17.9.07

Se gli agnelli diventano lupi


SATIRA PREVENTIVA di Michele Serra

Gli Agnelli ancora non hanno finito di contarsi, molti non si conoscono tra di loro. Ma tutti hanno diritto all'eredità. Anche gli Staminer del ramo merovingio e quelli di Casale Monferrato. Commenta

Come mai Capinera Agnelli non è andata alla prima comunione della piccola Otaria Rattazzi? E perché l'ultimo nato di casa Elkann si chiama Peppe, forse per contrariare gli altri Agnelli? E come valutare la decisione dei Nasi, dei Grande Stevens e dei Borromeo di calpestare le magnifiche ortensie della villa di Marilù Barba Cobolli Wittenberg durante la cerimonia funebre della zia Sibillina Barba? Sono queste le domande che scuotono l'opinione pubblica italiana, interessatissima alle dispute dinastiche e finanziarie di casa Agnelli. Vediamo, dunque, di fare chiarezza.

La famiglia Gli ufficiali d'anagrafe di mezza Europa stanno cercando di stabilire almeno il numero preciso degli Agnelli e degli imparentati. Secondo una stima approssimativa, si tratterebbe di circa quattromila persone, tutte aventi diritto a una quota d'eredità. Oltre agli Agnelli ci sono i Nasi, gli Elkann, i Rattazzi, i Gabetti, i Santalbano di Santalbano e i Santalbano di Papò, i Montezemolo, gli Gnemmi, gli Gnommi, gli Staminer del ramo merovingio e quelli di Casale Monferrato, i Pautasso di Helsinore, i Rebaudengo di Malta, più altri lontani cugini che nelle scorse settimane hanno suonato il campanello di Villar Perosa presentando le credenziali e pretendendo almeno il tagliando gratuito della Punto. Molti degli Agnelli neppure si conoscono tra loro, e durante l'ultimo raduno degli eredi si mormora che un cameriere precario, approfittando della confusione, si sia accreditato come un cugino Nasi, riuscendo a ingannare anche il notaio e impossessandosi della tabacchiera d'oro del nonno Giovanni.

Il patrimonio Si parla di svariate migliaia di milioni di euro, la cui divisione tra i 4 mila pretendenti è allo studio di un pool di matematici tedeschi, che dopo tre anni di inutili calcoli hanno proposto di dividere tutto in grossi mucchietti e tirare a sorte. Ma la soluzione non è piaciuta agli eredi diretti, che sono solo un centinaio e rischiano di ritrovarsi proprietari di una cinquantina di metri della pista del Lingotto mentre magari un qualunque zio Rebaudengo si prende l'Alfa Romeo. Tutto è dunque ancora in discussione.

Gli immobili Oltre alla celebre villa di Villar Perosa, con le porte da calcio in ogni camera da letto e due guardialinee al posto dei comodini, c'è quella del Sestriere, con lo skilift che porta ai piani superiori, quella di Sankt Moritz che appartenne allo Scià di Persia e venne disegnata da Soraya in persona (il tetto è cotonato), l'attico di Manhattan al trecentesimo piano con vista sui due mari, Atlantico e Pacifico, la villa di Kabul purtroppo bombardata (c'era la collezione di cristallerie boeme di Nasturzia Agnelli), la villa di Portofino e Camogli (è lunga dodici chilometri e unisce le due città), la villa di Bombay con gli elefanti addestrati che servono a tavola, il castello in Transilvania con vampiri veri, anche volanti, e infine le duecento villette a schiera lungo la Tangenziale di Torino volute dall'eccentrico prozio Gigi, che lasciò la vicepresidenza della Fiat per fare il geometra. Essendo una famiglia molto unita, fino adesso i quattromila Agnelli hanno condiviso ognuna di queste case, arrivando per i week-end tutti insieme ogni venerdì sera. Molto suggestiva la cerimonia del check-in, con gli Agnelli smistati nelle stanze da robuste guardie armate per impedire colluttazioni. Ma i frequenti e imbarazzanti scambi di cravatte e di spazzolino da denti hanno fatto capire che è venuto il momento di dividersi le case, a costo di smontarle e portarle via, una stanza a testa.

