26.3.02

LA NEWSLETTER DI MISTERI D’ITALIA



Anno III - N.° 38 (speciale delitto Biagi) 26 MARZO 2002<7H3>



DIECI DOMANDE
SULL’OMICIDIO DI MARCO BIAGI
E SULLE NUOVE BRIGATE ROSSE




Dopo tre anni di assoluto silenzio, in un passaggio politico molto delicato per la vita del Paese, fa di nuovo la sua apparizione la sigla storicamente più nota del terrorismo italiano: quella delle Brigate Rosse nella sua variante nominalmente sopravvissuta, quella
Per la Costruzione del Partito Comunista Combattente (BR-PCC).



Come per l’omicidio di Sergio D’Antona (20 maggio 1999), anche per il delitto di Marco Biagi (19 marzo 2002) il tema dominante dell’attacco terroristico è il tema del lavoro.


Diversa però la fase politica:
la guerra per il Kosovo,
voluta da un governo di centro-sinistra nel 1999;
lo scontro politico-sindacale
sotto l’egida di un governo di centro-destra, adesso.



A fronte di questa situazione Misteri d’Italia pone e si pone
10 domande.


Sono domande a cui ciascuno deve cercare di rispondere.
E solo le risposte possono permetterci di capire
che cosa – al di là della facciata che appare - stia realmente accadendo.







10 domande sul delitto Biagi e sulle nuove Brigate Rosse



-
Perché indagini così confuse e frettolose?
-
Esiste una lotta tra le Procure di Roma e Bologna?

- Quali perizie balistiche? di Marco Rossoni

- Perché l’inchiesta di Bologna è partita con il piede sbagliato?

- Perché la Questura di Bologna è in stato di abbandono?

- Perché a Marco Biagi era stata tolta la scorta?

- Perché la rivendicazione via Internet? di Marco Trotta

- Perché per tre anni le BR-PCC hanno taciuto?

- Perché le BR copiano documenti altrui?

- Cosa vogliono le BR-PCC? di Marco Borraccino






PERCHE’ INDAGINI COSI’ CONFUSE E FRETTOLOSE?

Ancora sabato 23 marzo, a quattro giorni dall’omicidio Biagi, il procuratore reggente di Bologna, Luigi Persico, insisteva: “La pistola che ha ucciso l'economista Marco Biagi è la stessa che assassinò Massimo D'Antona e tutte le osservazioni in contrario avviso sono chiacchiere o illazioni”.

Una pervicacia, forse, degna di miglior causa. Non esiste, infatti, alcun perito balistico al mondo che, nel giro di pochi giorni (nella fattispecie, addirittura, nel giro di poche ore), possa affermare un’identità d’arma, esaminando due diversi proiettili.

Eppure il massimo inquirente di Bologna insiste, confermando, addirittura, ciò che aveva già affermato mercoledì 20 marzo, a neppure 24 ore dal delitto: i supermen del RIS, i carabinieri della sezione scientifica di Parma, in una manciata di ore, avevano fatto esami balistici che richiedono molto tempo e gli avevano assicurato che ad assassinare D’Antona e Biagi era stata la stessa pistola.

Nella sua prima dichiarazione alla stampa, Persico aveva usato espressioni categoriche: “fuori da ogni dubbio”, “in modo inoppugnabile”.

Il dato curioso è che la massima autorità in fatto di analisi scientifiche dei carabinieri, il gen. Serafino Liberati, comandante dello speciale reparto, interpellato dall’ANSA nel tardo pomeriggio dello stesso giorno (la notizia è delle 19.06), mostra di non saperne nulla. Al cronista dell’agenzia di stampa dice: “Grazie alle analisi balistiche al microscopio elettronico, da un punto di vista teorico, è possibile stabilire con precisione assoluta se si tratta della stessa pistola”. Ma poi aggiunge che per poter procedere all’accertamento occorrono “5-10 giorni”.


La rivelazione di Persico, lo stesso mercoledì 20 marzo, era stata fatta propria dal ministro dell’Interno Claudio Scajola, il quale – in questa strenua corsa mediatica - era stato preceduto dal procuratore di Roma Salvatore Vecchione, e quindi l’identità dell’arma – e, si presuppone del commando e di conseguenza della matrice brigatista dell’attentato – era stata consegnata all’opinione pubblica come una verità rivelata. Incontestabile.


Per una migliore comprensione della vicenda che - oltre a dare il segnale di un’inchiesta frettolosa, partita con il piede sbagliato – contiene elementi a dir poco sconcertanti ed allarmanti, ecco una dettagliata ricostruzione di quanto è avvenuto, minuto per minuto, mercoledì 20 marzo, il giorno dopo l’omicidio Biagi:


Bologna, ore 11.00: i carabinieri del RIS sono sul luogo del delitto per i rilievi tecnici. Hanno recuperato due proiettili andati a vuoto. Uno è stato recuperato vicino al portone di casa Biagi, l’altro si è infranto contro il muro del portico.


Bologna, ore 15.40: a 12 metri dall’uscio dello stabile in cui abitava Marco Biagi, un cronista del quotidiano La Repubblica trova un terzo proiettile, sfuggito ai carabinieri del RIS.


Parma, ore 17.30: nei laboratori del RIS Parma, i tecnici dei carabinieri cominciano l’analisi dei proiettili sparati nel corso dell’omicidio Biagi. Il confronto non avviene con i proiettili che, tre anni prima, sono stati recuperati dal corpo di D’Antona o che, dopo averlo attraversato, sono stati recuperati per strada, ma – attenzione! – con le fotografie di quegli stessi proiettili. Qualsiasi commento sulla serietà e l’accuratezza di questo confronto lo lasciamo a chi legge.


Bologna, ore 17.38: i carabinieri sequestrano il proiettile trovato dal giornalista.


Bologna, ore 18.00: inizia l’autopsia sul cadavere di Marco Biagi.


Roma, ore 18.54: in un breve comunicato, il procuratore di Roma Salvatore Vecchione afferma che l’arma usata a Bologna presenta “rapporto di identità” con quella che assassinò D’Antona.


Roma, ore 19.00 circa: interpellato dall’ANSA, il gen. Serafino Liberati, responsabile del reparto scientifico dei carabinieri, sostiene che per stabilire un rapporto di identità tra due armi occorrono “5-10 giorni”.


Bologna, ore 20.05: il ministro dell’Interno Scajola annuncia: “L’arma dei due omicidi è la stessa”.


Bologna, ore 20.30: per il procuratore reggente di Bologna, Luigi Persico, “è inoppugnabile” che l’arma che ha ucciso Biagi sia la stessa che ha ucciso D’Antona.


Bologna, ore 12.00 di giovedì 21 marzo, il giorno dopo: l’anatomopatologo Corrado Cipolla D’Abruzzo, conclusa l’autopsia sul corpo di Biagi, consegna ai carabinieri i quattro proiettili estratti dal cadavere.




ESISTE UNA LOTTA
TRA LE PROCURE DI ROMA E BOLOGNA?


Nel convulso rincorrersi di dichiarazioni alla stampa sull’identità dell’arma che ha ucciso a Bologna con quella che ha ucciso a Roma, tre anni prima, il più rapido si è dimostrato il procuratore della capitale, Salvatore Vecchione.

Molti osservatori si sono interrogati su questa stranezza. E qualcuno ha anche avanzato l’ipotesi – tutta da verificare, ovviamente, e per ora solo allo stadio teorico – che, stabilendo la continuità del reato, la procura di Roma abbia in animo di chiedere la riunificazione delle due inchieste sotto la sua esclusiva competenza.

In altre parole il ragionamento potrebbe essere il seguente: se ad uccidere Marco Biagi è stata la stessa arma che ha ucciso Massimo D’Antona è ipotizzabile che anche l’assassino e i componenti del commando siano gli stessi. Indi per cui le due indagini andrebbero unificate e diverrebbero di competenza della procura sotto la cui giurisdizione è avvenuto il primo delitto, cioè, appunto, la Procura di Roma.

Questa mera ipotesi è stata confermata all’agenzia di stampa Il Velino da uno dei massimi esperti italiani, il prof. Antonio Ugolini, che ha seguito le più importanti indagini sugli attentati delle BR negli anni di piombo.

“Ho l’impressione che dietro ci sia il tentativo da parte di Roma di sottrarre le indagini al RIS di Parma e portare il caso e il processo nella capitale – ha detto Ugolini - Allo stato non è possibile parlare di identità assoluta dell’arma, ma solo di identità del calibro della pistola, perché non si è ancora in grado di dimostrare, per via dell’assenza dei bossoli nell’attentato D’Antona, che le caratteristiche peculiari di proiettili e bossoli siano identiche”.


E’ quanto spiega, con estrema chiarezza, l’articolo che segue, a firma dell’esperto balistico Marco Rossoni,





QUALI PERIZIE BALISTICHE?



di Marco Rossoni*


Premetto che per reperti di balistica si intende quanto resta dopo lo sparo di cartucce e cioè di proiettili, pallini e pallettoni, borre e bossoli.

Costituiscono reperti balistici anche i microscopici residui delle particelle di polvere da sparo deflagrata.

In relazione a bossoli e proiettili è importantissimo impiegare l'esatta terminologia in sede di repertamento, in quanto la stessa presenterà anche nel nostro caso aspetti assai fondamentali.

Con il termine "cartucce" si indicano oggi le munizioni per le moderne armi
da fuoco portatili.

La cartuccia o munizione è così composta: bossolo, innesco, polvere, proiettile. Senza entrare troppo nel particolare ci basterà sapere che il bossolo assolve le seguenti funzioni: collegare tra di loro i vari componenti, assicurare la conservazione della polvere e dell'innesco, assicurare, al momento dello sparo, la perfetta tenuta dei gas sprigionati dall'accensione della polvere.

Viene chiamato proiettile, palla o pallottola, il proietto lanciato da un'arma da fuoco.

Dopo questa doverosa introduzione necessaria a chi non conosce la balistica, preciso che quanto descriverò è basato soltanto dalle informazioni riportate da giornali e telegiornali, non avendo, ovviamente, partecipato personalmente alle indagini.


1) Nel corso delle indagini sull'omicidio D'Antona non vennero trovati bossoli, ma soltanto proiettili sparati, probabilmente quelli che trapassarono da parte a parte il corpo dell'economista. Proiettili di cal.38: quindi l'arma utilizzata per l'omicidio D'Antona era un Revolver cal.38 o 357 magnum che può camerare entrambi i munizionamenti.
Un Revolver è un'arma denominata "a rotazione" dove le cartucce alloggiano in un cilindro rotante, collocato dietro la canna. L'ipotesi che per uccidere D'Antona sia stata usata una pistola cal.9 munita di sacchetto di plastica per raccogliere i bossoli è pura fantascienza. Un sacchetto applicato tra carrello armamento, gruppo otturatore/espulsore e fusto pistola rischierebbe di inceppare l'arma in maniera irrimediabile. I bossoli appena espulsi dall'arma sono talmente caldi da fondere la plastica intorno. L'aspetto importante è che il Revolver non espelle i bossoli sparati.


2) Il calibro utilizzato per l'omicidio Biagi è un cal. 9mm e di questo ne sono assolutamente convinto, avendo riconosciuto i bossoli dalle immagini televisive. Questo è un calibro che permette tre diversi tipi di configurazioni: 9x17 millimetri (ex militare), 9x19 millimetri o 9 parabellum (in dotazione ai Corpi di Polizia Giudiziaria), 9x21millimetri (di uso civile). Il primo numero riguarda il diametro in millimetri della pallottola, mentre il secondo l'altezza, sempre in millimetri del bossolo a vuoto, ossia della cartuccia senza il proiettile. I soli 4 millimetri di differenza tra una munizione e l'altra non sono rilevabili dalla tv, per cui non posso né confermare, né smentire ciò che è stato detto: secondo gli investigatori, 9x17mm. Abbandonato dai militari perché obsoleto, oggi questo calibro lo si ritrova solo nei poligoni per scopi propedeutici, pochissimi si armano per difesa personale con tale calibro e – balisticamente parlando - non è l'ideale per gli scopi omicidi delle Brigate Rosse. I bossoli ritrovati testimoniano che l'arma è semiautomatica, cioè una Pistola. L'aspetto importante è: l'automatismo di una Pistola espelle i bossoli. Accertato che l'arma usata non è la stessa, il dovere di esperto mi suggerisce di fare un distinguo su entrambi i calibri in questione. Per determinare un calibro esistono due sistemi di misura: il sistema anglosassone o inglese che si esprime in centesimi e millesimi di pollice e il sistema europeo o tedesco che si esprime in millimetri. Dire calibro 9mm è come dire calibro 38 o 357mag., perché il sistema di misura è si diverso, ma il diametro è esattamente lo stesso. Un proiettile cal.9mm misura lo stesso diametro di un proiettile cal.38 o cal.357mag. Di conseguenza, pur se entrambi i delitti sono stati commessi con proiettili di stesso calibro, il munizionamento è diverso, l'arma è diversa.

Sarei davvero felice se scoprissi che esiste un equivoco, ma ormai il dado è tratto e i danni, fin tanto che nessuna fonte d'informazione lo affermerà, sono irreparabili.

Dico felice perché se così non fosse, il problema è più complesso: ci troveremmo di fronte ad un problema politico di deviazione e di disinformazione.


