rapimento moro, secondo per secondo
di Valerio Morucci (per Accattone)
ripreso da Dagospia
Raccontare la città di Roma. E’ la polpa e il nocciolo di un mensile che porta in alto una bella testata di puro pasolinismo: “ACCATTONE – Cronache romane”. Diretto da Lanfranco Caminiti, il n°3 scodella una interessantissima e per certi versi straordinaria cronaca, minuto per minuto, dramma per dramma, del sequestro Moro in via Fani scritta da Valerio Morucci - l'ex capo della colonna romana delle Brigate Rosse, uscito dall'organizzazione nel marzo '79 insieme ad Adriana Faranda.
Il periodico – che è diffuso soprattutto nella capitale – ha concesso gentilmente a Dagospia la possibilità di riproporre il testo di Morucci in versione integrale. (E’ lungo per i termini Web, ma ne vale la pena)
Le avevo tappato naso e bocca per non farla respirare. Per non sentirla. Ne era rimasto solo un embolo ciondolante nel sangue, nascosto in qualche recesso delle vene, ma che prima o poi sarebbe arrivato al cervello. Ora il poi è arrivato e mi sento inconsistente, di pomice. I minuti galleggiano via lenti, scivolando sull’argine della paura. Sento salire il sangue su per il collo: fluido ostile passato per un congelatore. I pensieri ghiacciati non riescono a darsi parola. Forse non sarà per oggi. Forse bisognerà rimandare a domani.
Un sasso fulmineo spacca il guscio dell’immobilità. La macchina ci arriva davanti sbucata da un ricordo inatteso. Frena di colpo allo stop. E subito dopo le due dietro. Lo schianto delle lamiere e l’incalzante movimento rimettono in circolazione il sangue. Una molla mi spinge avanti. Scendo dal marciapiede e sprofondo in un acquario, vischioso come una palude. I movimenti diventano fratti, convulsi per l’incapacità dell’occhio a seguirli. Spezzoni di immagini mi scorrono davanti mentre i rumori vengono assorbiti nell’acquosità che ha riempito le orecchie.
Gli altri sono accanto a me ma non li vedo. So che stanno sparando. So che sto sparando anch’io. Ma non sento i colpi. L’auto davanti a me continua a muoversi. Cerca uno spazio tra le lamiere. Poi succede qualcosa. Non sento più il mitra vibrarmi nelle mani. Pesante, inceppato. Le gambe mi spostano come un sonnambulo arrancando nella palude fino all’incrocio. Con gesti infangati manovro l’arma. Torno indietro.
L’auto sta ancora sbattendo contro le lamiere, avanti e indietro come un animale preso alla tagliola. Si è guadagnata un paio di metri e ora cerca di lato un varco per la salvezza. Ma lì una macchina parcheggiata le blocca la fuga. Vedo l’uomo accanto all’autista girarsi su se stesso verso il sedile posteriore. Protendersi per proteggere l’Uomo. Il dito si contrae sul grilletto. Sparo ancora, e ancora non sento i colpi. Poi, ancora, gli attimi s’impantanano nell’opacità. Ma l’acqua viene di nuovo agitata da movimenti convulsi confondendo le immagini. Vedo l’Uomo tirato fuori dall’auto e caricato su un’altra che sfreccia via. Mi avvicino all’auto e apro lo sportello che, come una lamiera sbarra fuoco, mi precipita in faccia il colore della morte, il suo odore. Palombaro in embolia risalgo la strada su un fondo pieno di detriti. Cappelli da pilota, borse, caricatori, bossoli folti come pinoli. Poi un uomo, steso in terra a braccia aperte. Le falde dell’impermeabile larghe sull’asfalto. Come ha fatto a finire lì? Sembra un grande uccello caduto dal cielo. Tutto è fermo, inerte. E avverto il vuoto che riempie il silenzio dopo lo sconquasso. Mi aggiro stordito sulla strada, senza orientamento. Poi una voce rompe il silenzio e l’apnea. “Vuoi rimanere lì?” Bardo richiude lo sportello e l’auto fila via. Riprendo a respirare, in circolo sangue caldo. Sangue che spinge le gambe e rimette in moto i pensieri. E la paura, che nell’apnea era rimasta rintanata e ora risale maligna fino agli occhi e me li fa alzare verso la salita. L’auto di copertura sparita. E nulla a proteggere lo sguardo che si perde nel fondo della prospettiva. Il tempo è scaduto. Un minuto, forse due. Dilatati e appiccicosi come due ore d’afa.
