30.3.05

FALSI D'AUTORE
"Bananas" di Marco Travaglio (L'Unità, 27 marzo 2005)

La decisione del ministro Maurizio Mediaset Gasparri di autosospendersi dall'Ordine dei Giornalisti in polemica con l'Unità ha gettato l'intera categoria nella costernazione. Anzitutto perla scoperta che, fino all'altroieri, ne faceva parte anche Gasparri. E poi per le irreparabili conseguenze che potrebbero derivare dall'eventuale revoca dell'autosospensione. Gasparri invoca, non si sa bene a quale titolo, il presidente della Repubblica. Ma non si esclude una richiesta d'intervento delle Forze Armate e dell'Esercito della Salvezza. Perché, spiega l'acuto ministro, urgono "sanzioni" esemplari "contro questi bugiardi". Non avendo però precisato a quali bugiardi intendesse riferirsi, sta per abbattersi sulla Nazione un'ondata di scuse senza precedenti, per tutte le bugie diramate negli ultimi dieci anni dagli amici e dagli alleati di Gasparri. Bugie che, di solito, non sono frutto di errori (come quello dell'Unità, che infatti s'è scusata): sono bufale costruite appositamente a tavolino (infatti non sono mai seguite da smentite né da scuse).
Con Gasparri si scuserà lo stesso Gasparri, per aver chiesto (insieme a Fini, Lainati e Butti di An e al leghista Caparini) le dimissioni del direttore del Tg3 Antonio Di Bella, con la falsa accusa di aver "manipolato" l'intervista alla vedova del maresciallo Bruno sulle torture nel carcere di Nassiriya. E anche per aver detto che la legge Gasparri non favorisce Mediaset, mentre il presidente di Mediaset Confalonieri ha rivelato che la Gasparri farà guadagnare al gruppo 1-2 miliardi di euro in più. Si scuserà Roberto Castelli, che ha lanciato su Giuliana Sgrena la falsa accusa di aver "causato lutti che si potevano evitare".
Si scuserà James Bondi, che ha additato Prodi come mandante della bocciatura di Eurostat sul bilancio italiano, mentre il commissario Alinunia ha detto che non è vero niente.
Si scuserà Berlusconi, che ha accusato in tv l'Unità di avergli dato del "mostro bavoso", mentre "mostro" gliel'aveva detto Bossi e "bavoso" è uno degli epiteti più gentili rovesciati su Prodi dal senatore forzista Guzzanti, sul Giornale di Berlusconi.
Si scuseranno Berlusconi e i suoi house organ per aver sostenuto per anni che la bobina del Bar Mandara era stata manipolata da due agenti dello Sco in combutta con i pm Boccassinie Colombo, totalmente scagionati dai giudici di Perugia.
Si scuseranno Berlusconi e i suoi house organ per aver accusato senza prove Prodi e De Benedetti di "svendita della Sme" e di "tangenti" sulla medesima: tangenti mai esistite.
Si scuseranno Studio Aperto, Tg1e Il Giornale per aver raccontato, nel gennaio 2003, alla vigilia della Cassazione sul "legittimo sospetto" al Tribunale di Milano, che i giudici del processo Mondadori tenevano la foto di Previti nella loro bacheca sotto una frase di Platone contro i tiranni: tutte balle.
Si scuseranno gli house organ berlusconiani per aver scritto che Stefania Ariosto era un'agente dei servizi segreti deviati e una provocatrice prezzolata dalla Guardia di Finanza: tutte balle.
Si scuserà il senatore Contestabile per aver accusato Stefania Ariosto di essersi inventata la morte di tre figli, mentre purtroppo la signora ha perso tre bambini per una grave malattia.
Sì scuserà Giuliano Ferrara (già noto per lo scoop-bufala del '97, quando su Panorama prese per buone le false accuse del parà Benedetto Bertini su torture dei militari della Folgore in Somalia), per aver montato, fra il '96 e il '98, una campagna i menzogne su tangenti di Pacini Battaglia ad Antonio Di Pietro, da lui definito "scespiriana baldracca", "troia dagli occhi ferrigni", "megalomane golpista" che "fa vomitare".
Si scuserà Vittorio Feltri per i leggendari scoop sul Giornale: "Alluvione: colpa dei Verdi", "P2, il golpe se l'è inventato la Anselmi", "Berlusconi cede la Fininvest", "Su Mani Pulite intervenga Amnesty International", "La lebbra sbarca in Sicilia", "16 casi di lebbra a Messina, contagiati 4 italiani" (dopo l'unanime smentita, anziché scusarsi, Feltri rilanciò:
"Niente allarme, ma servono controlli"), "Antonio Lubrano coinvolto in Affittopoli" (era Michele), "L'Arno è pronto ad allagare Firenze per la cattiva gestione del Pds" (firmato: Antonio Socci).
Si scuseranno gli house organ berlusconiani e i tg unificati per aver parlato per quattro mesi nel 2003 delle tangenti (nemmeno presunte) di Telekom Serbia a Prodi, Fassino, Dini, Rutelli, Veltroni e altri, dando credito al calunniatore Igor Marini.
Si scuserà il Giornale per l'intervista di Guzzanti a tale Zagami, noto peracottaro promosso a "supertestimone", il quale giurava di aver visto i miliardi di Milosevic trasportati in sacchi di juta dalla Serbia all'Italia e destinati ai leader dell'Ulivo. E anche per l'articolo di Guzzanti che accusò Rainews24 di aver manipolato l'ultima intervista di Borsellino, pienamente autentica.
Si scuseranno Panorama e Il Giornale per aver scritto che nel dicembre2002 la Boccassini incontrò in un hotel di Zurigo i giudici Castresana, Del Ponte e Paciotti per preparare l'arresto di Berlusconi, mentre quel giorno la Boccassini era a Milano, Castresana a Madrid, Paciotti a Bruxelles, Del Ponte in Tanzania.
Si scuseranno gli house organ berlusconiani per aver scritto che l'Irak era imbottito di armi di distruzione di massa (Il Giornale annunciò addirittura più volte di averle trovate), e non era vero.
Si scuseranno la Mondadori, Panorama, Il Foglio e il Giornale per aver pubblicato libri e articoli di Lino Jannuzzi (diffamatore graziato da Ciampi), in cui si accusano Caselli e i pm di Palermo di aver "suicidato"con Michele Santoro il maresciallo Lombardo per paura che riportasse in Italia il boss Badalamenti. Santoro e i pm han vinto tutte le cause: tale era la paura per Badalamenti, che fu interrogato dodici volte, e lui fece sempre scena muta. Si scuserà Canale 5 per aver consentito per anni a Vittorio Sgarbi di vomitare calunnie sui magistrati di Milano Palermo, chiamandoli "assassini", "mafiosi", "manipolatori di pentiti", e addirittura di accusare Caselli di essere il mandante morale dell'omicidio di don Pino Puglisi in base a una lettera anonima.
Si scuseranno Gasparri, Calderoli, Cicchitto, Pisanu, Castelli, con house organ al seguito, per aver accusato la gip Clementina Forleo di "liberare i terroristi", mentre l'imputato in questione, Mohamed Daki, è stato assolto e dunque non è un terrorista.
Le vittime di queste superbufale, non avendo tv a disposizione per montare un caso alla Storace, attendono ancora le scuse dei bufalari. Ma ora, grazie a Gasparri, nulla resterà impunito.
Di tutor, di più
CONTRORDINE di ALESSANDRO ROBECCHI

Secondo i nuovi orientamenti della riforma scolastica, le ultime cifre del mercato del lavoro e alcune battute di stampo satirico-economico del professor Brunetta, si può finalmente disegnare la nuova vita media di un ipotetico italiano medio in questo medio livello di merda in cui ci troviamo. Mediamente. 0-5 anni. L'età migliore, e infatti è difficile ricordarla. Mamma deve scegliere se lavorare per pagare il nido o risparmiare sul nido e non lavorare. Ma tu, perso nell'estasi dei tuoi bisogni primari, sembri felice.

6-14 anni. Hai il diritto-dovere di andare a scuola. Non è esattamente un obbligo, è un diritto-dovere, come quello del voto, lo stesso per cui alti prelati e vecchi politici invitano a non andare a votare. Diritto-dovere, da queste parti, è una formula retorica che significa: «fai un po' come cazzo ti pare».

15-18 anni. Scuola-lavoro. Stages. Apprendistato. Una volta lo pagava (poco) l'azienda dopo la scuola. Ora lo paga (niente) l'azienda durante la scuola. Confindustria si dice soddisfatta, chi l'avrebbe mai detto. Chi vigila sul fatto che questa faccenda dell'alternanza scuola-lavoro non sia un barbatrucco per fregarti un paio d'anni di (magro) salario? Vigila il Tutor. Esatto, nel volgere dell'anno che ti fa maggiorenne sei messo così: non hai praticamente più la scuola e non hai ancora un lavoro. Però hai il Tutor. E' il progresso. Coraggio, presto andrai anche a qualche convention. Il Tutor della legge Moratti ha dunque la funzione di inserirti lentamente e senza traumi nel mondo del lavoro. Dovevano chiamarlo Vaselina, ma poi hanno preferito Tutor, è più professionale.

19-24 anni. Il tuo stage è andato molto bene e ti ha dato dei crediti formativi e sei finalmente uscito dal tunnel della scuola. La tua alternanza scuola-lavoro ora è solo lavoro. E' sparito pure il Tutor, ora puoi farti male da solo. Qualche mese in nero, poi potrai godere di tutti i meravigliosi optional della legge Biagi/Maroni. Un anno a termine, uno a progetto, sei mesi a chiamata, di nuovo a termine, di nuovo a progetto e poi sei mesi a spasso, poi di nuovo a progetto eccetera.

25-30 anni. Non hai un vero lavoro, ma tre o quattro pezzettini che messi insieme potrebbero anche assomigliare a un'occupazione, con un salario che equivale a quello che ti chiedono per l'affitto di un monolocale. E' piuttosto seccante. Più seccante ancora che ad ogni momento ti si rinfacci di contrarre i consumi, di non comprare macchine o case, deprimendo così l'economia del paese. Non spendi, il declino è un po' anche colpa tua. Sei proprio uno stronzo.

30-35 anni. Ormai non hai più scuse, sei un adulto. Alla tua età tuo padre aveva già due figli e un lavoro con l'articolo 18 incastonato in oro su una montagna di privilegi comunisti. Alla tua età cominci a pensare di condividere la vita con un amore vero, ti piacerebbe avere dei figli veri e sai che per fare tutto questo ti servirebbe un lavoro vero. Chiedi consiglio alle aziende che fraternamente ti accompagnano nel tuo viaggio da anni, dai tempi del Tutor. E tutte ti esortano paternamente ad aprire una partita iva.

35-40 anni. Ne hai fatta di strada! Non hai un lavoro da almeno quindici anni. Bisogna festeggiare! Ti guardi indietro e sei stato di tutto, hai un curriculum bestiale. Sei stato parasubordinato, occasionale, somministrato, a tempo, a chiamata, a cottimo, a progetto, collaboratore, nonché un paio di volte stagista, un paio di volte borsista e qualche volta persino in contratto formazione-lavoro, per non parlare di quando sei stato co.co.co, co.co.pro. e altre sigle che non ti ricordi, ma che ti hanno permesso di arrancare fino a una vita normale. Secondo i tuoi calcoli al termine della tua avventura lavorativa, tra un quarto di secolo, potrai reclamare una pensione di ventun euro, virgola sessanta.

40-45 anni. Ora sei più che adulto, sei un signore, o una signora, di mezza età con figli, una vita strutturata.

45-50 anni. Finita la pacchia, amico! Ora stai per varcare quella soglia in cui da precario diventi «oggetto di tagli». Come dice il prof. Brunetta bisogna eliminare sprechi e privilegi, certi lussi sovietici tutti luccicanti come la «giungla della cassa integrazione», le pensioni di invalidità, i lavori socialmente utili. Insomma quei minimi air-bag antiurto che ti sono rimasti.