3) La durata degli esami comparativi tra due proiettili non ha termine in un giorno di lavoro. I riscontri scientifici si adottano per tutti i reperti ritrovati. Sulle pallottole restano le tracce di incisione dei pieni e dei cavi delle rigature di canna. Il proiettile, durante il suo breve percorso nell'arma, si trafila, fotografando perfettamente tutto ciò che gli sta intorno. E' come un timbro indelebile che porta con se un'unica verità. Sui bossoli è invece possibile riscontrare altre verità: i segni marcati dell'estrattore, del percussore, dell'otturatore o delle camere di scoppio d'un revolver. Le particelle di sparo nei vestiti, intorno i tramiti (fori d'ingresso, traumi). Le perizie avvengono dapprima in sede autoptica, successivamente le comparazioni ai microscopi elettronici. Ci vogliono mesi per escludere, mesi per includere, mesi di duro e silente lavoro.


In conclusione, come si fa a comparare in così poco tempo?

E di quali esami si è trattato, visto che le armi sono diverse?

E i bossoli di una addirittura inesistente.

A meno di Funzionari e dirigenti di Polizia scientifica incompetenti, ignoranti e millantatori, siamo dentro un'assurdità, la solita assurdità italiana.



* Marco Rossoni è un esperto balistico che lavora per l'Amministrazione Provinciale di Roma.





PERCHÉ L’INCHIESTA DI BOLOGNA
È PARTITA
CON IL PIEDE SBAGLIATO?

La domanda, a questo punto, è: perché tanta fretta di impostare su una pista predefinita ed univoca le indagini sul delitto Biagi?

Che interesse ha avuto la procura di Bologna - con il supporto tecnico dei carabinieri e quello politico del ministro dell’Interno – di indirizzare l’inchiesta Biagi su di un unico binario?

Non è buona norma - in qualsiasi inchiesta e per qualsivoglia inquirente ed investigatore - indagare a tutto campo, in ogni direzione, negli ambiti più disparati?
Un’inchiesta a senso unico – il senso indicato dalle presunte perizie di identità dell’arma - non rischiano di finire in un vicolo cieco, così come c’è finita l’inchiesta romana sul delitto D’Antona?

E – maliziosamente – viene da pensare: non è forse proprio questo l’obiettivo, raggiunto a Roma e raggiungibile a Bologna? Affossare la ricerca degli assassini che hanno come simbolo la stella a cinque punte?

Ripercorriamo per sommi capi l’inchiesta della procura di Roma che, in tre anni, non solo non ha portato a nulla, ma ha esposto magistrati ed investigatori ad una serie di figuracce incredibili.

- Massimo D’Antona viene assassinato a Roma il 20 maggio 1999.
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Al di là della genuinità della motivazione del suo omicidio contenuta nel volantino di rivendicazione firmato BR-PCC (“la centralità del lavoro”), nessuno indaga tenendo nella dovuta considerazione la fase storico-politica che inquadra il delitto: la guerra per il Kosovo scatenata dalla NATO, nella quale l’Italia è in prima fila.
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Nessuno tra gli inquirenti tiene in conto che, giunta al 57° giorno di martellanti bombardamenti su Kosovo e Serbia, la guerra comincia a mostrare fratture in seno alla NATO. Fratture che si riverberano, in particolare, in Italia dove - in seno al governo D’Alema - il ministro degli Esteri Lamberto Dini ha assunto già da tempo le sembianze di una “colomba” e dove è in forte crescita il movimento contro la guerra.
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Trascorre un intero anno di indagini.
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Alla vigilia del primo anniversario della morte di D’Antona (maggio 2000) – su pressioni esplicite del ministro dell’Interno Enzo Bianco – dopo una fuga di notizie, tra accese rivalità che coinvolgono carabinieri e polizia, si procede al primo arresto: è quello di Alessandro Geri, giovane dei centri sociali, indicato come “telefonista delle Br” dalla testimonianza di un ragazzino di 14 anni.
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Il “teorema Geri” si sgretola in brevissimo tempo: l’accusato ha un alibi. Bisogna ricominciare daccapo.
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L’attenzione di inquirenti ed investigatori si sposta allora (settembre 2000) sui CARC (Comitati di Appoggio alla Resistenza per il Comunismo), piccole formazioni solo vagamente contigue all’ultima fase del terrorismo e solidali con i brigatisti dell’ultima generazione in carcere.
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Anche la pista CARC (febbraio 2001) viene abbandonata perché improduttiva.
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Marzo 2001: nel teramano viene arrestato Giorgio Pannizzari, negli anni ’70 militante dei NAP che, uscito di galera, si è messo a fare rapine con due neofascisti. Gli investigatori lo mettono nel mirino, ipotizzando un legame BR-PCC con ex elementi del nucleo storico del terrorismo rosso.
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Maggio 2001: l’ipotesi Pannizzari si rivela una bufala.
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3 maggio 2001: otto militanti di Iniziativa Comunista – una piccola formazione di estrema sinistra, legata alle idee del vecchio PCI - finiscono in manette. Ad uno ad uno saranno scarcerati.
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Marzo 2002: l’inchiesta per il delitto D’Antona è un’inchiesta surgelata, senza sviluppi. Ha battuto la pista dei centri sociali, quella delle “strutture” d’appoggio ai Br in carcere, quella del vecchio terrorismo e quella dei vetero comunisti con risultati, a dir poco, disastrosi.



E’ sconveniente pensare che anche l’inchiesta di Bologna finirà allo stesso modo?

Saremmo felici di essere smentiti, ma un’inchiesta che – a poche ore dal delitto – già delinea “in modo inoppugnabile” legami con un’altra vicenda dagli esisti investigativi penosi, ci sembra destinata al disastro.

Un’ultima annotazione: nel caso che le perizie comparative sui proiettili che hanno assassinato D’Antona e quelli che hanno ucciso Biagi - una volta che saranno state fatte senza approssimazione, ma con tutti i crismi che la scienza investigativa richiede – dovessero fornire indicazioni diverse da quelle dell’identità, la procura di Bologna avrà il coraggio di dire “scusate, ci siamo sbagliati”?

E quanto tempo sarà stato, irrimediabilmente, perduto?






PERCHÉ LA QUESTURA DI BOLOGNA È IN STATO DI ABBANDONO?


All’impostazione quanto meno frettolosa della magistratura bolognese si aggiunge anche la situazione disastrosa – sotto il profilo organizzativo - in cui si trova ad operare la Questura di Bologna che da almeno sette anni è in semi stato di abbandono.

La farsa della Commissione Serra (la commissione di indagine ministeriale) all’epoca dell’arresto dei banditi della Uno bianca (novembre 1994), provocò la decapitazione della quasi totalità dei vertici degli uffici della Questura di Bologna, nella Questura peggiore d’Italia, come si disse all’epoca.

Senza alcun criterio di merito, o meglio di demerito, i dirigenti di quasi tutti gli uffici più importanti furono trasferiti ed al loro posto, in una prima fase, furono inviati a dirigere i principali uffici investigativi dirigenti provenienti dall’esterno della Questura stessa che, evidentemente, godevano di particolare fiducia da parte dei vertici operativi nazionali della Polizia di Stato, in particolare per quanto riguarda la direzione della Squadra Mobile e della Digos.

Ciò non accadde però - fatto davvero assai strano - per l’Ufficio di Gabinetto della Questura, per il quale inspiegabilmente si perpetuò una sostanziale continuità con la gestione precedente, dato che l’unico dirigente di Ufficio non trasferito fu proprio quello delle Volanti, alle cui dipendenze era gran parte della banda dei Savi, compreso lo stesso Roberto Savi.

Non solo, ma lo stesso funzionario venne sostanzialmente promosso al ruolo di Capo di Gabinetto, visto che la testa del suo predecessore era caduta sotto la mannaia del prefetto Serra.

Ciò è importante per capire la situazione odierna perché sostanzialmente “l’effetto Serra“ - lungi dall’effettuare un repulisti generale ed indiscriminato dei vertici della Questura - in sostanza si risolse nell’attribuire la vittoria ad una di quelle “correnti” che gli esiti della relazione sostenevano esistere in Questura.

La fase successiva consistette poi nell’eliminare dal vertice degli uffici investigativi i dirigenti venuti da “fuori”: ciò permise di ripristinare i vecchi equilibri con il ritorno in sede del vecchio vice dirigente Digos - questa volta con il ruolo di dirigente - e di permettere l’ascesa a dirigente della Squadra Mobile di un funzionario amico del Capo di Gabinetto, che aveva ed ha il non trascurabile vantaggio di essere tra l’altro il marito della vice dirigente dell’attuale Digos.

A questi vanno aggiunti altri rapporti parentali che hanno finito per soprannominare la Questura di Bologna la “piccola Dynasty”.

A tutto questo va aggiunto il fenomeno del progressivo svuotamento di autonomia decisionale investigativa ai danni degli uffici periferici da parte degli organismi centrali, nonché il cambio di mentalità e preparazione professionale, nel senso che il novello investigatore a tutti i livelli è caratterizzato dalla fideistica adorazione delle possibilità telematiche, a tutto discapito delle vecchie abitudini alla personale conoscenza del territorio, dei fenomeni che vi si agitano e delle fonti confidenziali.
V
Aggiungiamo ancora che più del 50% del personale degli uffici investigativi ha subito un ricambio non improntato a scelte qualitative, ma solo a referenzialità sindacali che ancora condizionano pesantemente la Questura di Bologna.

Un esempio per tutti: per tutto il 2001, e sino ad una settimana fa - nonostante l’11 settembre e l’allarme antiterrorismo mondiale - non era stato nominato il funzionario responsabile della Sezione Antiterrorismo che - come è facile immaginare - è la sezione più importante e delicata dell’ufficio, quella che dovrà indagare sull’omicidio Biagi.
Tutto ciò fa sempre più spesso dire ai responsabili delle indagini che queste si svolgono a 360 gradi, segno inequivocabile di una difficoltà a collocare persino una concreta linea di partenza delle stesse indagini.





PERCHÉ A MARCO BIAGI ERA STATA TOLTA LA SCORTA?


Le polemiche maggiori, attorno all’assassinio di Marco Biagi - ed anche le più fondate – sono ruotate attorno al tema della scorta.

E’ stato detto e scritto che il consulente ministeriale, docente di Economia del lavoro, non aveva la scorta. Non è esatto: Marco Biagi aveva la scorta, ma la stessa gli era stata tolta. Il che rende ancora più inquietanti i contorni della sua morte.

Ancora per l’esattezza: nel caso di Marco Biagi non si può parlare di scorta, ma di servizio di tutela. La scorta, infatti, prevede l’uso di più auto blindate e diversi uomini armati (fino a 5). La tutela significa invece l’assegnazione di una sola auto blindata con a bordo uno o due uomini armati.

Ecco le tappe della protezione (tutela) a Marco Biagi:



1) Dopo il ritrovamento di due ordigni incendiari davanti alla sede della CISL di Milano, viene disposto il servizio di tutela nei suoi confronti. Le disposizioni avvengono in queste date:

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25 luglio 2000: prefettura di Bologna
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2 settembre 2000: prefettura di Milano
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7 settembre 2000: prefettura di Roma
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11 settembre 2000: prefettura di Modena


A partire dall’11 settembre 2000, quindi, Marco Biagi era protetto a Bologna (dove abitava), a Modena (dove insegnava) e a Milano e Roma dove si recava spesso per le sue incombenze di consulente del ministero del Lavoro (governo di centro-sinistra).



2) Un anno dopo, nell’ambito delle verifiche sulla sussistenza del rischio, predisposte dal ministero dell’Interno (governo di centro-destra), il servizio di tutela viene tolto a Biagi. Le disposizioni avvengono in queste date:
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9 giugno 2001: prefettura di Roma
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19 settembre 2001: prefettura di Milano
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21 settembre 2001: prefettura di Bologna
-
3 ottobre 2001: prefettura di Modena


A far data dal 3 ottobre 2001 Marco Biagi, consulente del ministero del Welfare (governo di centro-destra) viene lasciato completamente solo.



Il 19 marzo 2002 Marco Biagi viene ucciso.





PERCHÉ LA RIVENDICAZIONE VIA INTERNET?


Per rivendicare il loro delitto Gli assassini di Marco Biagi hanno scelto un modo insolito, anche se non inedito: usando le trasmissioni via Internet.
Esiste un solo precedente: l’attentato esplosivo (10 aprile 2001) dei NIPR (Nuclei d’Iniziativa Proletaria Rivoluzionaria) contro l’Istituto Affari Internazionali di via Brunetti, a Roma.

Anche in quell’occasione l’azione fu rivendicata attraverso un telefono cellulare che entrò nella rete.

I mittenti della e-mail di rivendicazione del dell’omicidio Biagi per collegarsi alla rete hanno usato una Sim card Wind. Per comprare una scheda di questo tipo basta presentare un documento d'identità al rivenditore. A questo punto, nell'archivio del gestore telefonico, al codice della Sim card acquistata vengono associati un nome e un cognome ma, se i documenti forniti al rivenditore sono falsi, la scheda diventa praticamente anonima.

Dopo essere entrati in rete con la tessera Wind, i mittenti avrebbero anche potuto sfruttare vari programmi disponibili su Internet, come un anonymizer, ma, il vero problema nell'identificare il mittente di un'e-mail sta nel risalire al collegamento telefonico usato per entrare in rete.