Le borse. Devo prendere le borse dell’Uomo. Torno indietro, apro lo sportello posteriore. Dall’altro lato, accanto a dove erano le sue gambe, ci sono due gonfie borse di pelle. Mi protendo dentro reggendo il cappello. Afferro i manici e tiro con un attimo di esitazione, come fossero le sicure di bombe a mano. Ora via. Verso la macchina. Senza pensare, senza guardare. Sperando che la parte segreta del cervello metta i passi in fila nella giusta direzione. Valmo e Floriana aspettano con la bocca schiusa e lo sguardo proteso, come seguissero la mia corsa su un campo minato. Dovevamo essere i primi e siamo gli ultimi. Butto dentro le borse e mi siedo al volante. Non parlano, non dicono niente. Dobbiamo raggiungere le altre macchine per non restare tagliati fuori. Valmo è proteso in avanti, una mano appoggiata al cruscotto e la coda dell’occhio rivolta preoccupata verso di me, come temesse che io sia la guida sbagliata per portarci fuori da una palude infestata di coccodrilli. Dietro sento il respiro trattenuto e sgomento di Floriana. Il respiro di chi da troppo sta sul portello al suo primo lancio col paracadute.
Sono in cinque, quelli della scorta. Due sulla 130 e tre sull’Alfetta. L’autista traffica un paio di minuti nel vano motore, poi abbassa il cofano della 130 e si strofina le mani a dita tese mentre lo stridio d’uccelli gli fa alzare lo sguardo. Sta con la testa rivolta al cielo e le mani giunte immobili, come sorprese dalla visione. Un giovane dal lungo impermeabile scende dall’Alfetta e s’avvicina con passo falcato, facendo ondeggiare le falde. Quando gli è a pochi metri l’autista indica le rondini che volteggiano sopra gli alti pini al centro della piazza. “Guarda le rondini” o “E’ arrivata la primavera.” Non so cosa gli dice. Sono troppo lontano. E poi non sono io a notare questa scena. Troppo preso a seguire i movimenti della scorta dell’Uomo. Ma anche il giovane, un’occhiata distratta e una sigaretta accesa, non sembra molto interessato al volteggiare degli uccelli. Solo una donna poteva notarla. E farsene un cruccio segreto per poi raccontarmelo una vita dopo. Quando la fine dell’inverno del nostro scontento aveva disgelato le emozioni represse.
Uno dall’Alfetta e il capo scorta sulla 130, la sua ombra guardinga, entrano nella chiesa con l’Uomo. L’autista della 130 ha sempre qualcosa da armeggiare attorno all’auto, mentre l’altro rimane seduto a leggere il giornale. Uno degli altri è sul marciapiede davanti alla chiesa. Fa avanti e indietro dal giornalaio fino all’angolo opposto. Si muove circospetto, controllando ora la scalinata ora la piazza. Arrivato agli angoli butta un’occhiata alla strada e fa dietro front. Non ci vede. Siamo lontani. Confusi nella gran via vai mattutino della piazza.
Per un mese non si era visto nessuno. Stavamo per buttare alle ortiche il ritaglio di giornale che quelli del Nord si erano portati appresso anni prima come una reliquia. Erano venuti solo per quello. Non si sarebbero azzardati a scendere così a Sud se non per l'Uomo. Quel pezzo di carta gualcita era rimasto tre anni in fondo a un cassetto. Poi era arrivato finalmente il momento di tirarlo fuori. E già sembrava che la troppo lunga attesa lo avesse consumato come un pensiero smarrito.
Ma eravamo tornati. Come chi decide di aspettare oltre il limite dell’attesa.
E dopo altri due giorni l’Uomo era arrivato all’appuntamento. E poi il giorno successivo. E poi l’altro ancora. Ogni giorno. Improvvisamente quel pezzo di giornale che rischiava di polverizzarsi come un vecchio papiro mangiato dal tempo, aveva ripreso vita davanti ai nostri occhi increduli. Era tutto vero. Non era solo inchiostro buttato lì per riempire un buco nella pagina.
