22.12.06

La risposta ai teorici del niente

di Filippo Facci per il Giornale

La risposta è questa: niente. Io rovescio la domanda, e chiedo a quei tanti che da settimane declamavano solo ciò che non andava fatto: dite, che cosa andava fatto? Mascherata da astratta difesa della vita, la loro implicita risposta resta questa: niente. Bisogna lasciare le cose come stanno. Bisogna lasciare che il caso Welby possa sembrare solo l'ultima baracconata dei Radicali, bisogna lasciar credere che Piergiorgio Welby fosse un depresso che chiedeva l'eutanasia: e non un uomo coraggioso che da anni aveva chiesto di poter evitare quella morte per soffocamento che nessun respiratore gli avrebbe infine evitato, un uomo che negli ultimi giorni di vita, invitato a resistere, rispose che non voleva più restare nel braccio della morte.
Un uomo che ha cercato di percorrere una via di legalità formale, un uomo come i tanti che si sono immolati in un Paese incapace di non procedere a strappi, un uomo che mercoledì notte ha chiesto che gli fosse staccato il respiratore non certo sulla base dei tempi della politica o della magistratura e purtroppo dello sciopero dei giornalisti: ha scelto e basta, ha rifiutato l'elemosina di un distacco clandestino, e non esiste il rischio che diventi una bandiera come teme qualche onorevole: lo è già. Ma ciò non si vuole. E allora bisogna lasciar credere che il nostro Paese non abbia neppure bisogno di una normativa più chiara: e non sull'eutanasia, che nessuno o quasi realisticamente chiede, ma sul maledetto accanimento terapeutico o sulla possibilità di un testamento biologico, sul cosiddetto consenso informato, ciò che c'è in tutta Europa mentre da noi c'è questo: niente.
È così chiara, la norma, che abbiamo delegato la vita o la morte di Welby alle carte bollate dei tribunali, oppure a medici secondo i quali per legge non si poteva intervenire mentre un altro medico ha pensato evidentemente di sì, sicché la spina l'ha staccata. È chiarissima, la norma. È per questo che anche il Consiglio Superiore di Sanità ha chiesto una nuova legge per distinguere tra accanimento e cura: perché è chiara. La verità, a latere del nostro prezioso dibattere, è che il fisiologico ritardo culturale della politica ha registrato un ulteriore distacco dalla realtà. Le opinioni sui giornali sono lampanti, ma mai abbastanza da illuminare il grigio di quella clandestinità italiana dove il decesso di centinaia di migliaia di persone è accompagnato da un intervento non dichiarato dei medici.
È stata un'indagine del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica di Milano, e non di Pannella, ad aver appurato che il 3,6 per cento di essi ha praticato l'eutanasia e il 42 per cento la sospensione delle cure, tipo appunto staccare un respiratore. È una rivista autorevole come Lancet ad aver sostenuto che il 23 per cento dei decessi, in Italia, è stato preceduto da una decisione medica, e che il 79,4 per cento dei medici è disposto ad interrompere il sostentamento vitale. Ma come stiano realmente le cose non interessa: la Commissione affari sociali, ieri l'altro, ha inspiegabilmente respinto la proposta d'istituire un'indagine conoscitiva sul fenomeno. Si fa, non si dice né si deve sapere. È questa la morale molto italiana che avvolge un dibattito che Welby chiese al Presidente della Repubblica, ricevendone in cambio questo nostro fumo: del resto si trattava solo di aspettare che morisse, scambiando per vita la sua agonia. Ora è finita.
Chi lo amava, chi nei suoi occhi leggeva ormai solo la più terrificante delle umane coscienze, chi in quella stanza osservava la morte che pazientava con clinica certezza, senza fretta, così da poterlo gratuitamente torturare, ora dice grazie.

18.12.06

Andiamo a Teheran per sostenere gli studenti

da “Il Foglio” 14 dicembre 2006

Tra le pieghe dell’intricata vicenda iraniana, tra i proclami nefasti di Ahmadinejad ed il tragicomico convegno negazionista della Shoà organizzato dalla diplomazia persiana, due giorni fa abbiamo assistito – più o meno consapevoli – ad una straordinaria lezione; impartitaci, con grande coraggio, da un manciata di studenti della facoltà di ingegneria di Teheran non organizzati e non affiliati (a quanto si sa) a particolari associazioni o a più o meno clandestini partiti politici. Questi ragazzi, nel mezzo di un intervento del presidente della repubblica islamica nell’aula magna dell’ateneo, si sono alzati in piedi al grido di “morte al tiranno”, decidendo di far sentire la propria voce. Ad ogni costo. Ben consapevoli dei pericoli e dei rischi a cui andavano incontro. Sicuri di ricevere le tre stelle che nell’assurda classificazione oscurantista designano lo “studente sovversivo”.

Ci pare che da questo, imprevedibile, episodio, si possa trarre una considerazione – ottimistica - ed un monito: in ogni epoca, ma ancor di più nella società globalizzata, il dissenso non può essere rinchiuso in confini geografici; non può essere sepolto da un potere cieco e feroce, proprio perché tutti noi siamo, al di là delle distanze, sempre “connessi”. In ogni parte del mondo navighiamo in internet, recuperiamo immagini ed informazioni dagli stessi media, ci confrontiamo con posizioni ed esperienze estranee e diverse dalla nostra. E ciò, dunque, ci consente di sperare: che in quel contesto energie fresche e moderne, giovani e preparate, possano sfondare la terribile cortina della repressione teocratica per favorire un lento, forse lentissimo, processo di democratizzazione e trasformazione. Di una società già piena, peraltro, di molteplici ed interessanti fermenti.

Ma quanto accaduto ci impone una riflessione profonda. La impone a noi giovani, studenti, militanti di organizzazioni giovanili dei partiti politici, volontari in associazioni non governative, più o meno impegnati nella politica o nel mondo universitario. Da sempre abbiamo sostenuto, ognuno con le sue sensibilità, che bisogna incoraggiare i dissidenti nei paesi non democratici o in cui la libertà non esiste; da sempre abbiamo ritenuto di dover fornire il nostro appoggio a coloro che si impegnano per l’emancipazione nelle loro nazioni. E dunque, oggi noi lanciamo questo appello a tutti, giovani e studenti, portatori di diverse esperienze e culture, uniti e diversi, per fare quanto possiamo a vantaggio della causa degli studenti iraniani che hanno osato ribellarsi.

Intanto dobbiamo preoccuparci della loro incolumità fisica, oggettivamente messa a rischio in un sistema che non prevede e non tollera forme di dissenso e protesta. In secondo luogo dovremo mostrare tutta la solidarietà di cui siamo capaci, in forme che sapremo studiare nel tempo. Noi oggi proponiamo tre soluzioni: cominciamo con una giornata di discussione in un’ aula universitaria, magari alla presenza di alcuni dissidenti dall’Iran, parlando di Medioriente e di politica internazionale e interrogandoci soprattutto su quale possa essere il nostro ruolo; e restituiamo in questo modo l’università, spesso teatro di un triste “assenteismo dell’impegno”, al suo ruolo naturale di valvola di confronto e sapere.

