto rispetto. Non è dunque questo il punto debole dell'azienda, bensì la struttura dell'azionariato di controllo. Il punto debole, anzi debolissimo e patologico, non sta dentro Telecom Italia ma a monte, nella lunga catena societaria al vertice della quale troviamo la finanziaria personale di Tronchetti Provera il quale, da quel puntino lontano lontano, controlla la più grande azienda italiana con soltanto l'1 per cento di capitale, attraverso Pirelli e Olimpia. Anche queste società - che sono soltanto scatole finanziarie salvo un pallido residuo industriale nella Pirelli - sono fortemente indebitate senza tuttavia generare flussi di ricavi e di "cash flow". La loro fonte di sostentamento unica è Telecom, a condizione ovviamente che la grande azienda a valle trasformi a ritmo accelerato i suoi profitti in dividendi per i piani alti e altissimi della catena di controllo.
Si configura in tal modo una geometria non nuova nel capitalismo italiano, spinta in questo caso al suo limite estremo: il potere di comando che dal remoto puntino Tronchetti si irradia verso la base aziendale incatenandone le decisioni agli interessi dell'azionista di riferimento e il flusso di risorse finanziarie che quell'azionista confisca a proprio vantaggio depauperando l'azienda che le produce. Il paradosso è qui: Telecom Italia dovrebbe essere l'azienda-figlia, invece nella realtà dei fatti è l'azienda-madre dei suoi genitori Olimpia, Pirelli e, su su, Marco Tronchetti Provera.

Questa anomalia c'è sempre stata in Telecom fin da quando fu privatizzata e affidata al "nocciolino duro" in cui la Fiat fungeva da leader di riferimento. All'epoca - si parla di un decennio fa - la Fiat con una decina di altri nomi rutilanti guidò per circa un anno la ex Stet monopolista pubblica della telefonia, con una partecipazione dello 0,6 per cento del capitale. Il consiglio d'amministrazione era guidato dalla famiglia Agnelli e da istituti bancari amici. Presidente era Guido Rossi che aveva accettato l'incarico per guidare la ex Stet privatizzata verso una struttura di "public company", cioè una società senza azionisti di riferimento guidata da un forte management.
Rossi non ha mai nascosto questa sua preferenza verso la "public company" quando si tratta di società di grandissime dimensioni con impegni di investimento ben superiori alle capacità del capitalismo familiare. Ma nel caso Telecom non riuscì a far passare quel suo disegno. Gli Agnelli glielo impedirono, forse anche per non mettere in crisi "ideologica" il capitalismo familiare che aveva il suo massimo esempio proprio a Torino nella struttura dell'accomandita di famiglia che attraverso Ifi-Ifil controllava il pianeta Fiat con il 30 per cento del capitale. Rossi abbandonò. E abbandonarono anche i torinesi subito dopo sotto l'offensiva di un'Opa di proporzioni per l'Italia colossali, lanciata dalla cosiddetta "razza padana": Colaninno-Gnutti sull'asse Mantova-Brescia, alla conquista di Roma. Con la simpatia del governo D'Alema e con i soldi delle banche. Cioè col debito. Che fu, all'epoca, di 38 miliardi.
C'è una differenza strutturale tra la Telecom di Colaninno-Gnutti e quella di Tronchetti-Benetton (nella quale per altro i bresciani di Gnutti sono rimasti fino all'altro ieri)? Una differenza c'è e non è da poco. La Telecom di Colaninno possedeva una rete di partecipazioni in aziende telefoniche all'estero che costituivano altrettanti tesoretti. Sono stati tutti venduti da Tronchetti due anni fa al prezzo di realizzo di 15 miliardi, salvo la Telefonica do Brasil che dovrebbe essere venduta nel prossimo futuro ad un prezzo tra i 7 e i 9 miliardi. Ciò vuol dire che il debito dell'epoca Colaninno, al netto di questi "asset", non era di 38 bensì di 13 miliardi, oppure di 23 se non si considera la società brasiliana. Fa una bella differenza rispetto ai 41 e passa miliardi di debito odierno.
Si tratta ora di capire come mai il debito all'epoca di Tronchetti sia raddoppiato e che fine abbiano fatto i 15 miliardi ricavati dalla vendita delle partecipazioni estere. Presto detto: sono serviti a finanziare l'Opa per l'acquisto delle partecipazioni di minoranza di Tim, la società di telefonia mobile che un anno e mezzo fa Tronchetti aveva deciso di fondere con Telecom portandone la partecipazione dal 70 al 100 per cento.
Ma perché volle il possesso totale del capitale Tim? Perché altrimenti la sua partecipazione in Telecom tramite Olimpia si sarebbe annacquata con l'ingresso dei soci minoritari di Tim. Per conseguenza il flusso di risorse finanziarie da Telecom ai piani alti della struttura societaria sarebbe diminuito. E perché - ultima domanda - voleva fondere Tim in Telecom? Per far lievitare il prezzo di Borsa di Telecom. Tronchetti comprò da Colaninno-Gnutti al prezzo di oltre 4 euro per azione, il doppio della quotazione di allora e di oggi in Borsa. Cercò in tutti i modi di risollevare quel prezzo cui sono legati i margini di garanzia chiesti dalle banche sui debiti di Olimpia e di Pirelli.
In sostanza l'intera politica di Tronchetti è stata condizionata dalla debolezza delle sue società a monte di Telecom, cioè dal suo personale interesse a dispetto di quello della Telecom e dell'ingente massa dei suoi azionisti-risparmiatori.
Questo è il punto debolissimo di Telecom: la confisca delle sue risorse in favore dell'azionista di riferimento.
A suo tempo Raul Gardini fece più o meno lo stesso con la Montedison. Il caso vuole che anche allora, per riparare a quel drammatico crack, fosse chiamato Guido Rossi. Anche allora il buco non era in Montedison ma in Ferruzzi-Gardini. Lo schema è identico. Ha ragione Bersani: l'anomalia è il capitalismo italiano, debole e monopoloide.

Questo è dunque il problema Telecom. Su di esso nasce "l'affaire" politico-mediatico. Tronchetti, che è già consapevole di essere arrivato alla fine della corsa, tenta il diversivo Murdoch: scorporare la rete telefonica di Telecom e scorporare anche Tim. La seconda per venderla e usare i soldi per diminuire il debito, la prima per trasformare Telecom in una società mediatica utilizzando la banda larga della rete e ottenendo da Murdoch i contenuti: programmi, sport, film, intrattenimento.
Deve necessariamente informare il presidente del Consiglio: la rete lavora infatti con licenza dello Stato, occupa suolo pubblico, è un bene pubblico a tutti gli effetti. Non può farne ciò che crede alla chetichella. Per di più lo Stato possiede ancora in Telecom la "golden share". Non intende usarla in conformità alle direttive europee ma essa gli dà tuttavia il diritto di essere informato.
Ci sono due colloqui tra Tronchetti e Prodi. Vertono sullo scorporo della rete. Non una parola sullo scorporo di Tim. Prodi legge quest'ultima decisione sui giornali. Tronchetti sostiene d'averlo informato. Prodi risponde con un comunicato nel quale racconta gli argomenti toccati nei due colloqui. Tim non c'è. Ci sono però altri dati sensibili sulla trattativa con Murdoch. Tronchetti protesta (con ragione) per quelle indiscrezioni del presidente del Consiglio. Ma non si limita a protestare. Fa recapitare a "24 Ore" e al "Corriere della Sera" un documento inviatogli pochi giorni prima dal consigliere di Prodi, Rovati, che contiene un piano (probabilmente redatto da una banca d'affari) per far acquistare dalla Cassa depositi e prestiti il 30 per cento della rete Telecom risanando in tal modo gran parte del debito dell'azienda telefonica.
Scandalo e altissime proteste politiche ed anche confindustriali: il governo vuole dunque resuscitare l'Iri? Rinazionalizzare Telecom?
La difesa di Prodi è debole. Nega di conoscere il piano Rovati. Nega di pensare ad un nuovo Iri. Ricorda (con ragione) che la Cassa depositi e prestiti è stata trasformata in società per azioni da Tremonti e predisposta ad operazioni private con soldi pubblici.
Ma ormai il problema è diventato "affaire" e come tale - dopo ulteriori resistenze di Prodi - sbarca in Parlamento, dove purtroppo si parlerà della spuma politica anziché della sostanza. Di Prodi, Rovati, Tronchetti, anziché di Telecom.