Le due macchine sfrecciavano veloci per le lunghe curve che scendevano a valle e arrivavano lì, davanti a quella brutta chiesa pittata di rosa, alle nove. E, ancora agitatamente, come in veloci frammenti di un vecchio film muto, l’Uomo scendeva dall’auto e saliva i gradini con passi rapidi, lui così parco di movimenti, assecondando benevolo l’urgenza dei due guardiani. Poi, per mezz’ora, il tempo rintuzzava davanti alla chiesa rallentando, come rispettoso di una tregua. L’autista si affaccendava solitario attorno all’ammiraglia, il capo scorta incalzava sul marciapiede i suoi passi accorti di guardiano, l’altro autista sfogliava il giornale con pigrizia domenicale.
Poi, finita la Messa, la frenesia del primo mattino, come maroso troppo a lungo respinto, riconquistava anche quell’angolo di piazza. L’Uomo, imponente e curvo nel lungo cappotto scuro, l’espressione assorta a increspare una ruga di remoto smarrimento, ridiscendeva sbrigativo le scale, affiancato dai due uomini che faticavano a trovare i gradini tenendo alto lo sguardo vigile. Gli sportelli si chiudevano di scatto e le due auto ripartivano sollecite.
Alla chiesa la scorta di cinque uomini si divideva. Due soli lo accompagnavano all’interno. Era il punto migliore per agire. Contando sulla sorpresa era possibile bloccarli e prelevare l’Uomo. Ma come uscire?
Il mattino successivo, appena le due auto si sono allontanate, entro nella chiesa. Un emiciclo luminoso con i marmi accesi dai raggi del sole. Percorro la curva parete e vedo davanti a me una porta a vetri, oltre questa un lungo corridoio. Al fondo mi ritrovo nell’androne di una scuola. L’ingresso dà sulla via laterale, a una cinquantina di metri dall’angolo della piazza. Da lì potevamo portare via l’Uomo senza esser visti.
Inaspettatamente ci ritrovavamo sistemato il primo tassello del complesso mosaico. Ora veniva tutto il resto.
Dal giorno dopo mi aggiro per le strade annusando il terreno per trovare la via di sganciamento. Devo scoprire lì intorno, a non troppa distanza dalla piazza, una variante per spezzare la via logica della ritirata. Quella cui avrebbero pensato subito gli uomini di “Doppia Vela”. I vecchi marescialli che dalla Sala Operativa erano in grado di guidare via radio le volanti indicando ogni tombino della città. Un passaggio, una stradina secondaria, un cortile che poteva portarci altrove da dove loro avrebbero pensato che fossimo.
La strada che arriva al lungofiume passa sotto il cavalcavia della Circonvallazione. E proprio lì, intubata tra un muretto e il pilone del cavalcavia, come un progetto abbandonato, c’è una stradina di terra battuta che porta di sopra. Tanto corta, stretta e sassosa che gli uomini di “Doppia Vela” non potevano averla memorizzata. Tanto stretta che occorre misurarne la larghezza per trovare le auto in grado di passarci. Ma ci passano. Di poco ma ci passano, sia le piccole che una più grande a quattro sportelli. Il secondo tassello.
Per la mattina successiva dobbiamo arrischiare un sopralluogo interno alla chiesa. Entro con Floriana e ci mettiamo davanti, mezzi nascosti da una colonna e vicini a un paio delle vecchiette sparpagliate per i banchi. Per non farci notare siamo già lì quando l’Uomo arriva. Lui si mette nel primo banco dall’ingresso. I due guardiani in piedi dietro di lui. E’ Floriana a sbirciare ogni tanto, volgendosi dalla mia parte e stirando la coda dell’occhio. La messa è iniziata. Io blocco la testa fissa davanti a me, e tocca a Floriana sospingermi il braccio ogni volta che dobbiamo alzarci. Poi vedo l’Uomo superare la nostra linea di panche e mettersi in fila per la comunione, sovrastando a testa china le vecchiette zampettate fuori dai banchi. I due guardiani non si sono mossi, seguendolo solo con lo sguardo.