27.3.05

Sartre, il sabotatore di baguettes
Satira preventiva di Michele Serra

Sulle pagine del Corriere della Sera si discute animatamente del dissidio tra l'autore de "La nausea" e Raymond Aron. Piccola guida per fingere di capirci qualcosa

Era peggio Sartre o era meglio Aron? La formulazione della domanda, posta dal 'Corriere della Sera', può insospettire solo i malfidenti. Si tratta della freschissima polemica culturale che infiamma i cenacoli intellettuali, dei quali sia voi lettori che io desideriamo spasmodicamente fare parte: ecco dunque qualche modesto suggerimento per ben figurare in un'eventuale cena con Sergio Romano. Per prima cosa, documentarsi sui fatti. Basta un motore di ricerca su Internet. Alla voce 'Sartre' apparirà la definizione "filosofo francese", alla voce Aron "marca di carburante: fai la raccolta a punti nelle nostre stazioni di servizio!". Non demoralizzatevi. Cliccate sul sito www.cimiteridiparigi.com e troverete ampia documentazione sulla cerimonia di tumulazione di Raymond Aron (1905-1983). Verrete a sapere che il rito, a causa dell'ostilità della sinistra, fu celebrato quasi clandestinamente: vi parteciparono solo il presidente della Repubblica, la vedova Aron e un accademico di Francia molto anziano (era convinto di trovarsi al funerale di Georges Moustaki), che si smarrirono al Pantheon cercando vanamente il feretro, abbandonato in un corridoio dai necrofori della Cgt scesi in sciopero per odio ideologico nei confronti del grande pensatore liberale.

Particolare raccapricciante, insieme ad Aron furono seppelliti anche il suo editore, vivo, e le sue opere, su preciso mandato di un sottosegretario socialista che agiva per conto dei servizi sovietici. Le ha riscoperte il professor Panebianco, che durante un week-end a Parigi ha notato, tra i pochi fiori rinsecchiti che ornavano la lapide di Aron, pagine sparse appena scosse dalla fredda brezza invernale. Erano lacerti dell'ultimo manoscritto di Aron, un lungo e lucido saggio sul soggettivismo nella cultura europea, che il professor Panebianco ha curato e riedito con il titolo 'Il mio erede è Angelo Panebianco, che mi assomiglia molto anche fisicamente'.

Quanto a Sartre: vi basti sapere che era trigamo e maniaco sessuale, soleva accarezzare le studentesse sulle cosce e, con la scusa del suo forte strabismo, a volte riusciva ad accarezzarne due per volta. Praticava la tipica doppia morale comunista: ogni mattina comperava una dozzina di ostriche fresche nel quartiere latino, ma le nascondeva sotto il basco per non farsi scoprire dai suoi studenti. Per pura malvagità, e spirito anti-nazionalista, durante la guerra d'Algeria stortava le baguettes esposte dai fornai lungo i marciapiedi. Subito dopo, fortunatamente, passava Aron che le raddrizzava una per una.

Sartre aveva il cuore sulla Rive Gauche, ma il portafogli sulla Rive Droite, e per pagare il conto dei sordidi localini dove si ubriacava con la sua ultima ganza, la de Beauvoir, doveva attraversare la Senna per andare a fare un Bancomat. La sua opera più celebre, 'La nausea', era in realtà una tesi di laurea sulle conseguenze della dismenorrea, rubata a una studentessa di medicina da lui sedotta. Fu spacciata per grande romanzo dalla critica di sinistra. Morì nel 1980, tre anni prima di Aron, al solo scopo di accaparrarsi prima del suo acerrimo rivale l'ultimo loculo disponibile al Pantheon.

Lasciò due orribili inediti, prosecuzione ideale della 'Nausea': 'L'emicrania' e 'Il riflusso gastrico', ma la trilogia non vide mai la luce a causa delle gelosie tra le sue tre vedove. Altre differenze con Aron, tipiche del dualismo destra/sinistra: Sartre era brutto e sciatto, Aron bello ed elegante. Sartre indossava luridi maglioni a collo alto per nascondere la pappagorgia e le macchie sulla canottiera, Aron usciva solo con camicia candida e cravatta di seta, anche per andare a giocare a rugby con gli amici sul Lungosenna. Sartre era triste e negativo e ascoltava solo gli chansonnier aspiranti suicidi, Aron raccontava barzellette sui belgi e adorava Silvie Vartan. Sartre ebbe un successo clamoroso, Aron fu perseguitato e disconosciuto, tanto che per diventare accademico di Francia, ministro, ospite fisso all'Eliseo, ascoltatissimo consigliere di De Gaulle, uno degli uomini più potenti e influenti di Francia, dovette fingere di avere letto Sartre e di conoscerlo a memoria.

25.3.05

A destra si fanno neri
"CONTRORDINE" di ALESSANDRO ROBECCHI

Il gallo Asterix osserva i suoi nemici picchiarsi come tamburi e si lascia scappare questa freddura: «I goti che picchiano i goti! Che goturia!». Battuta antica, che si adatta bene al fenomenale avanspettacolo di questi giorni: fascisti che fregano fascisti, camerati che minacciano camerati, arditi che si giurano vendetta. Tra i labari e i saluti romani spuntano firme taroccate, incursioni informatiche, spionaggio cacio-e-pepe, parolacce e battute da caserma. Sono contro la violenza e non auspico certo che si arrivi al manganello. Ma una bella ciucca di olio di ricino, per fare la pace tra balilla e ricordare i vecchi tempi sì, mi farebbe piacere. Dunque, lo scenario. Da una parte la signora Mussolini, accompagnata dalla schiumazza del neo(?)nazismo nazionale. I Fiore, i Tilgher, roba brutta, insieme a giovinotti afflitti da alopecia e da un certo folklore celtico, nostalgici di zio Adolf, un po' ritardati che ancora se la menano con Evola e quelle cose lì. Dall'altra parte monsieur Storace, gerarca della regione Lazio, uno che del fascismo ha mantenuto il tono sprezzante delle dichiarazioni e una certa tensione nella mascella volitiva, ma come un travet democristiano distribuisce consulenze e finanziamenti, crea società, assume amici e amici degli amici, con particolare riferimento ai camerati della sua fazione. Tra queste due belle compagnie - due stili di vita, si direbbe - si muove oggi la gloriosa tradizione del fascismo italiano. Certo, sembra cabaret di bassa lega, ma se pensate che la bella scenetta avviene a un mese dal sessantesimo compleanno della Liberazione, quando i fascisti vennero cacciati a colpi di schioppo, la faccenda dà da pensare. Se non fosse una rissa da cortile, potrebbe somigliare persino a un dibattito storico: chi diavolo sono i fascisti? Secondo una semplificazione manesca - dunque in linea con l'ideologia in oggetto - i perfetti eredi del fascismo sarebbero oggi i camerati della Mussolini.

Non solo per il nome in ditta, che comunque conta, ma per quel loro agire arditamente, per la gadgettistica e financo per la grafica, piena di fiamme, tombe, scritte runiche sugli striscioni, croci celtiche e altra paccottiglia Predappio-style. Sarebbero una specie di fascisti antemarcia, burbanzosi bellimbusti che vanno a cercare «la bella morte», per fortuna soltanto a parole, perché la sanità nel Lazio è pur sempre pubblica e le ingessature finiremmo per pagarle noi. Nel programma elettorale hanno parole di fuoco contro «la burocrazia», i «cittadini in fila», prendendosela ovviamente con gli stranieri immigrati. Rilasciano dichiarazioni contro il Tar del Lazio, che è «come un soviet». Una caricatura, insomma. Dall'altra parte, invece, è il potere che traccia il solco, e i finanziamenti che lo difendono: Storace e la sua indefessa opera alla regione Lazio. Bella la finale di miss Intimo (un impegno nella cultura), ben graditi i finanziamenti alla fondazione Evola (non si scordano gli amici), fino ai soldi stanziati più volentieri per i comuni in mano alla destra, alla promessa (non mantenuta) di dentiere per gli anziani. Mentre Alessandra e la sua scapigliata Hitlerjugeland sono a prima della marcia su Roma, Storace è già avanti, installato in quella sorta di ministero che gestisce flussi di denaro, di potere, di incarichi. Con un po' di demagogia populista e molto dirigismo di stampo dittatoriale: pure i consiglieri regionali, pure i suoi, apprendono dai giornali le decisione prese e da prendere.

Qui si infrange il dibattito storico: per somma fortuna niente omicidi, deportazioni, leggi razziali, guerre coloniali e dittaura. Alla fine, nella scenetta edificante dove volano schiaffoni tra arditi antemarcia e gerarchi con l'auto blu, c'è molto di quella solenne pecionata che fu il dna del glorioso fascismo: battute maschie, populismo, promesse di dentiere, inni al coraggio, appalti concessi agli amici, sceneggiate napoletane, imbrogli e boia chi molla. Per stare al passo coi tempi c'è pure la pirateria informatica e gli hacker, ma anche qui in forma di burletta, perché gli hacker hanno usato una password, che è un po' come fare una rapina con le chiavi della banca. Fascisti. Spettacolo deprimente per il solo fatto di essere ancora in corso. Ancora oggi, dopo sessant'anni dal giorno in cui se ne andarono senza nemmeno salutare.

19.3.05

Tutto il papa, minuto per minuto
Satira preventiva di Michele Serra

l nuovo genere mediatico è il reality-pope: una trasmissione in tempo reale delle malattie, delle degenze e delle guarigioni del pontefice

La degenza del papa al Policlinico Gemelli ha avuto almeno due conseguenze di grande rilievo. La prima è che la finestra in alluminio anodizzato della stanza del papa dovrà essere sostituita perché le migliaia di ore di riprese tv fisse l'hanno surriscaldata e deformata fino a comprometterne la stabilità. La seconda è la nascita di un nuovo e fiorente genere mediatico, il reality-pope, basato sulla trasmissione ininterrotta, in tempo reale, delle malattie, delle degenze e delle guarigioni del pontefice.

Il record è del Tg1, che domenica 13 marzo per circa sei ore ha inquadrato in edizione straordinaria la fioriera di un marciapiede e l'insegna di un bar di Borgo Pio nei cui pressi avrebbe dovuto passare, di lì a poco, l'automobile che riportava il papa in Vaticano. Il clou della diretta consisteva nella trentina di secondi nei quali una telecamera interna all'auto pontificia, identica a quelle montate sul casco di Schumacher, avrebbe mostrato il papa, di nuca, che aziona l'alzavetri elettrico e smanetta sull'autoradio alla ricerca, inutile, di un'emittente che trasmetta del buon rock'n'roll e non la noiosissima cronaca del trasbordo papale.

Nel frattempo (un frattempo interminabile), uno straordinario telecronista è riuscito a descrivere per ore la lastricatura del percorso, l'itinerario degli storni sugli alberi circostanti, lo stato di consumo del battistrada della macchina del papa, il variare delle condizioni meteo nel quartiere, l'umore delle guardie svizzere, mentre scorrevano le immagini post-prandiali di Roma deserta.

La trasmissione era molto simile al primo piano di un navigatore satellitare inceppato, inframmezzato da vedute di San Pietro, zoomate sulla portineria del Gemelli e i gol di Brescia-Livorno, mandati in onda nei ritagli di tempo per dare spazio anche alla seconda confessione religiosa del paese, quella calcistica. Solo Coppi sul Tourmalet era stato atteso tanto a lungo, ma i tifosi con l'anchilosi da paracarro almeno non avevano dovuto parlare in un microfono per l'intera giornata. Il giornalista del Tg1 è stato invece costretto a parlare per un intero pomeriggio, commentando le inquadrature di mura, aiuole spartitraffico e strisce pedonali, e al termine della diretta ha dovuto essere a sua volta sottoposto a tracheotomia.

Le prossime dirette promettono nuove, grandiose novità. Si parla di una gastroscopia del papa trasmessa integralmente, seguendo il percorso della sonda dal magazzino fino al reparto analisi, con un'intervista-scoop al manutentore della sonda e un talk-show finale con il personale medico e paramedico del Gemelli. Alcuni degenti racconteranno le loro esperienze cliniche confrontandole con quelle del papa, sollecitati da un giornalista del Tg1, in pigiama anche lui per metterli a loro agio. Vittorio Sgarbi commenterà le radiografie meglio riuscite del papa alla luce delle tendenze dell'arte contemporanea.

Altri special, su tutte le reti: una prima serata su Canale 5 condotta da Enrico Mentana sulle agonie dei precedenti pontefici, con l'eccezionale documento sonoro degli ultimi colpi di tosse di Paolo VI e la testimonianza del fiorista che, per bruciare la concorrenza, riuscì a consegnare personalmente una corona funebre a Pio XII nonostante egli fosse ancora in vita. Un prezioso documentario sulle finestre del papa, intitolato 'Le finestre del papa', nel quale si succedono spettacolari inquadrature delle finestre del papa, in Vaticano e al Gemelli, immortalate nelle diverse stagioni. L'autore del documentario, un cineasta polacco allievo di Zanussi, spera di poter presentare al prossimo meeting di Rimini anche un nuovo, eccezionale lungometraggio, 'La tapparella del papa', nel quale si vede la finestra di Karol Wojtyla quando abitava in un condominio di Varsavia, al secondo piano, e alzava e abbassava personalmente la tapparella ogni mattina e ogni sera, non immaginando che sarebbe diventato papa e avrebbe avuto un addetto alle persiane.