Portiamo poi la nostra voce e la nostra protesta fin sotto all’ambasciata dell’Iran, come già fece “Il Foglio” in occasione delle prime terribili esternazioni di Ahmadinejad, esigendo delle rassicurazioni sulla tutela dei diritti civili, umani e politici dal regime. E proviamo infine - ci rendiamo conto delle difficoltà, forse insormontabili – a sfidare anche noi il tiranno, recandoci in prima persona nella Teheran dove le manifestazioni sono interdette, ma dove tutti i divieti non riescono ad arginare la forza d’urto delle idee di libertà e giustizia. Possiamo farlo. Potremo riuscire o no. Ma una battaglia come questa merita di essere combattuta, tutti assieme.
Tobia Zevi – Presidente Unione giovani ebrei d’Italia
Daniele Nahum – Resp. Politico Unione giovani ebrei

15.12.06

LA RICONTA DEI VOTI

questo articolo di Massimo Teodori uscirà domani sul Riformista

IL RICONTEGGIO DEI VOTI: una decisione dissennata che non approderà a nulla e getterà discredito sulle istituzioni

La decisione di ricontare i voti della Camera dei deputati è un’operazione dissennata che non approderà a nulla e getterà discredito sulle istituzioni. Ancor più della delibera assunta dalla Giunta delle elezioni del Senato che ha stabilito di ricontare le schede bianche, nulle e contestate di 7 regioni. Tra queste è matematicamente impossibile che i risultati possano cambiare con il ribaltamento del premio di maggioranza in 5 casi (Lombardia, Toscana, Sicilia, Puglia e Calabria) anche se tutte le schede da ricontare fossero taroccate a favore della coalizione vincente, mentre i risultati in ipotesi potrebbero mutare in Campania in cui la differenza è dello 0,53% a favore dell’Unione su circa 2 milioni 998mila voti e nel Lazio con uno scarto dell’1,12% su 3 milioni 303 mila voti, sempre per l’Unione. Ma anche in questi casi la strada di un cambiamento dei risultati sarebbe molto lunga e accidentata come descrivo di seguito per la Camera.

Ecco in 10 punti le ragioni per cui la Camera si è impantanata in un labirinto assurdo, inutile, dispendioso e pericoloso.

1- Saranno ricontate in base non alla “verifica ordinaria” (art.11 reg.Giunta) ma con una decisione straordinaria tutte le schede (valide, bianche, nulle, contestate) del 10% del totale, cioè poco meno di 4 milioni. E’ stato calcolato che vi sono 80 giornate utili nei 6 mesi assegnati .Occorrerà quindi ricontare 50.000 schede al giorno, 5000 schede per 10 ore di lavoro ammesso che partecipano tutti e 11 i membri del comitato (dato che solo con lo stretto controllo dei deputati si possono svolgere tali compiti). Sarà possibile?

2 – Supposto che a luglio 2007 si arrivi alla fine e si trovano 4000/6000 schede irregolari in un senso o nell’altro. Bisognerà andare avanti a controllare il totale delle schede (circa 40 milioni) su cui è calcolato il premio di maggioranza. Si decide di controllare tutto. Quanto tempo occorrerà? 3, 4, 5 anni? Quanti dpuatti dovranno dedicarsi? Quante migliaia di personale? Per non parlare della logistica: trasporto, immagazzinamento, sorveglianza…

3 – Supposto che con uno sforzo immane si possano ricontare tute le schede della Camera in 3 anni e ipotizzato che i perdenti (Casa delle libertà) superano i vincenti Unione di 5000 voti. Che succede?

4 - La Giunta delle elezioni deve decidere di aprire un procedimento formale di contestazione dei risultati (art.12 e 13 Reg. Giunta) ma per decidere ci deve essere il numero legale che può essere portato alle lunghe all’infinito.

5 – Ammesso che la Giunta (a maggioranza Unione) decida di aprire una contestazione dei risultati che danno la maggioranza all’Unione, occorre una seduta pubblica con contraddittorio, avvocato, dibattito.

6- Dopo la seduta pubblica la Giunta deve deliberare a maggioranza in sede di camera di consiglio l’annullamento delle elezione di gran parte dei deputati della stessa Unione che ha la maggioranza in giunta. Vi pare possibile?

7 – Ammesso che la Giunta deliberi per l’annullamento, la decisione non è valida fino a quando non si pronuncia l’aula che si riunisce dopo 20 giorni dalla seduta pubblica della Giunta. La maggioranza deve pronunziarsi contro se stessa. Vi pare concepibile?

8- Mentre tutta questa macchina gira a vuoto vengono affossate le verifiche ordinarie che dovrebbero prendere in esame, collegio per collegio, i ricorsi circostanziati (art 11, commi a) e b) reg. giunta).

Non è uno scherzo. Se avete fatto il conto dei tempi dei vari passaggi ,nella migliore delle ipotesi tutta la procedura dura molto più della durata della legislatura. Dunque non ci vuole molto a capire che questa riconta così agognata dai perdenti del centrodestra e dai complottomani del centrosinistra non è altro che una beffa. Il vero ed unico risultato di tanto clamore e di tanto dispendio di energie è la delegittimazione delle istituzioni, la copertura di ridicolo per tutti coloro che hanno gridato al lupo ed hanno chiesto con squilli di trombe la riconta e il definitivo affossamento della fiducia nella democrazia elettorale.