Dopo il sopralluogo vado con Serrano a controllare palmo a palmo la stradina del cavalcavia. La rimisuriamo ogni metro. Bastano pochi centimetri di restringimento e avremmo rischiato di rimanere imbottigliati. Ma i muratori hanno lavorato al meglio. Le due pareti corrono parallele fino in cima. Il problema viene dopo. La stradina finisce in un giardino e da lì, per riguadagnare la strada, bisogna scendere da un marciapiede. Una manovra che può dare nell’occhio, soprattutto per le auto che arrivano in corsa sfiorando il marciapiede. Troppo pericoloso. Può andar bene solo se non si trova un’alternativa.
Riprendo ad annusare il terreno. Uscendo dalla scuola quella era l’unica strada possibile. Di infilarsi nel traffico verso il lungofiume neanche a parlarne. Sto lì a farmi scorrere nella testa la mappa della zona, quando un’auto mi passa davanti, oltrepassa la traversa, e si dirige verso il fondo cieco della strada. La seguo con gli occhi, soprappensiero. L’auto si ferma davanti a una lastra di ferro. La mano che esce dal finestrino infila una chiave in un basso piantone di metallo. Subito dopo, la lastra comincia ad aprirsi e l’auto s’infila dentro. Attraverso e sbircio nel varco prima che si richiuda. Una strada in salita, larga costeggiata da ville. In alto vedo i pini della collina. Forse ci siamo. Forse il caso ha portato la soluzione su quella lastra grigia di metallo. Prendo la macchina e salgo per la collina. A un chilometro dalla piazza vedo sulla sinistra un cancello automatico identico a quello dabbasso. Ora non resta che trovare il modo di aprirlo. Torno giù e mi studio la serratura. E’ piccola. Più piccola delle normali d’appartamento. Sicuramente con pochi pistoncini, consumati dal continuo uso.
Una chiave piccola. Forse da lucchetto. Tengo in una cassetta un’infinità di chiavi. Auto rubate, appartamenti abbandonati, motociclette. Ma nessuna abbastanza piccola. Mi fermo da un ferramenta, mi guardo intorno. Ecco. Prendo un lucchetto da telefono. Di quelli usati dai genitori parsimoniosi per limitare le telefonate dei figli adolescenti, o di qualche parente incomodo. A casa limo i denti della piccola chiave e li arrotondo fino a ridurla quasi un moncone.
La mattina aspetto che cali il via vai degli abitanti del residence. Sbircio da una fessura per vedere che da dentro non arrivi nessuna macchina. Poi vado alla serratura. Infilo la chiave con cautela. La giro a destra e la serratura cede docilmente. Clack. Sento il cancello aprirsi alle mie spalle e mi assale un inatteso spavento. Come di bambino che abbia messo in moto un meccanismo sconosciuto e proibito.
E’ fatta. Passando da lì potevamo arrivare in un batter d’occhio dalla parte opposta a quella da cui saremmo fuggiti. E poi, anche se la sfortuna ci avesse messo dietro le volanti della polizia, sarebbe bastata una manciata di secondi di vantaggio per lasciarle fuori dal cancello chiuso. Ora non resta che scoprire tutte le strade alternative per arrivare all’ultima destinazione, evitando il traffico e i blocchi. Ma da lassù sarebbe stato molto più facile che non partendo dalle strade intasate verso il lungofiume.
Mentre torno in centro il cervello già corre avanti per la preparazione del piano. L’azione ‘perfetta’. Un complesso meccanismo a incastro. Incruenta, invisibile, silenziosa.
La strada della scuola è poco trafficata e le macchine possono essere lasciate lì dal giorno prima. I ladri d’auto diventavano i nostri peggiori nemici. Se ne fosse mancata qualcuna avremmo dovuto sostituirla prima dell’arrivo dell’Uomo e della scorta. Questo ci avrebbe obbligato a portare in zona altre macchine di riserva. Complicato ma si poteva fare. Quanti uomini nella chiesa? Quattro per immobilizzare i guardiani e altri due per portare via l’Uomo. Sei. Un po’ troppi anche mettendoci di mezzo Floriana per non dare troppo nell’occhio. Uno dei quattro poteva sganciarsi una volta immobilizzati i guardiani e andare sull’Uomo. Cinque. Già meglio. Ma come avvicinarsi senza scatenare un putiferio dentro la chiesa? I due della scorta si mettono dietro le ultime panche. Difficile prenderli alle spalle stando già dentro. Un paio dei nostri devono per forza entrare dalla porta principale, cioè passare sotto il naso della scorta all’esterno. Non facile, ma possibile. Dentro la chiesa ci sono colonne tra le panche. Gli altri possono sedersi dietro quelle per non essere notati dai guardiani. I due che entrano dalla porta vanno al primo impatto, subito raggiunti da altri due. Poi, immobilizzati i guardiani, uno deve tornare accanto alla porta e fare il butta dentro. Evitare che qualcuno entrato nel momento sbagliato possa riuscirsene strillando come un ossesso. Per fortuna l’entrata, come in tutte le chiese, ha una doppia porta. Fuori, alle macchine di fuga, un paio d’uomini di copertura. Tanto per essere sicuri. Totale otto. Si può fare. Qualche ritocco, ma si può fare.