Sulla sostanza intanto è arrivato Guido Rossi. Anche lui suscitando con la sua ascesa-bis alla presidenza della società telefonica, un sommovimento nella Federcalcio e nel Coni.
Per ora Rossi è imperscrutabile, come è giusto che sia. Ma alcune induzioni si possono comunque fare fondatamente.
1. Allo stato dei fatti in Telecom c'è ancora un azionariato di comando: Olimpia, alias Tronchetti più Benetton. Rossi è stato eletto presidente da Olimpia, cioè dal consiglio di Telecom dominato da Olimpia. Immagino che, al momento della nomina, Tronchetti gli abbia chiesto se avrebbe proseguito o invece contrastato le decisioni di scorporo prese pochi giorni prima dal consiglio d'amministrazione. Immagino anche che Rossi gli abbia risposto positivamente.
2. Infatti appena insediato Rossi ha reso esplicita questa sua posizione: accetta le delibere del consiglio. Gli è stato chiesto: quindi Tim sarà venduta? Ha risposto: nelle delibere del consiglio la vendita non è prevista. E' la verità, non è prevista. Se vendere o no è un caso aperto ma lo decide non più Tronchetti bensì Rossi e il consiglio.
3. Olimpia possiede in Telecom il 18 per cento, alcuni fondi d'investimento e altri investitori istituzionali italiani e stranieri arrivano a più del 50 per cento. Il resto è di piccoli azionisti-risparmiatori. Personalmente credo che Rossi al più presto convocherà i fondi per sondare le loro intenzioni su Telecom, sulle sue controllate e sulla sua "governance" futura. Credo anche che punterà per la seconda volta a trasformare Telecom in una "public company".
4. Ovviamente Rossi è contrario ad un'ipotesi di intervento pubblico in Telecom e nella rete distributiva.
Ma qui non avrà ostacoli di sorta.
5. Una cordata italiana o mista per allargare il nocciolo duro? L'opinione di Rossi è sempre stata che l'epoca del capitalismo familiare - anche se composto da famiglie finanziariamente cospicue - è improprio per un'impresa delle dimensioni di Telecom. Personalmente credo perciò che non sarà questa la strada di Rossi. Se invece lo fosse, probabilmente su quella strada incontrerebbe la Fininvest di Berlusconi con tutte le complicanze che il conflitto di interessi dell'ex premier si porta appresso.
Comunque vedremo molto presto in quale direzione Rossi si inoltrerà. E' un grande tecnico. Ho notato che da qualche tempo ha acquistato anche un'esperienza politica prima nascosta dalla ruvidezza del giurista. Non può che essergli d'aiuto nella nuova impresa con cui dovrà cimentarsi.

18.9.06

Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni
papa Benedetto XVI

È per me un momento emozionante trovarmi ancora una volta nell'università e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei pensieri, contemporaneamente, ritornano a quegli anni in cui, dopo un bel periodo presso l'Istituto superiore di Freising, iniziai la mia attività di insegnante accademico all'università di Bonn. Era – nel 1959 – ancora il tempo della vecchia università dei professori ordinari. Per le singole cattedre non esistevano né assistenti né dattilografi, ma in compenso c'era un contatto molto diretto con gli studenti e soprattutto anche tra i professori. Ci si incontrava prima e dopo la lezione nelle stanze dei docenti. I contatti con gli storici, i filosofi, i filologi e naturalmente anche tra le due facoltà teologiche erano molto stretti. Una volta in ogni semestre c'era un cosiddetto dies academicus, in cui professori di tutte le facoltà si presentavano davanti agli studenti dell'intera università, rendendo così possibile un’esperienza di universitas – una cosa a cui anche Lei, Magnifico Rettore, ha accennato poco fa – l’esperienza, cioè del fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci rendono incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel tutto dell'unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così insieme anche nella comune responsabilità per il retto uso della ragione – questo fatto diventava esperienza viva. L'università, senza dubbio, era fiera anche delle sue due facoltà teologiche. Era chiaro che anch'esse, interrogandosi sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del "tutto" dell'universitas scientiarum, anche se non tutti potevano condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione comune si impegnano i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra università c'era una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva – di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo così radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione e ciò debba essere fatto nel contesto della tradizione della fede cristiana: questo, nell'insieme dell'università, era una convinzione indiscussa.
Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi la parte edita dal professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d'inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue. Fu poi presumibilmente l'imperatore stesso ad annotare, durante l'assedio di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega così perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto più dettagliato che non quelli del suo interlocutore persiano. Il dialogo si estende su tutto l'ambito delle strutture della fede contenute nella Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto sull'immagine di Dio e dell'uomo, ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra le – come si diceva – tre "Leggi" o tre "ordini di vita": Antico Testamento – Nuovo Testamento – Corano.  Di ciò non intendo parlare ora in questa lezione; vorrei toccare solo un argomento – piuttosto marginale nella struttura dell’intero dialogo – che, nel contesto del tema "fede e ragione", mi ha affascinato e che mi servirà come punto di partenza per le mie riflessioni su questo tema.
Nel settimo colloquio (???????? – controversia) edito dal prof. Khoury, l'imperatore tocca il tema della jih?d, della guerra santa. Sicuramente l'imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si legge: "Nessuna costrizione nelle cose di fede". È una delle sure del periodo iniziale, dicono gli esperti, in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente, l'imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa. Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono il "Libro" e gli "increduli", egli, in modo sorprendentemente brusco che ci stupisce, brusco al punto da stupirci, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: "Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava". L'imperatore, dopo essersi pronunciato in modo così pesante, spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell'anima. "Dio non si compiace del sangue - egli dice -, non agire secondo ragione, „???? ????”, è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell'anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia… Per convincere un'anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte…".
L'affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. L'editore, Theodore Khoury, commenta: per l'imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest'affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza. In questo contesto Khoury cita un'opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazm si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l'uomo dovrebbe praticare anche l'idolatria.

