di Marco Travaglio (Unità)
Se avesse degli elettori, l’on. Giuseppe Caldarola dovrebbe render loro conto di quel che fa e soprattutto non fa. Invece è un uomo fortunato: non essendo stato eletto da nessuno, ma nominato deputato dal partito grazie al Porcellum, può fare e soprattutto non fare quel che gli pare senza che nessuno gliene chieda ragione. Un po’ come quando dirigeva l’Unità e,non avendo praticamente lettori, poteva scrivere ciò che gli pareva (leggendario il titolo sulla morte di Lady Diana: “Scusaci, principessa”, copyright di Piero Sansonetti): tanto nessuno lo leggeva. Purtroppo la cosa si venne a sapere e nel 2000 il giornale chiuse. Caso tutt’altro che isolato, quello dell’eletto senza elettori e del direttore senza lettori. Prendete Antonio Polito, altro trascinatore di folle.Ha diretto per anni Il Riformista e dal 2006 è senatore, sempre all’insaputa dei più. Se avesse degli elettori, qualcuno lo fermerebbe per strada per avere spiegazioni su quanto ha dichiarato ad Annozero:“A me la legge Biagi piace così com’è”. Ha mai letto il programma della sua coalizione, che si impegna a “superare la legge 20”? Ed, eventualmente, perché non si è candidato con Berlusconi che, avendola scritta, è favorevolissimo a lasciarla com’è? Ma Polito Margherito, non avendo lettori, non corre rischi. Analogamente, se il Riformista avesse avuto lettori, quando attaccava chi criticava Berlusconi avrebbe ricevuto qualche lettera di protesta. Invece non ne aveva: ogni mattina, arrivando in redazione travestito da Sherlock Holmes fuori stagione, sbirciava nella buca delle lettere, trovandola sempre desolatamente vuota. “Vorrà dire che son tutti d’accordo con me”, diceva compiaciuto alla sua pipa, che gli lenisce la solitudine. Quando Furio Colombo dovette lasciarne la direzione, l’Unità ricevette migliaia di lettere di protesta e solidarietà, e le pubblicò per settimane. Il Riformista stigmatizzò con autentico sdegno l’usanza di pubblicare lettere: l’idea che un giornale abbia dei lettori li aveva totalmente spiazzati.Naturalmente sia Polito sia Caldarola detestano l’Unità e non ne fanno mistero. Caldarola denuncia, in un’intervista al Corriere, che “l’Unità degli ultimi anni s’è letteralmente trasformata”. Infatti lui l’aveva lasciata morta e, senza di lui, è risorta. Purtroppo però –osserva angosciato– “è diventata molto più giustizialista”. E non è bello, perché poi i lettori la comprano. “Anzi, le dico di più”, confida affranto: “la cultura giustizialista ha prodotto una vera e propria rete”. Il giornalista Roncone tenta di consolarlo: “Una rete? Addirittura?”. Ma il pover’uomo ormai è inconsolabile: “Addirittura, certo. Una rete che tiene insieme magistrati, mezzi d’informazione e pezzi di mondo politico. Così forte da produrre addirittura profitti. Fa vendere giornali, libri…”. Orrore: vi sono addirittura giornali e giornalisti dotati di lettori. Fuori i nomi: “Giornalisti tipo Travaglio, che con il giustizialismo si sta arricchendo… Ma non penso solo a lui. Anche a Santoro o, per capirci, all’Unità degli ultimi anni”. Ecco: non contenti di pubblicare libri e giornali, troviamo pure qualcuno che li compra. Per dire quanto è ramificata la Spectre. Si vocifera addirittura – Dio non voglia – che, dopo averli comprati, qualcuno li legga. E qui ci fermiamo, per evitare al sant’uomo inutili sofferenze aggiuntive. Perché questa storia dei giornalisti-con-lettori lo sta lentamente consumando. L’altro giorno, per esempio, questa versione moderna dell’onorevole Trombetta ha emesso il seguente comunicato: “Ho letto l’ennesima satwa di Travaglio su l’Unità, questa volta dedicato a me. Non replicherò perché Travaglio dice sempre le stesse cose e sull’intimidazione si è fatto una barca di soldi (...). Non ho alcuna voglia di perdere tempo con il trombettiere di alcuni procuratori. In questi anni, credo solo una volta, ho replicato a Travaglio. Questa è la seconda, non ci sarà la terza. Per me può andare a vaffa…”. E’ la prima volta che, per “non replicare”, uno scrive una lettera di venti righe. In cui, fra l’altro, confonde “fatwa” (la massima giuridica della Sharia islamica) con “satwa” (una delle tre energie della creazione indiana: satwa, rajas e tamas). Satwa è la pura essenza, alla quale si ispira la dieta satwica, tutta vegetale, tipica delle persone tranquille e contemplative. Ma non è il caso di Caldarola, decisamente troppo nervoso. Facciamo così: finchè non si rimette, se gli vien voglia di non-replicare a qualcuno, ci faccia un fischio: la non-replica gliela prepariamo noi.