m.teodori@mclink.it

14.12.06

Azouz Marzouk

Adriano Sofri su Repubblica

"Si è saputo che il marocchino era tunisino. Che il convivente della giovane donna italiana di Erba era suo marito. Che il furgone usato da Azouz Marzouk per la fuga e ritrovato poco distante non era stato usato da Marzouk, non è stato ritrovato, e non era un furgone. Che l'assassino della moglie, del figlioletto, della suocera, e della coppia di vicini non era l'uomo che ha perso moglie figlioletto suocera e vicini amici. (È morto anche il cagnolino dei vicini, soffocato dal fumo). Che l'uomo con precedenti penali per rapina e spaccio non aveva precedenti per rapina, bensì solo per piccolo spaccio. Eccetera. Contrordine dunque: sei o sette contrordini. Diramati, in copia conforme, agli inquirenti, ai cronisti, ai direttori di telegiornali e giornali, alla cittadinanza di Erba e del resto d'Italia. Perfino le dichiarazioni dei conoscenti, promosse al rango di titoli, per una volta non avevano ricalcato l'avvilente copione delle stragi domestiche: «Era una brava persona, uno come noi: normale, regolare», anzi, l'aggettivo più sintomatico del nostro tempo, prima del raptus: «Tranquillo, tranquillissimo». No, questa volta l'occhio dei conoscenti si era affinato: «Sapevamo che era violento. Ci aveva minacciati tutti». Contrordine anche per loro. Non aveva minacciato nessuno, benché, come ha avuto la forza di dire ancora in sua difesa quell'ammirevole signor Carlo Castagna prima di scoppiare in pianto, «sapessimo che non era uno stinco di santo».
Nella sequela di contrordini, un punto rimane fermo, dopo ulteriore verifica: l'indulto, anzi, L'INDULTO, così, maiuscolo, come nei titoli a piena pagina. Marzouk è effettivamente uscito grazie all'indulto. Su questo punto cruciale nessuno può sollevare dubbi, a meno che non sia in totale malafede. È uscito grazie all'indulto: dunque, se avesse voluto lui massacrare i suoi e i vicini, grazie all'indulto avrebbe potuto farlo.
A questa constatazione nessuno deve sottrarsi, data la verosimiglianza della supposizione: la stessa verosimiglianza che, nel commento autocritico di un importantissimo giornale, ha caratterizzato «tutta la storia, a cominciare dal profilo del suo protagonista». Sebbene Marzouk non sia il feroce assassino della sua famiglia e dei suoi vicini, era verosimile che lo fosse. Infatti era marocchino e/o tunisino, ed era USCITO PER L'INDULTO. Tiriamola bene la conseguenza, senza maramaldeggiare con l'importantissimo giornale, che almeno ha sbattuto in prima pagina la propria resipiscenza. La conseguenza è che L'INDULTO è la verosimile premessa della più efferata strage famigliare. Peraltro la conseguenza era stata tirata, l'altroieri, senza riserve di verosimiglianza, da fior di campioni della demonizzazione dell'indulto, e dei suoi promotori gelosamente scelti.
Non è che abbia voglia di scherzare, né di affidarmi al sarcasmo. L'indecente e vanesio conformismo pressoché universale sulla vicenda di Erba rischia oltretutto di far passare in second'ordine una tragedia agghiacciante e commovente. Fosse stato quel Marzouk, la si sarebbe esorcizzata e archiviata più facilmente. Adesso, bisogna tornare a guardarci dentro, come quei bravi pompieri che sono intervenuti nella casa pensando a un incendio, e ne sono usciti vomitando. È difficile dire francamente quello che ci passa dentro, ogni volta che le pareti di una casa si spalancano davanti ai nostri occhi, a Novi Ligure o già un'altra volta a Erba, o a Parma e in troppi altri posti, e ci sorprendiamo a sperare che i colpevoli non siano "extracomunitari", come se il caso, del resto così frequente, in cui siano italiani, servisse ad attenuare le nostre paure, e a spuntare le armi dei razzisti.
Ma voglio ora, quando la lezione del contrordine di Erba è così fresca, e induce a maramaldeggiare alla rovescia contro i maramaldi anti-indulto, fare il contrario. Proporre ancora un esercizio di ragionevolezza. Rinunciare per qualche riga al senno di poi, e proporre di ragionare come si sarebbe potuto fare due giorni fa, quando il delitto di Marzouk veniva dato per provato. «Era uscito per l'indulto». Costui era in carcere con una condanna patteggiata a tre anni e mezzo, per spaccio di cocaina. Grazie ai tre anni d'indulto, avendo scontato i sei mesi, ne è uscito (salvo che anche queste informazioni d'ufficio siano smentite) nello scorso agosto. Senza l'indulto, ne sarebbe uscito perché la legge prevede una misura alternativa alla detenzione per i condannati sotto i tre anni (o quattro, se siano tossicodipendenti) che abbiano un domicilio ed eventualmente un lavoro. Senza ottenere - e non si vede perché no - una misura alternativa prima del fine pena, o almeno i tre mesi all'anno di liberazione anticipata prevista per chi tenga una condotta ordinata, sarebbe comunque uscito allo scadere dei tre anni, una volta espiata l'intera pena. I suoi propositi omicidi sarebbero caduti in prescrizione? La sua violenza, capace di spingersi fino a sgozzare il figlioletto, sarebbe stata addomesticata e placata da altri anni, altri mesi di cella? (Qualche altro centinaio di giorni illuminato ognuno, come si è saputo, da una lettera della moglie, qualche decina di settimane illuminate dall'ora di colloquio con lei e il bambino?) Nessuno, avvisato di una nefanda tragedia, può immaginare quali mire assassine possano sorgere o spegnersi nell'animo di un uomo recluso. Ma intitolare: «Ha sterminato la famiglia», e completare: «Era uscito per l'indulto», vuol dire che l'indulto non solo mette in libertà i delinquenti né solo promuove Previti dagli arresti domiciliari all'affidamento ai servizi sociali, ma autorizza e provoca la strage degli innocenti. Anche a non voler vedere la mutilazione della carità, manifesta oggi per tanti altri segni, e più tristemente dove se ne fa professione, c'è in questo una penosa irresponsabilità civile. E dov'è della giustizia che si fa professione, si può sorvolare sulle scarcerazioni davvero pericolose e oltraggiose, procurate non dal maiuscolo indulto, ma dalle minuscole colpose scadenze di termini. Normali, com'è normale che la nomina del primo presidente della Corte suprema finisca con dodici voti a favore e dodici contro, e un astenuto, supremo esempio di equanimità. Il fracasso sull'indulto ha avvelenato le acque. Chi resti attaccato alla ragione e alla pazienza, e non abbia perso la carità in qualche incidente di carriera, misura sui veri effetti dell'indulto - non dunque i mentiti, né i «verosimili» - la convinzione che la reclusione carceraria sia in una larghissima misura superflua, nociva, e cattiva. Ci sarà tempo per tirare le somme.
Né occorre, per opporsi alle strumentalizzazioni e all'allarmismo, farsi troppo buoni e ottimisti. L'amore di Raffaella Castagna merita la commozione, il rispetto e l'inquietudine che anche i suoi famigliari gli avevano dolorosamente riconosciuto. «Lei lo amava» - e questo ha deciso: era giusto così. Lei, e non solo lei, non ha voluto separare una vocazione professionale di educatrice, di assistente, dal sentimento personale. Ha bruciato una distanza di sicurezza. È stata libera di farlo, e questo non può che ispirare solidarietà e rispetto. Chi abbia esperienze simili sa in quante forme, e con quanti rischi, la distanza bruciata che chiamiamo amore pretenda la vita delle persone. Ci sono ragazzi maghrebini che non imparano a sopportare che la "loro" ragazza italiana resti padrona della propria vita. Ce ne sono che se ne aspettano un vantaggio per la loro sistemazione. Ce ne sono che si servono di una dipendenza dalla droga, e fra un carcere e l'altro si passano la compagna italiana. Ce ne sono capaci di un amore che sappia rinunciare a fare da padroni sulla donna italiana, ma incapaci di sopportare che sia sottratta loro la proprietà di un figlio. Sono sentimenti, lo vedete, molto simili a quelli che si trovano ancora fra gli italiani e cristiani "di ceppo", benché acuiti e complicati dalle differenze di lingua, di religione, di abitudini e di educazione. Spesso, a dirimere le guerre private che usurpano l'amore o gli succedono, nessuna persuasione basta, e bisogna chiamare la polizia, e bisogna che la polizia risponda. A volte non si è abbastanza pessimisti da figurarsi quanto possa costare. Da figurarsi, per usare le parole dette ieri da Marzouk, che «siamo diventati bestie, animali»: sapesse o no di chi parlava"

Taranto, il caso degli «illicenziabili»