A questo punto si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, il primo versetto dell’intera Sacra Scrittura, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: "In principio era il ?????". È questa proprio la stessa parola che usa l'imperatore: Dio agisce „???? ????”, con logos. Logos significa insieme ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il logos, e il logos è Dio, ci dice l'evangelista. L'incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell'Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: "Passa in Macedonia e aiutaci!" (cfr At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata come una "condensazione" della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l'interrogarsi greco.
In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da molto tempo. Già il nome misterioso di Dio dal roveto ardente, che distacca questo Dio dall'insieme delle divinità con molteplici nomi affermando soltanto il suo "Io sono", il suo essere, è, nei confronti del mito, una contestazione con la quale sta in intima analogia il tentativo di Socrate di vincere e superare il mito stesso. Il processo iniziato presso il roveto raggiunge, all'interno dell'Antico Testamento, una nuova maturità durante l'esilio, dove il Dio d'Israele, ora privo della Terra e del culto, si annuncia come il Dio del cielo e della terra, presentandosi con una semplice formula che prolunga la parola del roveto: "Io sono". Con questa nuova conoscenza di Dio va di pari passo una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico nella derisione delle divinità che sarebbero soltanto opera delle mani dell'uomo (cfr Sal 115). Così, nonostante tutta la durezza del disaccordo con i sovrani ellenistici, che volevano ottenere con la forza l'adeguamento allo stile di vita greco e al loro culto idolatrico, la fede biblica, durante l'epoca ellenistica, andava interiormente incontro alla parte migliore del pensiero greco, fino ad un contatto vicendevole che si è poi realizzato specialmente nella tarda letteratura sapienziale. Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell'Antico Testamento, realizzata in Alessandria – la "Settanta" –, è più di una semplice (da valutare forse in modo addirittura poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo. Nel profondo, vi si tratta dell'incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall'intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero greco fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non agire "con il logos" è contrario alla natura di Dio.
Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine, nei suoi successivi sviluppi, portò all'affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la voluntas ordinata. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz'altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazm e potrebbero portare fino all'immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui – come dice il Concilio Lateranense IV nel 1215 –certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l'analogia e il suo linguaggio. Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l'amore, come dice Paolo, "sorpassa" la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr Ef 3,19), tuttavia esso rimane l'amore del Dio-Logos, per cui il  ???????“ – un culto che culto cristiano è, come dice ancora Paolo „?????? concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr Rm 12,1).
Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l'interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale – un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell'Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l'Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa.
Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente  purificato, sia una parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della deellenizzazione del cristianesimo – una richiesta che dall'inizio dell'età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica. Visto più da vicino, si possono osservare tre onde nel programma della deellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente distinte l'una dall'altra.
La deellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati della Riforma del XVI secolo. Considerando la tradizione delle scuole teologiche, i riformatori si vedevano di fronte ad una sistematizzazione della fede condizionata totalmente dalla filosofia, di fronte cioè ad una determinazione della fede dall'esterno in forza di un modo di pensare che non derivava da essa. Così la fede non appariva più come vivente parola storica, ma come elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico. Il sola Scriptura invece cerca la pura forma primordiale della fede, come essa è presente originariamente nella Parola biblica. La metafisica appare come un presupposto derivante da altra fonte, da cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere totalmente se stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto accantonare il pensare per far spazio alla fede, Kant ha agito in base a questo programma con una radicalità imprevedibile per i riformatori. Con ciò egli ha ancorato la fede esclusivamente alla ragione pratica, negandole l'accesso al tutto della realtà.
La teologia liberale del XIX e del XX secolo apportò una seconda onda nel programma della deellenizzazione: di essa rappresentante eminente è Adolf von Harnack. Durante il tempo dei miei studi, come nei primi anni della mia attività accademica, questo programma era fortemente operante anche nella teologia cattolica. Come punto di partenza era utilizzata la distinzione di Pascal tra il Dio dei filosofi ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Nella mia prolusione a Bonn, nel 1959, ho cercato di affrontare questo argomento e non intendo riprendere qui tutto il discorso. Vorrei però tentare di mettere in luce almeno brevemente la novità che caratterizzava questa seconda onda di deellenizzazione rispetto alla prima. Come pensiero centrale appare, in Harnack, il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe il vero culmine dello sviluppo religioso dell'umanità. Gesù avrebbe dato un addio al culto in favore della morale. In definitiva, Egli viene rappresentato come padre di un messaggio morale umanitario. Lo scopo di Harnack è in fondo di riportare il cristianesimo in armonia con la ragione moderna, liberandolo, appunto, da elementi apparentemente filosofici e teologici, come per esempio la fede nella divinità di Cristo e nella trinità di Dio. In questo senso, l'esegesi storico-critica del Nuovo Testamento, nella sua visione, sistema nuovamente la teologia nel cosmo dell'università: teologia, per Harnack, è qualcosa di essenzialmente storico e quindi di strettamente scientifico. Ciò che essa indaga su Gesù mediante la critica è, per così dire, espressione della ragione pratica e di conseguenza anche sostenibile nell'insieme dell'università. Nel sottofondo c'è l'autolimitazione moderna della ragione, espressa in modo classico nelle "critiche" di Kant, nel frattempo però ulteriormente radicalizzata dal pensiero delle scienze naturali. Questo concetto moderno della ragione si basa, per dirla in breve, su una sintesi tra platonismo (cartesianismo) ed empirismo, che il successo tecnico ha confermato. Da una parte si presuppone la struttura matematica della materia, la sua per così dire razionalità intrinseca, che rende possibile comprenderla ed usarla nella sua efficacia operativa: questo presupposto di fondo è, per così dire, l'elemento platonico nel concetto moderno della natura. Dall'altra parte, si tratta della utilizzabilità funzionale della natura per i nostri scopi, dove solo la possibilità di controllare verità o falsità mediante l'esperimento fornisce la certezza decisiva. Il peso tra i due poli può, a seconda delle circostanze, stare più dall'una o più dall'altra parte. Un pensatore così strettamente positivista come J. Monod si è dichiarato convinto platonico.
Questo comporta due orientamenti fondamentali decisivi per la nostra questione. Soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di scientificità. Ciò che pretende di essere scienza deve confrontarsi con questo criterio. E così anche le scienze che riguardano le cose umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia, cercavano di avvicinarsi a questo canone della scientificità. Importante per le nostre riflessioni, comunque, è ancora il fatto che il metodo come tale esclude il problema Dio, facendolo apparire come problema ascientifico o pre-scientifico. Con questo, però, ci troviamo davanti ad una riduzione del raggio di scienza e ragione che è doveroso mettere in questione.
Tornerò ancora su questo argomento. Per il momento basta tener presente che, in un tentativo alla luce di questa prospettiva di conservare alla teologia il carattere di disciplina "scientifica", del cristianesimo resterebbe solo un misero frammento. Ma dobbiamo dire di più: se la scienza nel suo insieme è soltanto questo, allora è l'uomo stesso che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del "da dove" e del "verso dove", gli interrogativi della religione e dell'ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla "scienza" intesa in questo modo e devono essere spostati nell'ambito del soggettivo. Il soggetto decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli appare religiosamente sostenibile, e la "coscienza" soggettiva diventa in definitiva l'unica istanza etica. In questo modo, però, l'ethos e la religione perdono la loro forza di creare una comunità e scadono nell'ambito della discrezionalità personale. È questa una condizione pericolosa per l'umanità: lo costatiamo nelle patologie minacciose della religione e della ragione – patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della religione e dell'ethos non la riguardano più. Ciò che rimane dei tentativi di costruire un'etica partendo dalle regole dell'evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia, è semplicemente insufficiente.
Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento, devo accennare ancora brevemente alla terza onda della deellenizzazione che si diffonde attualmente. In considerazione dell’incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi che la sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco – un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell’Antico Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.
Con ciò giungo alla conclusione. Questo tentativo, fatto solo a grandi linee, di critica della ragione moderna dal suo interno, non include assolutamente l’opinione che ora si debba ritornare indietro, a prima dell’illuminismo, rigettando le convinzioni dell’età moderna. Quello che nello sviluppo moderno dello spirito è valido viene riconosciuto senza riserve: tutti siamo grati per le grandiose possibilità che esso ha aperto all’uomo e per i progressi nel campo umano che ci sono stati donati. L’ethos della scientificità, del resto, è – Lei l’ha accennato, Magnifico Rettore – volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte delle decisioni essenziali dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell'uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell'esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell'università e nel vasto dialogo delle scienze.
Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni – un dialogo di cui abbiamo un così urgente bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente l'opinione, che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall'universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell'ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze naturali, con l'intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare – alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l'ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell'umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere. Qui mi viene in mente una parola di Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti si erano toccate molte opinioni filosofiche sbagliate, e allora Socrate dice: "Sarebbe ben comprensibile se uno, a motivo dell'irritazione per tante cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso sull'essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la verità dell'essere e subirebbe un grande danno". L'occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così potrebbe subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all'ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza – è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente. "Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio", ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all'interlocutore persiano. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori. Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, è il grande compito dell'università

15.9.06

CHI E' MICHELE SANTORO
Mattia Feltri sulla Stampa del 14 settembre 2006

Una vecchia battuta del senatore ulivista Antonio Polito: «Quella di Michele Santoro è la storia dell’orologio fermo: due volte al giorno segna l’ora esatta». L’ora esatta, stasera, è le 21, il canale è Raidue e stasera, alle 21 su Raidue, Santoro avrà sicuramente ragione. Torna in tv e a sinistra c’è il gioioso orgoglio di aver riparato al danno. La bandiera della resistenza al regime venuto giù con democraticissimo voto potrà di nuovo sventolare. Tutto bello, tutto giusto, eppure ci sarà soltanto da aspettare un poco, se il capo del sindacato dei giornalisti italiani, Paolo Serventi Longhi, disse il vero raccontando in un’intervista a Claudio Sabelli Fioretti che Santoro era stato fatto fuori da Silvio Berlusconi, ma anche da «alcune persone legate a D’Alema».
Paolo Mieli, ha scritto in un libro Marco Travaglio, fallì l’aggancio alla presidenza della Rai perché aveva preteso il reintegro immediato di Santoro. Il titolo del libro era «Inciucio» ed erano già trascorsi tredici anni dal dibattito pubblico del 1993 in cui Massimo D’Alema aveva sferrato la prima randellata al giornalista che, nel frattempo, definiva «amico»: «C’è un delirio di onnipotenza nei giustizieri della tv urlata, come il mio amico Santoro». Il giustiziere della tv urlata, in polemica con Enzo Siciliano, presidente della Rai dell’Ulivo, sarebbe passato a fare «Moby Dick» a Mediaset, e alla prima conferenza stampa di bilancio, il 30 maggio ’97, avrebbe restituito il colpo: «D’Alema non ci ha dato neanche un’intervista». Il problema non era soltanto D’Alema, ma tutto l’esecutivo: «Abbiamo letto che dalla presidenza del Consiglio è partita una direttiva a ministri e sottosegretari a non intervenire a “Moby Dick” per parlare di pensioni».
Santoro, col gusto del cavaliere solitario, scomodo, emarginato, vantò le sue inimicizie, medaglie all’indipendenza: «Perché anche Prodi si rifiuta di farsi intervistare da me?». A quel perché ha risposto più avanti Claudio Velardi, collaboratore di D’Alema premier: perché usa «i soliti trucchetti». Lasciata la politica, Velardi ha poi parlato da uomo di comunicazione, e soltanto pochi mesi fa ha emesso il giudizio: «Santoro ha fatto una grande tv, ma in un’altra fase, ormai finita. Un suo ritorno sarebbe sbagliato». Coi Ds va così. Anche con gli insospettabili. Franca Chiaromonte ha spesso e serenamente dichiarato di non amare «la sua televisione». Le cronache segnalarono il giramento di scatole di Piero Fassino quando Santoro si dimise da europarlamentare per un’ospitata a «Rockpolitik», lo show di Adriano Celentano. E forse si può stabilire un collegamento con le parole di Roberto Cotroneo sull’Unità: «Siamo sicuri che presto spiegherà ai suoi 526.535 elettori...». Santoro non apprezzò la critica e nemmeno l’ironia, e a raccontarlo fu il direttore, Antonio Padellaro: «E’ pure permaloso». E megalomane, secondo Enrico Vaime, autore televisivo e teatrale, dichiaratamente di sinistra: «Si crede al centro dell’universo, fondamentale per la storia dell’umanità e del giornalismo».
Forse fondamentale no, ma si stima molto utile, di certo. Con me si sono arrabbiati tutti, ricorda. Francesco Rutelli, Rosi Bindi, Fausto Bertinotti. In realtà Bertinotti si deve essere arrabbiato poco, o perlomeno non quanto Oliviero Diliberto, persuaso che nel derby fra comunisti italiani e comunisti rifondanti, Santoro parteggi per i secondi: «Spicca la totale censura praticata da “Raggio Verde” nei confronti del Pdci», disse durante la campagna elettorale del 2001. Non c’è partito della coalizione oggi di maggioranza che non annoveri leader antipatizzanti. Nella Margherita fu particolarmente schietto Gerardo Bianco, ai tempi in cui era segretario del Ppi: «Michele Santoro estremizza i fatti e non va alla ricerca obiettiva della realtà. Rappresenta il peggio della televisione».
Nell’Udeur il campione è proprio Clemente Mastella, che interpretò così la stagione girotondina del giornalista: «Ha fatto girotondi dalla Rai a Mediaset guadagnandosi pure diversi miliardi». Non si impietosì nemmeno negli anni delle purghe. Anzi, godette come un matto a vederlo nel listone per le Europee: «Santoro che giustiziava i democristiani ora è insieme a loro. Fa un po’ impressione». Però adesso torna al suo posto. Sono tutti felici. Nonostante i radicali, tramite Daniele Capezzone, ritengano che «ha fatto molto male all’informazione in questo Paese». Nonostante segni l’ora esatta solo due volte al giorno. E forse Mastella aveva qualche ragione quando liquidava le geremiadi dell’epurato e dei suoi paladini: «Anche Che Guevara è stato ridotto a un gadget».