Infine, è in preparazione una 'Paperissima' sui divertentissimi errori nel corso delle riprese tv al Gemelli: si va dalle inquadrature della finestra sbagliata, quella della camera di un ricoverato per appendicite costretto a benedire la folla pur di liberarsi dall'assedio dei cameramen, alle esilaranti immagini della cremazione di un inviato della tivù belga che si era addormentato nella camera mortuaria.
La dieta di Silvio
Buongiorno di Massimo Gramellini - La

17.3.05

[Autorizzo alla pubblicazione solo se in versione integrale.]

COMPLIMENTI AL CUOCO

di Luigi Castaldi (http://malvino.ilcannocchiale.it)

Ah, squisitissima! La pagina firmata questa settimana da Claudio Sabelli Fioretti sul Corriere della Sera - Magazine (11, 2005 - pagg. 52-54) è da leccarsi i baffi per più d'una delizia. Come a una cena di Trimalcione: ecco, arriva il cinghialone, dentro la pancia c'è l'abbacchio, che nella pancia ha una gallina, che nella pancia ha una quaglia, la cui pancia è farcita - oh, meraviglia! - di frattagliuzze sminuzzate e fritte di cinghialone, abbacchio e gallina, con rosmarino, timo e malva, sicuramente macerati per giorni e giorni nel vino, vino mielato, speziato di garofano e zafferano. Si tratta d'alta cucina, avrete capito, e di un cuoco che a dire il vero a me non è che piaccia troppo. Da umile lettore, qualche volta, gliel'ho pure detto: "Le sue interviste del giovedì, dottor Sabelli Fioretti, sono mosce. Lei, il coso, come si chiama, il personaggio, non lo sventra, non lo eviscera con cura, non gli ficca dentro niente, tanto meno l'imbottitura. Garofano, niente. Zafferano, macché. Lei, caro il mio intervistatore, ci offre il solito bollito misto, carni fatte grige, brodo volatilizzato?. Ma stavolta no. Stavolta ha preso un Ruggiero Guarino, l'ha sgozzato e messo a frollare, l'ha lasciato nell'aceto di mele, disossato, salato, pepato, rosolato nel burro, imbragato dello spago, messo nel forno. Un'ora e mezza a 280 gradi, con griller automatico, una cotogna in bocca e un quarto di limone in culo: un Guarini croccantissimo, grasso quanto basta, con quella bella crosticina dorata che dovreste sapere. E contorno di cicoria saltata. Il piatto parlava da solo. "Appartenevo a una famiglia in declino. I miei erano divorziati, mia madre continuava a dissipare il suo piccolo patrimonio giocando d'azzardo ma aveva la splendida virtù di non farmi capire che lo splendore delle nostre vite era basato su debiti e su qualche amante che l'aiutava. Io credevo d'essere miliardario. Quando capii che non era vero mi trovai solo e cominciai a frequentare amici alla mia portata, artisti, letterati. Tutti più o meno comunisti. Credo di essere l'unico intellettuale medio borghese che confessa che è arrivato alla causa proletaria per le frustrazioni e il risentimento". Alta cucina, avrete capito. Sul menù alla voce: "La diffido dal pubblicare l'intervista di cui mi ha mandato copia perché mutila e tendenziosa e comunque non mi ci riconosco". Una quaglia dentro una gallina dentro un abbacchio dentro un cinghialone. Cotogna in bocca, un quarto di limone in culo, voilà!
[Autorizzo alla pubblicazione solo se in versione integrale.]

COMPLIMENTI AL CUOCO

di Luigi Castaldi (http://malvino.ilcannocchiale.it)

Ah, squisitissima! La pagina firmata questa settimana da Claudio Sabelli Fioretti sul Corriere della Sera - Magazine (11, 2005 - pagg. 52-54) è da leccarsi i baffi per più d'una delizia. Come a una cena di Trimalcione: ecco, arriva il cinghialone, dentro la pancia c'è l'abbacchio, che nella pancia ha una gallina, che nella pancia ha una quaglia, la cui pancia è farcita - oh, meraviglia! - di frattagliuzze sminuzzate e fritte di cinghialone, abbacchio e gallina, con rosmarino, timo e malva, sicuramente macerati per giorni e giorni nel vino, vino mielato, speziato di garofano e zafferano. Si tratta d'alta cucina, avrete capito, e di un cuoco che a dire il vero a me non è che piaccia troppo. Da umile lettore, qualche volta, gliel'ho pure detto: "Le sue interviste del giovedì, dottor Sabelli Fioretti, sono mosce. Lei, il coso, come si chiama, il personaggio, non lo sventra, non lo eviscera con cura, non gli ficca dentro niente, tanto meno l'imbottitura. Garofano, niente. Zafferano, macché. Lei, caro il mio intervistatore, ci offre il solito bollito misto, carni fatte grige, brodo volatilizzato?. Ma stavolta no. Stavolta ha preso un Ruggiero Guarino, l'ha sgozzato e messo a frollare, l'ha lasciato nell'aceto di mele, disossato, salato, pepato, rosolato nel burro, imbragato dello spago, messo nel forno. Un'ora e mezza a 280 gradi, con griller automatico, una cotogna in bocca e un quarto di limone in culo: un Guarini croccantissimo, grasso quanto basta, con quella bella crosticina dorata che dovreste sapere. E contorno di cicoria saltata. Il piatto parlava da solo. "Appartenevo a una famiglia in declino. I miei erano divorziati, mia madre continuava a dissipare il suo piccolo patrimonio giocando d'azzardo ma aveva la splendida virtù di non farmi capire che lo splendore delle nostre vite era basato su debiti e su qualche amante che l'aiutava. Io credevo d'essere miliardario. Quando capii che non era vero mi trovai solo e cominciai a frequentare amici alla mia portata, artisti, letterati. Tutti più o meno comunisti. Credo di essere l'unico intellettuale medio borghese che confessa che è arrivato alla causa proletaria per le frustrazioni e il risentimento". Alta cucina, avrete capito. Sul menù alla voce: "La diffido dal pubblicare l'intervista di cui mi ha mandato copia perché mutila e tendenziosa e comunque non mi ci riconosco". Una quaglia dentro una gallina dentro un abbacchio dentro un cinghialone. Cotogna in bocca, un quarto di limone in culo, voilà!

16.3.05

Il primogenito di Bossi: ci sono anch'io


Intervista di Gian Antonio Stella per il Corriere della Sera

«Ero anch’io lì, con mio padre, nella casa di Cattaneo, quando hanno fatto quella fotografia. È che c’era una finestra sola...». Per questo, dice, è stato immortalato col papà solo suo fratello Renzo. Scalogna. Tutte le foto per lui. E dopo le foto, l’intervista ad Aldo Cazzullo. Dove il leader della Lega spiegava che l’immagine era «un messaggio chiaro su chi verrà» dopo di lui: «Quando passerò la mano, non certo adesso, qualcosa di me resterà». Così Riccardo Bossi, il figlio avuto dal Senatur nel matrimonio precedente, prima ancora che il padre correggesse il tiro col Giorno, ha afferrato il telefono e chiamato il Corriere: «Vorrei precisare il mio pensiero». Eccolo qua. Alto, grosso, mascella quadrata, sopracciglie folte, vestito blu, cravatta bianca e azzurra, occhiali neri. Un misto tra il Senatùr e il mitico Don Akroyd dei «Blues Brothers». Diplomato in ragioneria, ha 27 anni, è tornato a iscriversi a Scienze politiche dopo qualche anno di latitanza e muore dalla voglia di far politica: «Sa», spiega Maruska, la vistosa fidanzata bionda, «è stato scritto che non è stato preso in considerazione per la successione... Era necessario che dicesse qualcosa di inerente. È un equivoco. E poi, diciamo che più ancora che il segretario è il popolo leghista che vorrebbe vedere nel successore di Bossi un altro Bossi».
Deluso dall’intervista di suo padre?
«Ma per carità. Io ho un ottimo rapporto con la Manuela, si sta facendo un bel mazzo. E anche coi miei fratellini... Buonissimo».
E allora?
«Ognuno dice quello che pensa. Certo, non è che un giornalista possa inventarsi tutto. Anche se mio papà ha precisato poi che non c’era nessuna investitura. Mi ha dato fastidio il commento. Pareva che mi avesse tagliato fuori. Non è così. Non capisco perché voi giornalisti... ».
Guardi che è suo padre ad avere aspettato un po’ prima di precisare.
«Sì, però...».
E pareva così pacifica, la cosa, che Calderoli e Castelli si erano precipitati a dire: bene, bravo, ottima scelta... «Non commento. È stato un gesto d’affetto. Questo è un paese democratico e...».
Ma non monarchico: ammetterà che un leader che designa suo figlio...
«Gliel’ho detto come è andata. Tutta colpa di una foto. Nella Lega c’è posto per me, per Renzo, per tutti quelli che vogliono impegnarsi. Io sono un ragazzo che parte sempre dal gradino più basso in assoluto ».
Oddio: l’hanno piazzata a fare l’assistente di Speroni a Bruxelles...
«Ma io, prima, mi sono fatto un mazzo così, sa? Non ho nessun problema ad andare ad attaccare i manifesti, io. Ci mancherebbe... Lo faccio più che volentieri. Nessuno deve essere paraculato».
Scusi?
«Preferisco partire dal basso».
A Bruxelles.
«Mi è seccato che mi abbiate messo sul Corriere per l’assunzione come assistente. Con tutte le clientele che ci sono in giro...».
Se l’avesse fatto Mastella, di far assumere suo figlio in Europa, la Padania l’avrebbe sparato in prima pagina e lei lo sa.
«Può darsi. Non so... Comunque ogni deputato ha diritto di scegliersi chi vuole. È una scelta privata».
Con soldi pubblici.
«Io sono tassato su quei soldi lì, eh! Non ho il cadreghino, io».
E cos’è?
«Non è un cadreghino. Se lei vedesse il mio contratto...».
E che fa, a Bruxelles?
«Il mio lavoro è andare in Aula, ascoltare, segnarmi quello che dicono... Ovviamente agli affari esteri. Si può parlare del Kosovo piuttosto che della Turchia. Si preparano gli emendamenti, si organizzano delle cose... Un discorso importante sono i dazi. Anche perché qui, ragazzi, le aziende fanno fatica. Fatiiiica... D’altronde... La Cina... Si parla della nazione più popolosa al mondo... Eh, insomma... Qualche grosso problema lo sta creando...».
Ma lei cosa vuol fare da grande?
«Intanto riprendo gli studi. Poi sicuramente la politica è un mondo che mi attrae... Sempre con rispetto di mio padre. Grande rispetto di mio padre. Prima c’è lui, perché è mio padre, poi viene la Lega e la gente della Lega... Ho una buona dialettica, non ho paura di parlare di niente qualunque persona anche importante abbia davanti o qualunque domanda mi faccia. Voglio dare una mano a mio padre e alla Lega. Ma prima devo studiare. E pensare. Ecco, questa è una materia che metterei a scuola: pensare. Sinceramente: manca».
I figli in politica, di solito, vanno così così.
«Chi l’ha detto? Se hai passione e hai davanti uno che ti insegna può diventare una bella passione. Una bella passione».
L’ultimo esame all’università?
«Oh! Qualche anno fa. Sto riprendendo adesso».
Il suo personaggio politico preferito, a parte suo padre?
«No comment».
Scherza?
«La Lega! Tutta! Il ministro Calderoli sta lavorando bene. Anche Maroni. Certo, Roma... Ci sono stato, all’interno delle istituzioni. Mio padre mi portava quando ero piccolo. Bel mondo, sa? Però...».
Il suo mito?
«Napoleone.A casa ho anche i busti. Insomma, qualcuna ne ha combinata. Grande condottiero. Grande. Sono andato anche a vedere il campo di battaglia dove perse».
Dove?
«A... Dai che non mi viene... OSignùr, come si chiama? ».
Waterloo?
«Ecco. Waterloo. Grande, Napoleone. Morto in esilio col suo uomo fedele al fianco che ha bloccato l’ora dell’orologio. Diciassette e 48 minuti. Mi pare». Oltre a Napoleone?
«Marco Aurelio», suggerisce Maruska. Lui: «No, no. L’impero romano non lo considero. Non sopporto ’sta Roma de noantri... L’impero romano, per carità! Non lo considero. Gusti personali. Carlo Cattaneo, ecco».
Altri?
«Umberto Bossi».
Napoleone, Cattaneo e Bossi...
«Oh, qualcosa ha fatto. Quando facevo le medie, sui libri, c’era già Umberto Bossi!».
Insomma, lei oggi vuol dire: sono qua.
«Certo. Visto che non è mai stato affiancato il mio nome a quello di mio padre è giusto che si capisca una cosa: io sono veramente vicino a lui. È un grande esempio per me. Un grande professore. Io amo la Lega. Amo la Padania».
Oltre a queste, che passioni ha?
«Sono un tifoso del Milan. Grandissimo tifoso del Milan».
Che libri ha sul comodino?
«Vento del nord. Lo leggo sempre».
Perché, quante volte l’ha letto?
«Tre, quattro... Non so. È un libro che mi piace rileggere spesso».
Insomma, è la sua Bibbia?
«Ecco, sì, la mia Bibbia. Mi fa capire... È come se mio padre mi parlasse. Ma le dicevo: il Milan... ».
Scusi: oltre a Vento del nord quali libri...
«Uff! Ne ho letti tanti... Ken Follett... E molti quotidiani. Molti. La Padania per primo. Ecco, sport ne ho fatto parecchio... Calcio. Portiere. Sempre stato portiere».
Pugilato?
«Boxe thailandese».
Quindi all’occorrenza potrebbe menare...
«Per carità! Fortunatamente Gesù Cristo ci ha dato il cervello. Ritengo l’intelligenza umana la miglior macchina concepita al mondo».
Religioso?
«Sì».
A messa la domenica?
«No».
Ogni quanto?
«Non me lo ricordo».
Musica?
«Musica... Sì, mi piace. Anche la classica....».
Per esempio?
«Ho comprato recentemente un cd...».
Come si chiama?
«I pagliacci. E’ stato fatto da... Come si chiama? E poi Maria Callas. La divina. Ricorda un po’ la Maruska. Il naso, forse... E gli U2. Ecco, i quotidiani. Li leggo tantissimo. La pagina politica me la impongo per prima».
Cinema?
«L’ultimo è stato La Passione di Cristo. Un film che sono rimasto lì».
Ah...
«Ma preferisco Sky. Nella mia collezione di film ho Il padrino, Braveheart, che guardo spesso... Ne ho parecchi... Ultimamente ho preso quelli di Kubrick».
Belli?
«Mai guardati. Un paaaazzo!».
E perché li ha presi?
«Erano allegati a un giornale. Sai, ti fai la collezione... Ho visto Gli angeli di Borsellino. Il muro di gomma mi ha lasciato pensare molto».
Fra dieci anni come si vede: ministro?
«No. Troppo giovane».
Qualcuno l’ha fatto, a 36 anni.
«Se lavoro e mi impegno...».
Grazie.
«Che titolo mi fate?».
Potrebbe essere: «Ci sono anch’io».
«Bello. Me pias. Ci sono anch’io».