Chi ha inviato la mail di rivendicazione non ha sfruttato, quindi, le potenzialità di Internet, ma non è comunque un navigatore ignaro, tanto che per il voluminoso allegato alla mail ha usato il formato di solo testo (txt), che non è portatore di informazioni supplementari in grado di facilitare il rinvenimento del mittente.


Nell’articolo che segue Marco Trotta ci spiega perché – in realtà – le BR-PCC non hanno usato Internet. Ma hanno. Invece, sfruttato Internet.



di Marco Trotta

Ciò che si comprende pienamente di quest'ennesimo elemento valutativo sulla vicenda è perché questi signori, autodefinitisi Brigate Rosse, abbiano scelto di usare soltanto a metà un mezzo di trasmissione così poco sicuro come Internet.

Il mito dell'anonimato in Internet è appunto un mito, a suo modo rilanciato dall'ideologia californiana della rete dove si può far tutto, ma anche dai guru
dell'e-commerce che non devono far sapere al pollo-consumatore, carta-di-credito munito, che esistono rischi di intercettazione.

Il punto, allora, è dire molto chiaramente che non esiste in rete alcuna comunicazione potenzialmente incontrollabile.

Il programma più diffuso di crittografia si chiama PGP (Pretty Good Privacy) che, tradotto, suona più o meno: una privacy abbastanza buona, proprio perché sia chiaro che non significa che, usandolo, si è completamente al sicuro dal rischio che il messaggio di posta elettronica crittografato con questo sistema arrivi “sicuramente” inviolato al destinatario.

Attualmente per "sfondare" l'inviolabilità di questi sistemi servono attrezzature informatiche molto potenti.

Le Brigate Rosse hanno anche evitato di usare un altro sistema: gli anonimous remailer. Cosa sono?

Qualsiasi messaggio di posta elettronica ha più campi che contengono dei dati banali come l'indirizzo del mittente, del destinatario, la data, il soggetto, ecc. Ma ci sono anche altri campi che sono normalmente nascosti all'utenza normale e che fanno parte dell'header del messaggio (intestazione) dove vi si ricostruisce, ad esempio, tutto il percorso che quella e-mail ha fatto per arrivare dal punto di spedizione al punto di ricezione, passando per i nodi intermedi.

Con un procedimento che si chiama tracing (rintracciamento) e confrontando dati diversi qualsiasi “comune mortale” può avere informazioni molto attendibili sulla localizzazione geografica del punto di partenza di quella e-mail. Figuriamoci le forze dell'ordine preposte.



Volete fare una prova? Dal menù avvio, Comandi Dos, e poi scrivete “tracert www.ilrestodelcarlino.it" dando l'invio... e buon divertimento.

Gli anonimous remailer sono strumenti che manomettono in maniera artificiosa questi dati per rendere abbastanza irrintracciabile il punto di spedizione.


Ma ancora un volta si tratta di strumenti che assicurano una privacy abbastanza buona e non certo perfettamente sicura. Usati in concatenamento aumentano le probabilità di risultare anonimi, ma serve un livello di preparazione tecnica che non è assolutamente nelle condizioni dell'utente medio.

(Info: http://www.ecn.org/mutante).


C'è più di un elemento per affermare che – comunque sia - questi signori potevano assicurarsi un impunità più probabile lasciando il vecchio pacco di volantini in qualche fabbrica, piuttosto che spedire e-mail in giro per la rete. E allora come mai?


Qui non si tratta di stabilire il ritorno di "grandi fratelli" o di rilanciare idee come Echelon. Contano i fatti.

I fatti sono che questo è l'ennesimo elemento di dubbio su una faccenda che probabilmente di lati oscuri ce ne riserverà ancora molti.





PERCHÉ PER TRE ANNI LE BR-PCC HANNO TACIUTO?


Nell’ipotesi – ancora tutta da verificare – che il commando che ha ucciso a Bologna sia lo stesso che ha ucciso a Roma bisogna allora chiedersi che cosa hanno fatto le BR-PCC in questo lungo lasso di tempo.

Tre anni, 36 mesi, mille giorni sono troppi perché un gruppo terroristico rimanga assolutamente inattivo.

Se è vero che in via Salaria a Roma contro D’Antona agirono – tra killer, uomini d’appoggio, pali e staffette – almeno una decina di persone, allora si tratta di una cellula forse ridotta ai minimi termini, ma comunque in grado di segnare una presenza fisica e militare sul territorio, anche senza dover ricorrere ad azioni clamorose ed eclatanti.
Ammettiamo pure che - vista la mutata situazione ambientale in cui le nuove BR si muovono – occorra molto tempo per portare a termine un’inchiesta sull’obiettivo da colpire. Anche in questo caso, però, tre anni appaiono un lasso di tempo davvero eccessivo.

C’è da chiedersi ancora che tipo di militanti siano, nella vita di tutti i giorni, i nuovi brigatisti, capaci di attivarsi con cadenze tanto lunghe e rallentate. E’ vero che una simile militanza, non prevedendo la clandestinità o peggio la latitanza forzata, non richiede neppure un grande dispendio di denaro (nessuno stipendio, nessun acquisto di “covi” e quindi nessuna necessità di rapine di autofinanziamento). Ma è anche vero che una simile inattività può trasformarli da militanti rivoluzionari della lotta armata, in serial killer al rallentatore, in preda a raptus lenti e ponderati.

Ciò che sorprende di più in questa nuova forma di terrorismo è poi un altro elemento: le BR storiche, persino nell’ultima fase della loro esistenza (1983-1988), erano costantemente impegnate in una vasta produzione teorica: risoluzioni per imporre la propria linea egemonica rispetto ad altre formazioni o colonne; interventi teorici sulla fase politica; laboriose analisi per giustificare la loro esistenza; elaborazioni di propaganda per fare proselitismo.

Queste nuove BR – ammesso che siano tali – invece sembrano mute: non scrivono, non elaborano, non cercano neppure di comunicare.

In tre anni hanno partorito solo due documenti, praticamente dello stesso tenore, più una confusa risoluzione strategica, teoricamente debolissima.

Resta da chiedersi allora che mutazione abbia avuto il militante del partito armato in questi ultimi anni, anche soltanto sotto il profilo personale.

Questi nuclei brigatisti stanno assomigliando sempre più alle cellule di Al Qaida, capaci cioè, di rimanere “in sonno” per tempi lunghissimi, per poi attivarsi e ritornare nell’ombra.

Una vera e propria mutazione genetica.





PERCHÉ LE BR COPIANO DOCUMENTI ALTRUI?


Come ha scoperto il sito www.ilbarbieredellasera.com c’è una curiosissima assonanza tra il volantino di rivendicazione dell’omicidio Biagi e un vecchissimo documento BR-PCC. Si tratta di un documento datato 22 maggio 1990 – vecchio quindi di ben 12 anni - consegnato alla corte d’Assise di Forlì davanti alla quale si svolgeva il processo per l’omicidio Ruffilli (1988).

Il documento è firmato “I militanti delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente: Cappello Maria, Cherubini Tiziana, De Luca Antonio, Galloni Franco, Grilli Franco, Lupo Rossella, Matarazzo Fulvia, Minguzzi Stefano, Ravalli Fabio. I militanti rivoluzionari: Bencini Daniele, Vaccaro Vincenza, Venturini Marco”.


Le somiglianze sono incredibili. Non solo nei contenuti, ma anche nello stile e nel periodare.

Se avete tempo e voglia, vi consigliamo di scaricare quello per l’omicidio Biagi
(www.caserta24ore.it)
e il documento degli imputati di Forlì
(www.senzacensura.org/files/arkivio/bolletti/dc66.htm)
e poi metterli a confronto.



Noi l’abbiamo fatto. Cominciate pure dalla fine: è sorprendente come, dopo ben 12 anni, gli slogan conclusivi del documento siano gli stessi, non solo concettualmente, ma addirittura nella loro formulazione.


Ma è uguale anche l’elaborazione, ad esempio, sulle alleanze internazionali (“alleanze antimperialiste tra le forze rivoluzionarie dell’area europeo-mediterranea-mediorientale da stringere per la costruzione di un fronte combattente antimperialista”), così come quelle sulla “rifunzionalizzazione dello Stato”, sulla “ritirata strategica”, sulla “guerra di classe”, sull’”attacco al cuore dello Stato”, sull’”esercito di classe in formazione”; sul “processo di fabbricazione-costruzione del partito” e ancora sul dato saliente del documento per il delitto Biagi: la dicotomia “classe/stato e rivoluzione/controrivoluzione”.


Se avrete la costanza di leggere tutti e due i documenti, allora non potrete fare ameno di porvi questa domanda: in 12 anni le BR-PCC non sono riuscite a fare un solo passo in avanti teorico e di analisi della società italiana e degli equilibri internazionali oppure c’è qualcuno che sta copiando documenti altrui?

E se li copia è perché non ha nulla da dire oppure non sa cosa dire di nuovo per dimostrare che le Brigate Rosse esistono davvero?


Ma le BR esistono davvero?





COSA VOGLIONO LE BR-PCC?



di Marco Borraccino



Le BR-PCC hanno rivendicato l’omicidio di Marco Biagi con un documento fitto di richiami storici, giustificazioni ideologiche della ripresa della lotta armata e proselitismo rivoluzionario. Periodi complessi, astratti, guidati da un lessico “antico”, da una logica autoreferenziale eppure attinente alla realtà politica: i contenuti e la progettualità della sfida terroristica si rifanno all’esperienza degli anni’70, ma chi li ha esposti sa di essere un’avanguardia, sa di avere bisogno di una strategia e di alleanze per non essere solo l’”ultimo giapponese”.


Nelle prime righe appare immediatamente il leitmotiv del terrorismo rosso dalla Ritirata strategica degli anni’80: Marco Biagi è stato ucciso perché “ideatore di un progetto di rimodellazione dello sfruttamento del lavoro e di ridefinizione delle relazioni neocorporative” e “della negoziazione neocorporativa”.

Ezio Tarantelli era stato assassinato per sconfiggere il patto sociale neocorporativo. Roberto Ruffilli, consulente di De Mita, cadde vittima delle BR in quanto espressione del programma di ricomposizione neocorporativo, così come l’eliminazione di Massimo D’Antona era finalizzata a disarticolare il progetto neocorporativo.

Risulterà chiaro che dietro l’aggettivo “neocorporativo” si nasconde il vero obiettivo dei neo-brigatisti: il dialogo sociale.


Molte pagine avanti la concertazione torna in termini di “contrapposizione e dialettica di interessi sociali particolari”. E “l’attacco delle BR (...) si dialettizza con le istanze di potere espresse dalla lotta di classe per l’affermazione dei suoi interessi generali contro quelli della borghesia imperialista”. Interessi generali di cui, evidentemente, i BR si sentono i legittimi difensori. E si investono di tale responsabilità, rendendo manifesta - con un intento chiaramente pedagogico - la minaccia cui è storicamente esposta la classe proletaria, detentore di tali interessi generali: il proletariato, dice il documento, “è costretto a vendere la sua forza lavoro per riprodursi e alle condizioni possibili nello sviluppo della crisi del capitale, (...) dinamica che sottopone il proletariato ordinariamente ad ogni genere di ricatto(fattore su cui si fonda la progettualità di Marco Biagi)”.

“Questo scontro tra proletariato e Stato rinvia al nodo di un’alternativa complessiva, rivoluzionaria. L’attacco delle BR a Marco Biagi fornisce l’orientamento politico-strategico”.


Il proselitismo delle BR va poi oltre l’appello alla lotta di classe.

Nella parte centrale della rivendicazione, infatti, i neo-brigatisti esaminano la situazione internazionale generata dall’11 settembre e chiedono, anche nelle pagine finali, un contatto con altri gruppi “antiimperialisti” dell’area europea-mediterraneo-mediorientale.

Già a proposito della UE, i terroristi parlano di “funzione antiproletaria e controrivoluzionaria” dell’organismo: ciò “qualifica un punto di programma su cui costruire forze rivoluzionarie nell’area europea e prospettare alleanze nel quadro di un fronte combattente antiimperialista”.


Le stesse argomentazioni sorreggono l’interpretazione dello scenario internazionale: ”l’attacco dell’11 settembre ha dimostrato un concreto elemento di contrasto della strategia imperialista, ne ha dimostrato la vulnerabilità,(...) ha imposto alla controrivoluzione imperialista un salto di qualità.”; le BR, di conseguenza, dichiarano la “necessità e la possibilità di alleanze antiimperialiste tra forze rivoluzionarie dell’area europeo-mediterraneo-mediorientale da stringere nella costruzione di un fronte combattente antimperialista che ha lo scopo di indebolire e destabilizzare”.


I nuovi brigatisti chiedono l’appoggio di gruppi armati già presenti sulla scena internazionale, probabilmente di quelli già strutturati: si possono ipotizzare degli inviti alla connivenza al terrorismo basco, o ai gruppi islamici antisionisti.

Un dato essenziale scaturito da tale impronta strategica è la freddezza verso altre fazioni terroristiche attive sul territorio italiano, alcune delle quali hanno da tempo tentato di accreditarsi presso le BR-PCC quali interlocutori validi per la lotta armata: la galassia di sigle che va dai NIPR agli NTA, agli NCCC.