14.9.06

SE GIANNI RIOTTA FOSSE BUDDISTA RINASCEREBBE TELEFONINO
Alessandro Giuli sul Foglio

Lo vedranno entrare tutte le mattine al civico 14 di Viale Mazzini per dirigere il Tg1 con quelle sue camicie sempre bianche, i bottoncini sul colletto a stringere il nodo minuto e kennediano della cravatta, lo zaino nero in spalla come un soddisfatto baby boomer cinquantaduenne. Perché, ieri, Riotta Gianni da Palermo, apolide per scelta e americano per realizzarla, ce l’ha fatta a liberarsi di quella didascalia invisibile scolpita accanto alla foto sui risvolti di copertina dei suoi numerosi libri: “Eterno candidato a tutte le migliori direzioni”. Stavolta è andata ed è il primo successo del Partito democratico che ancora non c’è. Tecnicamente un prodigio, però meritato.

Lui è bravo e ha cominciato giovanissimo come avviene nei romanzi o per i nati bene: diciassettenne alla Cultura del Giornale di Sicilia, dove lavorava suo padre Salvatore. Fondatore della palermitana “Lega degli studenti per la rivoluzione” (assieme a Corradino Mineo), corrispondente e poi redattore romano del Manifesto. Alla fine dei Settanta il ragazzo era intellettualmente avanti rispetto ai suoi maestri castristi. Laureato sul concetto di verità nei linguaggi formalizzati, conquisterà un Master alla Columbia University Graduate School of Journalism di New York. Qui abita una settimana sì una no, in una casa affacciata su Central Park, con la moglie italiana, scienziata, e i due figli anglofoni madrelingua (lui l’inglese lo pronuncia così così). Suo vicino di casa è Giovanni Sartori. Chiaro che Riotta non poteva durare accanto a Livia Menapace.

Uscì giovane e adontato giacché – si dolse privatamente – non gli permisero di trasformare il “quotidiano comunista” in un germoglio sinceramente democratico. Quei vecchi gli parlavano di “stato e coscienza di classe”, lui già sognava la Net-Economy, la contaminazione dei generi, lo svecchiamento dei codici. Forse l’i-Pod. Figlio acquisito di una cultura lib-lab e misuratamente radicale, avrebbe realizzato un giornale yeh yeh. Oggi gli piace Internet, teorizza la socializzazione del sapere scandalizzando i mandarini della Microsoft, i suoi scritti vengono dibattuti dai blogger. Ecco forse perché “se scrivi di lui, gli mandi un’e-mail o gli lasci un messaggio in segreteria, Gianni Riotta ti richiama sempre”. E’ la prima cosa che viene in mente a chi, interpellato per dirne male o bene o indifferentemente, soggiorna col pensiero su questo siculo-americano di rango. Eccelso uomo di relazioni, telefonista dalla voce bassa e la cordialità smisurata.

Pietrangelo Buttafuoco lo raffigurò in questo modo: “I suoi nemici dicono che passa tutto il tempo al telefono, i suoi amici non dicono niente, ma solo perché stanno parlando con lui”. Sicché se un giorno lontanissimo gli dei gli concederanno un altro transito terrestre, questo sarà senz’altro in forma di telefono cellulare. Le precedenti incarnazioni sono nell’ordine: corrispondente dall’America per l’Espresso, inviato speciale per la Stampa e il Corriere della Sera. Poi condirettore del quotidiano torinese – dal 1998 al 2002, regnante Marcello Sorgi e fu una sofferenza ingiusta non succedere al direttore com’era accaduto a Paolo Mieli ed Ezio Mauro – e subito dopo vicedirettore del Corsera con accesso alle colonne dei migliori giornali stranieri. Nonché conduttore televisivo di “Milano-Italia”, negli anni Novanta, come successore di Gad Lerner – suo naturale concorrente visto che ne ricalca i passi e poi i due non si stanno simpaticissimi – e più recentemente interprete su La7 di una meno fortunata trasmissione detta “Americana”. Più un sacco di altre cose ma non c’è spazio per elencarle.

E’ così che si diventa Gianni Riotta? Molti anni fa Micromega azzardò un’interpretazione sgarbata: “Oggi i prototipi del giornalista di successo sono Gianni Riotta e Barbara Palombelli, simpatici e preparati, ma che se avessero potuto intervistarlo, avrebbero trovato tracce di cordialità anche in Hitler”. Non è proprio vero e nel caso di Riotta si contano numerose dispute intellettuali. Da sinistra gli danno del conservatore per aver detto che “nessun problema può essere risolto al mondo senza il contributo degli Stati Uniti”; da destra gli danno del goscista per aver aggiunto che “nessun problema può essere risolto solo dagli Stati Uniti”.

Lui va comunque fierissimo della tessera che gli ha spalancato l’accesso al Council on Foreign Relations, e per i militanti delle catacombe nere o rosse è un marchio di svendita alla demoplutocrazia. Riotta ha anche scritto cose severissime contro Adriano Sofri ricavandone un’aggressione a colpi di uova nel milanese corso Garibaldi. Senza dimenticare la sfida personale ingaggiata con il potentissimo Beppe Grillo che gli dà del “giornalista transgenico” dacché lui s’è pronunciato a favore degli Ogm (nel blog di Grillo danno quasi tutti ragione a Riotta e scrivono: bravo Gianni, giornalista onesto e preparato!).

Certo poi Gianni è molto permaloso, talvolta si eccita e sbaglia. Clamorosamente nella notte in cui Kerry e Bush si contendevano la Casa Bianca ad armi pari, con Kerry ancora in vantaggio: Riotta sbruffoneggiava un po’ vantando alla tv il successo democrat che non sarebbe arrivato. E fu lui a titolare in prima sul Corriere del giorno dopo: “Kerry verso la vittoria”. Ma succede. Meglio allora virare verso i vezzi di Gianni, cominciando dalla frangetta da baronetto che ne consacra il dualismo con Beppe Severgnini, un altro interista ideologico che invecchiando invece di perdere capelli ne secerne il doppio. Capelli tosti da carrierista, capelli al vento da romanziere.