Gian Antonio Stella
16 marzo 2005

13.3.05

ELENCHI FASULLI - Trucchi per tutti (con prescrizione)
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera)

Hanno del fegato, gli indignati che ieri hanno sdiluviato dall’una e dall’altra parte in focosi commenti sull’esclusione dalle Regionali laziali di Alessandra Mussolini. Ha del fegato chi da sinistra sbraca come Mario Di Carlo che «l’eliminazione è l'ultimo trucco del prestigiatore Storace» e tuona «basta con la politica dei trucchi e dei guardaspalle!». E ha del fegato chi da destra gongola come lo stesso governatore uscente: «Salutateme Marrazzo!». Per non dire della nipote del Duce che strilla: «È un regime alla Ceausescu!». Tutti sfoghi che grondano ipocrisia quanto trabocca d’acqua la cascata dell’Iguassù.
Non c’è partito infatti, in tutta l’Italia, che non sia stato beccato in passato con le mani sporcate dall’inchiostro delle firme false. Perfino i radicali, cui va riconosciuto il merito di avere condotto per anni una battaglia praticamente solitaria di puntuale, sistematica, documentata denuncia di un’infinità di brogli, finirono qualche anno fa per essere sfiorati da una delle tante inchieste della magistratura su questo fenomeno che infetta la nostra vita democratica. Quella condotta dai giudici di Udine sulle provinciali e le comunali del ’95 che vide l’arresto di 11 persone e il rinvio a giudizio di 71. Col coinvolgimento più o meno grave di Alleanza Nazionale, Forza Italia, Ccd, Lista Pannella, Lega Friuli, Pds, Verdi colomba, civica «Per Udine», Patto Democratici e Ppi. Insomma: tutti o quasi tutti.
Se per i radicali si trattò di un peccato isolato, almeno stando alle indagini precedenti e successive, non così si può dire degli altri. Che in materia sono diventati nel tempo dei fuorilegge incalliti. Hanno imbrogliato spessissimo sulle liste gli eredi della Dc, la quale aveva una lunga tradizione anche di congressi decisi grazie alla delega di iscritti morti e defunti, i cui nomi erano stati recuperati tra le scartoffie di sezioni sbarrate da tempo immemorabile o addirittura dalle lapidi dei cimiteri. Per fare solo alcuni casi, basterà ricordare l’inchiesta sulle firme false raccolte in Trentino alle ultime politiche per Sergio Mattarella, quelle alle comunali di Monza per l’Udc di Marco Follini o ancora quelle tirate su a Genova per le comunali del 1997, dove risultarono false 428 su un totale di 1.270 sottoscrizioni presentate dal Ccd di Pier Ferdinando Casini e dal Cdu di Rocco Buttiglione.
Diceva già tutto quella inchiesta genovese di otto anni fa, nella quale si inguaiarono 49 esponenti delle varie forze politiche. Erano false 310 firme su 1.148 del Msi-Fiamma tricolore, 314 su 1.261 delle Liste civiche associate, 187 su 1.183 dell’asse Pri-Socialisti, 153 su 1.133 del Ppi e 161 su 1.141 dei Verdi, 388 su 1.351 del Rinnovamento italiano di Lamberto Dini... Da non confondere col «Rinnovamento» di Rodolfo Marusi Guareschi, il fondatore della Repubblica della Terra che nella sua reggia di Sant’Ilario d’Enza, da dove prometteva l’abolizione della morte («Un problema gradualmente risolvibile») e garantiva «la dimostrazione della ragione e del torto», fu raggiunto dall’avviso che nella faccenda delle liste fasulle avevano beccato pure lui.
E la Lega Nord, nata per cambiare finalmente i «vecchi sistemi della politica romana»? Beccata. Più volte. Come per esempio in Toscana, alle ultime politiche del 2001. Nella cui scia sono stati condannati con rito abbreviato l’allora presidente regionale Vincenzo Soldati e tre suoi assistenti: per tirar su le firme avevano loro pure, come i vecchi e disprezzati satrapi socialisti e socialdemocratici della prima repubblica, resuscitato un po’ di morti.
La storia di questi ultimi anni è ricchissima di episodi. Erano false, per i giudici, le firme raccolte da Forza Italia che permisero agli azzurri di conquistare Rossano Calabro. False le 4.000 firme convalidate a Torino per «Rinnovamento» dal cancelliere Giuseppe Santoro, finito in manette con l’accusa di aver intascato in cambio una decina di milioni. False molte firme collezionate dal Fronte Nazionale alle Europee del 1999. False addirittura 574 delle 725 firme presentate da Forza Italia, Alleanza Nazionale e Ccd per candidare alle suppletive di Bologna del 1999 il vegliardo docente di ematologia Sante Tura. False migliaia di firme rastrellate per vari candidati alle ultime «politiche» da sette personaggi di spicco della Casa della Libertà a Bologna. False centinaia e centinaia di firme alle ultime regionali del Molise, chiuse con la decisione della Digos di denunciare 16 segretari provinciali dei partiti (fatta eccezione per i Democratici) e 22 pubblici ufficiali. Quasi certamente false tantissime firme raccolte alle regionali del 2000 da un po’ tutti i partiti e un po’ ovunque. Basti pensare a tutti quei casi in cui, come denunciarono i radicali in 83 esposti a tutte le Procure, chi c’era e chi non c’era in lista fu deciso solo all’ultimo istante. Troppo tardi per poi svolgere tutte le pratiche in linea con la legge. Insomma: un andazzo vergognoso. Chiuso all’italiana: con l'abolizione del reato. Avvenuta a metà luglio del 2003. Quando la maggioranza di centro-destra varò (270 sì, 154 no, 5 astenuti) la depenalizzazione.
Niente più arresti e condanne a uno o due anni di carcere: d’ora in avanti, al massimo un’ammenda da 500 a 2.000 euro. Tanto che sia gli imputati di destra per gli imbrogli di Bologna sia quelli di sinistra per gli imbrogli di Trento, sono stati subito prosciolti: prescrizione. All’estero, almeno nei Paesi seri, direbbero forse che non c’è vera democrazia là dove si può imbrogliare impunemente sulle liste elettorali pagando un obolo inferiore a certe contravvenzioni stradali.
Qui da noi, davanti alle «critiche di tipo giustizialista» (testuale), il relatore Michele Saponara spiegò che, in fondo, questi imbrogli sulle firme «non sono reati pericolosi socialmente». Peggio, aggiunse: «Molti Tribunali avevano i processi sospesi per conoscere l’esito di questa legge e non potevamo indugiare oltre». Per capirci: gli imbroglioni andavano tirati fuori dai guai. Almeno lui, ieri, ha avuto il buon gusto di non avventurarsi nei commenti.
Niente paura è solo fuoco amico
SATIRA PREVENTIVA di Michele Serra

Dalla guerra di Secessione all'Iraq ecco tutti i casi di spari "affettuosi"

Il termine 'fuoco amico' fa parte delle più antiche e solide tradizioni americane, come il barbecue e la torta di mele. Le sue origini sono molto remote: secondo alcuni storici il primo caso di fuoco amico si verificò quando il reverendo Moses Tribulation, appena sceso dal Mayflower, ebbe una disputa teologica con altri padri pellegrini a proposito del concetto di predestinazione. Per dimostrare che tutto avviene per volontà di Dio, Tribulation sparò due colpi di spingarda a occhi chiusi, centrando la moglie e il figlio undicenne.

Altre fonti citano il caso dell'anziano pistolero Buddy Loack (detto 'Cataratta'), che durante un duello sulla strada principale di Dodge City uccise nove suore convinto che fossero banditi messicani. "Erano sagome piccole e grasse, e giurerei che avevano i baffi", si giustificò Buddy dopo la sparatoria, quando venne informato che non solo erano suore, ma non si trovava neppure a Dodge City, bensì nella mensa di un convento in Pennsylvania.

Questo per quanto riguarda la leggenda. Restando alla verità storica, gli episodi di fuoco amico, dalla guerra di Secessione fino all'Iraq, sono molteplici. Questi i principali.

Little Big Horn Circondati dagli indiani, il generale Custer e i suoi uomini si erano disposti nella caratteristica posizione a cerchio. Fu fatale una frettolosa consultazione del Manuale dell'Accademia Militare, che Custer aveva sempre con sé: poiché gli erano caduti gli occhiali, e per giunta teneva il libro a rovescio, il generale saltò una riga e lesse "sparare verso l'interno" anziché "per carità, non fate mai la stronzata di sparare verso l'interno!". Non ci furono superstiti. Alla figura di Custer si ispira ancora oggi molto cinema, dal ciclo dell'Ispettore Clouseau alle pubblicità progresso contro l'abuso di alcolici.

Vietnam Durante un volo radente, il pilota di un elicottero da combattimento scommise con il suo secondo che avrebbe volato così basso da poter leggere distintamente il numero di scarpe dei vietcong. Essendo i vietcong scalzi, il pilota perse la scommessa e nel frattempo decapitò con le pale una colonna di marines al completo.

Dallas Non è vero che Lee Oswald intendeva uccidere John Kennedy. Voleva solo mettere fuori uso il parchimetro davanti a casa, come ogni mattina, perché non aveva le monetine per prolungare la sosta. Il corteo presidenziale passò davanti al parchimetro nel momento sbagliato. Vera, invece, la versione secondo la quale fu un mafioso a uccidere per vendetta lo stesso Oswald: la mafia gestiva i parchimetri cittadini ed era esasperata dal comportamento di Oswald.