di Gian Antonio Stella - Corriere della Sera

Come osano, sospenderlo dal servizio? Francesco Grassi, uno dei ventitré dirigenti e impiegati del comune di Taranto arrestati ai primi di luglio perché si erano auto-regalati sontuose buste paga per un totale di 5 milioni di euro in cinque anni, ha già fatto ricorso. Gli altri sei obbligati a non ripresentarsi in ufficio il ricorso lo stanno preparando. Gli altri ancora, sono tornati alla loro scrivania da un pezzo. Per non dire di tutti gli altri dipendenti ancora che, per la commissione d'inchiesta interna, si sarebbero complessivamente fregati almeno da 21 a 30 milioni di euro. Un decimo del gigantesco buco nel quale è precipitata l'ex capitale industriale della Puglia, dichiarata in bancarotta. Stando alle accuse, mosse dalle denunce di un ex consigliere comunale, Nello De Gregorio, Grassi si sarebbe fatto dei regalini nello stipendio, dal 2001 al 2006, con compensi extra per misteriosi lavori «a progetto», per 389 mila euro. Dice però che non è stato ancora rinviato a giudizio e la legge è legge, signori e signore: come si è permesso, il commissario Tommaso Blonda, di sospendere lui e i protagonisti degli altri casi più gravi? Si dirà che, come ha accertato il comandante della Finanza Emanuele Fisicaro, c'è chi in un mese si era fatto omaggio di 19.439 euro e chi di 39.160: ma che c'entra? Certo, c'è chi è accusato come Nicola Blasi, di essersi preso coi ritocchi in busta paga 434 mila euro, chi come Giuseppe Cuccaro 429 mila, chi come Orazio Massafra 422 mila e chi come Cataldo Ricchiuti (al quale sono stati sequestrati 12 fabbricati e un terreno e 124 mila euro in banca: mica male per un funzionario comunale...) addirittura 567 mila.
Ma perché non dovrebbero tornare al loro posto, in attesa del rinvio a giudizio e poi della decisione del Gip e poi del processo in Assise e poi di quello in Appello e poi di quello in Cassazione e magari ancora di qualche ricorso alla corte costituzionale? E il bello è che la magistratura potrebbe dare loro ragione. Perché qui è lo scandalo: Francesco Boccia, mandato da Amato a Taranto come liquidatore (primo caso in Italia per una grande città) ha le mani legate da leggi e leggine così pelosamente garantiste da impedirgli di fatto di usare la mano pesante. Una impotenza che, oltre ad alleggerire la posizione di quella massa di persone coinvolte nella maxi- truffa sugli stipendi (tutte assolutamente convinte che un giorno o l'altro il can-can finirà e magari con l'aiuto dell'indulto anche questa seccatura dell'inchiesta evaporerà in una nuvoletta) rischia di lanciare un pessimo segnale a una città allo sbando. Mario Pazzaglia, il veneto-marchigiano incaricato con Giuseppe Caricati di mettere il naso nei conti, fa professione di ottimismo e cerca di incoraggiare Taranto a reagire spiegando che «con uno scatto di orgoglio la città può recuperare e rinascere». Ma certo il baratro nei conti lasciato dalla giunta guidata dalla forzista Rossana Di Bello (dimessasi pochi mesi dopo una trionfale rielezione in seguito a una condanna per gli appalti dell'inceneritore) gela il sangue: finora siamo già a un buco accertato di 382 milioni di euro. Pari a oltre sei mila euro di «rosso» per ogni famiglia. Un disastro. Sul quale non è avviata solo un'opera di rilettura dei bilanci (che potrebbe rivelare un abisso finanziario che qualcuno paventa addirittura intorno al miliardo di euro) ma si sono aperte un mucchio di inchieste penali. Per falsità in bilancio. Per un appalto da 28 milioni per la pubblica illuminazione. Per il Parco Cimino dato in gestione per 1.000 euro l'anno (neppure pagati) a un ristoratore che faceva lavori edilizi (anche abusivi) e poi mandava il conto al Comune. Per una specie di fontana da due milioni di euro piazzata in mezzo al mare e mai usata. E altro ancora. Una gestione sciagurata.
E meno male che non è andato in porto il progetto un po' megalomane di costruire il Colosso di Zeus, un bestione che avrebbe dovuto ricordare un'antica opera di Lisippo. E magari avrebbe ricordato anche il monumentale sindaco Giancarlo Cito, che prima di finire in galera fu il Re di Taranto e prometteva di far di Taranto «la Svizzera del Sud» e minacciava Di Pietro di «riempirgli la bocca di cemento a presa rapida» e quando si prese pure la squadra di calcio ordinò ai giocatori di darsi da morire sul campo sennò avrebbe «messo le gambe dei più brocchi a mollo in una vasca di piranha». Ma torniamo ai nostri «eroi». La difficoltà di licenziare o perfino di sospendere i dipendenti infedeli del Comune di Taranto, coincidenza, nei giorni in cui un pezzo della sinistra vorrebbe arruolare d'un colpo, senza filtri, 300 mila precari, dei quali moltissimi saranno bravissimi ma una parte certo una palla al piede. E dà ragione a chi, come scriveva Pietro Ichino ieri sul Corriere, sostiene che «la precarietà degli uni è l'altra faccia dell'iperprotezione e inamovibilità degli altri». Cioè di chi, avuto un posto pubblico, non può più essere rimosso da qui all'eternità. Sapete quante notizie Ansa escono, su milioni e milioni di takes dal 1981 ad oggi, incrociando le parole «dipendenti comunali» + «licenziati», declinate al plurale o al singolare? Dodici. Ma nella stragrande maggioranza non raccontano di licenziamenti (come quello di 9 becchini triestini, sbattuti fuori perché davvero nessuno se la sentì di difenderli dopo che avevano aperto un sacco di tombe per rubare ori e orologi ai morti) ma di rimozioni tenacemente intralciate dal sindacato o da un giudice. Come nel caso di Fabrizio Filippi, accusato dal comune di Livorno di essere un lavativo e finalmente messo fuori, dopo una accanita guerriglia processuale, solo dopo 13 anni di sentenze e di ricorsi. O di quello spazzino licenziato dal comune di Latisana dopo un'assenza non giustificata di 15 giorni e fatto riassumere dalla magistratura perché, essendo l'uomo sempre ubriaco, «non era provata la volontà dell'inottemperanza al dovere di prestare servizio». Per non dire di un caso simile a quello di Taranto. Ricordate cosa successe a Napoli? Finirono sotto inchiesta in 321, quattro anni fa, per essersi gonfiati lo stipendio. Molti dichiarando con l'autocertificazione di avere a casa a proprio carico una tale quantità di nonni, suoceri, cugini, zie, cognate e consuocere da ottenere fino a 15 o 20 mila euro di arretrati. Altri perché si erano ritoccati le buste paga attribuendosi fino a 32 milioni al mese. E «voci accessorie» fino a 105 l'anno. Bene: solo uno, il dirigente dell'ufficio Aldo Buono, è stato rimosso. Gli altri, se non se ne sono andati per godersi la «meritata pensione», stanno ancora lì. E con l'indulto di quest'anno si sono tolti pure il pensiero del processo: marameo!

