Se Son Rose Pungeranno
di Marco Valsecchi
Sintomi unici, la diagnosi è immediata: languore da innamoramento. Uno stato assolutamente incomprensibile, un inciampo improvviso e imprevisto, proprio un attimo prima di fermarsi ad allacciare le scarpe. E’ come il singhiozzo, un mezzo mistero che proviamo a interpretare alla luce dei consigli della nonna.
Prendiamo un soggetto a caso, osserviamolo da vicino, sezioniamo il ticchettio del suo cuore. Camminiamo sulle sue impronte fresche, per gustarci il balletto di chi da un giorno all’altro si trova a piangere sorridendo mentre spinge il suo carrello al supermercato.
La nostra attenzione si avvolgerà intorno a questo bizzarro esemplare d’uomo, che si troverà a lambire un precipizio senza mai staccare la sua testa dalle nuvole.
Chiamiamolo Simone e osserviamone l’aspetto: un’altezza considerevole, abbastanza da farlo considerare temibile se incontrato sulla poltroncina davanti alla nostra in un cinema, un cranio accuratamente rasato coperto da un cappello amichevole, occhiali geometrici, sorriso leggermente arricciato, vestiti comodi e colorati, che ogni mattina salutano con buon umore la signora del secondo piano. Nel complesso un single tardo ventenne, forse un artista, con una pace nello stomaco quasi inattaccabile; uno che può permettersi di entrare in un’edicola fischiettando per comprare l’ultimo volume dei Capolavori della letteratura Universale, un musicista abbastanza bravo da non venirtelo a raccontare.
Ma oggi non riuscirà a suonare, e il suo fischiettare ha lasciato posto a un respiro corto e nervoso mentre passeggia per i giardini pubblici, guardando in trasparenza qualche vecchietto che pastura piccioni. Perché da alcune ore (precisamente quante ne può contenere una notte insonne) nella sua testa (liscia) è entrata Lei, quindi non c’è più posto per altro. Perché Lei è il ricordo di ieri, il desiderio di adesso, la speranza di poi; perché è chiaro che se Lei ha sorriso un motivo deve esserci stato, e il futuro è scoprire quale motivo fosse. Osserviamo che in questo momento la strada perde ogni significato: questi pensieri si possono fare solo girando in tondo. Simone lo sa, e passa per la quarta volta davanti al laghetto delle anatre, parzialmente ghiacciato.
E Lei riappare sulla superficie degli alberi, dell’acqua, delle panchine. Ogni volta è una lieve deformazione della stessa immagine, dello stesso sorriso che sembra possedere più sfumature di quante ne abbia il verde del prato: un momento sembra innamorato, ma poi è subito cinico, imbarazzato, sarcastico, distratto.
Povero Simone, che a ogni passo immagina un diverso futuro, e a ogni sobbalzo gli lancia un urlo il cuore.
E poi è solo un attimo. Giriamo una pagina della vita, niente di più, e Simone cammina ancora sull’erba, ma ora stringe nella sua mano la mano di Lei.
Il futuro è arrivato prima di noi, sorprendendoli abbracciati a cercarsi vicendevolmente conferme negli occhi e a impacchettare sorrisi da regalare agli amici.
E’ una situazione che può farci sorridere, noi che guardiamo questo mondo da dietro un finestrino elettrico, per quanto riesce a essere noiosa: un batti e ribatti di carezze e cenni d’assenso, sguardi d’intesa e parole bisbigliate all’ombra di un orecchio. Ogni scusa è buona per tuffarsi in un mare di zucchero, in un iddilio che solo chi ha dichiarato il suo amore entrando in casa con le pattine può provare a descrivere. Lei parla, Simone conferma, Lei sorride, Simone propone, Lei accetta, Simone è felice, Lei se ne rallegra.
Guardiamoli ancora un po’, come pesci rossi nella boccia sopra alla lavatrice, mentre riservano attenzioni quasi maniacali a questioni che, in un altro momento, in un altro posto, con un’altra persona, scavalcherebbero con un salto a piedi pari. Sono così teneri, mentre ognuno dei due getta sul cammino dell’altro petali di rosa che l’altro non avrà mai l’indelicatezza di calpestare.
Poi, una volta sazi di questo spettacolo, lasciamo che passi del tempo. Quanto? Non importa fintanto che i nostri soggetti rimangono immobili in questo modo. Che sia una settimana o forse sei anni, per noi è uguale: il penultimo giorno non si discosta per nulla dal primo, e la coppia che ci piace osservare sarà ancora lì dove l’avevamo lasciata.