Somalia Appena sbarcati in Somalia, per colpa di ordini lacunosi, i marines chiesero ai pescatori del luogo le indicazioni per Parigi. Di fronte alle risposte confuse dei locali, che rifiutavano di parlare francese e sorridevano in modo infido, i marines persero la testa e lanciarono granate contro un villaggio turistico, infliggendo una morte orribile a sei animatori. L'incidente è caduto nel dimenticatoio perché nessun ente internazionale si è sentito di assumere le difese degli animatori turistici.

Saturno Durante il recente sbarco su Saturno la popolazione locale, costituita da filamenti verdastri, è stata ritenuta ostile dall'intelligence perché rifiutava di indire immediatamente libere elezioni, e distrutta col lanciafiamme. Solo dopo si è saputo che i filamenti erano filoamericani, e la vera popolazione dominante era formata da enormi funghi sotterranei, tutti membri di Al Qaeda, sopravvissuti indisturbati all'invasione americana.

Iraq Gli ordini del Pentagono sono chiari: nell'ordinaria amministrazione è in vigore la tattica morbida, "sparare a tutto quello che si muove", in casi di emergenza scatta la tattica dura, "sparare anche a tutto quello che non si muove". Tra le vittime, diversi bassorilievi del museo di Ninive e i relativi uscieri, qualche migliaio di civili iracheni scambiati per civili iracheni, gatti, cammelli, insegnanti di scuola media, coppie di barellieri, le carpe del Tigri, una squadra di calcio panchina compresa, un camion dei rifiuti e un generale del quinto corpo d'armata che per fare uno scherzo la notte di Halloween si è presentato a un check-point travestito da Freddy Krueger.
Appello di fine Legislatura
di Bartolomeo Sorge S.I.

Nonostante la crisi strisciante, l’ipotesi più probabile è che il Governo giunga alla sua scadenza naturale. Anche in questo caso, però, è certo che le elezioni regionali e amministrative di primavera daranno il via nello stesso tempo all’ultima fase della Legislatura e alla campagna elettorale per le politiche del 2006. Sembra dunque questo il momento opportuno per proporre alcune serie considerazioni, affinché gli italiani riflettano sulla situazione presente e sulle scelte da fare.
La XIV Legislatura passerà alla storia come quella del «berlusconismo». È un brutto neologismo, ma è destinato a restare. Sta per: «fare politica prevalentemente nell’interesse proprio e dei propri amici (e dei ceti medio-alti)». Apparve fin dall’inizio che Berlusconi era preoccupato anzitutto di provvedere agli interessi propri e dei suoi. Infatti, cominciò a eliminare l’imposta di successione e quella sulle donazioni, a depenalizzare il falso in bilancio, a legalizzare il rientro dei capitali esportati illegalmente, e diede il via a una serie ininterrotta di condoni e di sanatorie; quindi, per difendere sé e i suoi dalla «persecuzione» della magistratura, tergiversò sulle rogatorie internazionali e sul mandato di cattura europeo, autorizzò la sospensione o il trasferimento dei processi per «legittimo sospetto» (legge Cirami), fino a giungere — ai nostri giorni — a ridurre i termini di prescrizione, con l’intento trasparente di salvare l’amico Previti (legge Cirielli).
Era fatale che, perseguendo interessi personali o di gruppo, prima o poi si finisse col trasgredire non solo lo spirito, ma la lettera stessa della Costituzione. I numerosi casi di leggi bocciate per incostituzionalità dal Capo dello Stato e dalla Corte Costituzionale devono fare riflettere. Se prima le «lamentele» venivano sostanzialmente dall’opposizione o anche da voci autorevoli indipendenti, negli ultimi tempi sono dovute intervenire le stesse istituzioni preposte alla difesa della democrazia. È stato il caso, per esempio, della legge Bossi-Fini, bocciata su un punto delicatissimo di cultura giuridica come le garanzie processuali e le restrizioni della libertà personale; del «lodo Schifani», che mirava a «congelare» i processi a carico delle più alte cariche dello Stato; della legge Gasparri sul riassetto del sistema radiotelevisivo; della riforma dell’ordinamento giudiziario, fiore all’occhiello del Governo. E sarà difficile che eviti lo scoglio della incostituzionalità il progetto di legge costituzionale sulla devolution, tuttora in itinere.
I frequenti interventi degli organi supremi preposti alla tutela dello Stato democratico sono la conferma autorevole che oggi in Italia è in atto il tentativo di modificare le basi della convivenza sociale e politica del Paese, attraverso lo sconvolgimento della Costituzione repubblicana. È ben vero che molti in politica hanno fatto i propri affari anche prima di Berlusconi, anche nella prima Repubblica, anche con il centro-sinistra. Oggi però non si tratta solo di un calo di tensione morale, ma il problema si pone a un livello più alto e pericoloso, tanto da obbligare a intervenire ripetutamente le istituzioni di tutela della democrazia.
A questo punto emerge con chiarezza il vizio intrinseco del «berlusconismo», inteso sia come programma, sia come filosofia politica: la mancanza di senso dello Stato e del bene comune, da cui è affetto in radice, finisce col favorire la illegalità e mette a repentaglio la stessa democrazia. Ecco perché non si può più tacere. È un grave dovere morale aprire gli occhi di quanti aderiscono al «berlusconismo» in buona fede, soprattutto di quei «cattolici» che lo ritengono in linea con la dottrina sociale della Chiesa, solo perché ha approvato la legge sulla procreazione assistita, si oppone al riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali o finanzia gli oratori.
Perciò è importante: 1) prendere coscienza delle premesse teoriche errate su cui poggia il «berlusconismo»; 2) denunciare simmetricamente le gravi responsabilità del gruppo dirigente dell’opposizione; 3) rinnovare l’appello ai «liberi e forti», affinché i riformisti mostrino di essere effettivamente pronti all’alternativa di Governo.

1. Le premesse errate del «berlusconismo»
Il pensiero politico moderno considera giustamente il principio del bene comune fondato sul primato della persona come il cardine della democrazia rappresentativa. Dal canto suo, l’insegnamento sociale cristiano rafforza ulteriormente questo principio, quando afferma che «il bene comune è la ragion d’essere dell’autorità politica» (Compendio della dottrina sociale della Chiesa [CDS], n. 168); in altre parole, lo Stato e i politici hanno il dovere morale di anteporre sempre il bene comune agli interessi individuali o di parte. Ciò comporta in concreto che, «nello Stato democratico, in cui le decisioni sono solitamente assunte a maggioranza dai rappresentanti della volontà popolare, coloro ai quali compete la responsabilità di governo sono tenuti a interpretare il bene comune del loro Paese non soltanto secondo gli orientamenti della maggioranza, ma nella prospettiva del bene effettivo di tutti i membri della comunità civile, compresi quelli in posizione di minoranza» (ivi, n. 169).
Se questo è il principio cardine della democrazia moderna e dell’insegnamento sociale della Chiesa, appare subito quanto il «berlusconismo» sia lontano dall’una e dall’altro. Infatti, la concezione neoliberista a cui esso si ispira lo porta, all’opposto, a privilegiare gli interessi personali e privati e a concepire il bene comune come la somma del benessere degli individui. Favorisce perciò i ceti medio-alti piuttosto che le fasce popolari, nella persuasione che se i ricchi stanno meglio, anche i poveri ne trarranno vantaggio. Si spiega così, per esempio, perché presti più attenzione allo sviluppo del Centro-Nord che a quello del Sud; perché, confondendo solidarietà con assistenzialismo, propugni lo smantellamento dello Stato sociale, anziché la sua riforma. La medesima ispirazione ideologica individualistica e utilitaristica spiega perché i principi della «partecipazione responsabile» e della «concertazione» siano stati sostituiti con quelli della «competitività» e della «logica ferrea della maggioranza», introducendo nella vita della comunità nazionale fattori di continua conflittualità.
Tutto ciò non solo contrasta con la concezione stessa della democrazia rappresentativa, ma è esattamente il contrario di quella «forte tensione morale» nella ricerca del bene comune, su cui tanto insiste la dottrina sociale della Chiesa, necessaria «affinché la gestione della vita pubblica sia il frutto della corresponsabilità di ognuno nei confronti del bene comune»; è questo «uno dei pilastri di tutti gli ordinamenti democratici, oltre che una delle maggiori garanzie di permanenza della democrazia» (ivi, nn. 189 s.).
Ora, se il «berlusconismo» fosse soltanto una delle tante concezioni politiche che si confrontano liberamente nel rispetto delle regole democratiche, il pericolo di guasti irreparabili sarebbe relativo. La sua pericolosità per la stessa vita democratica deriva invece dal fatto che una sola persona ha in mano tutti i poteri: da un lato, dispone direttamente del legislativo e dell’esecutivo, dall’altro condiziona l’economico e il mediatico. L’unico potere che finora le sfuggiva era quello giudiziario; ma anch’esso sta per essere messo sotto controllo, attraverso la legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, il cui rinvio alle Camere da parte del Capo dello Stato può solo ritardarne l’approvazione, cosicché non resta che sperare nell’intervento inevitabile della Consulta. Del resto, chi controlla il potere legislativo e quello esecutivo può già facilmente aggirare la magistratura, come è avvenuto fin qui: basta una legge fatta su misura per togliere di mezzo reati e norme «ingombranti».
L’aspetto più grave di questa politica senz’anima sono le negative conseguenze sociali e morali che essa produce. Per fortuna i cittadini onesti stanno aprendo gli occhi e, come dimostrano i risultati delle consultazioni elettorali successive al 2001, il vento sta cambiando.
Tra i tanti segni di risveglio, ci è parso particolarmente significativo lo sciopero generale del 30 novembre 2004 contro la legge finanziaria. Chi poteva mai immaginare che i lavoratori un giorno sarebbero scesi in piazza a denunciare il taglio delle tasse? In realtà, essi non hanno scioperato contro la diminuzione delle imposte, ma contro una riforma fiscale che, riducendo il numero delle aliquote, favorisce i ricchi e risulta irrisoria per i ceti popolari. I lavoratori hanno dovuto difendersi contro una legge che, mentre da un lato «educa» male i cittadini a pensare solo a se stessi e a cercare il proprio interesse allettandoli con la diminuzione delle tasse, dall’altro fa ricadere poi sulla collettività e in particolare sulle fasce più deboli le conseguenze di una politica utilitaristica e strumentale. Infatti, non occorre essere addetti ai lavori per capire che non si possono ridurre le tasse senza tagliare la spesa sociale o i trasferimenti agli enti locali, obbligando Comuni e Regioni a reperire sul territorio le risorse necessarie, con disagi maggiori per i meno abbienti. La coscienza democratica si rifiuta di approvare una riforma fiscale senza equità, che privilegia i ceti più fortunati e toglie con la sinistra ai cittadini più deboli ciò che sembra loro concedere con la destra. Ecco dunque il vero problema della crisi italiana di oggi: come restituire alla politica moralità e dignità.