E arriviamo al lato debole di Riotta. Non perché non sia capace (di romanzi ne ha scritti cinque ed è tradotto pure in Grecia), ma perché sul crinale letterario tracima il narcisismo d’uno che ha vinto molto dal “Premiolino” in su (mai lo Strega per fortuna) e ha compilato un romanzo a staffetta con Umberto Eco e Antonio Tabucchi. Titolo: “La maledizione del Faraone”. Riotta è talmente romanziere che nei convivi può esordire in questo modo: “Come sostiene il mio amico Cattelan. Mi raccontava due sere fa l’amico Profumo”. Siccome sono amici tutti famosissimi come lui, la proposizione riottiana a volte si fa ambigua: “Sai, mi diceva il mio amico Ian” e questo amico non può essere da meno d’un Buruma o di un McEwan.

Ma sono appunto vezzi d’un secchione di successo. D’un siciliano che detesta il camillerismo e a vivere in Sicilia non tornerebbe più. Tuttavia non ha rinnegato la sicilitudine, semplicemente l’ha ibridata e non disdegna di alternare ai cheesburger qualche sbandata in trattoria per ingollare piatti isolani e smarrirsi in un effetto liquido. Una madeleine che declina alla maniera del glocalista, sapore provinciale in esofago cosmopolita. Moderato per senso scenico, prodiano per contingenza, Riotta sarà un perfetto direttore del Tg1 ma con lui, attenzione, a vendemmiare sarà Veltroni.

12.9.06

RITRATTO DI VENTURA CON IMPRENSENTABILI
Stefania Miretti sulla Stampa

Di signore costrette a esercitare la difficile arte d’accompagnarsi a uomini impresentabili è pieno il mondo, sempre di più; donne capaci di resistere a lungo accanto a un soggettone, non rassegnate però, piuttosto in composta e vigile attesa che cessino gli impedimenti e le cause di forza maggiore (ragion di Stato, figli piccoli, affari in corso) e si possa serenamente mollare il colpo. Femmine fino a ieri ottimiste, molte cominciano ora a seguire con una certa preoccupazione la parabola della Simo Ventura, che dopo la revanche dei quarant’anni - comprensiva di tatuaggio autoreferenziale, tetta rifatta e professione di fiera indipendenza emotiva - ha trascorso l’ultima estate a fare le fusa all’ex marito Stefano Bettarini e l’ospite danzante alle feste dell’ex agente Lele Mora, entrambi ripescati «come amici» dopo che era stato dato loro un sonoro, motivato benservito.
«Ora sono forte. Se sei andata a fondo non puoi che risalire», dichiarava incauta la Simo un anno fa quando, dopo un divorzio doloroso e con strascichi, si prendeva le sue belle rivincite professionali, fors’anche sentimentali. Un po’ come la giovanissima Stephanie Mangano de «La febbre del sabato sera», che in equilibrio sul ponte d’acciaio gridava «Sto crescendo!», la Simo adulta continuerebbe invece a subire il fascino della «gente famosa», anche ora che la Famosa è lei. E la prevista risalita s’arresta al cospetto di un Lucianone Moggi sparapanzato nel salotto televisivo della Ventura. Lei non più Conduttrice e Personaggio Televisivo dell’anno, lei di nuovo un po’ valletta, costretta poi a giustificarsi così: «E’ naturale che io conosca Moggi, che è stato il capo del calcio per 20 anni».
Ecco, il capo del calcio. Dicono quelli che la conoscono bene che il limite di Simo sia non essersi mai liberata del suo immaginario adolescenziale popolato di calciatori belli e impossibili e ragazze che aspirano a un titolo da miss, dove il capo del calcio è il capo del calcio, non scherziamo. E il fatto che la conduttrice ci tenga a ribadire a ogni intervista la sua tostaggine («sono diventata grande», «ora non ho più paura»), sarebbe ahinoi la prova d’una perdurante, femminilissima insicurezza.
La ricordano ragazzina ruspante a Chivasso, quando sogna di sposare un calciatore, partecipare a un concorso di bellezza, lavorare alla tele, e ce la fa. Partecipa a miss Muretto e finisce in gara a miss Universo; fa gavetta in una tv locale e si ritrova accanto a Magalli; strappa un posto da valletta (parlante, scoprirà solo a cose fatte il povero Pizzul) alla «Domenica Sportiva». Il sogno che s’avvera. La svolta invece arriva col passaggio alla tv del Biscione: gloria e veleni. Wikipedia, l’enciclopedia on-line, scrive testuale: «Si è a lungo parlato di una relazione tra la Ventura e un alto dirigente di Mediaset che le ha aperto il mondo televisivo». Una ragazza gli sponsor non se li può scegliere, si dice che quello di Simo fosse Adriano Galliani. I fidanzati invece sì, e lei sceglie Bettarini, sette anni in meno: innamorata pazza, a lungo, del calciatore-velino («Simona ha fatto di tutto per averlo», dirà poi la suocera). Lui la tradisce, lei trangugia: «Con un marito bello come Stefano avevo il complesso del brutto anatroccolo», racconterà dopo la separazione, quando, all’apice della femminilità, della fama e della bravura, avrebbe potuto relativizzare l’avvenenza plasticosa del suo ex, e invece, macché. Però vengono gli anni della maturità professionale, le Jene e «Quelli che il calcio», la collaborazione con Gene Gnocchi, un Sanremo un po’ così, ma da conduttrice, la libertà, il presunto flirt con Giorgio Gori, il gran successo dell’Isola. Uomini impresentabili, addio. C’è anche una bella novità, una bambina in affido, da crescere insieme ai due figli maschi.
Poi, nelle foto delle vacanze, tutto precipita: la Simo seduta sulle ginocchia di Bettarini, la Simo tra Flavio Briatore e Lele Mora, di nuovo; con Emilio Fede; con la cartomante Tiziana De Marchi, quella che dà i numeri del Lotto su 90 emittenti dal suo villone di Porto Rotondo. Fino all’altra sera. La Simo con Moggi, «il capo del calcio».
Dicono gli amici che l’abbia invitato pensando di fare audience, «convinta di averne bisogno». O magari ha ragione chi pensa che Ventura - Ariete ascendente Scorpione - abbia il cuore tenero di certe donne aggressive, sempre pronte in realtà a perdonare tutti. Un’insicura velata, transitata dai tailleur da educatrice ai tacchi da dominatrice senza mai capire come s’impugna un frustino. Una che, come lei stessa ha detto per spiegare l’ultima evoluzione estetica, si è «sempre sentita bionda dentro»; e se nasci ruspante brunetta di Chivasso, sono traumi che lasciano il segno.
LA SINDROME DI LUCIANONE
Antonio Dipollina per “la Repubblica”

1 - L´impresentabile performance televisiva di Moggi a "Quelli che" (ma davvero pensa di aver giovato alla propria causa?) apre la stagione tv come peggio non si poteva. Ma forse è meglio così: c´è caso che molti tra quelli che lo volevano ospite di qui e di là (tutti in preda a una irrefrenabile sindrome di Stoccolma) ci ripensino. Non tanto per se stessi, quanto per non danneggiare lui, Lucianone, al quale vogliono sempre tanto bene.
2 - Infatti la famosa presenza come ospite fisso al programma del lunedì sera di Telelombardia e Antenna 3 sembra proprio ridursi a un´ospitata solo per questa sera. Pare che ora ci siano trattative con Italia 7 Gold per la domenica pomeriggio. Ma è appena ovvio che averlo in studio solo per consentirgli di lanciare i suoi slogan e non rispondere a mezza domanda scomoda (come ieri con Andrea Vianello, che ha fatto un figurone), è come darsi una mazzata sui polpacci. E non richiamare mezzo telespettatore.
3 - Imperdibile l´ingresso in studio di Moggi, che si era messo in testa di fare una rentrée mimando i vecchi tempi. Ha dato la mano a Galeazzi, che gliel´ha stretta con palese imbarazzo, porgendogli la manona ultramolle. Poi ha lanciato la gag dell´eroe popolare con la gente dalla sua parte (lì Gene Gnocchi lo ha finalmente preso in giro). Alla fine, con le telecamere che indugiavano, non è uscito dallo studio ma si è fermato accanto a Galeazzi iniziando a dargli pacche sulle spalle, assumendo l´aria dei bei tempi.
4 - Notevole anche la presenza in trasmissione, in collegamento da Ceppaloni, del ministro (della Giustizia) Mastella. Quello che per primo si avventò davanti alla telecamera al fischio finale dell´arbitro a Berlino. Ieri, chiamato in causa, e con qualche imbarazzo, ha ribadito l´antica amicizia con Moggi e le storture della Giustizia sportiva sul calcio-caos.
5 - Meglio, anche perché televisivamente scoperto e programmato al millesimo, il gioco che giocano nella nuova edizione pomeridiana di Controcampo, con Mughini nella parte dell´offeso per sempre e fautore della juventinità dura e pura, con gli altri a contrapporsi. Enrico Ruggeri, con un colpo da artista, gli ha dato del "negazionista". E´ esistito davvero Moggi?