* * *
“E se i due nella chiesa reagiscono? Scoppierebbe un putiferio che può arrivare fino a fuori.”
E’ Serrano a sollevare l’obiezione.
“I nostri che gli arrivano da dietro gli danno un colpo in testa.”
Dago, convinto come sempre.
“E credi che vadano giù come al cinema? Non hai idea di quanto sia difficile ridurre alla ragione uno che non ne vuole sapere. Quella volta dell’armatore ho dovuto prenderlo a cazzotti per infilarlo nella macchina. Ed era secco e allampanato. La paura fa brutti scherzi. Raddoppia le forze, non fa sentire i colpi.”
Lo dice con il suo tono piano e autorevole, socchiudendo, come al solito, le ciglia ogni due parole, come rispondesse alle fantasticherie di un ragazzino. Il suo soprannome è ‘il vecchio’.
“Ma noi gli arriviamo davanti con mitra e pistole silenziate. Più di tanto non possono fare.”
Lo dico in tono interlocutorio come chiedendogli di accettare l’evidenza. Il piano è mio, è lui da convincere. Anche se forse sto tentando di convincere anche me.
Tiene a lungo socchiuse le ciglia, come valutando con condiscendenza le mie parole. Poi le riapre e inarca stavolta le sopracciglia. Non è pienamente convinto ma possiamo provare ad andare avanti. Non per molto.
“E se il capo scorta che fa la ronda arriva all’angolo proprio mentre usciamo?”
Altra obiezione. Non lo fa solo perché non è mai contento di quello che dicono gli altri, ma anche perché è un’azione in cui non si può tralasciare la minima eventualità.
“E che può fare da laggiù? Saranno almeno cinquanta metri.”
“Può sempre provare a spararci addosso.”
“Abbiamo lì due uomini di copertura. Mentre si finisce il trasbordo dell’Uomo puntano all’angolo. Se spara, spariamo anche noi.”
L’ho detto. E subito dopo le ultime parole accorgersi del buco e vederlo lì appeso per aria, sotto gli occhi di tutti. Una possibilità incerta. Una a cento. Ma se la ruota del caso fosse girata da quella parte, i colpi potevano finire nella piazza, in mezzo alla gente. Magari una vecchietta uscita dalla chiesa, o una donna in macchina che accompagnava i figli a scuola. Troppo rischioso. Anche uno a cento. Tutto da rifare. Eppure poteva essere perfetta. Ora non restava che saltare. E come per le cose su cui può essere pericoloso fermarsi a riflettere, il salto è non detto, scontato. Ora che quella linea è rotta, sfilati i guanti gialli dell’azione perfetta, ci saremmo sporcate le mani del sangue estremo.
Il corpo mi ha portato fino a qui ma ora sembra restio a muoversi in assenza di comandi espliciti. Vorrei un suo ultimo sforzo, affidandomi alle cellule che hanno memorizzato la sequenza dei movimenti. Nel mio cervello rimbalzano spezzoni di immagini disordinate, sensazioni aggrovigliate impossibili da dipanare. Non è finita, non ancora.
I piedi si muovono fuori sincronia sui pedali. Sgrano le marce. La macchina avanza a sussulti. Ecco le altre auto. Mi fanno passare e le precedo sullo svincolo. Ancora trecento metri allo scoperto poi la brusca variazione della via di fuga. Quella stradina privata che avevo trovato sul contrafforte in cima alla collina. Con l’accesso a stretto tornante, mezza nascosta da folti cespugli e con una sbarra nel mezzo chiusa da una catena. Da “Doppia Vela” non avrebbero mai pensato che saremmo passati lì. Ecco la curva. L’ho già presa decine di volte ma ora mi allargo troppo, finisco davanti al muro e le altre due macchine ripassano avanti. Devo fare manovra. Ancora una volta dietro. Così l’auto con l’Uomo arriva per prima al cancello. Previdenti, avevamo messo una tronchese in ogni auto.