Una ragione, probabilmente, c’è ed è riscontrabile nel documento di rivendicazione: le BR-PCC da un lato fanno propria “la Strategia della Lotta Armata, proposta a tutta la classe”; d’altra parte, riconoscono che “la guerra di classe nel centro imperialista nasce dall’attacco politico-militare al nemico e non su forze accumulate sufficienti a condurla nelle sue successive fasi” e verso la fine della rivendicazione ritornano sull’argomento dicendo che “non si rende possibile accumulare forze su un piano di attività politica da disporre poi sul piano della guerra di classe perché l’organizzazione che si può produrre non è quella di forze rivoluzionarie”.


In parole povere, le neonate Brigate Rosse si rifanno vive, ma riconoscono di non avere i mezzi organizzativi sufficienti a cooptare gruppi che non abbiano già un assetto navigato. “La fase di ricostruzione delle Forze Rivoluzionarie e Proletarie continua ad essere in atto e ad essere improntata dai fattori generali della Fase di Ritirata Strategica”, concludono i terroristi.

Il documento si chiude con sei slogan di antica genitura ideologica.

Il più suggestivo, forse, è proprio l’ultimo:”ONORE A TUTTI I COMPAGNI E COMBATTENTI CADUTI”.

La setta sopravvive e con lei la liturgia.

25.3.02

L'adulterio, ma anche la negazione a un uomo, in alcuni Paesi rappresentano un onta gravissima. Punibile con la lapidazione pubblica, ma anche con le amputazioni spettacolo o lo sfregio con acido e rasoio




di Mel. Be. (da Il Nuovo)



Lapidazione pubblica, amputazioni spettacolo, donne sfregiate con l'acido o sfigurate con il rasoio. Rifiutare un rapporto sessuale con un uomo, in molti Paesi, costa tanto. Troppo. La lapidazione è solo una delle terribili pene infitte in paesi come Afghanistan, Arabia Saudita, Yemen, Iran, Sudan, Pakistan, Emirati Arabi, Somalia. Di solito la condannata viene legata e sepolta in una fossa fino al collo e colpita da pietre.



Sepolte e lapidate: una fine terribile. Sempre in Nigeria anche Hafsatu Abubakar, una ragazza di 17 anni, madre da due settimane senza essere sposata, rischia la lapidazione. Il tribunale islamico di Kano deciderà il 21 gennaio se approvare o meno la condanna a morte. In Sudan, Abok Alfa Akok era stata condannata a morte per adulterio, ma poi salvata da una campagna internazionale. La donna, che ha dichiarato di essere stata stuprata, non è musulmana, appartiene all'etnia Dinka di religione animista. Sei mesi fa, a Teheran, Maryam Ayoubi, 31 anni, è stata lapidata in piazza per adulterio e omicidio del marito. E’ andata a meglio a Zahra, 31 anni, che in Iran nel novembre del '91 è riuscita a strisciare fuori dalla buca dov'era stata sepolta. La magistratura considerò la sua fuga come la volontà di Dio e le salvò la vita.



Vittime del Delitto d'onore in Pakistan. Secondo Amnesty International ogni anno centinaia di donne di ogni età e di tutte le parti del Paese vengono uccise in nome dell'onore. I loro assassini non vengono quasi mai punti, e spesso i delitti nemmeno resi noti.


Tra quelli denunciati dall'Associazione che si batte per la difesa dei diritti umanitari, nell’agosto 1998, Zarina e il suo presunto amante, Suleiman, furono uccisi nel villaggio Gul Mohammad Brohi, nel distretto di Larkana, dai tre fratelli di Zarina. Nell’Aprile 1998, un giovane uomo in un villaggio del Punjab, uccise con l’ascia sua madre, Ghulam Bibi, dopo che fu seguita dalla sua famiglia e portata a casa dopo una sua supposta fuga con un uomo. Il 6 gennaio 1999, Ghazala fu bruciata da suo fratello a Joharabad, nella provincia del Punjab per il sospetto di una relazione illecita con un vicino. Il corpo nudo e bruciato rimase trascurato sulla strada per due ore dato che nessuno voleva averci a che fare. Jameela Mandokhel, una sedicenne mentalmente ritardata, è stata stuprata nel marzo 1999.

Al suo ritorno presso la comunità di Kurran un consiglio tribale ha decretato che la ragazza aveva macchiato l’onore della tribù e le ha sparato, uccidendola. Il governo non ha intrapreso alcun provvedimento. Nell’aprile 1999, Samia Sarwar, una ventinovenne che intendeva divorziare dopo anni di violenza domestica, è stata uccisa nell’ufficio della sua avvocata a Lahore da un dipendente della famiglia. Il tentativo della donna era stato considerato oltraggioso per la famiglia. In seguito la legale è stata accusata assieme all’omicida e pubblicamente minacciata di morte per aver ‘fuorviato’ Samia Sarwar.

Cgil runner






di Stefano Benni (dal Manifesto)



Ho visto cose che voi umani nemmeno potete immaginare Ho visto il prato del Circo Massimo fiorire di bandiere rosse come il quadro dei papaveri di Monet



Ho visto il volto di Berlusconi stravolgersi come l'Urlo di Munch



Ho visto pensionati settantenni dopo dodici ore di pullman scendere con un balzo, agitare la bandiera e iniziare a gridare «Forza Cofferati che siamo qui» e accorgersi solo allora che erano ancora all'autogrill di Roncobilaccio



Ho visto un pullman rimanere senza benzina sotto una galleria a Barberino e i compagni riempire il serbatoio con gli accendini



Ho visto quelli di Cecina fare un piccolo breakfast con pane frittata e coniglio arrosto sul Lungotevere alle nove e mezza di mattina



Ho visto uno di Legnano addormentarsi appena arrivato sul prato e credo che sia ancora là



Ho visto uno dei Led Zeppelin, giuro, in mezzo al corteo del Piemonte



Ho visto un sosia di Previti con una bandiera di Rifondazione messa a sottana



Ho visto un ometto piccolissimo con un gigantesco cane Terranova che lo tirava, l'ometto aveva votato Casini ma il cane era marxista



Ho udito sirenone, mucche, campanacci, ultrasuoni, tamburi e lattoni, e lui non c'era



Ho visto fila di gente saltellare impazzita. Non era eccitazione ideologica, erano in fila davanti allo schieramento dei cessi da campo Sebach. Ho visto i cessi Sebach resistere all'attacco di due milioni di vie urinarie comuniste



E se è vero che Berlusconi si è vantato di avere quranta cessi nelle sue cinque ville in Sardegna, beh lì ce n'erano quattrocento



Ho visto uno che non ne poteva più di fare la fila ai cessi aggirarsi con una bottiglia da un litro da lui definita di tè freddo ma non lo offriva a nessuno.


Ho visto folate di vento anomale e impressionanti, Berlusconi aveva comprato un tornado in America dalla Dunlop ma l'hanno fregato e gli hanno dato seicento raffiche usate. Anche i pataccari vengono pataccati Ho visto lo striscione dei messinesi gonfiarsi di vento, e il loro gruppo partire in aria come un deltaplano e tornare a casa in mezz'ora



Ho visto miss Cgil Romagna, munita di minigonna in domopak, usata come autostarter per far ripartire alcuni seniores che avevano rallentato il ritmo



E lui non c'era



Ho sentito un gigantesco omone di Rifondazione dire «adoro l'odore del napalm di salciccia la mattina presto» e sbranare un panino disneyano con i tre porcellini incorporati



Ho visto Berlusconi scendere dal primo al sesto posto nella lista degli uomini più ricchi di Italia: ora i primi cinque sono Ahmed, del camper degli hotdog, Silvano il piadinaro, Rocco il bibitaro, Mohamed del furgone delle salcicce e Arturo il broker dei thermos di caffè



Ho visto D'Amato con barba finta e una carriola di patatine, perché per qualche euro farebbe di tuttoHo visto decine di bonghisti che suonavano e nessuno gli diceva di smettere e loro ogni tanto si bloccavano per lo stupore



Ho visto gli elicotteri fermi come falchi nell'aria mentre dalla centrale arrivava il comando «mi raccomando, contateli in euro»



Ho visto un giapponese che fotografava una caratteristica vecchietta di Prato e quella ha estratto dalla borsetta una telecamera digitale Sony SS456 K e ha risposto al fuoco



Ho visto a Castelsantagelo uno da solo in mezzo al corteo, con dieci metri liberi davanti e dieci dietro, e tutti che si chiedevano se si trattava di effettivo isolamento ideologico o se scoreggiava troppo



Ho visto Homer Simpson travestito da operaio di Urbino, ho visto i pupazzi di gommapiuma di Perotti e Alessandra coi mamutones



Ho visto due che erano scesi sul lungotevere per baciarsi ed eventualmente trombare e appena erano a buon punto gli è passata sopra tutta la Cgil di Prato



Ho visto la delegazione di Treviso con propulsione a Teroldego entrare nel prato a cinquanta chilometri all'ora



E lui non c'era



Non c'era il presidente operaio, quello che spaccia i suoi interessi per riforme e il paleocapitalismo per una novità, il remainder della new economy, il pataccaro che rifila il vecchio come fosse nuovo, il finanziere-rigattiere



Ho visto Uga ed era più bella che mai



Ho visto il prato vuotarsi e la gente tornare ai pullmann e il quadro tornare vuoto e i cessi Sebach tirare un sospiro di sollievo e diecimila cappellini volati via ai proprietari unirsi in sciame e decollare verso gli stagni di Santa Giusta



E comunque sia chiaro che la strada e lunga, faticosa, e ancora tutta da costruire e questo è solo un buon inizio. E soprattutto guai a nasconderci la verità e a sparare balle come Forza Italia. Anche se dopo una manifestazione di sedici milioni di persone è difficile non montarsi la testa.


24.3.02

D'amore e di corteo




di Stefano Benni (dal Manifesto)


Cara Uga, di nuovo una grande manifestazione, e anche stavolta non so cosa accadrà tra noi. Ora il film della nostra relazione si dipana fluttuando come una cometa radiosa sullo sfondo stellato del passato ( hai sempre detto che come poeta ti ricordo Baglioni, non ho capito se è un complimento o no). E vedo il nostro amore, dorato giocattolo nelle mani beffarde del destino, arrancare incerto e dubbioso, fatto più di occasioni mancate e inspiegabili separazioni che di vicinanza. Con questo non voglio insinuare che mi eviti, Uga, ma diciamo che una serie di circostanze sfortunate si è da sempre frapposta tra i miei e i tuoi (spero) desideri. Ci conoscemmo, ricordi, molti anni fa a un campeggio estivo alternativo. Tu eri femminista-cannarola, io marxista-situazionista. Ti vidi e subito mi invaghii, eravamo nudi e un po' scottati, tu sul fucsia, io sull'indaco, e leggevamo lo stesso libro, l'"Ecologia della Mente" di Bateson, tu sottolineavi quello che non capivi, io quello che capivo. Ti proposi una cena a base di pesce, ma tu eri allora nella fase ramadan-pelagica, vale a dire che non mangiavi nulla che vivesse sotto il livello del mare, con l'eccezione dei granchi purchè catturati sul bagnasciuga. Cercai di conquistarti suonando Brel, ma tu eri ideologicamente musical-beatnik e ascoltavi soltanto cantautori con pantaloni scampanati. Parlammo di pensiero sistemico, di orgasmo multiplo e di conflitto politico, e tu mi dicesti che temevi la scalata finanziaria di un certo Berlusconi. Berlusconi chi? risposi io, e tu, deliziosamente, sbuffasti. L'anno dopo ti rividi a un festival di poesia contro la guerra, centomila persone e dieci miliardi di zanzare nella stessa pineta. Io ero diventato dylan-kerouacchiano e avevo grandi speranze di piacerti. Ma quando ti vidi col poncho e gli zoccoli andini, capii. Eri diventata guevarista-terzomondista. Ascoltavi soltanto i poeti sudamericani e quando salì sul palco Ginsberg ti tappasti le orecchie. Provai a cantarti "El condor pasa" degli Inti Illimani, ma la mia pronuncia spagnola era imprecisa e non mi ascoltasti, anche perché ti baciavi a raffica con uno che più che dalle Ande sembrava sceso dalla Val Brembana. Ricordo che gli parlavi di un certo Berlusconi. Berlusconi chi? ti diceva lui. Che rabbia, io invece mi ero preparato, sapevo benissimo che era uno che aveva delle televisioni, un innocuo finanziere lombardo.



Alcuni anni dopo ci fu una grande manifestazione per le lotte operaie. Avevo saputo che eri entrata in un collettivo operai-studenti e io ero lì con un bidone-tamburo, nello spezzone di Potere Siderurgico. Tu sfilavi cento metri più avanti, bellissima, con la tuta arancione e il casco con la lucina. Ma eri sotto lo striscione di Lotta Mineraria e mi guardasti con un certo disprezzo. Mi spiegasti che io difendevo l'aristocrazia operaia, mentre per te erano importanti solo le lotte del sottosuolo del Sulcis. Eri con quattro ragazzi sardi che cantavano da tenores, tennero la stessa nota per tutti e sedici i chilometri del corteo, io che mi ero preparato tutto Guccini e Lolli mi misi da parte. Sentii che urlavi al megafono " Berlusconi e la Pidue, ecco il nemico". Io pensai: questa è pazza, non capisce che i pericoli sono ben altri. Pochi anni dopo ci fu la manifestazione contro la Pidue e le stragi. Sapevo che avresti sfilato nello spezzone di corteo Diessino, che eri diventata moderata, e anch'io per amore tuo avevo preso la tessera. Ti vidi con i jeans e i capelli corti, ma ahimè, mi ero perso la tua ultima sterzata politica. Eri insieme a quelli del Manifesto, parlavi con Parlato e campettavi con Campetti, e mi guardasti severamente. Nascosi gli spartiti di Venditti e la chitarra intarsiata col volto di Occhetto e decisi di andare all'attacco. Ti dissi, sei una massimalista, la Pidue è una tigre di carta, non sono le logge segrete a far la politica, la democrazia italiana è salda, e anche quella cecoslovacca, e il tuo Berlusconi, se scende in campo, non prenderà neanche il cinque per cento di voti. Fosti colpita dalla mia energia polemica, allora colsi l'attimo favorevole: vieni a cena con me, ti dissi, sono diventato vegetariano cicorista-plutarchiano. Sei proprio vetero, mi rispondesti ridendo, io mangio solo macrobiotico.