2. Le gravi responsabilità del centro-sinistra
Di fronte ai guasti del «berlusconismo» e al profondo scontento del Paese verso il Governo, il comportamento del centro-sinistra appare incomprensibile. Mentre il Governo rimane a galla a forza di voti di fiducia e cercando di ammansire i membri inquieti della maggioranza con un posto di vicepremier, di ministro o di sottosegretario, non si comprende come il centro-sinistra non trovi la forza di superare al suo interno le vecchie logiche di appartenenza e meschini interessi di parte. Il collante della opposizione non potrà mai essere il solo antiberlusconismo. I dirigenti del centro-sinistra devono essere consapevoli che, continuando così, non avranno mai la fiducia dei tanti scontenti del «berlusconismo». Devono capire che è una forma di suicidio politico deludere la fiducia degli oltre 10 milioni di italiani (un terzo dell’elettorato) che alle elezioni europee 2004 hanno votato la lista «Uniti nell’Ulivo», convinti che fosse l’inizio di un cammino nuovo. E poi, anche l’opposizione (non meno della maggioranza) ha il dovere morale di cercare il bene comune: come rischiare di far perdere al Paese una simile occasione storica di rinnovamento?
Per il centro-sinistra dunque il problema è di proseguire il cammino iniziato, dando vita a un soggetto politico stabile, con regole e organi propri, che non sia soltanto una coalizione elettorale come fu il «triciclo». Lo scontento per il modesto successo ottenuto dalla lista unica alle elezioni europee del 2004 (il 31,1%, però, è pur sempre un buon risultato) e lo spostamento degli equilibri interni che si è verificato in seguito alla flessione della Margherita (attestatasi sul 10%) e al rafforzamento dei DS (avvicinatisi al 20%), non giustificano affatto l’interruzione della strada intrapresa: non si tratta, infatti, di dare vita a un impossibile partito unico, ma a una federazione (la FED) con un’unica lista e un unico simbolo, al cui interno i partiti mantengano ciascuno la propria identità. Le elezioni regionali e amministrative della prossima primavera potrebbero fungere da prova generale, prima delle elezioni politiche del 2006. Sarebbe un gravissimo errore perdere il passo con la storia, per non perdere spazi di potere.
Occorre riprendere subito il cammino. In particolare è importante che il nuovo soggetto politico nasca non per imposizione dall’alto o per decisione dei vertici, ma dal basso, dalle cento città, grazie al consenso culturale e politico da conquistare sul territorio. Ciò vuol dire fare sintesi tra il nuovo che emerge dalla società civile, le esigenze complessive del Paese e la necessità di andare oltre i particolarismi dei partiti.
Si è ancora in tempo per iniziare un paziente lavoro di tessitura in senso federativo del nuovo Ulivo, in vista delle elezioni politiche del 2006, coscienti che, se non decolla ora la FED, non ha senso pensare alla nascita di una Grande Alleanza Democratica (GAD), allargata a Rifondazione Comunista, all’Italia dei Valori (Di Pietro) e all’UDEUR (Mastella). A questo punto, però, non basta lo sforzo di evitare che si spezzino l’uno o l’altro degli anelli deboli dell’alleanza, ricorrendo a compromessi da prima Repubblica. Per uscire dalla crisi, oltre alla forza morale, occorre avere anche la volontà politica di andare al di là degli interessi particolari e di calcoli opportunistici. Sulla reale esistenza di questa volontà unitaria si gioca ormai la credibilità del confronto tra riformismo e «berlusconismo». Occorre dimostrare con i fatti (non solo a parole) che, a differenza del centro-destra, il centro-sinistra possiede un ideale, una cultura di governo, una prospettiva politica e la organizzazione necessaria — la più unitaria possibile — per elaborare e attuare un progetto alternativo. Da qui bisogna partire per costruire prima la FED e poi la GAD. Il documento unitario siglato il 10 gennaio dalla Margherita fa ben sperare.

3. Partire dal progetto
La elaborazione del programma deve precedere e accompagnare il formarsi della federazione. Non può essere, però, una sola corrente politica a elaborare un programma per la ricostruzione del Paese nella prossima Legislatura. Occorre che i riformisti di diversa matrice (liberal-democratica, socialdemocratica, cattolico-democratica e ambientalista) si incontrino ed elaborino insieme un progetto comune di societภche sia appetibile anche per le nuove generazioni. Urge rinnovare l’appello a tutti i «liberi e forti», che già cinque anni fa abbiamo lanciato da queste pagine (cfr SORGE B., «Quale futuro per il popolarismo?», in Aggiornamenti Sociali, 7-8 [1999] 509-516). Non si tratta di partire da zero, ma di fare un salto di qualità.
In primo luogo, occorre superare la concezione individualistico-libertaria del «berlusconismo», e fondare invece il progetto riformista su un personalismo responsabile. La «persona» non è una monade chiusa, ma è una realtà intrinsecamente sociale, relazionale. Non basta garantire ai singoli una libertà il più possibile estesa, ma priva di ogni responsabilità pubblica. Solo su una libertà personale ma socialmente responsabile si può costruire una democrazia solidale e ugualitaria, che dia la certezza che i diritti umani fondamentali (alla vita, alla famiglia, alla libertà, al lavoro, alla istruzione, alla sanità, ecc.) saranno tutelati non solo nella loro dimensione individuale, ma anche in quella sociale: quindi, non sopprimendo ma rinnovando lo Stato sociale, non rifiutando ma accettando le sfide molteplici della immigrazione, non abbandonando a se stesso il Mezzogiorno ma riconoscendolo quale problema nazionale prioritario.
In secondo luogo, una cultura politica riformistica dovrà voltare le spalle alla concezione privatistica dell’economia, tipica del «berlusconismo», che riduce al minimo il ruolo dello Stato e tende a privatizzare tutto: dalla sanità alla previdenza, dai beni culturali a quelli ambientali. Il problema è invece come armonizzare in modo creativo efficienza produttiva e solidarietà, responsabilizzando il terzo settore. Solo all’interno di un rapporto equilibrato tra privato, pubblico e legittima autonomia dei corpi intermedi e delle forze sociali si potranno affrontare le necessarie riforme nei settori chiave: giustizia, federalismo, mercato del lavoro, scuola, sanità, famiglia. Allora le riforme costituzionali si potranno fare senza mettere in discussione la democrazia rappresentativa e parlamentare, né l’equilibrio dei poteri, e si potrà realizzare un federalismo solidale che non intacchi, ma rafforzi, l’unità indivisibile della Nazione.
In terzo luogo, è necessario affermare il primato del bene comune, inteso come raggiungimento di traguardi sociali di benessere, di sviluppo economico, di qualità della vita, rifiutando la concezione egoistica di un bene comune inteso come somma dei beni individuali. Solo nell’ottica del concetto integrale di bene comune, «che si concreta nell’insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani lo sviluppo integrale della persona» (GIOVANNI XXIII, Mater et Magistra, n. 65), possono trovare spazio il rifiuto della guerra «senza se e senza ma», una politica internazionale ispirata al multilateralismo, la volontà sincera di combattere la fame e le malattie nel mondo, il dovere di salvaguardare l’equilibrio ecologico del pianeta, l’impegno serio per l’accesso del Terzo Mondo alle nuove tecnologie.
Sono soltanto alcuni spunti di un appello ai «liberi e forti», sui quali — senza perdere altro tempo — occorre subito confrontarsi e coagulare il consenso culturale e politico possibilmente di tutti i riformisti ovunque si trovino. Si tratta di costruire un nuovo Ulivo, non più solo attraverso il confronto tra le segreterie dei partiti, ma aprendosi realmente al dialogo con la società civile, con i movimenti e i tanti altri soggetti che abitano gli spazi della variegata area popolare democratica del nostro Paese. Perché non trasformare questi spazi di «area popolare democratica» nei nuovi «circoli» dell’«Ulivo che verrà»? Non potrebbe essere questa la carta vincente del centro-sinistra e di Prodi?

12.3.05

SE TUTTI I GAY FOSSERO COME D&G
di Saverio Aversa (lunedì 21 febbraio)
da Liberazione

Questa volta hanno dichiarato che sono di destra, uno di meno e uno di più, diventando subito emblema politico del quotidiano Libero. Il riferimento è a Dolce e Gabbana, ormai solo una griffe e non più una coppia. Qualche anno fa avevano dichiarato a Sette, il settimanale del Corriere della Sera, che erano omosessuali e che si amavano. Lo sapevano tutti già da tempo ma i due sentirono la necessità di ufficializzare la loro relazione. Fu un fatto comunque importante visto che la maggior parte degli stilisti sono gay ma quasi nessuno lo ammette. Adesso D&G sono tornati sulla copertina della stessa rivista, che nel frattempo ha cambiato nome in Magazine, per annunciare: "Siamo separati in casa". Claudio Sabelli Fioretti, ottimo giornalista e penna appuntita che usa con garbo l'ironia e il sarcasmo, ha fatto una lunghissima intervista ai due golden boy della moda italiana. Sei pagine e mezza di parole e di foto per rappresentare "miserie e nobiltà" di Domenico Dolce e Stefano Gabbana. Ahinoi molte miserie e poche, pochissime nobiltà emergono dalle risposte a Sabelli Fioretti. Gabbana: "Io sono per la monarchia, vorrei avere il re e la regina in Italia. Saremmo più internazionali, meno provinciali, avremmo gossip di più alto livello. La monarchia darebbe una sferzata di notorietà all'Italia! " Raccapricciante. Gossip di più alto livello? Sì, è proprio l'ingrediente che manca per alzare le quotazioni del nostro Paese sui mercati mondiali e nella considerazione politica e sociale degli altri Stati.

Ma forse Dolce, la "mente creativa" dell'azienda, ha espressioni più ponderate e meno, come dire, superficiali: "I borghesi, a Milano ce ne sono tanti, a noi ci schisciano. Quelli del nostro palazzo a malapena ci salutano. A meno che non abbiano bisogno di un abito con lo sconto". Poverini, fanno proprio compassione questi due ricchissimi stilisti trattati come sartine da quegli irriducibili snob dei milanesi! La politica sembra interessare soprattutto Dolce: "Mi piace moltissimo, non è detto che un giorno non ci provi perché mi piace l'idea del giusto". Gabbana: "Sono di destra. Quello che è mio è mio, quello che è tuo è tuo. Non come dicono quelli di sinistra". Anche Dolce dice di essere di destra, ma si considera più democratico e rimpiange la "famosa vecchia Dc". Ma dell'opposizione gli dà fastidio soprattutto il centrista Rutelli: "Si oppone a tutto. Non c'è collaborazione, ma è mai possibile che non c'è una cosa che gli va bene a questi qua? ".

Il "D&G pensiero" sembra in verità molto condizionato dai veleni di un settore dove la competizione è altissima. Domenico e Stefano non risparmiano un sincero e cattivo commento "ad hoc" a colleghi come Miuccia Prada, Roberto Cavalli, Gianfranco Ferrè, Krizia, Laura Biagiotti. Si salva solo Armani: "E' un grande". Le giornaliste di moda? Stefano: "Sono delle poveracce". Domenico: "La parola giusta è meschine". Sono proprio stressati questi due, si vede che lavorano troppo per fare borsette da trecento euro l'una e cuscini di visone, appositamente creati per un target che loro definiscono "nazionalpopolare" (forse compra tutto Pippo Baudo visto che si autodefinì con questo aggettivo). Oppure è la separazione in casa che li rende nervosi anche se abitano in due lussuosi appartamenti su due piani diversi. Ma potrebbe anche essere la reazione alla censura subita dal loro ultimo, chicchissimo spot, in cui la sublime arte dello stile e del gusto si esprimeva sonoramente attraverso una "gara" di peti tra un ragazzo ed una ragazza. Ed è su questo argomento che D&G riescono a dimostrare finalmente il loro buon livello culturale: "Il rutto e la scoreggia, scusami, roba che facciamo tutti, in privato e in pubblico" dice Stefano. Controbatte Domenico: "Quelli che soffrono di meteorismo scoreggiano tutti i giorni". Più che su come si taglia la stoffa per una giacca i due sembrano molto preparati sulle, ovviamente rispettabilissime, funzioni gastriche e intestinali. Forse per affrontare argomenti scatologici è necessario adoperare parole e toni sapientemente ironici per non suscitare un certo fastidio in chi legge o ascolta.

In conclusione, evitando di infierire perché ci ha già pensato Sabelli Fioretti, possiamo cautamente affermare che l'intervista racconta Dolce e Gabbana in modo iperrealistico e smitizza notevolmente l'immagine patinata e sopravvalutata di due "maestri" della moda. Dobbiamo inoltre constatare che, almeno in questa occasione, i nostri "eccentrici" stilisti hanno reso un pessimo servizio alla comunità gay, lesbica e trans, facendo pensare alla figura poco edificante di un omosessuale querulo, pettegolo, superficiale e a tratti sguaiato. Molto di moda di questi tempi, ma poco attinente alla realtà.

11.3.05

Lo scandalo Radicale
Pier Paolo Pasolini

Contro tutto questo voi non dovete far altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili.
Dimenticare subito i grandi successi: e continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare.