8.9.06

SENATORE A TARGHE ALTERNE
Marco Travaglio per “l’Unità”

Ci sono personaggi, nella Storia, che travalicano i confini della loro persona e diventano archetipi sempiterni, categorie dello spirito, garantendosi l’immortalità nei dizionari e nelle enciclopedie. L’Anfitrione, il Cireneo, il Mecenate, il Casanova, l’Otello, il Quisling. Ora, per non farci mancare nulla, abbiamo pure “il De Gregorio”, nel senso di Sergio, il corpulento senatore napoletano dell’Italia dei Valori che è sempre d’accordo con Berlusconi, però s’è candidato con Di Pietro nel centrosinistra.
Però s’è fatto eleggere presidente della commissione Difesa dal centrodestra. Però ieri è uscito dall’Italia dei Valori. Però non è uscito dal centrosinistra. Però preferirebbe la grande coalizione e si porta avanti col lavoro. Insomma, è all’asta. A disposizione del miglior offerente. Il fatto che i suoi elettori dipietristi pretendano il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq, una legge seria sul conflitto d’interessi, la cancellazione delle leggi vergogna e soprattutto il sostegno leale al governo Prodi e alla maggioranza che ha vinto le elezioni non lo tange minimamente. Lui è contro il ritiro dall’Iraq e la legge sul conflitto d’interessi, mentre è favorevolissimo alle leggi vergogna e a una maggioranza diversa, anzi opposta. Ma s’è guardato bene dal dirlo in campagna elettorale: l’ha fatto subito dopo il voto, precisamente dopo aver scoperto che non sarebbe diventato ministro per gli Italiani all’estero. Altrimenti, magari, oggi chiederebbe le cose che osteggia e osteggerebbe le cose che chiede. Un politico di nobili ideali, l’ultimo della nutrita collezione messa insieme in questi anni da Antonio Di Pietro, che raramente sbaglia una scelta politica e altrettanto raramente azzecca un collaboratore. Uomo dalle molte vite, De Gregorio nasce giornalista scoopista al seguito del mitico Giò Marrazzo e poi a “L’Istruttoria” di Giuliano Ferrara. Leggendario lo scoop sulla crociera di Tommaso Buscetta nel Mediterraneo. Il pentito viaggia in incognito, o almeno così crede finché non gli si presenta De Gregorio, con moglie e due amici (un consigliere provinciale forzista di Napoli e un altro tizio vicino al Polo). Il giornalista dice di essere lì per caso e di averlo riconosciuto per caso. In realtà ha avuto una soffiata. In quel periodo lavora a “Ideazione”, la rivista fondata insieme a Domenico Menitti, ascoltatissimo consigliere di Berlusconi. Don Masino si lascia andare sulle “origini mafiose” del patrimonio del Cavaliere, nonché sui rapporti di Dell’Utri con Cosa Nostra. Intervista e foto escono su “Oggi” nell’estate del ’95, ma senza le frasi su Berlusconi e Dell’Utri, che però De Gregorio racconta ai quotidiani quando esplode il caso. Buscetta tenta di smentire, invano. Il risultato è che il pentito viene delegittimato dallo scandalo e, ai giudici di Palermo, non dirà più una parola su Berlusconi e Dell’Utri.
Per la Procura di Palermo la “trappola” è stata organizzata a tavolino. De Gregorio rompe con Mennitti che ricorda “non gradì le rivelazioni di Buscetta: credo fosse amico di Dell’Utri”. Ma ciò non gli impedisce di candidarsi, nel 2005, alle regionali in Campania con Forza Italia, forte anche della sua nuova veste di leader dell’associazione Italiani nel Mondo che dichiara, solo in Campania, “20 mila fra iscritti e simpatizzanti”, senza contare “le sedi già operative a Roma, Nizza, Sofia, Londra, Zurigo, Mosca, New York, Buenos Aires, Teheran e Tunisi”, e che negli anni ha intrecciato affettuosi rapporti col camerata ministro Mirko Tremaglia. Ma, al momento del deposito delle liste, De Gregorio, che ha investito un capitale in mega-manifesti azzurri col suo bel faccione al centro, viene scaricato in zona Cesarini. Il tempo di tuonare contro “l’arroganza di Forza Italia”, ed eccolo nella Nuova Dc di Gianfranco Rotondi, che alle elezioni del 2006 presenta due facce pulite e soprattutto nuove: Cirino Pomicino e De Michelis. Del secondo, De Gregorio è un fervido estimatore, avendo diretto pure “l’Avanti!”: anche qui scoop à gogò, come una leggendaria inchiesta del 2002 sulle magagne dell’Alitalia, misteriosamente interrotta alla quarta puntata in coincidenza ¬ insinua un maligno senatore di An - con l’uscita di una mezza pagina di pubblicità della compagnia aerea. Che cos’abbia in comune con Di Pietro questo ex forzista amico del condannato De Michelis, lo sanno solo Dio e De Gregorio, che infatti si candida con l’Italia dei Valori. L’elezione a senatore è una passeggiata, anche se le migliaia di voti che asserisce di portare non si notano granché: non fosse per Tonino, per Orlando e per Franca Rame, che fanno scattare il quorum, resterebbe a casa. Invece ce la fa.
Ma il seggio gli va stretto: lui punta a un ministero. E, quando glielo negano, briga con la Cdl per la presidenza della commissione Difesa, dove si distinguerà per una tirata contro Israele (“stermina i civili”), una contro l’Onu (“inaccettabile la risoluzione che ci impegna a disarmare Hezbollah”) e tanti bacini e bacetti al capo del Sismi Niccolò Pollari, indagato per il sequestro di Abu Omar (“insostituibile”). Giorni fa l’Espresso sorprende i due amorosamente attovagliati al ristorante San Teodoro, in Campidoglio. È l’ultimo atto di De Gregorio da senatore dell’Idv. Ieri l’addio. Alla poltrona? Macché: al partito, e forse al centrosinistra. Ma non sempre: “Deciderò volta per volta”. Così il nostro eroe esce dalle sue polpose carni per trasfigurarsi in un archetipo. “Il De Gregorio” è l’ultimo esemplare della fauna politichese: il parlamentare intermittente, il senatore a targhe alterne. È stato decisivo il conflitto d’interessi: “Non voterò mai una legge punitiva contro Berlusconi”. Un caso di coscienza.