La Fiat Grande imbarazzo tra gli eredi quando i notai hanno fatto notare che c'è anche la Fiat. Gli Agnelli presenti hanno cominciato a tossicchiare e guardare in aria. Qualcuno ha chiesto a che distanza dai campi da golf si trovano gli stabilimenti. La soluzione, per adesso, è dare la fabbrica in affido a Marchionne, che ha accettato solo a patto che la famiglia si limiti a telefonare ogni tanto, per cortesia non tutti insieme.

5.9.07

Vita sotto assedio di un cronista a Palermo
"Sotto scorta in una Sicilia senza onore"

intervista a Lirio Abbate (Giuseppe D'Avanzo - Repubblica.it)

Dice Lirio Abbate che il lavoro di cronista a Palermo o è accurato o non è. Lirio ha 37 anni, è redattore all'Ansa. Come tutti i siciliani "buoni", come tutti i siciliani migliori, non è portato a far gruppo, a stabilire solidarietà e a stabilirvisi. Sono i siciliani peggiori quelli che hanno il genio del gruppo, della "cosca", ricordava Sciascia. Sarà per questo, che Lirio se ne sta per conto suo e segue la sua strada anche se sa bene quale sarebbe il modo più conveniente per starsene in ombra, un po' in disparte e in pace. Puoi sempre scivolare lento sulla superficie dei fatti e quindi "prendere atto": prendere atto che quello è indagato per mafia; che quell'altro è stato rinviato a giudizio; che quell'altro ancora è sotto processo per favoreggiamento alle cosche; che la magistratura sempre "indaga a 360 gradi".

Nessuno te ne vorrà. È il tuo lavoro e se fai il tuo lavoro con prudenza, senza eccessi, con mediocrità, nessuno salterà su contro di te. Però, dice Lirio, che ha una compagna e un bimba di dieci mesi, questo lavoro non è accurato, non è onesto perché non racconta quel che vede e sa: "Io so, noi sappiamo chi sono i mafiosi e gli amici dei mafiosi o i loro protettori. Non ho, non abbiamo bisogno di attendere una sentenza o la parola della Cassazione o un'inchiesta giudiziaria perché penso che, prima della responsabilità penale, sempre eventuale, ci sia una responsabilità sociale e politica accertabile. Se il deputato, il consigliere regionale, l'assessore, il primario, il professore universitario se ne vanno in giro con il mafioso è un fatto. Si conoscono, passeggiano sottobraccio, si baciano quando s'incontrano. È soltanto accuratezza non rinviare ai tempi di una sentenza quel racconto. È il mio lavoro dirlo ora, subito. Non sono una testa calda, non sono un estremista, sono un cronista e credo che il mio impegno sia stretto in poche parole: raccontare quel che posso documentare".

Deve essere questa convinzione che ha fottuto Lirio. Alla vigilia delle elezioni amministrative (maggio 2007), il suo metodo di lavoro deve aver messo di cattivo umore qualche capintesta moralmente opaco. La sua certosina ostinazione a ricostruire la rete di complicità "borghesi" che, per 43 anni, ha custodito la latitanza di Bernardo Provenzano non deve aver migliorato l'umore di altri. Un giorno lo chiamano in questura e gli dicono che "non si deve preoccupare, ma che sarà protetto con discrezione". Lirio si preoccupa, altroché. Cerca di capire. Capisce che sono in corso delle intercettazioni nel quartiere mafiosissimo di Brancaccio e in quelle conversazioni è saltato fuori che occorrono delle armi per fare "una sorpresa a quel rompicoglioni". Dice Lirio che, in quei momenti, quel che ti sta accadendo ti appare del tutto sproporzionato. "In fondo, sei consapevole che il tuo lavoro, per quanto meticoloso e accurato, nella migliori delle ipotesi si avvicina, senza svelarla, all'autentica realtà delle cose. Ti chiedi qual è stata la frase, il dettaglio, il nome che può avere inquietato e non sai dirlo. Puoi forse immaginarlo, non averne la certezza. Così vai avanti. Fingi che non sia accaduto niente. Tieni per te l'angoscia, senza rovesciarla su chi ti è accanto. Tanto passerà".

Non passa invece. Un giorno Lirio trova sulla sua auto "la lettera di un amico". Lo invita "a stare attento". In questura dicono che la minaccia è "molto seria", che una scorta armata lo seguirà passo passo durante il giorno. Per un cronista andarsene in giro con uomini armati è molto buffo. Il lavoro ne è irrimediabilmente pregiudicato. Quale "fonte" accetterà di incontrarti? Quale fonte ti confermerà quel che non potrebbe confermarti? Devi fermarti all'ufficialità, al "prendere atto". Dice Lirio che anche per questo, con la direzione dell'Ansa, decide di "staccare", di venir via dalla Sicilia, di starsene qualche mese a Roma, nella redazione centrale.