11.12.06

BLOG-POLITIK

di Alessandro Gilioli sull'Espresso

Cari naviganti, le attività del Sindaco dopo la pausa estiva sono riprese in pieno... , annuncia Walter Veltroni dal suo sito, www.veltroniroma.it. E meno male, visto che siamo a Natale. Ma non è che Ve!troni abbia poltrito da agosto a oggi: è solo che si è dimenticato di avere un sito. Come lui, centinaia di altri politici italiani, bravissimi a parlare di Web e di interattività in campagna elettorale per poi scappare dalla Rete nel momento in cui l'ultima scheda viene deposta nell'urna.
Prendete Letizia Moratti, ad esempio. Nel candidarsi a Palazzo Marino, un annetto fa, aveva messo in piedi un sito ciclopico, in cui ogni via di Milano corrispondeva a un dominio Internet: chi abitava lì era invitato a mandare all'ex ministra i suoi suggerimenti per il quartiere. Molto creativo, un pò esagerato e assai costoso. Se digitate adesso www.letiziamoratti.it, però, trovate solo una gran toto della signora esultante e la scritta "Grazie Milano!". Fine. Inutile cliccare su e giù per il monitor, non si va più da nessuna parte. Il super sito interattivo è diventato un poster fisso e obsoleto.
Quello di ringraziare e scappare a elezioni avvenute è tuttavia un vizio trasversale: dal segretario ds Piero Fassino (www.inviaggioconpiero.it, ultimo aggiornamento il 12 aprile), al presidente della Camera Fausto Bertinotti (www.faustobertinotri. it), dal sindaco di Napoli Rosa Russo lervolino (www.iervolinosindaco.it) al collega torinese Sergio Chiamparino (www.chiamparino.it). Nessun ringraziamento invece, forse per la batosta subita, dall'ex avversario di quest'ultimo, Rocco Buttiglione (www.roccobuttiglione.it, aggiornato al 19 giugno). E se n'è andato senza salutare pure il sindaco di Bologna Sergio Cofferati (www.sergiocofferari.it) che ha lasciato solo un eterno cartello di lavori in corso.
L'alibi dell'aggiornamento informatico è infatti un ottimo sistema per dileguarsi dagli impegni nel Web: l'ex presidente del Senato Marcello Pera, per esempio, sul suo www.marcellopera.it mostra un comunicato in cui elogia gli internauti per il "confronto diretto da cui ho tratto numerosi e utili contributi", dopodiché spiega: "Proprio per rendere questo dialogo ancor più semplice ed immediato, ho deciso di ristrutturare il mio sito: l'obiettivo è quello di mettervi in futuro a disposizione uno strumento più agile", e bla bla bla. Visti i tempi dei lavori in corso, speriamo che Pera renda noto a quale agenzia si è rivolto, in modo da mettere in guardia eventuali futuri clienti. Ancora più imbarazzante è l'auto-oscuramento con cui il ministro dell'Istruzione Fiorono ha abbattuto il suo blog (www.giuseppefioroni.margheritaonline.it). Qualche settimana fa, infatti, l'esponente della Margherita aveva auspicato la censura contro i contenuti elettronici porno e violenti, senza accorgersi che nei commenti al suo blog c'erano circa 3 mila pubblicità di siti con nomi tipo "Anal gallery" e "Violent Incest". Quando gli è stata fatta notare l'incongruenza (grazie al tam-tam partito dal blogger Massimo Mantellini), Fioroni ha chiuso tutto in fretta e furia, accusando un non meglio specificato "pirata informatico" di averlo boicottato (in realtà il ministro aveva solo ricevuto un pò di spam, come capita a tutti). Per un politico, del resto, il blog è un percorso perfino più scivoloso del vecchio sito istituzionale. Perché nel diario on line sarebbe auspicabile un aggiornamento di post quotidiano, un dialogo continuo con i lettori-cittadini, un linguaggio diretto e informale e, se ci si riesce, uno spazio interattivo in cui accettare le critiche e dare qualche risposta. E qui gli onorevoli italiani, in grande maggioranza, vanno in crisi. Perché vogliono far vedere che sono innovatori e moderni, provando ad aprire un blog ma poi non riescono a tenere botta. Il caso più eclatante è stato quello di Romano Prodi, il cui blog è sopravvissuto la miseria di due post. Una figuraccia rimarcata sul Web da Beppe Grillo ("Forse quella di non comunicare con i propri elettori sarà una nuova tattica per rimanere al potere sino al 3010..."). Ora il premier ha un sito-vetrina in stile classico, anch'esso in verità piuttosto mal aggiornato.
Nel suo governo non mancano tuttavia i tentativi, spesso lodevoli, di utilizzare in qualche modo l'interattività della Rete e i blogger veri sono più d'uno. C'è per esempio il tecnofilo Antonio Di Pietro, il cui diario on line (www.antoniodipietro.it) è quasi inappuntabile: l'ex pm lo aggiorna di frequente, raccontando quello che fa al ministero per le Infrastrutture. Il sito è aperto ai commenti degli internauti, la cui pubblicazione on line è automatica. Unico neo, il tutto assomiglia un pò troppo al blog di Grillo, a cui Di Pietro evidentemente si ispira. Un altro ministro che sembra saper usare la Rete è quello delle Comunicazioni, Paolo Gentiloni. Il suo blog non ha le foto e l'aggiornamento non è frequentissimo, ma insomma non si sente aria di abbandono; peccato il lessico, ancora £incravattato" e poco adatto al mezzo. Più informale il verde Alfonso Pecoraro Scanio (www.pecoraroscanio.it), che tuttavia aggiorna il suo diario on line assai di rado e con interventi molto generici: ne consegue un diaolgo con gli internauti davvero scarno. Qualche problemuccio anche per il "Bindiblog" (così l'ha chiamato lei) dell'omonimo ministro della famiglia signora Rosy (www.rosybindi.it): dal 5 ottobre non viene postato più nulla. Un pò inquietante poi che cliccando su "attività del ministero" appaia una pagina completamente bianca. Appena più attiva la collega Linda Lanzillotta (www.lindalanzillotta.it), che ha postato una cinquantina di volte in un anno. Infine, nell'esecutivo, discreta la performance di Emma Bonino (www.emmabonino.it): il suo non è un blog, ma per ricchezza e vivacità è meglio di parecchi diari on line. Del resto l'estrazione radicale contempla una certa passione per la democrazia elettronica, sicché anche gli ex compagni di Bonino passati a destra si divertono con mouse e tastiera: sia Marco Taradash (www.riformatori.blogspot.com) sia Benedetto Della Vedova (www.benedettodellavedova.com) sono blogger a tutto tondo. Nella Casa delle libertà, però, la new entry più rumorosa, il cui blog Rivoluzione Italiana (www.paologuzzanti.it) ha debuttato quatto quatto in settembre con la semplice riproposizione dei articoli su "il Giornale", ma a poco a poco è diventato un pirotecnico garbuglio di accuse agli avversari e di accorati appelli al popolo, fino ad assumere toni millenaristici con l'esplosione del caso Litvinenko. Un blogger di lunga data come Luca Sofri ha ipotizzato, scherzando, che dietro quelle pagine non ci potesse essere davvero Guzzanti, bensì un gruppo di "impostori che hanno messo in piedi questa parodia solo per prendere in giro il senatore". Comunque si vede che l'ex giornalista si è innamorato del nuovo mezzo, lo usa senza parsimonia e si diverte a dettarne autocriticamente le regole: "Qui censurato quello che voglio, questo non è un blog pubblico ma privato, gli avversari hanno a disposizione migliaia di altri posti dove sfogarsi". Un altro inaspettato e recente blogger è il senatore Sergio De Gregorio, quello eletto con Di Pietro e ora oscillante con tendenza a destra. Nel suo www.sergiodegregorio.vom (dove parla di sé in terza persona, come Maradona) sono pochi i post dedicati alla politica nazionale, molti i riferimenti al suo bacino elettorale campano. Ultimamente De Gregorio ha imparato anche a caricare le foto e ha messo on line una cartolina notturna dal golfo di Napoli.
Discreto, sobrio - e noiosetto - è invece il blog del margherito Franceschini (www.dariofranceschini.it) mentre è naufragato subito il tentativo di Sandra Lonardo, moglie e sodale politica di Mastella (http://alessandralonardo.splinder.com): lady Udeur si è incartata nel giro di sette post e ha abbandonato il tutto nel febbraio scorso. Chi ne sentisse la mancanza può consolarsi con il sito-bazar del marito (www.clementemastella.it, si consiglia di skippare la temibile canzonetta introduttiva). Anche il blog dell'ex ministro Mario Baccini è finito male: l'esponente Udc l'aveva aperto quando voleva diventare sindaco di Roma (www.romacomelavorrei.it/dblog/), poi l'ha "sospeso" ("le attività del blog riprenderanno a breve"), infine si è riparato nel solito sito-contenitore zeppo di discorsi e atti parlamentari immessi da qualche portabosrse (www.mariobaccini.it).
D'altro canto il sito vetrina è una tentazione forte, nel Palazzo, perché ci si deve impegnare poco, non si rischiano incidenti tipo quello di Fioroni e si può dire in giro di "essere in Rete". Una gran balla, naturalmente, perché si manca il senso principale della comunicazione via Web, basata sul confronto con gli utenti. Eppure quasi tutti, a sinistra come a destra, alla fine fanno così. Tra le poche eccezioni, il governatore sardo Renato Soru (http://blog.progettosardegna.it) e qualche volenteroso peone di Montecitorio: come il rutelliano Giachetti (www.robertogiachetti.com) o l'onorevole di An Fabio Rampelli (www.rampelli.it), uno che nei suoi interventi spazia dal ricordo eroico di El Alamein agli immigrati dell'Esquilino, dal boom cinese alla cementificazione di Tor Marancia. Mostrando così di aver compreso, seppure a modo suo, il concetto di "glocal".

3.12.06

QUANDO IL POTERE PASSA DI MANO

di Barbara Spinelli sulla Stampa

E’ talmente piena di guai e di luride vicende, è talmente tentacolare e opaca, la storia delle spie russe avvelenate e del capitolo italiano su di essa affastellata, che non sembra un romanzo di Le Carré, con i personaggi densi di storia e passioni che ne sono la caratteristica, ma piuttosto la riproduzione veridica di quel magnifico serial televisivo che s’intitola 24, e che ha come protagonisti losche spie serbe, agenti che lavorano per inafferrabili nemici, e sovrastante tutte queste peripezie: la carriera di un senatore afro-americano che aspira alla Presidenza Usa, e che qualcuno vuole uccidere o pesantemente ricattare qualora divenisse Presidente. In Italia la figura del senatore David Palmer è impersonata da Romano Prodi, ma la sua storia è assai somigliante.

Anch’egli è il bersaglio di operazioni che s’incrociano, si confondono, e quando vengono alla luce sempre lo descrivono come uomo da abbattere. Anch’egli è un outcast, da demonizzare in pubblica piazza o da compromettere con segrete manovre e dossieraggi (i famosi Kompromaty maneggiati da Putin). Il versante italiano dello scandalo del polonio narra la storia del candidato alla successione di Palazzo Chigi e del modo biecamente irato, violento, con cui Silvio Berlusconi ha vissuto quel che sempre gli è apparso un evento intollerabile: la propria possibile sconfitta, la propria uscita da Palazzo Chigi. Dall’evento ha cercato di proteggersi come ha potuto, con mezzi di cui ancora si sa poco ma di cui si conoscono le spregiudicatezze e le ire: quell’ira che Silvio Pellico descrive così bene, quando dice che «l’ira è più immorale, più scellerata che generalmente non si pensi». Ci sono morti fosche, nella vicenda che ha Londra e Mosca e l’Italia come epicentro. C’è sporcizia e calunnia ovunque, e anche il modo in cui veniamo a conoscenza di queste incessanti ramificazioni ricorda il serial televisivo di Robert Cochran e Joel Surnow. L’affare coinvolge più Paesi, e davanti ai nostri occhi non vediamo svilupparsi un’unica vicenda, su un unico schermo, ma ne vediamo tante in simultanea, che si svolgono in tempi e schermi giustapposti, senza legami reciproci subito limpidi. Invece un legame c’è, come nei gialli politici o nel crimine c’è un intrico, che dà senso ai frammenti. C’è il contesto, ogni ora che passa ce ne accorgiamo.