Poi ci fu la prima grande manifestazione per l'Ulivo. Ti cercai per tutta la piazza, tra migliaia di persone, fin sotto il palco del concerto, sapevo che simpatizzavi per Bertinotti e stavolta avevo tutto, la tessera e anche il portaocchiali al collo e la pipa, anche se non mi piace, e porcocane, non ti vedo con un cappotto brezneviano, proprio dietro a Cossutta? Pazzo di amore e rabbia, ti rimprovero l'ulteriore scissione, quindi ti comunico ufficialmente che anch'io mi sono convertito alla macrobiotica, e ti invito a cena in un ristorante così integrale che gli stuzzicadenti te li devi fare tu da un tronco. Ma tu rifiuti spiegandomi, col solito angelico sorriso, che a forza di frequentare festival dell'Unità sei diventata lardodipendente, mangi salsiccia dalla mattina alla sera e cotechino quando sei a dieta. Adesso che siamo al governo, grido, il tuo Berlusconi è sepolto per sempre, e anche il tuo Proporzionale e il tuo Esenin (non sapevo più cosa dire) .



Ed ecco il primo megaconcerto per il governo d'Alema. Stavolta non puoi sfuggirmi. So che sei Dalemiana convinta. Sono stato a scuola di vela, cucino come uno chef, ho fatto il cameriere al Rotary per ascoltare le ragioni degli imprenditori. Fendo la calca della piazza e come mi appari? Vestita di nero, con il piercing e i capelli viola e azzurri. Sei diventata dark-damsiana e contesti D'Alema, con lievi educati fischi . Ti affronto dicendo che D'Alema spazzerà via Berlusconi, aprirà i dossier sulla Pidue e le stragi, redimerà la Confindustria e promulgherà una legge durissima sul conflitto di interessi. Aggiungo: se vieni a casa mia so cucinare i piatti poveri alla Vissani, minestra di zampe di gallina al tartufo e ostriche vuote. Ti sei imborghesito, mi rispondi , io mangio sushi da mesi. E vedo il tuo nuovo fidanzato, un maoista-taoista giapponese fotografo di moda che suona il koto con i piedi .



Ed eccoci qui, alla grande manifestazione di oggi a Roma. Io sono autoconvocato girotondista, ho fatto più girotondi di Pippi Calzelunghe. Mentre tu, lo so, sei una new-global e sei stata a Porto Alegre. Ma stavolta non mi maschererò. Entrerò nella piazza roteando come un derviscio, ti girosfilerò intorno e intanto mangerò cioccolata, mangio solo quella ormai, peso centosedici chili perchè finalmente ho capito che Berlusconi è un avvelenatore della democrazia, c'ho messo del tempo ma l'ho capito, anzi ho capito che più ascolti le ragioni degli imprenditori e meno loro ascoltano le tue. Ti chiederò scusa di tutto, ti verrò vicino e ti dirò: perchè non mi vuoi? E se mi respingi ancora, farò una di queste tre cose:



O mi suicido.



O mi iscrivo alla corrente di centro dei mastelliani di sinistra.



O da lontano ti saluterò , tra centinaia di migliaia di persone, e ti dirò addio, questa è l'ultima volta, mai più cercherò il tuo amato volto tra la folla e le bandiere, mai più ritmerò i passi del corteo con quelli del mio cuore innamorato.



Ma tu sai già che non è vero.



Ti cercherò ti inseguirò ti desidererò ancora, Uga. E se ti incontrerò ti chiederò di sciogliermi un assillo che mi tormenta da tempo.



Io lo so perché sono qui alla manifestazione, sono qui per te Uga, ma tutti questi altri, tanti e tantissimi, come mai continuano a riempire le piazze, cosa credono, cosa sperano? Che tutti abbiano un Ugo o un'Uga da incontrare in mezzo alla folla? O qualcosa d'altro? Cosa li fa resistere, se ogni volta che la società sfida davvero la miseria della politica, ritorna la malattia oscura del nostro paese. Quel buco nero che ingoia lealtà e civilità politica, quel buio che la destra intorbida, ma anche la sinistra al governo, non ha saputo e voluto illuminare. E da questa oscurità riemergono i burocrati del ricatto, in versione new economy con nuovi sponsor e nuovi cappucci. Eppure moltissimi anche oggi non si rassegnano, non si piegano, continuano a sperare. Che cos'è questo sortilegio ? Un'energia, una passione, un'illusione, una maledizione? Che tipo di amore è, Uga ?


23.3.02

Due pistole, due calibri un'inchiesta partita male




Le prime dichiarazioni di ministro e inquirenti condizionano l'indagine verso un'unica direzione






di GIUSEPPE D'AVANZO (da Repubblica)



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ROMA - C'è un solo modo per battere il terrorismo: arrestare i terroristi. I terroristi si arrestano con una rigorosa investigazione. Un'investigazione può diventare efficace se nasce senza pregiudizi, se si sviluppa senza interferenze lungo il percorso mai lineare dei fatti, delle testimonianze, degli indizi, delle analisi scientifiche e tecnologiche. Ha queste premesse l'inchiesta in corso per la morte di Marco Biagi?

Tre anni fa, l'indagine per l'assassinio di Massimo D'Antona mosse i primi passi con cautela. Le Brigate rosse firmarono il delitto, ma chi erano - e dove - i brigatisti, undici anni dopo l'ultimo assassinio? Il largo scarto temporale rese gli investigatori umili e pazienti perché consapevoli del vuoto d'informazioni e conoscenze. L'indagine crebbe, passo dopo passo, con raziocinio attraverso le rivelazioni sulla scena del delitto, l'analisi dei pulmini abbandonati in via Salaria dagli assassini e delle tracce organiche riscontrate al loro interno, la ricostruzione dei tracciati telefonici, i pedinamenti, le intercettazioni.

Il quadro che ne sortì parve promettente. L'indagine sembrava matura per decollare fino al risultato (l'arresto degli assassini). Invece, un intervento esterno la trasforma in una catastrofe. Il ministro dell'Interno, Enzo Bianco, "preme" sugli investigatori. Vuole il risultato e lo vuole presto: "Per il primo anniversario della morte di Massimo", si disse.

La legittima ambizione del ministro (poi, severamente censurata in Parlamento da Forza Italia) scuote la rivalità tra poliziotti e carabinieri, irrita la procura di Roma. Che finisce per approvare (controvoglia, ma per approvare) una delle ipotesi in campo (l'arresto di Alessandro Geri, primo tassello del probabile puzzle). Salvo pentirsene amaramente quando il giudice vaglia le fonti di prova e le giudica deboli per sostenere l'arresto del presunto telefonista.

La fretta, si può concludere, distrugge un'investigazione che poteva diventare eccellente. Con il risultato che gli assassini di Massimo D'Antona sono ancora liberi e, con buona probabilità, sono stati in grado di organizzare, se non eseguire, l'assassinio di Marco Biagi. Dagli errori bisognerebbe ricavare buoni insegnamenti. Purtroppo, in queste ore, non sembra che sia così. La consapevolezza del "pasticcio Geri" sembra evaporata sotto la pressione, ancora una volta, del governo e della magistratura di offrire all'opinione pubblica segnali tranquillizzanti. Con una improvvida precipitazione, è stato annunciato a poche ore dall'assassinio di Bologna che "la stessa arma ha ucciso D'Antona e Biagi".

Improvvida precipitazione perché nessuno, magistrato o investigatore che sia, poteva in quelle ore avere l'assoluta certezza che una sola sia l'arma dei due delitti (anche se, in via ipotetica, non si può escluderlo). Per sostenere questa ragionevole convinzione occorre muovere in tre mosse: ricostruire quanto è accaduto tra le 20,10 del 19 marzo (le Br uccidono il collaboratore di Roberto Maroni) e il 20 marzo, ore 18,54 (il procuratore di Roma, Salvatore Vecchione, annuncia con un comunicato "il rapporto di identità tra le due armi"); ore 20,05 (identico l'annuncio del ministro degli Interni); ore 20,30 (il procuratore di Bologna, Luigi Persico, conferma che l'esame dimostra "in maniera inoppugnabile", "fuori da ogni dubbio" l'identità della pistola). Bisogna poi esaminare le informazioni fornite dai magistrati e riflettere sulle possibili, ambigue conseguenze di questa "assoluta certezza".

Gia alle 11.00 del 20 marzo (Biagi è stato ucciso la sera prima) nei corridoi della procura di Bologna ingrassa tra gli addetti la "voce" che si tratti di una sola pistola. Un'ora dopo, l'indiscrezione vola verso la procura di Roma. Appaiono prematuri (ma decisivi) questi sussurri. I tecnici del Ris di Parma sono ancora sul luogo del delitto. Lavorano con l'abituale sapienza, ma curiosamente con gran rapidità che, in questi casi, significa superficialmente. I tecnici si lasciano sfuggire un proiettile che, dopo aver attraversato il corpo di Marco Biagi, è finito a 12 metri dall'uscio di casa del giuslavorista. Lo ritroverà un cronista di "Repubblica" alle 15,40 del 21 marzo (e sarà sequestrato soltanto alle 17,38).

Il Ris rintraccia altri proiettili, probabilmente due: uno dietro l'uscio, l'altro schiacciato contro il muro di un portico. Sono queste "ogive", per quel che se ne sa, che saranno comparate con i "proietti" dell'agguato a D'Antona perché, al di là di quello smarrito, gli altri sono estratti dall'anatomopatologo Corrado Cipolla D'Abruzzo soltanto il giorno dopo (21 marzo).

In fretta il Ris "lavora" la scena del delitto e in fretta conclude la comparazione tra i proiettili di Bologna e Roma. Il generale Serafino Liberati, responsabile dei "raggruppamenti scientifici" dell'Arma, spiega a chi gli chiede quanto tempo ci vorrà per sapere se c'è identità tra le due armi risponde (ore 19,07 del 20, Scuola ufficiali di Roma) che "occorrono 5/10 giorni per dare una risposta certa all'interrogativo".

A Parma il Ris impiegherà "meno di un'ora". "Avevamo il fiato sul collo - spiega un tecnico di Parma - Non ci è stato lasciato più tempo. Abbiamo lavorato, a partire dal tardo pomeriggio, sulle foto e "ogive D'Antona", per dir così, messe a disposizione dalla polizia. Abbiamo riscontrato tracce di compatibilità tra le armi e un calibro 9x17. Un risultato di attendibilità molto fluido: esiste sempre un margine di errore. E poi in meno di un'ora non si poteva fare meglio".

Tardo pomeriggio. Diciamo le 17,30/18.00. Più un'ora di analisi. 18,30/19.00. Come che sia, alle 18,54 il procuratore Vecchione annuncia che "la pistola è la stessa". Ovvero una calibro 9x17, detto anche "9 corto". La procura di Roma per anni ha sempre sostenuto che a uccidere Massimo D'Antona sia stato un revolver Franchi-Llama calibro 38. E' una pistola a tamburo. Non espelle i bossoli, li trattiene. Non ci sono bossoli sul luogo della morte di D'Antona e ci sono bossoli accanto a Biagi.

E' la stessa pistola? "Sì - dice un pubblico ministero - una recente analisi ci ha offerto un nuovo ventaglio di calibri e tra questi c'è anche il 9x17. A Roma l'assassino potrebbe aver sparato con sacchetto agganciato alla pistola per raccogliere i bossoli". C'è un primo ingorgo logico. Un killer non lascia i bossoli sul luogo del delitto per evitare che si colleghi quel delitto ad un altro delitto, che si possa ricostruire la "storia" dell'arma.

Ma allora perché gli assassini usano questa precauzione a Roma e non a Bologna? Lasciamo da parte la logica. Stiamo ai fatti. Mentre il ministro degli Interni Claudio Scajola fa il suo annuncio pubblico (20,05), il procuratore di Bologna, Luigi Persico, spiega che "la 9x17 che, secondo le perizie del Ris, ha ucciso i due consulenti del ministero del Lavoro potrebbe essere una Makarov oppure una Franchi-Llama. Alla fine degli Anni Settanta i militanti di Prima Linea si impossessarono di numerosi esemplari di Franchi-Llama".

Il chiarimento sollecita altre perplessità e due domande. Sia la Makarov che la Franchi-Llama semiautomatica "caricano" proiettili 9 parabellum (9x19, il 9 lungo). E' vero, possono caricare anche il "9 corto" accettando il rischio di un "inceppamento", ma in questo caso c'è una differenza sostanziale tra le due armi. La Makarov lascia sui proiettili una traccia di quattro "microstrie" destrorse (diciamo graffi). La Franchi-Llama 6 microstrie destrorse. Perché associare le due armi, dunque, quando ci sono differenze così significative? E ancora: è vero che Prima Linea entrò in possesso alla fine degli Anni Settanta di Franchi-Llama semiautomatiche?

