25.6.03

Sul sito www.caterpavesi.it sono arrivate le fantastiche foto del Caterraduno


1. Marina Senesi in grande spolvero appena arrivata a Santarcangelo di Romagna con il motorino elettrico. Cirri e Solibello nello squallido abbigliamento del cittadino al mare

2. Il subsegretario del Papopo, con la mitica canotta realizzata da Magazzini Salani (ringraziamo lo sponsor) avanza sull'apetta circondato dall'entusiasmo e dall'affetto travolgente dei suoi descanottados

3. Notare il piglio sicuro tipico del trascinatore di folle

4. Sull’apetta anche Chiara, miss Papopo 2003

5. E’ un trionfo di popolo

6. Il subsegretario beve dall’ampollona l’acqua sacra del Rubicone che stranamente sa di sangiovese

7. Cirri svela spogliandosi che da tempo è la quinta colonna del Papopo. Sotto la camicia infatti indossa la canotta del Pappo realizzata dallo sponsor Magazzini Salani

8. E’ il momento magico. Accompagnato dai quattro della Banda Osiris, anche loro descanottados, il sub segretario del Papopo canta "La canzone popolare populista" (pubblicità: chi la vuole la può chiedere alla Banda - www.bandaosiris.it -, è incisa sul loro Cd)

9. Inarrestabile il subsegretario si esibisce anche nel balletto

10. I descanottados sono in estasi

11. Gentile, Solibello e Cirri sono in ecstasy

12. Marina Senesi mostra tutto il suo entusiasmo per la prestazione del sub segretario

13. Helena Ilic chiede a gran voce se il popolo può aspettare

14. I leoni della squadra di pallastrada del Papopo che hanno pareggiato 6 a 6 contro la squadra di caterpillar

15. Solibello cerca di corrompere il subsegretario

16. Il subsegretario se ne lava le mani dopo un conciliabolo con l’oracolo Benni e il Gran Bastardo Riondino

17. Il subsegretario se la ride

Il buon piazzista


di Alessandro Robecchi (per Il Manifesto e L'Unità)