6.9.06

PEREPÈ PEREPÈ PEREPÈ
Marco Travaglio per l’Unità

Ogni tanto salta su qualcuno e domanda con la faccia furbetta: «Che fine ha fatto la satira? Perché non se la prende con la sinistra al governo come faceva con Berlusconi?». La domanda è interessante, tant’è che l’ha posta anche un giornalista intelligente come Massimo Gramellini. Ma poi si è risposto che la satira è di sinistra e dunque non può, ontologicamente, prendersela con la sinistra. Forse la faccenda è un po’ più complicata.
Chi ha buona memoria sa bene che i nostri migliori satiri, da Grillo a Luttazzi, dai Guzzanti a Hendel a Paolo Rossi, han sempre scorticato tanto la destra quanto la sinistra. Poi un giorno Craxi decretò che Grillo non doveva più andare in onda. Berlusconi proseguì l’opera con Luttazzi. Sabina fu cancellata da Rai3, la rete «de sinistra». Rossi ed Hendel rispettivamente da Rai1 e da Rai2. Grillo nei suoi spettacoli e nel suo blog, gli altri nei loro show e film, han continuato a far satira contro tutti. Perché allora non vanno in tv a sbeffeggiare Prodi, Fassino, Rutelli, D’Alema, Mastella & C.?
Non sarà, per caso, che non esistono più programmi di satira? Certo, potrebbero affacciarsi al balcone di casa e sparare due battute per chi passa di sotto. Potrebbero suonare il campanello di viale Mazzini e chiedere se possono salire per un paio di minuti, al posto del segnale orario o delle previsioni del tempo. Ma forse, se i «nuovi» vertici Rai, così orgogliosi della loro indipendenza dalla politica, infilassero nei palinsesti qualche minuto di satira, sarebbe tutto più facile. Al momento, non paiono interessati al tema. Hanno altro da fare.
E dire che ce ne sarebbe bisogno di satira, per abbassar la cresta ai nuovi padroni del vapore (e anche ai vecchi, che seguitano a comandare a mezzadria coi nuovi). E soprattutto per dare una calmata ai nuovi trombettieri del potere, che poi sono quelli vecchi, ridipinti di fresco. Il Tg1 di Clemente J., per dire, è sempre il Tg1 di Clemente J. Solo che prima dedicava il 60-70 per cento del tempo al centrodestra. Ora ­ come segnala Gian Antonio Stella su Magazine ­ 72,18% al centrosinistra e 27,18% al centrodestra. Per far le pulci alla nuova maggioranza? Nemmeno per sogno. Per suonare trombette e tromboni. Come tutto il resto della Rai.
L’Italia grande potenza mondiale, torna a risplendere il sole sui colli fatali di Roma, perepè perepè perepè. Bacini e bacetti di Max e Condoleeza, perepè perepè perepè. Lo sbarco in Normandia, anzi in Libano, con inviati embedded e fuciletti a tappo, perepè perepè perepè. La piccola Atene mastelliana di Telese Terme, con salcicce e Bobby Solo, perepè perepè perepè. Il nuovo libro di Walter, perepè perepè perepè. Rutelli rivoluziona le ferie, perepè perepè perepè. Le grandi liberalizzazioni, il grande partito democratico, il grande indulto, la grande finanziaria, perepè perepè perepè.
Poi, si capisce, ci vuole una trombetta di riguardo anche per il centrodestra, che continua ad avere la maggioranza nel Cda Rai e bisogna tenerselo buono. Le allegre vacanze smeraldine di Bellachioma, perepè perepè perepè. Il grande Meeting della grande amicizia nella grande Rimini, perepè perepè perepè. Ida Di Benedetto in Urbani e Anselma Dall’Olio in Ferrara da Marzullo per il festival di Venezia, perepè perepè perepè. Ecco, un po’ di sana satira per dare una calmata ai bollenti spiriti e alle lingue turgide, una spruzzata di vetriolo nei turiboli dell’incenso non guasterebbe affatto.
Ma ce la possiamo ancora permettere, la satira? O lo stagno di acque chete e anime morte creato dai diktat bulgari e postbulgari sta bene a tutti? Non è che il lavoro sporco del Cavaliere, come le leggi vergogna, fa comodo pure ai successori? In fondo perché cercarsi altre grane con questi satiri che nessuno controlla, dan fastidio a tutti e, direbbe la Lucia, «sbavendano i gedi meti»? Meglio i Fiorelli e i Panarielli che rendono simpatici i personaggi che imitano, non disturbano, non sporcano e dove li metti stanno.
Cattivi pensieri che, fortunatamente, il presidente Rai Petruccioli ha spazzato via con una memorabile intervista al Corriere: «Il nostro metodo è individuare scelte solo in base a valutazioni professionali». Siamo in una botte di ferro. I nuovi direttori di tg saranno scelti fra i migliori su piazza: Biagi, Bocca, De Bortoli, Feltri, Lerner, Mauro, Mieli, Scalfari. Rai1 andrà senz’altro a Freccero: professionalmente, sulla tv, non c’è chi lo valga. Quanto alla satira, tornano di sicuro Grillo, Luttazzi, i Guzzanti, Rossi, Hendel: i migliori.
Stranamente, fra i nomi che circolano, questi non compaiono. Ma è quel diavolo d’un Petruccioli che fa pretattica.

2.9.06

CAPUOZZO VERSUS GIULIANI
Toni Capuozzo per “Il Foglio”


Non mi piace, ma debbo usare questo spazio per una questione personale. Ma non troppo personale da non avere un qualche interesse per il lettore. Dunque: qualche giorno fa , sull’Unità, Giuliano Giuliani, padre di Carlo, scrive un editoriale, in cui mi cita. Mi definisce un “arredo della libera informazione” e descrive le circostanze, secondo lui sospette, nelle quali mi venni a trovare in piazza Alimonda, pochi minuti dopo la morte, o addirittura durante l’agonia di Carlo Giuliani, insieme con Renato Farina, da lui chiamato, tout court, Betulla. Rispondo, come avevo già fatto con il blog di Claudio Sabelli Fioretti, dove una domanda simile, e similmente retorica era stata posta.
Questa è la mia risposta, apparsa sull’Unità mercoledì: “Voglio premettere una cosa: ho sempre creduto che il padre di una vittima abbia il diritto di dire quello che vuole. Ma questa considerazione, per così dire ‘umana’, che non toglie nulla al valore delle richieste di Giuliano Giuliani – processo e commissione parlamentare d’inchiesta su piazza Alimonda – non lo esime da un dovere di lealtà e correttezza e rispetto dei fatti. E dunque libero Giuliano Giuliani di definirmi, come ha fatto ieri sull’Unità, ‘arredo della libera informazione’. E’ una sua opinione, può dispiacermi, ma resta una libera opinione. Meno libero di adombrare, come fa, il sospetto che mi trovassi in piazza Alimonda per chissà quali informazioni ricevute in precedenza, e che addirittura pensassi di ‘realizzare uno scoop stupefacente’ girando la scena in cui un commissario accusa un manifestante.
Ripeto qui le circostanze, che avrei definito professionalmente fortunate, se non vi fossero stati, quel pomeriggio, un ragazzo ucciso e un altro con la vita rovinata, che mi condussero in piazza Alimonda. Seguivo da ore gli scontri di piazza, con un operatore e una giovane fonica genovese, che si era fatta accompagnare, a mo’ di protezione, dal suo ragazzo. Avevamo schivato, di volta in volta, botte e minacce di manifestanti e forze dell’ordine. Esausti, avevamo trovato riparo in un portone, assieme ad altre persone, passanti e manifestanti. Là incontrai Farina, che mi chiese se potesse aggregarsi a noi, presumo per la sicurezza di trovarsi in un piccolo gruppo, o semplicemente perché avevamo l’aria di chi sapesse cavarsela meglio. Fui tentato di rispondergli che ci eravamo persi anche noi, ma non sono uno che nega una mano ai colleghi in difficoltà.
Usciti dal portone facemmo pochi metri, e all’angolo vedemmo dei manifestanti mascherati. Li riprendemmo con la telecamera e ricevemmo in cambio degli insulti e l’invito ad andare, invece, dove la polizia aveva ucciso. Con le braccia indicavano una vicina piazza. Non nego che al momento pensai che l’espressione ‘ucciso’ fosse caricata, simbolica. Invece, arrivati in piazza Alimonda, vedemmo un ragazzo a terra. Dovetti proteggere l’operatore dalle minacce delle forze dell’ordine, che intanto si schierarono attorno al corpo, come a ripararlo dagli obbiettivi.
Continuammo a girare, anche la scena delle urla del commissario. Arriva un’ambulanza e qualcuno comincia a praticare un massaggio cardiaco al ragazzo esanime. Intervenni a difesa di un fotografo mio amico che era stato picchiato dalle forze dell’ordine. Poi telefonai al mio direttore, spiegandogli quello che era avvenuto. Temendo che qualcuno potesse sequestrarmi la cassetta mi allontanai dalla piazza, chiesi un passaggio a un vespista che non conoscevo e andai alla zona rossa, dove avevamo il montaggio e da dove saremmo andati in onda quella sera.
Alle 20 il Tg5, condotto da Enrico Mentana, fu il primo telegiornale a spiegare che il colpo che aveva ucciso il ragazzo era partito da dentro il Defender dei carabinieri. Non fummo fieri di quello scoop, né ne cercammo altri. Continuo ad avere le mie opinioni personali, che qui non importano, su quel giorno tragico, e sulle ore peggiori che seguirono, alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto. Ma i fatti che mi riguardano sono questi, verificabili. E per quanto riguarda l’informazione, avendo fatto parte dell’arredo nella piazza del mercato di Sarajevo nelle ore della strage, o della basilica della Natività, durante l’occupazione e l’assedio, e in tanti posti minori, ho la presunzione di ritenere che quel giorno io e i ragazzi che erano con me, e i colleghi della redazione del Tg5, svolgemmo un lavoro dignitoso e onesto. Ma davvero, e non per le polemiche di oggi, ne avrei fatto volentieri a meno”.
Ieri, giovedì, Giuliano Giuliani ribatte, sempre sull’Unità: “Mi riferisco alla replica di Toni Capuozzo e tralasciando ogni considerazione sulla deontologia professionale e sul giornalismo nelle aree di guerra vengo al punto sul quale ritengo di avere qualche titolo a parlare. L’arrivo con Betulla in piazza Alimonda avvenne qualche minuto (due o tre al massimo) dopo l’omicidio di Carlo e dopo (una manciata di secondi) che qualcuno delle forze dell’ordine (presumo un carabiniere) ha spaccato la fronte di Carlo con una pietrata, avendo avuto cura di sollevargli prima il passamontagna per poi rimetterglielo (infatti il passamontagna non reca alcuna sdrucitura in corrispondenza della fronte).
Quando il vicequestore Adriano Lauro parte per la performance cinematografica, accusando un manifestante di avere ucciso Carlo ‘con il tuo sasso’ per nascondere uno degli atti più infami della giornata, il cameraman è assestato a tal punto per la ripresa che è davvero difficile pensare a una casualità. Non è affatto vero che soltanto in seguito, dopo l’arrivo dell’ambulanza e dei sanitari, Capuozzo avviserà la redazione. Infatti maneggia già il telefonino a inizio ripresa (Betulla sta già telefonando), tanto che due secondi dopo la sceneggiata grida ‘passami subito Enrico’, cioè Mentana, allora direttore del Tg5 (per conferma è sufficiente che Capuozzo vada in archivio e si riguardi ‘Terra’).
Quanto alla generosa difesa di un fotografo suo amico (del quale per carità laica ometto il nome e cognome), Capuozzo potrebbe sempre per via dell’amicizia, raccontare quello che sa. Infatti, pur avendo subìto ingenti danni fisici e materiali non ha sporto denuncia e si rifiuta di farlo ‘perché tiene famiglia’. E’ un vero peccato, indubbiamente è a conoscenza di cose rilevanti, dato che dopo averlo picchiato e ferito, un carabiniere lo schiaccia sopra il corpo di Carlo: perché? E’ tutto documentato, basta avere l’onestà di guardare fotografie e filmati”. E qui rispondo, ora, per chiudere una polemica penosa.
1) Caro Giuliani, Lei può alludere quel che vuole, ma non ridurmi nella condizione di giustificarmi sul perché fossi in piazza Alimonda. Ho detto come ci arrivai, e come ci arrivai con Renato Farina, né voglio fare quello che rifugge, a posteriori, l’appestato. Rifarei tutto quello che feci quel giorno.
2) Non mi inviti, tacendo sulle notizie che demmo al Tg5 delle 20, e tacendo su quel che dissero, o non dissero altri, presumibilmente campioni della libera informazione di cui Lei è giudice, a rivedere servizi che io ho girato, montato, e mandato in onda.
3) Non meni il can per l’aia con le telefonate, o giudicando da regista se l’operatore fosse o meno ben piazzato: girammo quel che succedeva, e feci due telefonate: una a Enrico Mentana, l’altra all’agenzia del fotografo per dire che veniva portato all’ospedale. Il nome del fotografo? Lei che è così coraggioso da gettare il sospetto a mezze parole, lo faccia, dato che lo conosce, e che è noto.
4) Ripeto: i padri per me possono dire quello che vogliono. Ho il vizio di pensare ai miei figli, prima di arrogarmi il diritto di giudicare quel che dicono. Ma se parlano, abbiano coraggio: dica, Giuliani, che io e altri sapevamo che ci sarebbe stato un morto in piazza Alimonda, e che taciamo circostanze e fatti. Non alluda, dica a voce alta, se ha coraggio ed elementi per dirlo. Io sono pronto a testimoniare il poco che so ovunque. In punta di fatto. In punta di idee, è un’altra questione: caro Giuliano, non ritengo il povero Carlo un eroe, e ritengo Placanica una vittima a sua volta. Se è questo che deve costarmi le sue allusioni, lo dica senza pudore, ma non alluda. Se non ci sarà processo, mi ci porti lei dicendo con coraggiosa chiarezza che io nascondo qualcosa, ledendo in modo giuridicamente inequivoco la mia onorabilità professionale, e così la porto io in tribunale, non faccia il damerino del dico e non dico.
5) Sono pronto a incontrarLa in privato, se vuole, e a dirLe il poco che ho visto e che so. Ma se continua ad alludere, per non misurarsi con i fatti, Le offro io la possibilità di vederci in tribunale: lei ha, caro Giuliani, uno stile un po’ fascista, un po’ stalinista e un po’ democristiano di dire e non dire, di calunniare senza assumersene la responsabilità. Sia un padre vero, adesso: gli operatori, i fotografi, i testimoni di quel giorno sono tutti raggiungibili. Li raggiunga, con onestà, prima di scrivere.