"Repubblica" lo ha chiesto al leader del gruppo terroristico che sovrintendeva in quegli anni lontani l'armeria. "E' vero - ha detto - a Bologna, il 12 marzo del 1977, nel giorno dei funerali di Francesco Lorusso, saccheggiammo un'armeria vicino a via De Castagnoli. Ma le Franchi-Llama che prendemmo non erano semiautomatiche, ma revolver a tamburo, calibro 38 special".

E' utile riepilogare. L'analisi del Ris, al momento della conferma ufficiale dell'identità tra le due pistole, era stata effettuata con "il fiato sul collo" e "in meno di un'ora" attraverso un esame diretto al "microscopio comparatore". Per dirla semplicemente, con il solo occhio del tecnico e non attraverso la foto delle "ogive" al "microscopio elettronico comparatore" con il quale è possibile ottenere, nel caso di coincidenza del 70 per cento delle microstrie, la certezza scientifica dell'identità.

Lo stesso Ris giudica "fluida" l'attendibilità della prima ricognizione. Le marche d'armi che, nella sollecitudine, sono state indicate come "possibili" svelano qualche non irrilevante contraddizione. I tre elementi sono sufficienti per concludere che tra le 18,54 e le 20,30 del 19 marzo non c'erano elementi sufficienti e adeguati per annunciare che "fuori da ogni dubbio", "in modo inoppugnabile" l'arma che ha ucciso Marco Biagi sia la stessa che ha colpito Massimo D'Antona.

I più maligni penseranno magari che, dietro tanta precipitazione, possa esserci l'ansia del ministro Scajola di indirizzare l'attenzione dell'opinione pubblica sul delitto, distogliendola dalla scorta che non proteggeva Marco Biagi. O che la procura di Roma avesse voglia di mettere le mani sull'inchiesta di Bologna avocandola per trovare un riscatto dopo il flop di Alessandro Geri.

Malignità. Non c'è nessun mistero in questa precipitazione, nessuna malafede. Forse, al fondo, c'è soltanto la sensibilità istituzionale del ministro e dei procuratori di rasserenare l'inquietudine e lo smarrimento del Paese. L'annuncio, però, necessariamente indica all'indagine nella fase iniziale una direzione, ne restringe l'orizzonte condizionandone l'esito. Perché le fornisce un "tesi" da dimostrare laddove è più proficuo raccogliere "fatti".

Con un annuncio così qualificato (un ministro, due procuratori) gli investigatori si sentiranno (si sentono) obbligati a percorrere fino alla fine la strada tracciata dai comunicati ufficiali. Durante un'investigazione si può anche cambiare idea, ma in silenzio. Se hai annunciato "in modo inoppugnabile" al mondo una circostanza non puoi più modificarla, se non vuoi perdere la faccia o farla perdere al gotha dell'investigazione nazionale.

Soltanto il tempo ora ci dirà se quell'urgenza mediatica delle prime ore è stato un vantaggio o uno svantaggio per il felice esito dell'inchiesta. Perché soltanto questa è la strada per sconfiggere i terroristi: arrestarli.

22.3.02

lettera di una mamma ebrea





Adesso sembra da pazzi vivere in Israele. Alcuni se ne vanno. Li capisco. E' orribile vivere con la violenza e con l'angoscia e con lo stress che provocano. Siamo vulnerabili, noi israeliani: in macchina o sull'autobus, prendendo un caffè al bar o addirittura stando a casa. Tutto è circondato dal terrore. Tutto il tempo, di giorno e di notte, siamo coscienti di essere obiettivi da colpire.


Un venerdì notte, all'una, siamo stati svegliati dagli altoparlanti installati nella nostra comunità. Ci hanno avvertito che c'era un terrorista in Tekoa. "Chiudete porte e finestre a chiave, dormite con le armi, badate ai bambini e spegnete le luci."


Abbiamo velocemente spento le luci, nonostante il fatto che siamo osservanti dello Shabat.


Abbiamo chiuso a chiave porte e finestre. Abbiamo messo una sedia davanti alla porta dell'entrata. Poi suonò il telefono. Era il nostro vicino che controllava se avevamo sentito l'annuncio.


I bambini erano spaventati, tremavano. Ho detto loro che li avremmo protetti, che stavamo vicini. Che dovevano andare a dormire.


Loro si sono addormentati, tutti nel nostro letto. Ho pregato e poi mi sono addormentato, sperando che la mattina arrivasse presto.


Circa alle tre di nuovo l'altoparlante: l'emergenza era finita.


Per adesso. Ma, come ho detto ai miei figli, è raro che i terroristi ti avvisino.


Sicuramente non hanno avvisato mio figlio Koby, di 13 anni, prima di ammazzare lui e il suo amico Yosef, prendendoli a sassate prima di schiacciare i loro crani e renderli irriconoscibili. Koby e Yosef erano in giro vicino a casa nostra a Tekoa. I due ragazzi volevano scoprire la valle dietro le nostre case. Sono stati ammazzati per il loro amore per questa terra. Sono stati ammazzati perché ebrei.


Una mia amica era al cinema a Gerusalemme, sabato notte, per vedere un film, la notte dell' attentato al Moment Caffè che ha ucciso 11 persone. Il direttore del cinema ha fermato il film per dire al pubblico cosa era accaduto e per chiedere se volevano continuare a vedere il film. Non hanno voluto. Tutti sono andati a casa.


Perché la gente continua a stare qui nonostante siamo cacciati come bestie dai terroristi? Perché tanti di noi qui sentono un forte senso di appartenenza, al nostro paese, alla nostra cultura e storia.


Questo senso di appartenenza si manifesta in molti modi diversi. Oggi sono andata a fare la spesa al mio minimarket e lì un uomo stava riempiendo una scatola di cose buone per suo figlio nell' esercito. L'uomo prende una tavoletta di cioccolato al latte, e la commessa, Ranet, dice: "a tuo figlio non piace il cioccolato al latte, Noam preferisce quello amaro."


Un'altra storia. Ruth, una mia amica, è al banco frigo per comprarsi una bibita Una bambina timida arriva e chiede al negoziante "Cosa posso prendere con 2 shekl?" E lui dice: "Niente." Poi le dà un shekl. "Ma adesso ne hai tre. Puoi comprare una gomma o una caramella." Ruth pesca uno shekl dalla sua tasca. "Adesso ne hai quattro."


Qui c'è una sensazione di essere in famiglia Qui, nonostante il dolore e la sofferenza, non ci sentiamo soli. Ci sentiamo parte di una rete, di un tessuto che, nonostante sia pieno di buchi, è abbastanza forte per tenerci su.


Se facciamo un buco, il tessuto si indebolisce. Può essere riparato, naturalmente, ma non sarà mai più come prima.


Noi non vogliamo bucare il tessuto. Noi non vogliamo lasciare il posto dove è seppellito nostro figlio. Non vogliamo lasciare l'unico posto al mondo dove il tempo è misurato con il calendario ebraico, dove le celebrazioni coincidono con le festività ebraiche, dove la lingua è quella della Bibbia. Noi non vogliamo lasciare il centro della storia ebraica. Adesso facciamo parte di questa lunga storia dolorosa, siamo noi quel popolo ebraico che lotta per poter finalmente vivere sulla propria terra.


Mio figlio è morto perché ebreo. Io voglio vivere da ebrea!

21.3.02

Il documento delle br- 8




-La strategia della lotta armata coerentemente con il principio dell'unità del politico e del militare che informa la guerra di classe nei paesi a capitalismo avanzato, definisce il partito comunista come un partito combattente e in relazione alla natura del processo rivoluzionario -di distruzione dello Stato-costruzione del Partito- definisce la sua formazione come la risultante di un processo politico-militare che la guerriglia, nel determinare i termini complessivi dello sviluppo della guerra di classe di lunga durata, costruisce sulla linea dell'agire da partito per costruire il partito.
Per le Brigate Rosse le condizioni politiche della costruzione del Partito Comunista Combattente si danno a partire dalla capacità di disarticolare l'azione politica dello Stato, perchè la progettualità politica con cui lo Stato interviene nelle congiunture politiche nella contraddizione dominante che oppone le classi è il modo con cui mette in atto la sua funzione antiproletaria e controrivoluzionaria e su questo costruisce equilibri politici dominanti. Rapportandosi con l'attacco (al cuore dello Stato) a questo piano, l'avanguardia armata colloca nello scontro gli obiettivi politici della lotta per il potere, spezza la mediazione politica disarticolando gli equilibri politici, facendo avanzare la guerra di classe, determinando la condizione politica primaria per la costruzione del Pcc. In sintesi è a partire dall'attacco scientifico al potere politico della borghesia che l'avanguardia rivoluzionaria costruisce il rapporto politico con la classe e la sua istanza di potere.
Le Brigate Rosse non sono il Partito, ma sono una forza rivoluzionaria che opera come un esercito rivoluzionario che attaccando lo Stato nelle sue politiche centrali, sostanzia l'agire da partito per costruire il partito, e avvia la costruzione del Partito, la costruzione degli elementi politico-teorici, strategici, soggettivi, organizzativi e militari che costituiscono il nucleo fondante il partito.
Per le Brigate Rosse lo sviluppo del processo rivoluzionario continua a realizzarsi facendo la "rivoluzione nel proprio paese" perchè questa rimane la dimensione politica principale della lotta tra le classi, ma richiede fin da subito di praticare l'obiettivo dell'indebolimento dell'imperialismo operando sull'asse programmatico dell'attacco all'imperialismo, alle sue politiche centrali. Asse programmatico sulla base del quale può essere realizzata una politica di alleanze con forze rivoluzionarie dell'area europeo-mediterraneo-mediorientale che ha una sua intrinseca complementarità economico-politica, per la costruzione di un Fronte Combattente Antimperialista che sviluppi un programma d'attacco comune alle politiche centrali dell'imperialismo.
L'obiettivo politico-strategico della costruzione del Fronte può essere raggiunto nella misura in cui si realizzano condizioni politiche e militari per attaccare l'imperialismo da parte di forze rivoluzionarie che possono avere anche diverse finalità o concezioni rivoluzionarie. Il Fca non sostituisce l'obiettivo storico della costruzione dell'Internazionale Comunista, che è realizzabile tra forze che hanno identiche finalità politiche e concezione e condividono la discriminante della Lotta Armata per il Comunismo.
-La strategia della lotta armata proposta dalle Brigate Rosse alla classe è impostata dalla concezione leninista dell'imperialismo e dello Stato e definisce il programma politico del Partito comunista combattente come un programma di combattimento contro lo Stato e l'imperialismo e di costruzione del Partito e del Fronte, attraverso il quale può avanzare la prospettiva di potere ed essere costruita la guerra di classe di lunga durata. L'iniziativa combattente può far avanzare questa prospettiva solo se l'attacco non è impostato genericamente costituendo una mera espressione dell'antagonismo di interessi e politico, ma persegue l'obiettivo di distruggere lo Stato e destabilizzare l'imperialismo, attraverso un concreto processo di disarticolazione politica operata con l'attacco militare all'azione politica, alla progettualità politica nemica che si afferma come centrale nell'affrontamento delle contraddizioni dominanti che oppongono le classi nelle varie congiunture politiche e nell'affrontamento delle contraddizioni della crisi e del dominio imperialista, progettualità che costruisce l'equilibrio dominante per far avanzare le linee di programma. Un attacco che, in quanto ha questo indirizzo politico, costituisce un rapporto di forza esercitabile e finalizzabile a incidere il piano su cui lo Stato si rapporta alla classe che è quello dello scontro di potere, colpendone il progetto e disarticolandone l'equilibrio politico con cui sostiene questo scontro e per come si articola nei suoi nodi-passaggi.
Il programma politico di disarticolazione dello Stato che le Brigate Rosse propongono alla classe definisce gli obiettivi programmatici che costituiscono nello scontro di classe concreto il piano di lotta per il potere, di costruzione del Partito Comunista Combattente e di mobilitazione della classe sulla sua linea politica e programma.
Il progetto politico con cui lo Stato affronta la contraddizione dominante tra le classi, è il cuore dello Stato. Non si tratta quindi di un uomo, di una struttura, di una funzione o di un apparato statale, ma di una progettualità che non si definisce a tavolino e una volta per tutte, ma si imposta e si aggiorna e si irradia progressivamente nel complesso delle relazioni tra le classi, specificando la costruzione di equilibri politici generali e parziali intorno ad essa.
Il massimo vantaggio politico ottenibile dal combattimento si dà colpendo il personale che costruisce l'equilibrio politico in grado di far avanzare i programmi della borghesia imperialista, un equilibrio che lega interessi sociali e politici non univoci e anzi contrastanti, agli interessi e agli obiettivi della frazione dominante della borghesia imperialista. La guerriglia può conseguire così l'obiettivo politico di disarticolare la progettualità statuale, squilibrandone l'azione delle varie forze che concorrono a realizzarlo.
La forza dell'attacco al cuore dello Stato non risiede nella sua sola forza militare, ma risiede nella contrapposizione di interessi antagonisti insiti nella contraddizione dominante che oppone le classi alla quale la progettualità del nemico si prefigge di dare una soluzione in funzione degli interessi generali della B.I. e in relazione ai rapporti di forza e politici tra le classi. L'attacco allo Stato sfrutta quindi la posizione strutturalmente difensiva della borghesia (anche qualora fosse in atto una offensiva controrivoluzionaria) che è obbligata a governare politicamente le contraddizioni di un modo di produzione e di un rapporto sociale storicamente superato. Dall'altro lato risiede nella forza politica del patrimonio sviluppato dalla rivoluzione proletaria e dalla guerriglia.
La disarticolazione non è un effetto politico ottenuto una volta per tutte con il singolo attacco, ma si produce nella misura in cui si sviluppa il combattimento, come pure in generale lo sviluppo della guerra è passaggio da circoscritte iniziative combattenti alla stabilizzazione delle offensive della guerriglia, di una sufficiente capacità offensiva disarticolante etc..
L'attacco allo Stato non è teso, in sè e per sè, a paralizzare e ad impedire in modo assoluto lo sviluppo delle sue politiche antiproletarie e controrivoluzionarie; per far questo è necessario un intero processo di guerra che faccia man mano conseguire posizioni più avanzate nei rapporti di forza e politici alla classe organizzata dal Pcc sul terreno della guerra.
L'attacco al cuore dello Stato quindi è linea strategica di disarticolazione politica dello Stato, impostata dai criteri di centralità, selezione e calibramento definiti dal patrimonio della guerriglia delle Brigate Rosse nel nostro paese.
-L'attacco all'imperialismo è volto a indebolirlo fino a determinarne la completa crisi politica e a rafforzare lo schieramento antimperialista. I criteri che hanno guidato il combattimento della guerriglia delle Brigate Rosse indicano che per provocarne il massimo indebolimento esso deve riferirsi alle politiche centrali con cui l'imperialismo affronta le contraddizioni dominanti della fase internazionale, nel quadro delle spinte strutturali della crisi e dell'avanzare della tendenza alla guerra per governarne gli aspetti generali, per rafforzare e far avanzare le proprie posizioni negli equilibri internazionali, contrapponendosi al proletariato e alle istanze e processi di liberazione dei popoli.
Il programma politico di disarticolazione-distruzione dello Stato e di attacco all'imperialismo per il suo indebolimento e di costruzione del Partito e del Fronte, si realizza sulla linea politica con cui la guerriglia si relaziona alle fasi e congiunture politiche interne e internazionali, e il suo avanzamento si colloca nelle condizioni di fase del rapporto rivoluzione/controrivoluzione e imperialismo/antimperialismo.