Dei tre grandi venditori televisivi del Paese, uno solo l'ha fatta franca. Wanna Marchi aspetta il processo (imminente) e Roberto Da Crema, detto Baffo, langue nelle patrie galere. Silvio Berlusconi, invece, si appresta all'immersione nella presidenza italiana del semestre europeo, una cosa così importante e prestigiosa che davanti ad essa anche la Giustizia si è dovuta inchinare. La legge non solo non è uguale per tutti (non scherziamo), ma non è uguale nemmeno per i piazzisti della tivù. Come ha detto lo stesso Silvio, la legge per lui è «più uguale». Un colto rimando a un classico di Orwell (La fattoria degli animali) da sempre considerato un testo anticomunista: peccato che nel furore della citazione il colto signore di Arcore non si sia accorto di paragonarsi proprio ai maiali comunisti della fattoria, che forniscono la morale alla favola orwelliana. Pazienza, sarà stato frainteso, come gli capita (spesso) ogni volta che dice una cazzata. Ma torniamo ai piazzisti della tivù. La cara vecchia Wanna (capito!?) faceva parte di una scombiccherata associazione di gente che dava i numeri del lotto e minacciava i creduloni con trucchi abbastanza peregrini. «Il sale non si è sciolto? Oh, signora mia, che disgrazie in arrivo! Se vuole le togliamo il malocchio alla modica cifra di...». Per Silvio è stato più facile: dalla televisione proponeva di toglierlo direttamente lui, il malocchio al Paese. In caso contrario sarebbe arrivato nientemeno che il Comunismo a tirare i piedi, di notte, ai poveri italiani. Quelli, manco a dirlo, accettarono la proposta. Il grande Baffo, invece, quello che vendeva le pentole urlando, mostrava di aver capito la lezione berlusconiana, o almeno di essere al passo coi tempi. Raccontano le cronache che nelle telefonate dei suoi coimputati ricorresse la frase soave e tranquillizzante: «Tanto il falso in bilancio non c'è più». Come dire che l'altro venditore, il Silvio, aveva fatto un gran regalo a tutta la categoria, non solo quella dei venditori via etere, ma a tutta l'imprenditoria italiana. Ci si chiede quanti imprenditori, padroncini, traffichini italiani abbiamo ripetuto quella frasetta («tanto il falso in bilancio non c'è più») come un mantra ipnotico. Ecco un regalo di Silvio al Paese. Questo sì dovrebbe entrare un giorno nei temi di maturità. Ma veniamo ai prodotti. Di norma l'indignazione contro il piazzista televisivo si scatena quando si riceve la merce. I numeri che ti fanno perdere al lotto, per esempio, dopo che il mago te li ha garantiti vincenti, o l'anello di zaffiri che si rivela un collage di fondi di bottiglia. In questo il piazzista Silvio non è molto diverso dagli altri, l'unica differenza è che piazza la sua merce avariata anche a chi non ha comprato, cioè a tutti noi. Delle riforme vendute al paese con grande dispiego di televendite (da Bruno Vespa ai Tg, tutti fanno a gara per propagandare la merce di Silvio) non ce n'è una che si sia rivelata funzionante. La Bossi-Fini, per esempio, produce disastri umanitari (ai migranti il malocchio non glielo toglie nessuno), non garantisce manodopera a sufficienza ai padroni e imbizzarrisce la base della Lega. L'altra sòla del televenditore Silvio emerge in tutta la sua potenza a scoppio ritardato, e si chiama riforma del lavoro. Passata appena una settimana dai peana e dagli applausi padronal-liberisti (Hurrà! Siamo il Paese più flessibile d'Europa!) qualcuno si accorge, leggendo i regolamenti di attuazione, che i suddetti padroni dovranno assumere a tempo indeterminato un paio di milioni di co.co.co. Oppure licenziarli forever alla fine dell'anno, ricacciandoli nelle stive maleodoranti del lavoro nero. La Confindustria, che dal venditore Silvio (e dal suo mago padano Maroni do Nascimiento) ha comprato a piene mani, ora si accorge di aver preso un pacco storico: forse erano meglio i numeri del lotto. Come si vede, le affinità tra venditori televisivi sono notevoli. Ma le differenze anche, sono sotto gli occhi di tutti: la Wanna e il Baffo sono in galera, Silvio invece va a presiedere l'Europa dopo aver tanto bene presieduto l'Italia. E noi utenti? Ci ritroviamo senza tutele e senza garanzie. Non possiamo nemmeno rimandare indietro la merce, perché il Presidente Ciampi ha firmato la bolla di consegna per tutti noi. Qualcuno comincia a pensare che anche protestare non abbia molto senso. Non vorremmo un giorno ricevere la telefonata di Vito, o di Schifani: «Il sale non si è sciolto? Oh, signora mia che disgrazie in arrivo! Se vuole le tagliamo la pensione alla modica cifra di...».