Prima di tutto devo giustificare la presenza della mia persona qui. Non sono qui come radicale. Non sono qui come socialista. Non sono qui come progressista. Sono qui come marxista che vota per il Partito Comunista Italiano, e spera molto nella nuova generazione di comunisti. Spera nella nuova generazione di comunisti almeno come spera nei radicali. Cioè con quel tanto di volontà e irrazionalità e magari arbitrio che permettono di spiazzare - magari con un occhio a Wittgenstein - la realtà, per ragionarci sopra liberamente. Per esempio: il Pci ufficiale dichiara di accettare ormai, e sine die, la prassi democratica. Allora io non devo aver dubbi: non è certo alla prassi democratica codificata e convenzionalizzata dall'uso di questi tre decenni che il Pci si riferisce: esso si riferisce indubbiamente alla prassi democratica intesa nella purezza originaria della sua forma, o, se vogliamo, del suo patto formale.
Alla religione laica della democrazia. Sarebbe un'autodegradazione sospettare che il Pci si riferisca alla democraticità dei democristiani; e non si può dunque intendere che il Pci si riferisca alla democraticità, per esempio, dei radicali.
Paragrafo primo.
A) Le persone più adorabili sono quelle che non sanno di avere dei diritti. B) Sono adorabili anche le persone che, pur sapendo di avere dei diritti, non li pretendono o addirittura ci rinunciano. C) Sono abbastanza simpatiche anche quelle persone che lottano per i diritti degli altri (soprattutto per coloro che non sanno di averli). D) Ci sono, nella nostra società, degli sfruttati e degli sfruttatori. Ebbene, tanto peggio per gli sfruttatori. E) Ci sono degli intellettuali, gli intellettuali impegnati, che considerano dovere proprio e altrui far sapere alle persone adorabili, che non lo sanno, che hanno dei diritti; incitare le persone adorabili, che sanno di avere dei diritti ma ci rinunciano, a non rinunciare; spingere tutti a sentire lo storico impulso a lottare per i diritti degli altri; e considerare, infine, incontrovertibile e fuori da ogni discussione il fatto che, tra gli sfruttati e gli sfruttatori, gli infelici sono gli sfruttati.
Tra questi intellettuali che da più di un secolo si sono assunti un simile ruolo, negli ultimi anni si sono chiaramente distinti dei gruppi particolarmente accaniti a fare di tale ruolo un ruolo estremistico. Dunque mi riferisco agli estremisti, giovani, e ai loro adulatori anziani. Tali estremisti (voglio occuparmi soltanto dei migliori) si pongono come obiettivo primo e fondamentale quello di diffondere tra la gente direi, apostolicamente, la coscienza dei propri diritti. Lo fanno con determinazione, rabbia, disperazione, ottimistica pazienza o dinamitarda impazienza, secondo i casi (...)
Paragrafo secondo
Disobbedendo alla distorta volontà degli storici e dei politici di mestiere, oltre che a quella delle femministe romane - volontà che mi vorrebbe confinato in Elicona esattamente come i mafiosi a Ustica - ho partecipato una sera di questa estate a un dibattito politico in una città del Nord. Come sempre poi succede, un gruppo di giovani ha voluto continuare il dibattito anche per strada, nella serata calda e piena di canti. Tra questi giovani c'era un greco. Che era, appunto, uno di quegli estremisti marxisti "simpatici di cui parlavo. Sul suo fondo di piena simpatia, si innestavano però manifestamente tutti i più vistosi difetti della retorica e anche della sottocultura estremistica. Era un "adolescente un po' laido nel vestire; magari anche addirittura un po' scugnizzo: ma, nel tempo stesso, aveva una barba di vero e proprio pensatore, qualcosa tra Menippo e Aramis; ma i capelli , lunghi fino alle spalle, correggevano l'eventuale funzione gestuale e magniloquente della barba, con qualcosa di esotico e ir
razionale: un'allusione alla filosofia braminica, all'ingenua alterigia dei gurumparampara. Il giovane greco viveva questa sua retorica nella più completa assenza di autocritica: non sapeva di averli, questi suoi segni così vistosi, e in questo era adorabile esattamente come coloro che non sanno di avere diritti... Tra i suoi difetti vissuti così candidamente, il più grave era certamente la vocazione a diffondere tra la gente ("un po' alla volta , diceva: per lui la vita era una cosa lunga, quasi senza fine) la coscienza dei propri diritti e la volontà di lottare per essi. Ebbene; ecco l'enormità, come l'ho capita in quello studente greco, incarnata nella sua persona inconsapevole. Attraverso il marxismo, l'apostolato dei giovani estremisti di estrazione borghese - l'apostolato in favore della coscienza dei diritti e della volontà di realizzarli - altro non è che la rabbia inconscia del borghese povero contro il borghese ricco, del borghese giovane contro il borghese vecchio, del borghese impotente contro il
borghese potente, del borghese piccolo contro il borghese grande. E' un'inconscia guerra civile - mascherata da lotta di classe - dentro l'inferno della coscienza borghese. (Si ricordi bene: sto parlando di estremisti, non di comunisti). Le persone adorabili che non sanno di avere diritti, oppure le persone adorabili che lo sanno ma ci rinunciano - in questa guerra civile mascherata - rivestono una ben nota e antica funzione: quella di essere carne da macello. Con inconscia ipocrisia, essi sono utilizzati, in primo luogo, come soggetti di un transfert che libera la coscienza dal peso dell'invidia e del rancore economico; e, in secondo luogo, sono lanciati dai borghesi giovani, poveri, incerti e fanatici, come un esercito di paria "puri , in una lotta inconsapevolmente impura, appunto contro i borghesi vecchi, ricchi, certi e fascisti.
Intendiamoci: lo studente greco che qui ho preso a simbolo era a tutti gli effetti (salvo rispetto a una feroce verità) un "puro anche lui, come i poveri. E questa "purezza ad altro non era dovuta che al "radicalismo che era in lui.
Paragrafo terzo
Perché è ora di dirlo: i diritti di cui qui sto parlando sono i "diritti civili che, fuori da un contesto strettamente democratico, come poteva essere un'ideale democrazia puritana in Inghilterra o negli Stati Uniti - oppure laica in Francia - hanno assunto una colorazione classista. L'italianizzazione socialista dei "diritti civili non poteva fatalmente (storicamente) che volgarizzarsi. Infatti: l'estremista che insegna agli altri ad avere dei diritti, che cosa insegna? Insegna che chi serve ha gli identici diritti di chi comanda. L'estremista che insegna agli altri a lottare per ottenere i propri diritti, che cosa insegna? Insegna che bisogna usufruire degli identici diritti dei padroni. L'estremista che insegna agli altri che coloro che sono sfruttati dagli sfruttatori sono infelici, che cosa insegna? Insegna che bisogna pretendere l'identica felicità degli sfruttatori. Il risultato che in tal modo eventualmente è raggiunto è dunque una identificazione: cioè nel caso migliore una democratizzazione in se
nso borghese. La tragedia degli estremisti consiste così nell'aver fatto regredire una lotta che essi verbalmente definiscono rivoluzionaria marxista-leninista, in una lotta civile vecchia come la borghesia: essenziale alla stessa esistenza della borghesia. La realizzazione dei propri diritti altro non fa che promuovere chi li ottiene al grado di borghese.
Paragrafo quarto
In che senso la coscienza di classe non ha niente a che fare con la coscienza dei diritti civili marxistizzati? In che senso il Pci non ha niente a che fare con gli estremisti (anche se alle volte, per via della vecchia diplomazia burocratica, li chiama a sé: tanto, per esempio, da aver già codificato il Sessantotto sulla linea della Resistenza)? E' abbastanza semplice: mentre gli estremisti lottano per i diritti civili marxistizzati pragmaticamente, in nome, come ho detto, di una identificazione finale tra sfruttato e sfruttatore, i comunisti, invece, lottano per i diritti civili in nome di una alterità. Alterità (non semplice alternativa) che per sua stessa natura esclude ogni possibile assimilazione degli sfruttati con gli sfruttatori. La lotta di classe è stata finora anche una lotta per la prevalenza di un'altra forma di vita (per citare ancora Wittgenstein potenziale antropologo), cioè di un'altra cultura. Tanto è vero che le due classi in lotta erano anche - come dire? - razzialmente diverse. E in rea
ltà, in sostanza, ancora lo sono. In piena età dei consumi.
Paragrafo quinto
Tutti sanno che gli "sfruttatori quando (attraverso gli "sfruttati ) producono merce, producono in realtà umanità (rapporti sociali). Gli "sfruttatori della seconda rivoluzione industriale (chiamata altrimenti consumismo: cioè grande quantità, beni superflui, funzione edonistica) producono nuova merce: sicché producono nuova umanità (nuovi rapporti sociali). Ora, durante i due secoli circa della sua storia, la prima rivoluzione industriale ha prodotto sempre rapporti sociali modificabili. La prova? La prova è data dalla sostanziale certezza della modificabilità dei rapporti sociali in coloro che lottavano in nome dell'alterità rivoluzionaria. Essi non hanno mai opposto all'economia e alla cultura del capitalismo un'alternativa, ma, appunto, un'alterità. Alterità che avrebbe dovuto modificare radicalmente i rapporti sociali esistenti: ossia, detta antropologicamente, la cultura esistente. In fondo il "rapporto sociale che si incarnava nel rapporto tra servo della gleba e feudatario, non era poi molto diver
so da quello che si incarnava nel rapporto tra operaio e padrone dell'industria: e comunque si tratta di "rapporti sociali che si sono dimostrati ugualmente modificabili. Ma se la seconda rivoluzione industriale - attraverso le nuove immense possibilità che si è data - producesse da ora in poi dei "rapporti sociali immodificabili? Questa è la grande e forse tragica domanda che oggi va posta. E questo è in definitiva il senso della borghesizzazione totale che si sta verificando in tutti i paesi: definitivamente nei grandi paesi capitalistici, drammaticamente in Italia. Da questo punto di vista le prospettive del capitale appaiono rosee. I bisogni indotti dal vecchio capitalismo erano in fondo molto simili ai bisogni primari. I bisogni invece che il nuovo capitalismo può indurre sono totalmente e perfettamente inutili e artificiali. Ecco perché, attraverso essi, il nuovo capitalismo non si limiterebbe a cambiare storicamente un tipo d'uomo: ma l'umanità stessa. Va aggiunto che il consumismo può creare dei "r
apporti sociali immodificabili, sia creando, nel caso peggiore, al posto del vecchio clericofascismo un nuovo tecnofascismo (che potrebbe comunque realizzarsi solo a patto di chiamarsi antifascismo), sia, com'è ormai più probabile, creando come contesto alla propria ideologia edonistica un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo: di falsa realizzazione, cioè, dei diritti civili. In ambedue i casi lo spazio per una reale alterità rivoluzionaria verrebbe ristretto all'utopia o al ricordo: riducendo quindi la funzione dei partiti marxisti ad una funzione socialdemocratica, sia pure, dal punto di vista storico, completamente nuova.
Paragrafo sesto
Caro Pannella, caro Spadaccia, cari amici radicali, pazienti con tutti come santi, e quindi anche con me: l'alterità non è solo nella coscienza di classe e nella lotta rivoluzionaria marxista. L'alterità esiste anche di per sé nell'entropia capitalistica. Quivi essa gode (o per meglio dire, patisce, e spesso orribilmente patisce) la sua concretezza, la sua fattualità. Ciò che è, e l'altro che è in esso, sono due dati culturali. Tra tali due dati esiste un rapporto di prevaricazione, spesso, appunto, orribile. Trasformare il loro rapporto in un rapporto dialettico è appunto la funzione, fino a oggi, del marxismo: rapporto dialettico tra la cultura della classe dominante e la cultura della classe dominata. Tale rapporto dialettico non sarebbe dunque più possibile là dove la cultura della classe dominata fosse scomparsa, eliminata, abrogata, come dite voi. Dunque, bisogna lottare per la conservazione di tutte le forme, alterne e subalterne, di cultura. E' ciò che avete fatto voi in tutti questi anni, specialmen
te negli ultimi. E siete riusciti a trovare forme alterne e subalterne di cultura dappertutto: al centro della città, e negli angoli più lontani, più morti, più infrequentabili. Non avete avuto alcun rispetto umano, nessuna falsa dignità, e non siete soggiaciuti ad alcun ricatto. Non avete avuto paura né di meretrici né di pubblicani, e neanche - ed è tutto dire - di fascisti.
Paragrafo settimo
I diritti civili sono in sostanza i diritti degli altri. Ora, dire alterità è enunciare un concetto quasi illimitato. Nella vostra mitezza e nella vostra intransigenza, voi non avete fatto distinzioni. Vi siete compromessi fino in fondo per ogni alterità possibile. Ma una osservazione va fatta. C'è un'alterità che riguarda la maggioranza e un'alterità che riguarda le minoranze. Il problema che riguarda la distruzione della cultura della classe dominata, come eliminazione di una alterità dialettica e dunque minacciosa, è un problema che riguarda la maggioranza. Il problema del divorzio è un problema che riguarda la maggioranza. Il problema dell'aborto è un problema che riguarda la maggioranza. Infatti gli operai e i contadini, i mariti e le mogli, i padri e le madri costituiscono la maggioranza. A proposito della difesa generica dell'alterità, a proposito del divorzio, a proposito dell'aborto, avete ottenuto dei grandi successi. Ciò - e voi lo sapete benissimo - costituisce un grande pericolo. Per voi - e voi
sapete benissimo come reagire - ma anche per tutto il paese che invece, specialmente ai livelli culturali che dovrebbero essere più alti, reagisce regolarmente male. Cosa voglio dire con questo? Attraverso l'adozione marxistizzata dei diritti civili da parte degli estremisti - di cui ho parlato nei primi paragrafi di questo mio intervento - i diritti civili sono entrati a far parte non solo della coscienza, ma anche della dinamica di tutta la classe dirigente italiana di fede progressista. Non parlo dei vostri simpatizzanti... Non parlo di coloro che avete raggiunto nei luoghi più lontani e diversi: fatto di cui siete giustamente orgogliosi. Parlo degli intellettuali socialisti, degli intellettuali comunisti, degli intellettuali cattolici di sinistra, degli intellettuali generici (...)
Paragrafo ottavo
So che sto dicendo delle cose gravissime. D'altra parte era inevitabile. Se no cosa sarei venuto a fare qui? Io vi prospetto - in un momento di giusta euforia delle sinistre - quello che per me è il maggiore e peggiore pericolo che attende specialmente noi intellettuali nel prossimo futuro. Una nuova "trahison des clercs : una nuova accettazione; una nuova adesione; un nuovo cedimento al fatto compiuto; un nuovo regime sia pure ancora soltanto come nuova cultura e nuova qualità di vita. Vi richiamo a quanto dicevo alla fine del paragrafo quinto: il consumismo può rendere immodificabili i nuovi rapporti sociali espressi dal nuovo modo di produzione "creando come contesto alla propria ideologia edonistica un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo: di falsa realizzazione, cioè, dei diritti civili . Ora, la massa degli intellettuali che ha mutuato da voi, attraverso una marxizzazione pragmatica di estremisti, la lotta per i diritti civili rendendola così nel proprio codice progressista, o conformismo d
i sinistra, altro non fa che il gioco del potere: tanto più un intellettuale progressista è fanaticamente convinto delle bontà del proprio contributo alla realizzazione dei diritti civili, tanto più, in sostanza, egli accetta la funzione socialdemocratica che il potere gli impone abrogando, attraverso la realizzazione falsificata e totalizzante dei diritti civili, ogni reale alterità. Dunque tale potere si accinge di fatto ad assumere gli intellettuali progressisti come propri chierici. Ed essi hanno già dato a tale invisibile potere una invisibile adesione intascando una invisibile tessera. Contro tutto questo voi non dovete far altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili.
Dimenticare subito i grandi successi: e continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare.