Prendiamo questa domenica 3 dicembre, e le ventiquattro ore che l’hanno preceduta. A Londra è intossicato dal polonio il gran fabbricatore del dossier contro Prodi, Mario Scaramella, legato all’ex spia russa Alexandr Litvinenko ucciso dallo stesso veleno il 23 novembre. In Italia tornano in superficie le vicissitudini della commissione Mitrokhin e l’uso deviato che ne è stato fatto ­ Scaramella aiutando ­ per rovinare personalmente Prodi. Nelle ultime ventiquattr’ore si sono infine mobilitate le piazze: non per un programma, non per un’alternativa alla Finanziaria, ma per atterrare ancora una volta lui, Prodi, il malefico raffigurato in tutti i manifesti d’Italia come colui che «se ne deve andare». Sembrano tutti episodi spezzettati, specie quando si leggono in contemporanea i giornali russi, inglesi, italiani, ma tanto spezzettati non sono. La storia dei veleni è la storia di due guerre di successione delicatissime, colme di rischi, vissute ambedue mettendo in scena quell’ira che produce scelleratezza: guerre di successione che continuano a diffondere fango anche dopo. La guerra italiana pur essendo avvenuta tormenta tuttora il centrodestra; quella russa avverrà nel 2008, quando Putin, ex colonnello Kgb, dovrà costituzionalmente cedere il passo a un successore.

In entrambi i casi sono guerre più che alternanze, con vuoti di potere che scatenano appetiti o vendette. Nel caso russo scatenano anche assassinii. Il 7 ottobre è freddata Anna Politkovskaja, il 23 novembre viene avvelenato in circostanze oscure Litvinenko, l’ex spia rifugiata dal 2000 a Londra. Il giorno dopo cade ammalato Yegor Gaidar, primo ministro riformatore ai tempi di Eltsin, anch’egli forse intossicato. Litvinenko aveva rapporti con Scaramella, che era il consulente scelto da Paolo Guzzanti, presidente della commissione Mitrokhin e senatore di Forza Italia. Nel frattempo anche Scaramella è contaminato e nulla si sa di Berezovskij, l’oligarca esiliato a Londra che a costoro era legato. È difficile penetrare i segreti russi. Perché Putin è capace di misfatti smisurati ­ lo ha dimostrato in Cecenia, nei rapporti con l’informazione, nel potere dato all’ex Kgb ­ ma ora che sta per cedere il comando potrebbe anche esser vittima dei poteri canaglia da lui stesso insediati. A che gli serve infatti l’uccisione spettacolare di Litvinenko, che accusa il Cremlino d’averlo ammazzato? Che utile trarne, alla vigilia di un difficile negoziato con l’Europa e quando l'Occidente nutre crescenti sospetti su Mosca, soprattutto dopo l’assassinio della Politkovskaja, la giornalista punita per il lavoro svolto in Cecenia? Più che mai torbido in Russia, il contesto diventa più chiaro quando si passa all’Italia, e più precisamente al modo in cui Berlusconi ha cercato di bloccare la successione demolendo la figura di Prodi ­ e di D’Alema, Pecoraro Scanio, Bassolino ­ con i dossier della commissione Mitrokhin. Una commissione che non nacque con questo scopo, quando fu istituita dopo la vittoria della destra nel 2001, ma che presto di scopo ne ebbe uno solo. Naturalmente Guzzanti aveva il diritto di indagare in ogni direzione. Ma il fatto è che indagò ossessivamente su Prodi, fidandosi dei dossier che Scaramella gli confezionava con la stessa cinica noncuranza già mostrata da Igor Marini e senza preoccuparsi dei trascorsi dello stesso Scaramella come trafficante d’armi. Le telefonate intercettate fra Guzzanti e Scaramella risalgono a gennaio e febbraio, e sono impregnate di una fretta insana: la fretta di abbattere Prodi, accusandolo di esser agente Kgb, prima del voto di aprile e per dare una mano al «capo» (così viene chiamato Berlusconi nelle telefonate). Se veramente credesse nella verità che pretende cercare, da tempo Guzzanti si sarebbe dimesso dalla commissione e da senatore, perché si possa far chiarezza sul suo operato. Chi ha partecipato alla commissione Mitrokhin, come Andreotti, dice di non aver mai sentito di Scaramella e aggiunge: «Tutta l’azione dei rappresentanti del centrodestra in quella commissione mi è sembrata viziata dall’intenzione di dimostrare comunque che il governo di Prodi, nonché quello di Dini, non fecero abbastanza per far luce sulle connessioni italiane e (...) le schede della lista Mitrokhin».

«Calunniate, calunniate, e qualche cosa resterà». Il motto è ricorrente in politica, fin dai tempi di Plutarco, e non cessa d’esser appropriato. La calunnia s’appiccica ai calunniati ma se questi stanno molto immobili e calmi s’appiccica anche e forse ancor più al calunniatore, ineluttabilmente. Soprattutto quando la calunnia diventa, appunto, parte d’un contesto alla Sciascia: il contesto che spiega la trama dei singoli eventi, l’intrico delle complicità, delle responsabilità, degli affari. Il passaggio di potere, per politici-padroni come Berlusconi e Putin, è non solo torbido ma pieno di trappole micidiali: per gli avversari ma anche per se stessi. Da questo punto di vista, i due personaggi si somigliano: spregiudicati, si comportavano come compari più che come politici alleati, si facevano servizi. Per esempio quando Berlusconi elogiò i massacri in Cecenia, nel novembre 2003, e denunciò la stampa russa che «fabbricava leggende» ed era faziosa come in Italia. O quando difese i magistrati che avevano condannato alla reclusione in un campo Khodorkovskij, ex capo della Yukos e avversario di Putin. C’era qualcosa di losco nel loro rapporto, e fa impressione come oggi Forza Italia e Guzzanti si scaglino contro Putin e difendano Politkovskaja. Perché non denunciarono i servigi resi da Berlusconi a chi esecrava i liberi giornalisti? Il contesto, infine, è quello di democrazie malate. Le profonde malattie russe sono evidenti, anche se gli affari spionistici restano più tenebrosi.

I mali italiani ancora sono da esplorare: la vera storia dell’ascesa al potere di Berlusconi e del consenso esistente attorno a lui deve ancora esser scritta, anche da parte di chi fu all’opposizione e oggi non osa togliere il controllo di reti televisive a chi è un politico aspirante a massime cariche. Se il passaggio di potere è così esplosivo, non solo in Russia ma anche da noi, vuol dire che c’è qualcosa nella democrazia italiana che funziona male. Se si svolge a colpi di dossier e usando mediocri affaristi e contrabbandieri d’armi ­ in particolare armi radioattive ­ vuol dire che il leader è capace di tutto, come un oligarca o un ex colonnello sovietico. È capace di mobilitare le piazze e i milioni, pur di apparire il vero capo carismatico che ha magici legami con le folle. È capace di far confezionare dossier per ricattare o distruggere. Lotta all’ombra di un suo contesto, e finché i più fedeli non prenderanno le distanze si sentirà al sicuro nella propria torre inviolata.

1.12.06

GUZZANTI & SCARAMELLA SPA

La telefonata fra Guzzanti e Scaramella pubblicata dalla Repubblica

E´ il 28 gennaio del 2006. Sono le 10 e 59 minuti. Paolo Guzzanti e Mario Scaramella discutono per 21 minuti e 37 secondi.

Mario Scaramella: «Il segnale che io ho avuto è questo: non c´è un´informazione Prodi uguale agente Kgb, ma parliamo di "coltivazione", contatti».
Paolo Guzzanti: «Coltivazione è abbastanza, eh?!».

Scaramella: «Per me, è moltissimo. È quello che mi viene detto. A questo punto, non pretendete una dichiarazione da chicchessia che dica "Prodi è un agente"».
Guzzanti: «Perché, "coltivato" invece si?».