7.12.07
2.12.07
FOLLINI
di Marco Travaglio – Unità (grazie a Emilio Pierini)
Marco Follini, a vederlo così, dev’essere proprio una cara persona. Sempre felpato, aggraziato, flautato. Fin da quando, ancora in fasce, Babbo Natale e Mamma Dc gli portarono in dono sotto l’albero la sua prima poltroncina: un posto ben infiocchettato nel consiglio di amministrazione della Rai. Lui vi si accomodò senza far rumore né dare fastidio, anche perché il suo sederino d’oro era ammortizzato con soffici pannolini Lines, anzi Follines.
Con la stessa grazia l’altro giorno s’è morbidamente assiso sull’ultima poltrona in ordine di tempo: quella di «responsabile per le politiche dell’informazione» del Partito democratico. La sua fu un’infanzia difficile. Mentre i suoi coetanei andavano all’asilo, con il cestino e il grembiulino, lui si faceva portare in viale Mazzini sul passeggino blu con la sirena, spinto da Biagio Agnes. Mentre i compagni di scuola si baloccavano con Big Jim e si scambiavano le figurine Panini, lui giocava ai palinsesti. Mentre gli amichetti dell’oratorio guardavano i cartoni di Heidi e Mazinga, lui li mandava in onda.
Gli altri, compreso l’inseparabile Piercasinando, abbordavano le ragazze: lui intanto riceveva Don Lurio, Pippo Baudo e Raffaella Carrà. Nel 1994, al seguito di Pier, Follines approdò al Ccd, poi ribattezzato Udc. Di cui, nel 2001, divenne il leader nazionale. Finché, nel 2005, fu promosso addirittura vicepresidente del Consiglio nel governo Berlusconi 2-bis. Difficile rintracciare, nella sua attività politica della passata legislatura, una traccia, un segno, un vagito che giustifichi la nomina di responsabile del Pd per l’informazione. Nel senso che per cinque anni Follines votò tutte le leggi vergogna, dalla prima all’ultima, senza eccezione alcuna.
E senza nemmeno la faccia malmostosa per la sbobba che gli toccava ingurgitare: anzi, digeriva tutto con quell’arietta soave e spensierata da vecchio bambino, da ministro al Plasmon. Votava le leggi sulla (anzi, contro la) giustizia: rogatorie, falso in bilancio, scudo fiscale, condoni, Cirami (uomo dell’Udc), Maccanico-Schifani, Cirielli, Pecorella. Ma anche sulla (anzi, contro la) libertà d’informazione: Gasparri 1, Gasparri 2, decreto salva-Rete4, Frattini sul (anzi, pro) conflitto d’interessi.
Mai l’ombra di un dubbio, un cenno di ripensamento. Intanto i diktat, bulgari e non, si susseguivano contro giornalisti e attori dotati di un briciolo di libertà. E lui sempre lì con l’estintore in mano a spegnere le polemiche: in fondo non stava accadendo nulla e bisognava «abbassare i toni».
Mentre Berlusconi, da Sofia, cacciava Biagi, Santoro e Luttazzi, Follines alzava il ditino e metteva sullo stesso piano epuratore ed epurati: «Non mi piacciono Biagi e Santoro, ma mi piacciono ancora meno le liste di proscrizione. E, poiché sono ottimista, dico che quelle liste non ci saranno. Certe reazioni sono sproporzionate». Naturalmente le liste ci furono, Biagi, Santoro e Luttazzi scomparvero per cinque anni dal video, sostituiti da un plotone di uomini Mediaset, ma lui non se ne avvide. Anzi, quando il 9 marzo 2003 Santoro reclamò i propri diritti violati, Follines lo zittì: «Ho letto l’intemerata-intervista di Santoro: faccio notare che lui non è Matteotti, Berlusconi non è Mussolini e quando tornerà in video non sarà lo sbarco in Normandia».
Dimenticò di spiegare quando sarebbe tornato in video. Poi rientrò in letargo per tre anni. Alla vigilia delle elezioni, attaccò il “Corriere della sera” perché Paolo Mieli aveva invitato i lettori a votare Unione: «Il Corriere ha perso un pizzico della sua credibilità».
Poi attaccò l’Unione: «Sembra un ballo a corte, frivolo e variopinto. Sulla sua bandiera si potrebbe scrivere il motto della Rai “Di tutto di più”. C’è posto per chi tifa per gli elettori iracheni e per chi sfila in piazza con la kefiah. Riescono a essere a favore delle famiglie e a favore dei Pacs. Per tenere la legge Biagi, per riscriverla e cancellarla. Per l’alta velocità, ma non tutti. Contro il ponte dello Stretto, ma poi a Messina dicono che lo faranno loro. Ci piacerebbe che la Margherita non fosse tanto insopportabilmente educata e compiacente verso i propri alleati. Abbiamo scoperto una sinistra una e bina».
Un anno dopo si schierava con la sinistra una e bina, frivola e variopinta. Talmente variopinta che l’ha nominato responsabile per l’informazione. Forse nella speranza che, nel frattempo, Follines s’informi.