9.3.05

La mia verità
di GIULIANA SGRENA

«La nostra auto andava piano, gli americani hanno sparato senza motivo, Calipari è morto fra le mie braccia». Giuliana Sgrena torna in Italia e racconta il suo rapimento e la sua sanguinosa liberazione. Gli Usa insistono: solo un incidente. Ma la versione americana è smentita dai testimoni Il governo italiano tace, solo Ciampi insiste: «Mi aspetto spiegazioni». I pm indagano per omicidio volontario

Sto ancora nel buio. E' stata quella di venerdì la giornata più drammatica della mia vita. Erano tanti i giorni che ero stata sequestrata. Avevo parlato solo poco prima con i miei rapitori, da giorni dicevano che mi avrebbero liberato. Vivevo così ore di attesa. Parlavano di cose delle quali soltanto dopo avrei capito l'importanza. Dicevano di problemi «legati ai trasferimenti». Avevo imparato a capire che aria tirava dall'atteggiamento delle mie due «sentinelle», i due personaggi che mi avevano ogni giorno in custodia. Uno in particolare che mostrava attenzione ad ogni mio desiderio, era incredibilmente baldanzoso. Per capire davvero quello che stava succedendo gli ho provocatoriamente chiesto se era contento perché me ne andavo oppure perché restavo. Sono rimasta stupita e contenta quando, era la prima volta che accadeva, mi ha detto «so solo che te ne andrai, ma non so quando». A conferma che qualcosa di nuovo stava avvenendo a un certo punto sono venuti tutti e due nella stanza come a confortarmi e a scherzare: «Complimenti - mi hanno detto - stai partendo per Roma». Per Roma, hanno detto proprio così.

Ho provato una strana sensazione. Perché quella parola ha evocato subito la liberazione ma ha anche proiettato dentro di me un vuoto. Ho capito che era il momento più difficile di tutto il rapimento e che se tutto quello che avevo vissuto finora era «certo» ora si apriva un baratro di incertezze, una più pesante dell'altra. Mi sono cambiata d'abito. Loro sono tornati: «Ti accompagniamo noi, e non dare segnali della tua presenza insieme a noi sennò gli americani possono intervenire». Era la conferma che non avrei voluto sentire. Era il momento più felice e insieme il più pericoloso. Se incontravamo qualcuno, vale a dire dei militari americani, ci sarebbe stato uno scontro a fuoco, i miei rapitori erano pronti e avrebbero risposto. Dovevo avere gli occhi coperti. Già mi abituavo ad una momentanea cecità. Di quel che accadeva fuori sapevo solo che a Baghdad aveva piovuto. La macchina camminava sicura in una zona di pantani. C'era l'autista più i soliti due sequestratori. Ho subito sentito qualcosa che non avrei voluto sentire. Un elicottero che sorvolava a bassa quota proprio la zona dove noi ci eravamo fermati. «Stai tranquilla, ora ti verranno a cercare...tra dieci minuti ti verranno a cercare». Avevano parlato per tutto il tempo sempre in arabo, e un po' in francese e molto in un inglese stentato. Anche stavolta parlavano così.

Poi sono scesi. Sono rimasta in quella condizione di immobilità e cecità. Avevo gli occhi imbottiti di cotone, coperti da occhiali da sole. Ero ferma. Ho pensato...che faccio? comincio a contare i secondi che passano da qui ad un'altra condizione, quella della libertà? Ho appena accennato mentalmente ad una conta che mi è arrivata subito una voce amica alle orecchie: «Giuliana, Giuliana sono Nicola, non ti preoccupare ho parlato con Gabriele Polo, stai tranquilla sei libera».

Mi ha fatto togliere la «benda» di cotone e gli occhiali neri. Ho provato sollievo, non per quello che accadeva e che non capivo, ma per le parole di questo «Nicola». Parlava, parlava, era incontenibile, una valanga di frasi amiche, di battute. Ho provato finalmente una consolazione quasi fisica, calorosa, che avevo dimenticato da tempo. La macchina continuava la sua strada, attraversando un sottopassaggio pieno di pozzanghere, e quasi sbandando per evitarle. Abbiamo tutti incredibilmente riso. Era liberatorio. Sbandare in una strada colma d'acqua a Baghdad e magari fare un brutto incidente stradale dopo tutto quello che avevo passato era davvero non raccontabile. Nicola Calipari allora si è seduto al mio fianco. L'autista aveva per due volte comunicato in ambasciata e in Italia che noi eravamo diretti verso l'aeroporto che io sapevo supercontrollato dalle truppe americane, mancava meno di un chilometro mi hanno detto...quando...Io ricordo solo fuoco. A quel punto una pioggia di fuoco e proiettili si è abbattuta su di noi zittendo per sempre le voci divertite di pochi minuti prima.

L'autista ha cominciato a gridare che eravamo italiani, «siamo italiani, siamo italiani...», Nicola Calipari si è buttato su di me per proteggermi, e subito, ripeto subito, ho sentito l'ultimo respiro di lui che mi moriva addosso. Devo aver provato dolore fisico, non sapevo perché. Ma ho avuto una folgorazione, la mia mente è andata subito alle parole che i rapitori mi avevano detto. Loro dichiaravano di sentirsi fino in fondo impegnati a liberarmi, però dovevo stare attenta «perché ci sono gli americani che non vogliono che tu torni». Allora, quando me l'avevano detto, avevo giudicato quelle parole come superflue e ideologiche. In quel momento per me rischiavano di acquistare il sapore della più amara delle verità.

Il resto non lo posso ancora raccontare.

Questo è stato il giorno più drammatico. Ma il mese che ho vissuto da sequestrata ha probabilmente cambiato per sempre la mia esistenza. Un mese da sola con me stessa, prigioniera delle mie convinzioni più profonde. Ogni ora è stata una verifica impietosa sul mio lavoro. A volte mi prendevano in giro, arrivavano a chiedermi perché mai volessi andar via, di restare. Insistevano sui rapporti personali. Erano loro a farmi pensare a quella priorità che troppo spesso mettiamo in disparte. Puntavano sulla famiglia. «Chiedi aiuto a tuo marito», dicevano. E l'ho detto anche nel primo video che credo avete visto tutti. La vita mi è cambiata. Me lo raccontava l'ingegnere iracheno Ra'ad Ali Abdulaziz di "Un Ponte per" rapito con le due Simone, «la mia vita non è più la stessa», diceva. Non capivo. Ora so quello che voleva dire. Perché ho provato tutta la durezza della verità, la sua difficile proponibilità. E la fragilità di chi la tenta.

Nei primi giorni del rapimento non ho versato una sola lacrima. Ero semplicemente infuriata. Dicevo in faccia ai miei rapitori: «Ma come, rapite me che sono contro la guerra?!». E a quel punto loro aprivano un dialogo feroce. «Sì, perché tu vai a parlare con la gente, non rapiremmo mai un giornalista che se ne sta chiuso in albergo. E poi il fatto che dici di essere contro la guerra potrebbe essere una copertura». E io ribattevo, quasi a provocarli: «E' facile rapire una donna debole come me, perché non provate con i militari americani?». Insistevo sul fatto che non potevano chiedere al governo italiano di ritirare le truppe, il loro interlocutore «politico» non poteva essere il governo ma il popolo italiano che era ed è contro la guerra.

E' stato un mese di altalena, tra speranze forti e momenti di grande depressione. Come quando, era la prima domenica dopo il venerdì del rapimento, nella casa di Baghdad dove ero sequestrata e su cui svettava una parabolica, mi fecero vedere un telegiornale di Euronews. Lì ho visto la mia foto in gigantografia appesa al palazzo del comune di Roma. E mi sono rincuorata. Poi però, subito dopo, è arrivata la rivendicazione della Jihad che annunciava la mia esecuzione se l'Italia non avesse ritirato le sue truppe. Ero terrorizzata. Ma subito mi hanno rassicurata che non erano loro, dovevo diffidare di quei proclami, erano dei «provocatori». Spesso chiedevo a quello che, dalla faccia, sembrava il più disponibile che comunque aveva, con l'altro, un aspetto da soldato: «Dimmi la verità, mi volete uccidere». Eppure, molte volte, c'erano strane finestre di comunicazione, proprio con loro. «Vieni a vedere un film in tv», mi dicevano, mentre una donna wahabita, coperta dalla testa ai piedi girava per casa e mi accudiva.

I rapitori mi sono sembrati un gruppo molto religioso, in continua preghiera sui versetti del Corano. Ma venerdì, al momento del mio rilascio, quello tra tutti che sembrava il più religioso e che ogni mattina si alzava alla 5 per pregare, mi ha fatto le sue «congratulazioni» incredibilmente stringendomi fortemente la mano - non è un comportamento usuale per un fondamentalista islamico -, aggiungendo «se ti comporti bene parti subito». Poi, un episodio quasi divertente. Uno dei due guardiani è venuto da me esterrefatto sia perché la tv mostrava i miei ritratti appesi nelle città europee e sia per Totti. Sì Totti, lui si è dichiarato tifoso della Roma ed era rimasto sconcertato che il suo giocatore preferito fosse sceso in campo con la scritta «Liberate Giuliana» sulla sua maglietta.

Ho vissuto in una enclave in cui non avevo più certezze. Mi sono ritrovata profondamente debole. Avevo fallito nelle mie certezze. Io sostenevo che bisognava andare a raccontare quella guerra sporca. E mi ritrovavo nell'alternativa o di stare in albergo ad aspettare o di finire sequestrata per colpa del mio lavoro. «Noi non vogliamo più nessuno», mi dicevano i sequestratori. Ma io volevo raccontare il bagno di sangue di Falluja dalle parole dei profughi. E quella mattina già i profughi, o qualche loro «leader» non mi ascoltavano. Io avevo davanti a me la verifica puntuale delle analisi su quello che la società irachena è diventata con la guerra e loro mi sbattevano in faccia la loro verità: «Non vogliamo nessuno, perché non ve ne state a casa, che cosa ci può servire a noi questa intervista?». L'effetto collaterale peggiore, la guerra che uccide la comunicazione, mi precipitava addosso. A me che ho rischiato tutto, sfidando il governo italiano che non voleva che i giornalisti potessero raggiungere l'Iraq, e gli americani che non vogliono che il nostro lavoro testimoni che cosa è diventato quel paese davvero con la guerra e nonostante quelle che chiamano elezioni.

Ora mi chiedo. E' un fallimento questo loro rifiuto?