E’ l’ultimo giorno che deve farci paura, quello in cui un vento cattivo soffia via il castello di carte.
E’ come un temporale, ma dall’esito incerto, è un cielo da bordo nero che comincia a brontolare e, prima che si possa trovare un riparo, le spesse gocce fredde sferzano la maglietta troppo leggera che indossavamo con noncuranza. Forse Simone lo sa, ma questo non può aiutarlo; le avvisaglie arrivano troppo rapide e poche parole scatenano un finimondo.
Non sappiamo come sia cominciata, e comunque non ce ne importa molto, fatto sta che ora vediamo il nostro Simone nell’occhio del ciclone. Eccolo lì, impietrito sulla sedia, mentre gli battono addosso violente le parole sovraeccitate di Lei; non fiata, troppo sorpreso e sconvolto, mentre l’inverno, con le tonalità violacee dell’azzurro, si sostituisce all’estate gialla in cui ci eravamo adagiati osservando la coppia e la sua favola.
Lei è un torrente turbinoso di accuse, lui muove le labbra senza emettere suono udibile, tutt’attorno compaiono gli amici, che prima sedevano acquattati come gomitoli di ombre ai bordi della scena, e che ora si affacciano alla ribalta.
E il dramma è un magico, spettacolare ballo circense: l’occhio di bue illumina un Simone rilucente al centro della scena, sbattuto a terra e risollevato come un foglio stropicciato del giornale di ieri dalla voce distorta di Lei, sempre più amara e incomprensibile, ornata con piume di uccello di fuoco; parenti & conoscenti piroettano coreografici scandendo slogan altisonanti: “Non siete fatti l’uno per l’altro” , “Vi state solo facendo del male”, “Bisogna avere il coraggio di dirsi addio”. Il ritmo è coinvolgente, i colori sfrigolano pazzi, odore di frittelle, zucchero filato e calci alla schiena. Povero ragazzo, che sul palco viaggia in controtempo, incapace di stare sulle punte.
L’ultimo passaggio è un fuoco d’artificio, un climax lanciato nel cosmo, che esplode nella luce e poi scompare senza lasciare traccia.
Tutto quello che rimane è Simone, come un appartamento dopo uno sfratto.
Sui suoi occhiali si riflettono diapositive che non ha mai scattato: un concerto di venerdì, un paesaggio visto dal balcone, la verdura che stava ordinata nel frigo, una grigliata assolata. Immagini che sfumano, si confondono, diventano liquide. Squilla il telefono, Simone non risponde, alza lo stereo per coprire i propri pensieri; poi si pente e prepara un’insalata in religioso silenzio. Ancora una volta il tempo è diventato inutile, ha lo stesso suono circolare della marea, rifluisce su se stesso, si attacca alle lancette letargiche della sveglia sul comodino. Comunque passa.
Una mattina Simone si sveglia e la sua vita ricomincia da capo, più o meno da dove l’aveva lasciata quel giorno che era uscito per passeggiare in tondo intorno al laghetto ghiacciato.
Il nostro amico scopre di essere ancora capace di fischiettare, di non volere alcuna sigaretta e di avere parecchie videocassette interessanti impilate sul televisore (e qualche amico con cui guardarle). Esce, gettandosi tra le fauci di una giornata di sole.
Chi lo conosce noterebbe sicuramente che il suo modo di camminare è diventato un po’ più quadrato negli ultimi tempi, meno sincopato, comunque tutti sarebbero concordi nel definirlo in buona forma. Cammina tra tombini e bidoni (al parco preferisce non tornarci subito) con sufficiente sicurezza, sorride al postino in motorino e al dottore con la ventiquattrore; annusa l’aria e si perde un po’. Nei momenti in cui si cresce è necessario sentirsi bambini; l’odore che lo raggiunge scivolando tra i palazzi sembra volerlo riportare indietro di molti dei suoi anni: è uguale a quello che traspirava dalla pineta in riva al mare sul finire di un’estate della sua infanzia. Il buon Simone si rivede adagiato sul sedile posteriore della vecchia auto dei suoi, mentre il mare corre lontano. E’ un momento agrodolce, un clarinetto che fraseggia malinconico tra i chioschi e le zanzare.
Simone entra in un bar, ordina un caffè, scuote la bustina, versa lo zucchero nella tazzina, mescola con il cucchiaino e beve. Con estrema pacatezza.