Marco Follini, a vederlo così, dev’essere proprio una cara persona. Sempre felpato, aggraziato, flautato. Fin da quando, ancora in fasce, Babbo Natale e Mamma Dc gli portarono in dono sotto l’albero la sua prima poltroncina: un posto ben infiocchettato nel consiglio di amministrazione della Rai. Lui vi si accomodò senza far rumore né dare fastidio, anche perché il suo sederino d’oro era ammortizzato con soffici pannolini Lines, anzi Follines.
Con la stessa grazia l’altro giorno s’è morbidamente assiso sull’ultima poltrona in ordine di tempo: quella di «responsabile per le politiche dell’informazione» del Partito democratico. La sua fu un’infanzia difficile. Mentre i suoi coetanei andavano all’asilo, con il cestino e il grembiulino, lui si faceva portare in viale Mazzini sul passeggino blu con la sirena, spinto da Biagio Agnes. Mentre i compagni di scuola si baloccavano con Big Jim e si scambiavano le figurine Panini, lui giocava ai palinsesti. Mentre gli amichetti dell’oratorio guardavano i cartoni di Heidi e Mazinga, lui li mandava in onda.
Gli altri, compreso l’inseparabile Piercasinando, abbordavano le ragazze: lui intanto riceveva Don Lurio, Pippo Baudo e Raffaella Carrà. Nel 1994, al seguito di Pier, Follines approdò al Ccd, poi ribattezzato Udc. Di cui, nel 2001, divenne il leader nazionale. Finché, nel 2005, fu promosso addirittura vicepresidente del Consiglio nel governo Berlusconi 2-bis. Difficile rintracciare, nella sua attività politica della passata legislatura, una traccia, un segno, un vagito che giustifichi la nomina di responsabile del Pd per l’informazione. Nel senso che per cinque anni Follines votò tutte le leggi vergogna, dalla prima all’ultima, senza eccezione alcuna.
E senza nemmeno la faccia malmostosa per la sbobba che gli toccava ingurgitare: anzi, digeriva tutto con quell’arietta soave e spensierata da vecchio bambino, da ministro al Plasmon. Votava le leggi sulla (anzi, contro la) giustizia: rogatorie, falso in bilancio, scudo fiscale, condoni, Cirami (uomo dell’Udc), Maccanico-Schifani, Cirielli, Pecorella. Ma anche sulla (anzi, contro la) libertà d’informazione: Gasparri 1, Gasparri 2, decreto salva-Rete4, Frattini sul (anzi, pro) conflitto d’interessi.
Mai l’ombra di un dubbio, un cenno di ripensamento. Intanto i diktat, bulgari e non, si susseguivano contro giornalisti e attori dotati di un briciolo di libertà. E lui sempre lì con l’estintore in mano a spegnere le polemiche: in fondo non stava accadendo nulla e bisognava «abbassare i toni».
Mentre Berlusconi, da Sofia, cacciava Biagi, Santoro e Luttazzi, Follines alzava il ditino e metteva sullo stesso piano epuratore ed epurati: «Non mi piacciono Biagi e Santoro, ma mi piacciono ancora meno le liste di proscrizione. E, poiché sono ottimista, dico che quelle liste non ci saranno. Certe reazioni sono sproporzionate». Naturalmente le liste ci furono, Biagi, Santoro e Luttazzi scomparvero per cinque anni dal video, sostituiti da un plotone di uomini Mediaset, ma lui non se ne avvide. Anzi, quando il 9 marzo 2003 Santoro reclamò i propri diritti violati, Follines lo zittì: «Ho letto l’intemerata-intervista di Santoro: faccio notare che lui non è Matteotti, Berlusconi non è Mussolini e quando tornerà in video non sarà lo sbarco in Normandia».
Dimenticò di spiegare quando sarebbe tornato in video. Poi rientrò in letargo per tre anni. Alla vigilia delle elezioni, attaccò il “Corriere della sera” perché Paolo Mieli aveva invitato i lettori a votare Unione: «Il Corriere ha perso un pizzico della sua credibilità».
Poi attaccò l’Unione: «Sembra un ballo a corte, frivolo e variopinto. Sulla sua bandiera si potrebbe scrivere il motto della Rai “Di tutto di più”. C’è posto per chi tifa per gli elettori iracheni e per chi sfila in piazza con la kefiah. Riescono a essere a favore delle famiglie e a favore dei Pacs. Per tenere la legge Biagi, per riscriverla e cancellarla. Per l’alta velocità, ma non tutti. Contro il ponte dello Stretto, ma poi a Messina dicono che lo faranno loro. Ci piacerebbe che la Margherita non fosse tanto insopportabilmente educata e compiacente verso i propri alleati. Abbiamo scoperto una sinistra una e bina».
Un anno dopo si schierava con la sinistra una e bina, frivola e variopinta. Talmente variopinta che l’ha nominato responsabile per l’informazione. Forse nella speranza che, nel frattempo, Follines s’informi.