1.9.06

Pescatori alla pesca dell'anima
SATIRA PREVENTIVA di Michele Serra
 
"Il denaro è lo sterco del demonio? No!" Ruoterà intorno a questo tema il dibattito centrale della prossima edizione del   meeting di Rimini. I vertici di Cl sono già al lavoro per cercare nuovi ospiti e argomenti di discussione
 
Appena chiusi i battenti del Meeting di quest'anno, i dirigenti di Comunione e Liberazione stanno già lavorando, senza requie, alla prossima edizione. Ecco le prime anticipazioni.

Il titolo Si sta lavorando su due ipotesi. La prima: "Pescatori alla pesca dell'anima. Eppure Costantino vide ciò che altri preferirono non vedere. In viaggio per Viterbo, l'anelito e l'aratro nel sogno operoso degli umili, perché i santi non dormano e ciascuno sieda alla tavola del Signore". Il tipografo incaricato di stampare i dépliant preferirebbe invece un titolo più sintetico: "Vediamoci a Rimini".

I dibattiti Come è tradizione, si spazierà nei territori più profondi della spiritualità e della ricerca religiosa. Gli argomenti più probabili sono: 1. Investire in bond, o è meglio il vecchio mattone? 2. La Brianza e i suoi mobilifici sotto l'attacco degli importatori di bambù. Il boom dei tavoli pieghevoli e il crack delle credenze finto-rustico. 3. Il termoriscaldamento centralizzato conviene? 4. Lo sponsor in Chiesa e il divieto di affissione sopra gli affreschi. Interverranno alcuni dei più autorevoli esegeti della nuova spiritualità, dal vescovo di Cesenatico, don Pino Gnoletti, che ha introdotto il ticket sulle confessioni, al padre spirituale di Bill Gates, il reverendo Gionathan Miller, autore di un ponderoso saggio sulle obbligazioni nell'Antico Testamento.

Gli ospiti Oltre a Silvio Berlusconi, che annuncerà alla platea in delirio di avere comperato Ronaldinho e i Salesiani, si annuncia l'arrivo del miliardario cinese Ching Chung Chang, che atterrerà nel parcheggio della Fiera con il suo jet personale (un gioiello della tecnologia, può atterrare in soli cinquanta metri grazie all'attrito della folla travolta dalla carlinga), una prolusione del miliardario boliviano Jorge Ramirez, uscito dal tunnel dell'eroina grazie alla cocaina, e un intervento in video del miliardario esquimese Nanuk, re delle pelli di foca, registrato nel suo mirabolante igloo di duemila metri quadri, con biliardo di ghiaccio e piscina riscaldata a fiato da dodici orsi bianchi ammaestrati. Un numero d'eccezione, direttamente da Las Vegas, sarà effettuato dal giocoliere miliardario Kurt Moore, in grado di far roteare in aria fino a 50 carte di credito e contemporaneamente di raccattare da terra le monete da 50 centesimi.

La polemica Discussioni molto accese, tra Cesana e i suoi compagni, sul titolo del dibattito centrale della prossima edizione: l'incontro congiunto con i cinque miliardari ospiti. Qualcuno vorrebbe intitolarlo "Il denaro è lo sterco del demonio? No!", qualcun altro preferirebbe "Il denaro è lo sterco del demonio? Ma figurati!"

La politica I politici presenti, come sempre, saranno di orientamento molto vario. Prevista la partecipazione degli stati maggiori di Forza Italia, An, Ccd e Lega, delegazioni della Cdu, dei repubblicani americani, della destra croata e slovena, dei parlamentari della Vandea, del Partito Liberista Etiope, e per il governo del sottosegretario ai Trasporti dell'Udeur Nino Morabito, che potrà ricevere amici e giornalisti nella sua stanza d'albergo.

Rutelli Nella fiammante Sala Rutelli, Francesco Rutelli parlerà sul tema "Rutelli e i rutelliani: i limiti della ricerca scientifica, l'illimitatezza della ricerca politica".

I fischi Non volendo mortificare gli umori vigorosi dei giovani cattolici, il responsabile del Meeting Cesana ha scelto una linea conciliante: le sale dei dibattiti saranno insonorizzate con i nuovi pannelli fonoassorbenti prodotti dalla Compagnia delle Opere. I fischi non saranno vietati, ma dovranno essere espressi, secondo i dettami della temperanza cristiana, con un santino tra i denti.

Don Giussani Verranno letti da Giorgio Albertazzi alcuni stralci dal suo libro "Pensieri in apnea". La frase più breve è di mezza pagina, Albertazzi ha chiesto il permesso di aggiungere alcune virgole e si sta allenando a recitare con un pesante respiratore artificiale sulla schiena. Saranno presenti traduttori simultanei dall'italiano all'italiano.