Se Son Rose Pungeranno
Sintomi unici, la diagnosi è immediata: languore da innamoramento. Uno stato assolutamente incomprensibile, un inciampo improvviso e imprevisto, proprio un attimo prima di fermarsi ad allacciare le scarpe. E’ come il singhiozzo, un mezzo mistero che proviamo a interpretare alla luce dei consigli della nonna.
Prendiamo un soggetto a caso, osserviamolo da vicino, sezioniamo il ticchettio del suo cuore. Camminiamo sulle sue impronte fresche, per gustarci il balletto di chi da un giorno all’altro si trova a piangere sorridendo mentre spinge il suo carrello al supermercato.
La nostra attenzione si avvolgerà intorno a questo bizzarro esemplare d’uomo, che si troverà a lambire un precipizio senza mai staccare la sua testa dalle nuvole.
Chiamiamolo Simone e osserviamone l’aspetto: un’altezza considerevole, abbastanza da farlo considerare temibile se incontrato sulla poltroncina davanti alla nostra in un cinema, un cranio accuratamente rasato coperto da un cappello amichevole, occhiali geometrici, sorriso leggermente arricciato, vestiti comodi e colorati, che ogni mattina salutano con buon umore la signora del secondo piano. Nel complesso un single tardo ventenne, forse un artista, con una pace nello stomaco quasi inattaccabile; uno che può permettersi di entrare in un’edicola fischiettando per comprare l’ultimo volume dei Capolavori della letteratura Universale, un musicista abbastanza bravo da non venirtelo a raccontare.
Ma oggi non riuscirà a suonare, e il suo fischiettare ha lasciato posto a un respiro corto e nervoso mentre passeggia per i giardini pubblici, guardando in trasparenza qualche vecchietto che pastura piccioni. Perché da alcune ore (precisamente quante ne può contenere una notte insonne) nella sua testa (liscia) è entrata Lei, quindi non c’è più posto per altro. Perché Lei è il ricordo di ieri, il desiderio di adesso, la speranza di poi; perché è chiaro che se Lei ha sorriso un motivo deve esserci stato, e il futuro è scoprire quale motivo fosse. Osserviamo che in questo momento la strada perde ogni significato: questi pensieri si possono fare solo girando in tondo. Simone lo sa, e passa per la quarta volta davanti al laghetto delle anatre, parzialmente ghiacciato.
E Lei riappare sulla superficie degli alberi, dell’acqua, delle panchine. Ogni volta è una lieve deformazione della stessa immagine, dello stesso sorriso che sembra possedere più sfumature di quante ne abbia il verde del prato: un momento sembra innamorato, ma poi è subito cinico, imbarazzato, sarcastico, distratto.
Povero Simone, che a ogni passo immagina un diverso futuro, e a ogni sobbalzo gli lancia un urlo il cuore.
E poi è solo un attimo. Giriamo una pagina della vita, niente di più, e Simone cammina ancora sull’erba, ma ora stringe nella sua mano la mano di Lei.
Il futuro è arrivato prima di noi, sorprendendoli abbracciati a cercarsi vicendevolmente conferme negli occhi e a impacchettare sorrisi da regalare agli amici.
E’ una situazione che può farci sorridere, noi che guardiamo questo mondo da dietro un finestrino elettrico, per quanto riesce a essere noiosa: un batti e ribatti di carezze e cenni d’assenso, sguardi d’intesa e parole bisbigliate all’ombra di un orecchio. Ogni scusa è buona per tuffarsi in un mare di zucchero, in un iddilio che solo chi ha dichiarato il suo amore entrando in casa con le pattine può provare a descrivere. Lei parla, Simone conferma, Lei sorride, Simone propone, Lei accetta, Simone è felice, Lei se ne rallegra.
Guardiamoli ancora un po’, come pesci rossi nella boccia sopra alla lavatrice, mentre riservano attenzioni quasi maniacali a questioni che, in un altro momento, in un altro posto, con un’altra persona, scavalcherebbero con un salto a piedi pari. Sono così teneri, mentre ognuno dei due getta sul cammino dell’altro petali di rosa che l’altro non avrà mai l’indelicatezza di calpestare.
Poi, una volta sazi di questo spettacolo, lasciamo che passi del tempo. Quanto? Non importa fintanto che i nostri soggetti rimangono immobili in questo modo. Che sia una settimana o forse sei anni, per noi è uguale: il penultimo giorno non si discosta per nulla dal primo, e la coppia che ci piace osservare sarà ancora lì dove l’avevamo lasciata.