-Per le Brigate Rosse il Partito si dà in un processo di costruzione/fabbricazione nello sviluppo stesso del processo di guerra di classe. La costruzione della soggettività d'avanguardia non può darsi con un atto di fondazione, nè si rende possibile accumulare forze su un piano di attività politica, da disporre poi sul piano della guerra di classe perchè l'organizzazione che si può produrre non è quella di forze rivoluzionarie.
Per le Brigate Rosse l'avanguardia comunista combattente non si pone nello scontro come "direzione politica del futuro partito", ma come organizzazione di guerriglia che si caratterizza e funziona come un esercito rivoluzionario e che adotta il principio dell'agire da partito per costruire il partito.
Questo perchè è a partire e intorno al combattimento che si costruisce lo scontro di potere e per il potere e la possibilità di far evolvere la lotta della classe su questo piano.
Un'organizzazione di guerriglia, una forza rivoluzionaria, conduce uno scontro politico-militare tramite combattimenti che a partire da un'impostazione scientifica del proprio ruolo e della conduzione dello scontro, e in virtù di questo può aprire un rapporto politico con la classe che assolve alla funzione di trasformare lo scontro di classe in guerra di classe e organizzare le avanguardie rivoluzionarie nel partito e la classe intorno al partito e far quindi avanzare il processo rivoluzionario. L'esercizio del ruolo di Partito Comunista Combattente nella conduzione dello scontro rivoluzionario, non essendo la risultanza di un processo politico-militare in cui la classe si è posta su un piano di guerra di lunga durata, ma il presupposto di questo processo, non può realizzarsi che nella misura in cui le avanguardie rivoluzionarie che ne fanno parte, i quadri che lo costituiscono, sono espressione concreta della direzione esercitata da una forza rivoluzionaria nell'organizzare la classe nello scontro rivoluzionario, direzione che può configurare il Partito Comunista Combattente quando il livello della sua costruzione/fabbriicazione diventi adeguato a dirigerne interi settori nella guerra contro lo Stato e l'imperialismo. Una realtà e un processo che concretamente delimitano anche le condizioni e quindi i compiti su cui si deve concentrare una forza rivoluzionaria come le Brigate Rosse in particolar modo nell'attuale fase di Ricostruzione delle Forze rivoluzionarie e proletarie.
" .... Il processo di costruzione politica, programmatica e di fabbricazione organizzativa del Partito Combattente non è affatto lineare, evoluzionistico, affidato al tempo, ma al contrario é un processo discontinuo, dialettico, prodotto cosciente di un'avanguardia politico militare che, nel complesso fenomeno della guerra di classe, afferma la validità della prospettiva strategica e del programma comunista che sostiene e l'adeguatezza dello strumento organizzativo necessario per realizzarlo. ..." (D.s. 2)
La militanza rivoluzionaria, in questo quadro, si misura con la frattura politica soggettiva necessaria alle avanguardie del proletariato a trasformare un ruolo politico che si forma e matura nel contesto del movimento delle lotte della classe e della lotta politica possibile nelle democrazie borghesi, un ruolo che esiste in funzione di tale mobilitazione, in un ruolo che determina il proprio rapporto con la classe in quanto combattente contro lo Stato e l'imperialismo. Una frattura ben più profonda e un salto superiore a quello pur richiesto dalla militanza in un partito che dovesse dirigere la classe su un piano di iniziativa, quella politica, su cui essa già si mobilitasse, salto che consiste nell'assumere la finalità della lotta per il potere come propria finalità soggettiva. Questo in quanto il piano della guerra non è in genere, e in particolare oggi in Italia, praticato dalla classe, sebbene il rapporto di guerra costituisca la sostanza della relazione tra borghesia e proletariato, né è intrinseco alla frattura soggettiva costituita per il proletariato dalla stessa lotta sociale e dalla sua potenziale evoluzione in lotta politica, per cui la frattura necessaria richiede un complessivo mutamento del punto di vista formatosi nella storia di una militanza o della mobilitazione nelle lotte. Una realtà anche questa che riconferma il principio dell'aumentato peso della soggettività nello scontro per parte proletaria.

Per le Brigate Rosse proprio perchè la lotta armata è una strategia in un processo rivoluzionario che è di guerra di classe in ogni sua fase, il modulo politico-organizzativo adeguato a strutturare le forze rivoluzionarie si definisce intorno ai termini di strategia e non può essere ridotto al carattere generico di formazione combattente.
I criteri impostativi che definiscono il modulo politico-organizzativo sono gli elementi che consentono alle forze rivoluzionarie di far avanzare il processo di scontro su tutti i piani.
L'unità del politico e del militare che si riflette sul modulo guerrigliero e trova nella clandestinità e compartimentazione i principi necessari a sostenere la disposizione offensiva per la realizzazione degli obiettivi politici della guerriglia, limitare le perdite e costruire organizzazione di classe sulla lotta armata.
I principi politici che presiedono al rapporto organizzativo delle forze rivoluzionarie e proletarie e che sono l'unità sulle finalità, sulla strategia, sulla linea e sul programma.
La militanza regolare e irregolare che sono entrambe condizioni strategiche per lo sviluppo della guerriglia.
L'organizzazione delle forze che è in istanze superiori e inferiori regolate dal centralismo democratico.
La cellula che è unità di base del Partito.
La costruzione dell'organizzazione che avviene per linee interne alla classe.
La guerriglia che organizza sul terreno armato e clandestino tutti i livelli che si dialettizzano con la proposta rivoluzionaria.
La centralizzazione del movimento delle forze sulla linea e sul programma politico intorno al piano di lavoro tramite il metodo politico-organizzativo, per sostenere il livello dello scontro ed incidervi con i termini politico-militari necessari ad operare sugli assi strategici.
Il riferimento al primato della prassi e al principio prassi/teoria/prassi, nel rapporto tra esperienza e teoria rivoluzionaria.
Lo sviluppo della linea politica in relazione ai cambiamenti storici della realtà dello scontro sulla base del principio di continuità/critica/sviluppo.
Il metodo politico-organizzativo come complesso di procedure e strumenti con cui sintetizzare i contenuti della linea politica in attività organizzate e fare dei termini del lavoro organizzato un carattere delle strutture da costruire.
L'esperienza maturata nel corso prolungato con lo Stato e con l'imperialismo, ha consentito di superare la visione manualistica che riduceva il processo rivoluzionario a due sole fasi, quella dell'accumulo delle forze rivoluzionarie e quella del loro dispiegamento nella guerra civile, e di definire il carattere illineare della successione delle fasi, e il loro riferirsi ai concreti esiti dello scontro. La strategia rivoluzionaria si articola tatticamente in rapporto alla natura della fase rivoluzionaria in corso e dispone le forze nello scontro corrispettivamente ai caratteri e ai compiti specifici della fase affinchè lo scontro rivoluzionario possa conquistare posizioni più avanzate e aprire una fase più favorevole. Caratteri e compiti che si riferiscono e vanno identificati nella concretezza del rapporto rivoluzione/controrivoluzione attestato, nei termini della mediazione politica che definiscono i caratteri generali dello scontro di classe, nei termini dello scontro tra imperialismo e antimperialismo.
L'attuale fase di Ricostruzione delle Forze Rivoluzionarie e Proletarie e di tutti i termini teorici politici organizzativi e militari per condurre lo scontro rivoluzionario, è nata all'interno della più generale Fase di Ritirata Strategica che ha impresso i suoi caratteri sul processo concreto di ricostruzione delle forze che si è avviato alla conclusione della manovra di ripiegamento.
L'intervento combattente delle Brigate Rosse operato nel maggio del 1999 si realizza a seguito di una lunga stasi dell'intervento nello scontro generale tra le classi, avendo potuto operare la ricostruzione delle forze e della capacità offensiva necessaria a realizzarlo e con esso rilanciare la proposta della Lotta Armata per il Comunismo.
Tale rilancio non ha esaurito i compiti della Fase di Ricostruzione delle Forze Rivoluzionarie e Proletarie, che continua ad essere in atto e ad essere improntata dalle fattori generali della Fase di Ritirata Strategica.
La contraddizione in cui si deve muovere oggi l'articolazione di una linea politica rivoluzionaria è tra lo stadio iniziale della ricostruzione delle forze in rapporto alla maturità politico-strategica del patrimonio della Lotta Armata per il Comunismo, e i mutamenti intervenuti dei caratteri della mediazione politica e dello scontro tra le classi in cui la controrivoluzione ha immesso quanto ha verificato funzionale a contrastare l'opzione rivoluzionaria, per comprimere e depotenziare l'espressione di istanze di autonomia politica di classe.
Contraddizione che inquadra il campo entro cui si definiscono i compiti della Fase per tutte le avanguardie rivoluzionarie con cui possono essere conquistate posizioni più avanzate e fatti concreti passaggi di costruzione del Pcc, e il cui punto di equilibrio e linea di superamento consiste nel selezionare i livelli di costruzione e formazione delle forze necessari e possibili e di sviluppo della linea politica, intorno alla priorità e sui piani della costruzione dell'iniziativa rivoluzionaria che la concreta capacità politico-militare può mettere in campo per incidere nello scontro.