Il problema del senatore e del suo collaboratore è chiaro. Non possono accusare Romano Prodi di essere un agente e dunque ripiegano su una formula meno assertiva, ma più malignamente suggestiva. Romano Prodi è stato un uomo «coltivato» dal Kgb. Il problema dei due signori è di costruire un supporto di testimonianze che regga in pubblico, perché, come dice Guzzanti, «non è una lite tra giornali, qui si finisce poi in tribunale».

Tocca a Scaramella trovare il testimone chiave. Vladimir Bukovskij (intellettuale dissidente riparato a Londra, scambiato dai sovietici nel 1976 con il comunista cileno Luis Corvalan) si è chiamato fuori con una considerazione che non fa una piega «Se attacchiamo politici occidentali, quando non abbiamo documenti, poi perdiamo credibilità, anche quando invece abbiamo i documenti». «Comunque – racconta Scaramella a Guzzanti – non arriviamo a dire che Prodi è un agente del Kgb in questi termini. Quello che è certo è che i russi consideravano Prodi amico dell´Unione Sovietica».

Guzzanti si infuria: «Scusa Mario, abbi pazienza! Per me, agente o "coltivato" va bene. "Amico dell´Unione Sovietica" non significa un cazzo! Che mi frega a me? Che ti pare una notizia, "Prodi amico dell´Unione Sovietica"? Ci aveva pure [rapporti] con l´Istituto Plecanov. Mi stai a prendere per il culo, scusa? "Coltivato" a me va benissimo, perché l´espressione "coltivato" significa quel che significa nel linguaggio di intelligence».

A questo punto, il "professore" propone come testimone chiave Oleg Gordievskij (ex colonnello del Kgb, riparato a Londra nel 1985, autore con Cristopher Andrew de "La Storia segreta del Kgb"). Ma c´è una difficoltà. Oleg non ne vuole sapere di mettere tra virgolette "Prodi agente del Kgb", perché «questo non è accaduto», dice. Scaramella però conviene che si può lavorare sul discorso di "coltivazione".

Guzzanti gli spiega gli essenziali passaggi che deve documentare per la commissione. «Mario, scusami, do alle parole l´importanza delle parole. Allora, in quella cosa lì si dice: "Award man" (la trascrizione fonetica tradisce verosimilmente un "our man", un "nostro uomo" con "award man" che significherebbe "uomo premio"). Tu pronunci la sigla e quello dice "Yes!"».
Scaramella: «Certo, certo».
Guzzanti: «Punto e basta! Non voglio sapere altro! L´unica domanda è: queste frasi sono confermate e confermabili?».
Scaramella: «Assolutamente sì».
Guzzanti: «E allora questo è l´unico punto, ma mi serve certificato e marca da bollo».

Scaramella ha ora capito in che solco si deve muovere e, volenteroso, non si risparmia. Dice: «Anche più di quello. Con questo meccanismo si può arrivare a dire: "Sì, io so che [Prodi] era in contatto con gli ufficiali del V dipartimento [del Kgb], con i… con un ufficiale del servizio A... Eh, la notizia viene specificata». Scaramella è ora entusiasta. Un fuoco d´artificio. Ha capito che cosa può far felice il «Capo».
Scaramella: «Capo, il discorso è questo: non c´è dubbio sull´autenticità, la veridicità e la confermabilità delle dichiarazioni».
Guzzanti: «Io voglio che lui…».


Scaramella: «Quello che ha detto non lo dice, questo è il punto…Quella mezza parola in più rispetto a quello che ha detto, lui alla fine dice: "Era sotto coltivazione come promettente obiettivo di…"».
Guzzanti: «Questa è una cosa di cui non me ne frega niente! Io voglio sapere se lui non smentirà mai di aver detto quello che ha detto. Punto! La "coltivazione"… il IV dipartimento…queste possono essere successive cose. Io devo poter dire: "Il signor O.G. (Oleg Gordievskij), parlando del signor R.P. (Romano Prodi) dice così. Punto!».

Scaramella: «Io non sono in grado oggi di dire se lui è in grado di ripeterlo. Lo ha detto e lo conferma».
Guzzanti: «A me mi basta che lui non smentisca di averlo detto!».
Scaramella: «Quel che ci abbiamo è acquisito, Capo, senza possibilità di manipolazioni».
Definiti i passaggi successivi del piano, Scaramella cerca di capire da Guzzanti, il suo "Capo", qual è l´opinione del "Capo" di Guzzanti su quel che stanno cucinando. A chi pensare se non a Silvio Berlusconi? Proprio al presidente del Consiglio in carica in quel gennaio 2006, sembra far riferimento il senatore di Forza Italia quando informa il consulente di come sono andate le cose.

Scaramella: «Tu hai qualche dettaglio in più dell´incontro con il Capo?».
Guzzanti: «La notizia ha avuto un forte impatto. Io quando vado da lui gli dico le cose a voce ma, contemporaneamente, gli metto sotto il naso un appunto scritto in cui ci sono le stesse cose che gli sto dicendo e nell´appunto scritto – che lui s´è letto e riletto sottolineando i punti salienti, scrivendo 1, 2, 3, come fa lui – ci sono le cose di cui abbiamo parlato come futuro…
Annuiva gravemente, come uno che non solo è…, anzi, quando io ho detto: "Sai, il problema di questa faccenda è che, se noi andiamo a un processo, poi è una (parola incomprensibile)… è una cosa in cui dobbiamo dimostrare ciò che diciamo", e lui, sorprendendomi un po´,… però ho capito che ha voglia di giocare all´attacco. Ha detto: "Beh, un momento! Intanto però, li costringiamo a difendersi". Questa l´ho trovata una reazione estremamente positiva. (…) E contemporaneamente io gli dico: "Guarda, …ti porto il risultato e quindi (frase incomprensibile)».

Scaramella ha ben chiaro che il gioco si è fatto grosso e, come sempre, vuole apparire il più determinato tra i giocatori del pacchetto di mischia. Gordievskij va bene, ma per andare sul velluto gli sembra una buona idea organizzare anche manovre subordinate e di sostegno al piano principale.

Scaramella: «Io lavoro a blindare quel po´ che abbiamo. Se serve di più io ho dei canali (…) Ce ne sono tre possibili: 1) Stati Uniti, dove c´è stato abbastanza chiaramente detto tutto quello che era gestito in un modo, poi è diventato friendly dall´altra parte. Quindi ci sono dei seri limiti, però forzabili. 2) San Marino. San Marino ha una banca puttana che è quella che fa le cose sporche: è la Cassa di Risparmio. Tu saprai certamente che Nomisma ha delle sostanziali quote in Cassa di Risparmio, cioè la Cassa di Risparmio è proprietaria di una buona fetta di Nomisma».
Guzzanti: «Sì».

Scaramella: «Io so che i collegamenti finanziari che ci sono stati in passato sono stati anche tramite San Marino. Allora c´è un canale proprio di indagine da cui possono uscire degli elementi anche di esposizione. Mo´ ho, per esempio, lunedì, con la Procura di Bologna che, indirettamente, potrebbe diventare recipiente di alcune informazioni, non dirette, ma indirette».
Guzzanti: «Quando ce l´hai l´incontro?».

Scaramella: «Con De Nicola (procuratore di Bologna ndr.) ce l´ho lunedì a Bologna alle 11. Allora potrebbe essere, non direttamente, non esplicitamente facendo i nomi, ma dando la pista: "Guardate i soldi di Mosca. Dalla Cassa di Risparmio finiscono in primarie società". E si arriva a Nomisma. È un altro di quei passaggi che poi un domani, al livello giudiziario…».
Guzzanti: «Certo».

Scaramella: «Il terzo [canale] è frontale. (…) Ho la possibilità di accesso a questi documenti a Mosca, legalmente (…) E´ una cosa diversa dalla rogatoria».
Guzzanti: «Lì mi pare che Vladimir (Bukovskij) ti ha detto "vai da questi", no? O te lo ha detto Oleg (Gordievskij)?».
Scaramella: «L´ha detto proprio Oleg. Oleg ha detto: "Vai e dai 200 dollari a qualcuno…"».
Guzzanti: «Sì, sì, sì».