Ora le macchine si separano come i rami di un fuoco d’artificio. Vado a sinistra. Cento metri e scendo per prendere il furgone. Valmo porta via la macchina e Floriana. Quella di Bardo prosegue senza fermarsi. L’auto con l’Uomo va sulla piazza in attesa del furgone. I due del Nord hanno il treno entro un’ora. E tutti gli altri a casa, attaccati alla radio. Tolgo le mostrine da pilota dall’impermeabile e la scritta adesiva dalla borsa. Metto in moto il furgone. Supero due angoli, arrivo alla piazza e mi accosto all’auto, al riparo nel parcheggio del grande slargo deserto. Scendo dal furgone. Serrano apre lo sportello e fa scendere l’Uomo, impalandranato in un plaid e con quegli occhiali neri da saldatore sulla faccia. Lo sostiene come un cieco e gli tiene bassa la testa per salire nel furgone, poi lo fa rannicchiare lungo com’è dentro la cassa. L’auto da cui è sceso l’Uomo scompare subito, portandosi via l’ultima traccia, e il suo posto viene preso da un’utilitaria guidata da Dago. Quella con cui faremo strada al furgone con Serrano.
Salgo accanto a Dago, metto la borsa col mitra tra le gambe e guardo la strada. Per un attimo è tutto fermo. L’apnea sembra diradarsi. Tutte le immagini confuse che avevano continuato a rincorrersi nel fondo della mente si bloccano. Soppiantate da quella dell’Uomo con gli occhiali da saldatore. L’ultima.
Indico a Dago la prima delle tante svolte sul percorso studiato per arrivare a destinazione. Tutte strade secondarie e fuori mano che dovrebbero permetterci di evitare posti di blocco e traffico, impegnando un solo semaforo nel lungo tragitto da Nord a Ovest della città. La riuscita dell’ultima parte del piano è basata solo su questo. Ora siamo solo in tre. Non potremmo reggere a un impatto con la polizia.
Tagliamo per una strada condominiale e arriviamo sopra la valle delle vecchie fornaci. Un’altra strada privata ci porterà giù. Risaliamo tagliando la Circonvallazione, poi la lunga e stretta gimcana che lambisce i bordi della città. Arriviamo al semaforo. L’unico punto del percorso in cui è possibile trovare un posto di blocco. Siamo in fila. Vedo nello specchietto laterale il furgone dietro di noi. Le dita di Dago sono aggrappate al volante come quelle di un trapezista prima del lancio. La mano mi va da sola dentro la borsa a stringere l’impugnatura del mitra. Verde. Due macchine ci coprono girando a destra prima di noi. Nulla. Il grande slargo davanti al benzinaio vuoto. Ci infiliamo nella via dei vecchi casali che arriva all’antica strada del porto fluviale. Ecco ora la stradina sconnessa che scende al vialone sottostante. La percorriamo sussultando. La fine è vicina e il piede di Dago affonda involontario l’acceleratore. Già vediamo il grande supermercato che sovrasta il posteggio coperto. Entriamo nell’ombra del parcheggio diffidenti. Tutto finora è andato troppo liscio. Bardo è già lì con una familiare. Il furgone accosta. Tutto normale. Possiamo andare. E’ solo il trasbordo di una cassa di legno da un furgone a una macchina. Ci penseranno solo Bardo e Serrano. Meglio non dare nell’occhio. Dago adesso avanza lentamente, lo sguardo allo specchietto. Le mani ancora avvinghiate al volante. Usciamo dall’ombra e la luce del sole ci sorprende come un nuovo giorno. Fuori pericolo. E’ fatta. Ha funzionato. Sento allentarsi tutti i muscoli e un conforto drogato sciogliere la pressione nelle vene. Ora possiamo guardarci.
Il conforto durerà poco. Il peggio deve ancora arrivare. Dopo il feroce avvio, la ruota del dolore avanzerà per tutti fino al fondo del rimpianto.