ATTACCARE E DISARTICOLARE IL PROGETTO ANTIPROLETARIO E CONTRORIVOLUZIONARIO DI RIMODELLAZIONE ECONOMICO-SOCIALE NEOCORPORATIVA E DI RIFORMA DELLO STATO

ORGANIZZARE I TERMINI POLITICO-MILITARI PER RICOSTRUIRE I LIVELLI NECESSARI ALLO SVILUPPO DELLA GUERRA DI CLASSE DI LUNGA DURATA

ATTACCARE LE POLITICHE CENTRALI DELL'IMPERIALISMO, DALLA LINEA DI COESIONE EUROPEA, AI PROGETTI E ALLE STRATEGIE DI GUERRA E CONTRORIVOLUZIONARI DIRETTI DAGLI USA E DALLA NATO

PROMUOVERE LA COSTRUZIONE DEL FRONTE COMBATTENTE ANTIMPERIALISTA

TRASFORMARE LA GUERRA IMPERIALISTA IN AVANZAMENTO DELLA GUERRA DI CLASSE

ONORE A TUTTI I COMPAGNI E COMBATTENTI ANTIMPERIALISTI CADUTI

Brigate Rosse
per la costruzione del Partito Comunista Combattente


Il documento delle br- 7




In Italia con la sconfitta del fascismo le forme politiche dello Stato vengono ridefinite sulla base degli equilibri politici che avevano portato alla vittoria nella guerra e vengono condizionate dal peso che aveva assunto il proletariato, dal ruolo svolto dalle componenti partigiane comuniste, e dall'occupazione americana e dai flussi di crediti con cui il piano Marshall sostenne i partiti politici anticomunisti come la Dc, un rapporto economico-politico tra borghesia nazionale e Stati Uniti che verrà stretto nell'Alleanza Nato.
Gli Stati Uniti imporranno come condizione per l'ottenimento degli aiuti del Piano Marshall, le necessarie forme politiche democratiche come garanzia per la proprietà privata e l'investimento di capitali che si apprestavano a fare e per fare della ricostruzione dei paesi sconfitti nella guerra un baluardo della tenuta dell'imperialismo nell'equilibrio bipolare. Una condizione politica che impongono sempre, come è verificabile tuttora nei confronti dei paesi dell'Est europeo e asiatico e in generale, e che è costitutiva del rapporto di dominio imperialista.
Una condizione che presuppone il disarmo della Resistenza e l'amnistia ai fascisti, e il riconoscimento di queste forme politiche da parte delle forze che vi avevano partecipato tra cui il Pci, riconoscimento che sancisce il percorso revisionista di questo partito.
Il piano Marshall quindi supporta l'affermazione elettorale delle forze anticomuniste e la frammentazione del sindacato con la creazione della Cisl promossa dalla C.I.A., con cui viene importato il modello di corporativizzazione democratica dei sindacati sviluppatosi negli Stati Uniti e si avvia la repressione nelle fabbriche.
L'integrazione della catena imperialista intorno al capitale statunitense e all'alleanza Nato, il formarsi di una frazione di borghesia imperialista aggregata al capitale finanziario Usa e di un proletariato metropolitano costituiscono i termini attuali della contraddizione borghesia/proletariato della nuova fase politica in generale in tutto il campo imperialista entro cui si ripropongono i nodi dello sviluppo di una prassi rivoluzionaria adeguata a far avanzare una prospettiva di potere.
La controrivoluzione imperialista seguita alla seconda guerra mondiale acquisisce riattualizzandoli nel nuovo quadro della ricostruzione ed espansione post-bellica, alcuni dei termini della controrivoluzione costituita dal fascismo e dal nazismo, e dei livelli di controrivoluzione preventiva espressi dal New Deal roosveltiano. Termini assimilabili per il modo in cui il conflitto di classe poteva essere governato in relazione al carattere di fondo dell'intervento dello Stato nell'economia andatosi complessivamente intensificando dalla crisi del '29 in poi, stabilizzando in generale in ogni paese a capitalismo avanzato, la contrapposizione e la dialettica tra interessi sociali particolari, e la loro organizzazione e rappresentanza politica per comporli intorno a quelli generali della borghesia imperialista, quale elemento contenutistico della dinamica politica caratterizzante la dialettica democratica matura. Corrispettivamente la presenza stabile di forze armate americane in particolare nei paesi di confine della frattura bipolare, avvia l'attiva politica del polo dominante statunitense in funzione anticomunista interna ed esterna.
Le forme politico-statuali che caratterizzano gli Stati imperialisti incorporano i passaggi della controrivoluzione con cui viene stabilizzato l'assetto postbellico e che in quanto tali hanno una funzionalità relativa a prevenire le tendenze rivoluzionarie, la controrivoluzione preventiva diventa quindi un carattere strutturale delle forme politiche democratiche borghesi.
Si viene a delineare in sintesi un quadro politico interno e internazionale che compie un salto di qualità e che sarà quello a cui da questo momento in avanti si dovrà rapportare il processo rivoluzionario e la strategia per farlo avanzare e vincere.
Dal momento che lo Stato imperialista organizza e istituzionalizza un rapporto politico con il proletariato integrandone l'iniziativa politica nella democrazia borghese e calibrando a questo dato la propria azione soggettiva, invera appieno la tesi marxista della democrazia come l'involucro politico più adeguato, più solido per il potere della borghesia, un involucro politico che svuota le istanze di autonomia della classe facendone arretrare i termini storici e depotenzia le tendenze rivoluzionarie.
Questo dato qualifica in che consiste l' "aumentato peso della soggettività" nello scontro di classe, e impone alla prassi e alla strategia rivoluzionaria di impattare la progettualità politica dello Stato in grado di neutralizzare, svuotandole o reprimendole, le istanze antagoniste e l'iniziativa autonoma del proletariato che nasce dalla polarizzazione degli interessi che la crisi generale del capitale va sempre più approfondendo, e di convogliarne l'iniziativa politica intorno a quelle istanze e a quegli obiettivi generali della borghesia imperialista complessivamente tesi a governare la crisi-sviluppo del capitale. Senza questa capacità di impattare la progettualità politica dello Stato, l'iniziativa politica non distruggerebbe lo Stato nelle forme politiche che ha assunto, quindi non solo non sarebbe in grado di far avanzare un processo rivoluzionario ma nemmeno di avviarlo: ciò impone al proletariato di operare da subito in termini offensivi politico-militari attaccandone la progettualità, compito che deve essere assunto da ogni avanguardia rivoluzionaria conseguente, assumendo le forme organizzative adeguate a sostenere lo scontro prolungato con lo Stato, forme che vanno a caratterizzare il Partito come Partito Comunista Combattente.
L'integrazione economica-politica e militare degli Stati imperialisti nella catena intorno al polo dominante statunitense, impone alla prassi e alla strategia rivoluzionaria anche di impattare fin da subito l'imperialismo nella nostra area attaccandone le politiche centrali con cui la frazione dominante convoglia gli interessi generali della borghesia imperialista a sostenere i nodi comuni della crisi, della guerra imperialista e della controrivoluzione, pena l'impossibilità non solo di realizzare la rottura rivoluzionaria, ma di far avanzare lo stesso processo rivoluzionario, perché la borghesia imperialista concentra le sue forze per sconfiggere la rivoluzione proletaria e le lotte di liberazione, sia incrementando il suo sforzo preventivo che scatenando offensive controrivoluzionarie. Un dato politico storico che va ad innovare i caratteri dell'attuale tappa rivoluzionaria e pone all'ordine del giorno il nodo della costruzione di alleanze tra forze rivoluzionarie operanti nella medesima area geo-politica definendone il piano di sviluppo dell'attacco alle politiche centrali dell'imperialismo, e i termini organizzativi necessari del Fronte combattente antimperialista per conseguire la crisi politica dell'imperialismo ai fini dell'avanzata dei processi rivoluzionari.
Le Brigate Rosse sostengono che la tappa rivoluzionaria storica si realizza attraverso un processo di guerra di classe di lunga durata condotto nell'unità del politico e del militare e perciò la politica rivoluzionaria delle Brigate Rosse è la Strategia della Lotta Armata per il Comunismo, proposta a tutta la classe.
-La Strategia della Lotta Armata è la politica rivoluzionaria con cui le avanguardie comuniste organizzate nella guerriglia praticano obiettivi politicamente offensivi, cioe' rivolti all'indebolimento dello Stato nella sua azione di dominio sulla classe nella prospettiva della sua completa distruzione e danno avanzamento all'antagonismo proletario sul terreno di lotta per il potere. La Guerriglia con l'attacco militare contro l'azione dello Stato di governo della crisi e del conflitto, disarticolandone gli equilibri politici che la sostengono, agisce da partito per costruire il partito, opera la trasformazione dello scontro di classe in scontro per il potere, in guerra di classe, costruendo e disponendo le forze proletarie e rivoluzionarie che si dialettizzano alla linea e al programma politico proposti dalla guerriglia.
- Con la Strategia della Lotta Armata le avanguardie e il proletariato rivoluzionario immettono nello scontro di classe gli obiettivi dello scontro per il potere che costituiscono il programma politico intorno al quale costruire la guerra di classe di lunga durata, in funzione e relativamente alle diverse fasi che essa attraversa, sia quando sono connotate prevalentemente dal ripiegamento delle forze e dall'arretramento del proletariato, sia quando lo sono dall'attestamento di avanzamenti dello scontro rivoluzionario, aprendo il rapporto di guerra "fin da subito" e cioè in qualunque condizione storica, anche a partire da nuclei esigui di avanguardie rivoluzionarie che lo assumono soggettivamente come proprio terreno e obiettivo proponendolo alla classe.
-La guerra di classe è condotta nell'unità del politico e del militare, tanto nell'iniziativa politica che nell'organizzazione delle forze, perchè il potere della borghesia imperialista è organizzato in funzione antiproletaria e controrivoluzionaria con una progettualità e mezzi che integrano il piano politico e quello militare, e articola le sue iniziative o risposte politiche nella costante azione tesa a convogliare la lotta di classe all'interno di compatibilità economico-sociali e forme di rapporto istituzionalizzate per svuotarne la contrapposizione e annientarne la spinta antagonistica. L'iniziativa rivoluzionaria nelle diverse congiunture, deve rivolgersi quindi contro le politiche con cui lo Stato affronta la contraddizione dominante tra le classi, per disarticolare l'equilibrio politico dominante, rendere relativamente ingovernabili le contraddizioni e organizzare e disporre sullo scontro per il potere le avanguardie e i proletari rivoluzionari che riconoscono nel programma e nel progetto politico fatto vivere dal combattimento della guerriglia lo sbocco per la propria istanza di potere e per praticare gli obiettivi rivoluzionari storici, costruendo le forze rivoluzionarie e proletarie.
Il processo rivoluzionario nella metropoli imperialista è un processo di distruzione dello Stato che attraverso l'offensiva militare finalizzata alla sua disarticolazione politica dello Stato procede in relazione alla trasformazione concreta degli equilibri di forza e politici verso una fase di guerra dispiegata, processo in cui l'aspetto politico è sempre dominante.
In una condotta della guerra che è politico-militare, un'iniziativa politica e una componente organizzata corrispettiva, distinta dall'iniziativa militare e da una componente organizzata di tipo militare non ha funzione rispetto allo sviluppo della guerra ed è superflua anche qualora operasse in condizioni di clandestinità e compartimentazione che non la rendessero ostaggio del nemico. Nè nel centro imperialista esistono territori liberati o liberabili (e ciò per ragioni storiche di sviluppo delle forze produttive, di integrazione del territorio e di pervasività dell'ordinamento e apparato statale), nei quali sia esercitato il potere politico da parte di forze e strutture rivoluzionarie, la cui iniziativa è quindi materialmente separata da quella di forze militari che si riproducono in queste condizioni di potere e operano contro forze esterne.
Nelle condizioni dello scontro presenti nel centro imperialista la guerriglia vive in "stato di accerchiamento strategico" dall'inizio fino alla fase finale della presa del potere, ha quindi un rapporto con il nemico di guerra senza fronti, in cui non ci sono spazi politici diversi da quelli che si conquista la guerriglia per esistere ed avanzare e su cui attestare le forze organizzate. La guerra di classe nel centro imperialista nasce dall'attacco politico-militare al nemico e non da forze accumulate sufficienti a condurla nelle sue successive fasi.
-La guerriglia nel centro imperialista si relaziona quindi alle forze proletarie in funzione di costruirne l'attrezzamento politico e militare allo scontro prolungato con lo Stato, e non in funzione della qualificazione delle istanze e contenuti che si esprimono nell'ambito di un'iniziativa meramente politica: la guerriglia opera secondo una linea di massa politico-militare.
-La guerra non è costituita solo di iniziativa militare perchè è una guerra di classe in cui il nemico non è una forza militare, ma lo Stato, una forza politico-militare il cui rapporto con il proletariato è dominato dalla politica proprio in funzione controrivoluzionaria e della stabilità del proprio dominio, per cui l'attacco militare e la corrispettiva forza che occorre costruire per condurre la guerra, devono essere rivolti a colpirne l'azione politica, non le forze militari in quanto tali, devono esprimere una capacità offensiva politica selettiva dell'azione politica del nemico, per ottenere l'effetto del suo logoramento che consiste nella sua disarticolazione politica per la gran parte del processo di guerra, e la costruzione delle forze del proprio campo.
-La guerra di classe è di lunga durata perchè le contraddizioni intrinseche del capitalismo non portano a un crollo, il potere politico è stabile, la borghesia imperialista convoglia interessi sociali intorno al suo potere politico, opera strutturalmente per prevenire tendenze e sviluppi rivoluzionari, e perchè le condizioni di sviluppo della guerra di classe stessa, sono prodotte dell'azione soggettiva delle forze rivoluzionarie che deve realizzare un logoramento del nemico e una costruzione delle forze del proprio campo per poter arrivare a una rottura rivoluzionaria vincente.
-Il rapporto di guerra con lo Stato per aprire il processo rivoluzionario, sul piano storico ha potuto maturarsi anche come elevamento di un scontro fatto di confronti politici e militari, in contesti di crisi economico-politica, e all'interno della ricorrenza di episodi di scontro militare e nel confronto con una controrivoluzione preventiva non ancora affinata, quindi come risultante di tendenze spontanee all'elevamento dello scontro sociale e politico alle quali avanguardie rivoluzionarie organizzate sulla strategia della lotta armata hanno dato sbocco dirigendolo verso obiettivi rivoluzionari. Trasformare lo scontro di classe in guerra di classe, laddove lo Stato risponde, come ha fatto nel nostro paese, con un processo controrivoluzionario che riesce a contenere e a bloccare il processo rivoluzionario, e ad attestare nello scontro le misure, le pratiche politiche e le procedure di assorbimento che si sono manifestate nel loro insieme capaci di raggiungere quel risultato, richiede l'intrapresa di questo rapporto di scontro da parte delle ristrette avanguardie rivoluzionarie che, non potendosi formare in un movimento rivoluzionario, si costruiscono gli strumenti politico-strategici e organizzativi-militari acquisendo ciò che è maturato nel processo rivoluzionario e nel rapporto di scontro storico, per affrontare i nodi politici che si sono posti nel rapporto rivoluzione-controrivoluzione, con il rilancio della lotta per il potere nello scontro generale tra le classi.