Scaramella: «Non ti sfugge il livello di esposizione di chi si va a prendere, non autorizzato, le informazioni in un momento così delicato con i russi. Cioè, io lo so fare e lo faccio bene e lo faccio immediatamente».
Scaramella è preoccupato di andarsene a Mosca a contattare agenti del Kgb, a chiedere loro – in cambio di soldi – documenti riservati senza un ombrello politico o diplomatico.
Guzzanti: «E convocare un ufficio di presidenza [della Commissione]?».
Scaramella: «Quello non serve, scusami, perché io ho già la delega dell´ufficio».
Guzzanti: «E allora?».
Scaramella: «Voi mi avete già contattato…e Fini (allora ministro degli Esteri, ndr) ha scritto all´ambasciata. Si può fare questo passaggio. Va bene».
Guzzanti: «Ma i tempi? Tutto deve essere consegnato al più tardi per venerdì prossimo».

Scaramella: «Per il 10, eh? E allora mi organizzo questa settimana di andare a Mosca (…) Se puoi fare tu un passaggio, visto che noi abbiamo la lettera di Fini che dice: "Ho dato istruzioni…", si potrebbe fare lunedì un passaggio. Io vado da martedì, mercoledì. Vado a Mosca e torno con un bottino anche più grasso dell´agenzia ecologica. La missione giustifica comunque anche l´accesso a tutta una serie di canali che poi sono anche miei. (…) E quindi, superiamo Oleg. Oleg diventa la fonte che ha indicato e poi uno ha approfondito. E…se il tuo Capo, come dire, va poi…che in teoria si potrebbero urtare suscettibilità del governo russo, questo è il punto. Per me, non c´è nessun problema. È sostenibile, poi, dopo, questo passaggio?».
Guzzanti: «È chiaro che se tu stai facendo una cosa e ci… qualsiasi problema sarebbe risolto per via immediata con un colpo di telefono a (nome incomprensibile)».

Non si sa come è finita. Non si sa se Scaramella è andato a Mosca. Non si sa se nella capitale russa ha confezionato qualche altro dossier farlocco. Non si sa se da Roma – autorevolmente, si presume – una telefonata abbia lubrificato le sue iniziative.

Come toccherà alla Procura di Roma accertare se Paolo Guzzanti è consapevole della buffonesca cospirazione di Mario Scaramella o ne sia, al contrario, soltanto uno sprovveduto, anche se divertito, allocco giocato con il trucco delle tre carte dal solito furbissimo napoletano cialtrone. Perlomeno in un caso, gli ingenui intrappolati nelle grottesche trame di Mario Scaramella sono due: Paolo Guzzanti e Silvio Berlusconi. Nel variopinto mazzo di carte offerte da Scaramella, il Senatore e il Presidente "spizzano" un jolly falso.

Scaramella: «…Questa questione riguarda un personaggio che è presidente delle Coop rosse. Attualmente ha tutta una serie di lavori in corso con i Ds, per i Ds, posizioni formali di impegno politico, è stato giudicato per associazione mafiosa ed è persona direttamente coinvolta nelle indagini che riguardano il materiale nucleare a Rimini. Quindi ci sono elementi oggettivi di appartenenza alle cooperative rosse, di associazione mafiosa, dichiarata da una sentenza definitiva e di lavori che riguardano le indagini su tutta questa roba che ci stanno raccontando gli ufficiali stranieri…».
Questo diceva Mario Scaramella il 27 gennaio. Il 2 febbraio, intervistato da "Telecamere", Berlusconi gridava: «Agli atti di un processo in Campania, il presidente di una cooperativa ha denunciato che i soldi erano di provenienza della criminalità organizzata. Di questo, erano al corrente esponenti del partito. Una certa magistratura ha fatto si che si arrivasse a una prescrizione».

Sempre più d'oro i manager italiani

da Repubblica.it

MILANO - L'inflazione resta al palo. Il potere d'acquisto degli italiani è in calo costante. Ma gli stipendi dei manager di casa nostra - pubblici o privati non fa differenza - continuano a sfidare la forza di gravità. In tre anni (dal 2002 al 2005) gli amministratori delegati delle principali società quotate a Piazza Affari hanno visto crescere le loro buste paga in media dell'80%. Molto di più dell'inflazione (7% circa) e ben più dei loro colleghi americani, fermi a un misero +54%.

L'escalation è stata inarrestabile e raramente proporzionale ai risultati di bilancio o a quelli sul listino. Sono decollati i compensi in banca. Hanno allargato i cordoni della borsa persino le aziende familiari, tradizionale trincea della parsimonia retributiva nazionale. E a questa "Cuccagna" milionaria hanno partecipato in prima fila persino i vertici delle aziende pubbliche. Che tra compensi da favola (l'ad Alitalia Giancarlo Cimoli prende il doppio del numero uno Lufthansa) e buonuscite d'oro come i 7 milioni girati a Elio Catania per il suo addio alle Fs non rimpiangono di sicuro i bei tempi in cui guidavano società private. Almeno finora, visto che il governo (facendo qualcosa di sinistra, direbbe Nanni Moretti) ha imposto un tetto di 500mila euro ai manager delle realtà pubbliche non quotate.

Il boom in banca. Il mondo della finanza è l'esempio più eclatante del fenomeno. In Italia quasi tutti gli ad bancari hanno più che raddoppiato la loro busta paga in tre anni. Una bella soddisfazione che per molti si è sommata alle plusvalenze (in qualche caso di decine di milioni) incassate con le stock option. Questo Eldorado - tra l'altro - non conosce confini: un dipendente (non un manager) di una finanziaria di Wall Street guadagna in media 289mila dollari l'anno, cinque volte più della media degli altri lavoratori di New York. Le grandi banche d'affari pagheranno ai top-manager il prossimo Natale bonus per 36 miliardi, il doppio del Pil dell'Islanda.

L'anomalia pubblica. L'Oscar della generosità retributiva - fino all'intervento del governo Prodi - toccava però allo Stato. Tanto che la Procura di Roma ha aperto un dossier sul caso "Stipendiopoli". Paolo Scaroni - per rimanere in area Piazza Affari - è uscito dall'Enel con una busta paga (comprensiva di buonentrata e stock option varie) di oltre 10 milioni. Ma anche togliendo le voci straordinarie, in tre anni i suoi compensi sono cresciuti del 50%. Bene (11 milioni) è andata anche a Vittorio Mincato, ex ad dell'Eni mentre Pierfrancesco Guarguaglini (Finmeccanica) ha più che raddoppiato i suoi emolumenti dal 2002.

Un record europeo. Il boom degli anni scorsi ha regalato all'Italia anche un ruolo da protagonista nella Champion's League degli stipendi. La performance azionaria non proprio brillantissima di Telecom Italia, ad esempio, non ha impedito a Marco Tronchetti Provera di regalarsi un aumento del 76% dei compensi a quota 5,2 milioni l'anno. Più del numero uno di Vodafone Aurun Sarin e il doppio di Kai Uwe Ricke di Deutsche Telekom. L'ad di Generali Giovanni Perissinotto con un bel colpo di reni retributivo (+138% a 3,22 milioni) ha staccato di quasi un milione Michael Dickmann, suo omologo in Allianz. Un po' di terreno l'ha recuperato anche Piersilvio Berlusconi: tre anni fa guadagnava 350mila euro l'anno. Poi si è guardato attorno, ha capito l'antifona e si è adeguato: nel 2005 il suo 740 è salito a due milioni di euro.

Inarrivabili Usa. In Europa, insomma, il Belpaese si batte bene. Il Mondiale, però, resta ancora un sogno. Gli ad delle 500 maggiori aziende di Wall Street hanno incassato in media nel 2005 oltre 13,5 milioni di dollari. Certo l'economia americana negli ultimi anni ha fatto boom. Ma il boom non è stato uguale per tutti. La busta paga di un amministratore delegato Usa nel 1990 era pari a 107 volte quella dei suoi dipendenti. Oggi la forbice si è moltiplicata per quattro: per arrivare a un compenso da ad occorre sommare lo stipendio di 411 impiegati e operai.