E’ l’ultimo giorno che deve farci paura, quello in cui un vento cattivo soffia via il castello di carte.
E’ come un temporale, ma dall’esito incerto, è un cielo da bordo nero che comincia a brontolare e, prima che si possa trovare un riparo, le spesse gocce fredde sferzano la maglietta troppo leggera che indossavamo con noncuranza. Forse Simone lo sa, ma questo non può aiutarlo; le avvisaglie arrivano troppo rapide e poche parole scatenano un finimondo.
Non sappiamo come sia cominciata, e comunque non ce ne importa molto, fatto sta che ora vediamo il nostro Simone nell’occhio del ciclone. Eccolo lì, impietrito sulla sedia, mentre gli battono addosso violente le parole sovraeccitate di Lei; non fiata, troppo sorpreso e sconvolto, mentre l’inverno, con le tonalità violacee dell’azzurro, si sostituisce all’estate gialla in cui ci eravamo adagiati osservando la coppia e la sua favola.
Lei è un torrente turbinoso di accuse, lui muove le labbra senza emettere suono udibile, tutt’attorno compaiono gli amici, che prima sedevano acquattati come gomitoli di ombre ai bordi della scena, e che ora si affacciano alla ribalta.
E il dramma è un magico, spettacolare ballo circense: l’occhio di bue illumina un Simone rilucente al centro della scena, sbattuto a terra e risollevato come un foglio stropicciato del giornale di ieri dalla voce distorta di Lei, sempre più amara e incomprensibile, ornata con piume di uccello di fuoco; parenti & conoscenti piroettano coreografici scandendo slogan altisonanti: “Non siete fatti l’uno per l’altro” , “Vi state solo facendo del male”, “Bisogna avere il coraggio di dirsi addio”. Il ritmo è coinvolgente, i colori sfrigolano pazzi, odore di frittelle, zucchero filato e calci alla schiena. Povero ragazzo, che sul palco viaggia in controtempo, incapace di stare sulle punte.
L’ultimo passaggio è un fuoco d’artificio, un climax lanciato nel cosmo, che esplode nella luce e poi scompare senza lasciare traccia.
Tutto quello che rimane è Simone, come un appartamento dopo uno sfratto.
Sui suoi occhiali si riflettono diapositive che non ha mai scattato: un concerto di venerdì, un paesaggio visto dal balcone, la verdura che stava ordinata nel frigo, una grigliata assolata. Immagini che sfumano, si confondono, diventano liquide. Squilla il telefono, Simone non risponde, alza lo stereo per coprire i propri pensieri; poi si pente e prepara un’insalata in religioso silenzio. Ancora una volta il tempo è diventato inutile, ha lo stesso suono circolare della marea, rifluisce su se stesso, si attacca alle lancette letargiche della sveglia sul comodino. Comunque passa.
Una mattina Simone si sveglia e la sua vita ricomincia da capo, più o meno da dove l’aveva lasciata quel giorno che era uscito per passeggiare in tondo intorno al laghetto ghiacciato.
Il nostro amico scopre di essere ancora capace di fischiettare, di non volere alcuna sigaretta e di avere parecchie videocassette interessanti impilate sul televisore (e qualche amico con cui guardarle). Esce, gettandosi tra le fauci di una giornata di sole.
Chi lo conosce noterebbe sicuramente che il suo modo di camminare è diventato un po’ più quadrato negli ultimi tempi, meno sincopato, comunque tutti sarebbero concordi nel definirlo in buona forma. Cammina tra tombini e bidoni (al parco preferisce non tornarci subito) con sufficiente sicurezza, sorride al postino in motorino e al dottore con la ventiquattrore; annusa l’aria e si perde un po’. Nei momenti in cui si cresce è necessario sentirsi bambini; l’odore che lo raggiunge scivolando tra i palazzi sembra volerlo riportare indietro di molti dei suoi anni: è uguale a quello che traspirava dalla pineta in riva al mare sul finire di un’estate della sua infanzia. Il buon Simone si rivede adagiato sul sedile posteriore della vecchia auto dei suoi, mentre il mare corre lontano. E’ un momento agrodolce, un clarinetto che fraseggia malinconico tra i chioschi e le zanzare.
Simone entra in un bar, ordina un caffè, scuote la bustina, versa lo zucchero nella tazzina, mescola con il cucchiaino e beve. Con estrema pacatezza.