Lirio è tornato a Palermo soltanto dieci giorni fa e quelli subito si sono fatti sotto. Nella notte gli hanno sistemato una bomba incendiaria sotto l'auto. Il quartiere della Kalsa bloccato per ore. Polizia a sigillare la zona; artificieri per disattivare l'ordigno; vigili del fuoco preparati al peggio; carri dei vigili urbani per spostare in fretta le auto che davano impiccio e, nei giorni successivi, il silenzio di Palermo. Un silenzio freddo, scrupoloso, amaro che lo imprigiona come in una bolla d'aria. Dice Lirio che non vuole parlare di "solitudine" perché gli sembra retorico e inesatto: se ne vergognerebbe.

"In quel che mi accade" sostiene Lirio "mi sento fortunato. Sento accanto a me l'amichevole presenza dei miei colleghi di redazione. La direzione dell'Ansa è premurosa. Polizia e magistratura di più non potrebbero fare per rassicurarmi. Ma, se si esclude questo cerchio protettivo, avverto l'indifferenza della città. Un sindacato di giornalisti ha diffuso un comunicato in cui si diceva, più o meno, che - è vero - Lirio Abbate è minacciato, ma è un affare che riguarda soltanto lui perché - tranquilli - i cronisti siciliani non corrono alcun pericolo. Si può? Quest'incomprensione collettiva è un grumo di veleno e di amarezza che aggrava l'angoscia peggio della minaccia di quei vigliacchi e non parlo di me soltanto, parlo delle decine di casi che, come il mio, si consumano ogni giorno in città, nell'indifferenza di una Palermo muta che quotidianamente "prende atto" di negozi bruciati dagli estorsori che non risparmiano i piccoli e piccolissimi esercizi e finanche i distributori di benzina. Una città dove, se ti portano via l'auto o la moto, sai a chi puoi rivolgerti - tutti sanno chi è il mafioso del quartiere - per fartela restituire dietro il pagamento di una cauzione, così la chiamano. È vero, l'iniziativa di Confindustria è straordinaria. Erano dodici anni che le associazioni antiracket invocavano un gesto, un passo deciso. Ora c'è una promessa. Vedremo con il tempo se alle parole seguiranno i fatti. Però, perché prima di mandar via chi paga il pizzo non si comincia a mettere fuori da Confindustria l'imprenditore condannato per mafia? Ce ne sono. Basta guardare a Caltanissetta".

Dice Lirio che hanno ragione il capo dello Stato e il governo a chiedere che "la società civile" faccia la sua parte contro la mafia. È la parte del problema con cui egli sente di dover fare più dolorosamente i conti, oggi. "È un paradosso. Credi di dover fare in modo accurato il tuo lavoro di cronista per illuminare nell'interesse dell'opinione pubblica, di quella "società civile", gli angoli bui e sporchi del cortile di casa. Poi scopri che sei un ingenuo. Nessuno vuole guardare da quella parte, in quegli angoli - no - preferiscono voltarsi da un'altra parte anche se stai lì a tirargli la giacchetta. E allora perché lo faccio?, ti chiedi. Perché infliggo a chi mi è caro ansia, paura, apprensione e, Dio non voglia, pericoli? Perché, mi chiedo, non ascolti chi ti dice: ma chi te lo fa fare, vattene da qui, vattene subito, non ti accorgi che non vale la pena?".

La voce di Lirio sembra rompersi ora. Percettibilmente, il timbro diventa roco e trattenuto come di chi si sta sforzando di controllare un'emozione che forse è rabbia, forse è avvilimento o forse entrambe le cose. Dopo qualche secondo, Lirio dice finalmente: "Lo sai perché non decido di andarmene? Per onore. Sì, per onore! Non per il mostruoso, folle, ridicolo onore di cui si riempiono la bocca mafiosi deboli con i forti e forti con i più deboli, ma per quell'onore che mi chiede di avere rispetto di me stesso, che mi impedisce di inchinarmi alla forza e alla paura, di scendere a patti con ciò che disprezzo. Quell'onore che molti siciliani hanno dimenticato di coltivare".