19.6.03

DICHIARAZIONI SPONTANEE DI BERLUSCONI


riprese da Libero

«Grazie presidente, anche da parte mia, naturalmente, buongiorno. Sono qui appunto per continuare quelle dichiarazioni che avevo già iniziato l'altra volta e che a mio parere non potranno essere esaurite nell'udienza di oggi, essendo la materia molto estesa e, credo, essendo questo processo molto importante. La giustizia è uguale per tutti i cittadini, ma questo cittadino è forse un po' più uguale degli altri, visto che il cinquanta per cento degli italiani gli ha conferito la responsabilità di governare il Paese e visto quindi che molti italiani hanno il diritto di sapere se questo cittadino ha commesso qualcosa di illegittimo o anche soltanto di immorale, e quindi è interesse del cittadino Berlusconi di poter chiarire ogni situazione che riguardi le vicende di cui sono imputato e affinché su di lui non resti neppure l'ombra di un sospetto.
La querelle sul legittimo impedimento
Inizio, presidente, con un accenno alla querelle che si è verificata nella passata udienza dell'11 di giugno, in cui fu ritenuto non doversi accogliere la impossibilità che era stata da me dichiarata circa la mia presenza in quest'aula;
(…) io ho accettato di venire in questa sede, ma devo dire che le difficoltà sono tante. Non ci sono, per un presidente del Consiglio soltanto gli impegni previsti dalla Carta Costituzionale e legati al fatto di un incontro e da considerarsi soltanto per il numero di ore che vengono dedicate a quest'incontro con un Capo di Stato straniero, ma c'è tutta la preparazione dell'incontro, c'è tutto il seguito dell'incontro, le relazioni che di quest'incontro si devono dare agli altri Capi di Stato con i quali si è concordata quest'iniziativa; e c'è tutto ciò che grava, normalmente, per l'ordinaria e la straordinaria amministrazione sulle spalle di un presidente del Consiglio (…): ci sono cioè delle impossibilità vere, per cui ritenere, potere intervenire nell'ambito del giudizio del presidente del Consiglio per decidere che cosa possa essere accettato come suo impedimento o che cosa possa non essere accettato significa volersi sovrapporre alla presidenza del Consiglio per indicare quali sono le modalità con cui lo stesso presidente del Consiglio deve governare il Paese. Questo credo che sia francamente, presidente, inaccettabile.
La tangente e il contratto Sme
L'altra volta io fui qui, e resi una lunga dichiarazione costellata di fatti, di cifre, di nomi (…), quelle mie dichiarazioni hanno provocato tutta una serie di dichiarazioni spontanee, sono arrivate anche delle lettere che verranno depositate in atti; ne ho qui alcune, una è di un personaggio che allora rivestiva una carica importante, capo dell'ufficio Legislativo del ministero delle Partecipazioni statali, il quale scrive: l'accordo concluso dal presidente Prodi con l'ingegner De Benedetti non rispettava le procedure previste dalla normativa relativa al settore delle partecipazioni statali (…), il presidente Prodi non aveva i poteri necessari per impegnare l'Iri, anche sulla base del solo statuto dell'ente (…). Inoltre, (fu redatta dalla commissione interna del ministero, ndr) una relazione nella quale si esprimeva parere contrario alla procedura seguita nella vendita: in particolare veniva sottolineata l'anomalia rappresentata dal fatto che venivano praticate condizioni di particolare favore all'ingegner De Benedetti per perfezionare la cessione del pacchetto azionario, senza che vi fosse stato un preventivo invito ad offrire al pubblico e senza avere informato preventivamente l'autorità di governo. In sintesi, più che una vendita, sembrava una svendita. L'articolo (pubblicato nel maggio 2003 dalla rivista 'Critica sociale' e citato da Berlusconi, ndr) fa riferimento anche a un fatto che io avevo allora appreso da Craxi: l'ingegner De Benedetti aveva erogato alla Dc una robusta dazione di denaro, probabilmente per la campagna elettorale del 1983, e pertanto reputava di aver ottenuto il titolo per comprare un'impresa pubblica al modo con cui Totò pensava di poter comperare brevi mano il Colosseo. Divenne perciò furibondo con chi glielo aveva, secondo lui, impedito, mentre era la legge che glielo impediva. Quanto sopra, per mio dovere di verità, Francesco Forte.
(...) Incredibile ma vero: il contratto di vendita dall'Iri alla Buitoni della Sme è stato redatto in due incontri, come ha anche dichiarato l'ingegner De Benedetti ed è, di fatto, di quattro paginette. Quattro pagine, nemmeno tutte complete (...), per la vendita della maggioranza del più grande gruppo alimentare italiano. (…) a questo io voglio aggiungere anche una risposta che De Benedetti si merita per la menzogna che lui ha detto su di me, sul mio conto, utilizzando fra l'altro, per avere una cassa di risonanza europea, il giornale francese "Le Monde", dicendo che io mi sarei interessato a questa vicenda non per, come ho dichiarato, spirito di servizio e di indignazione (…), ma perché avrei avuto in cambio la promessa di un intervento regolamentare favorevole sulle mie televisioni. Anche qui i fatti smentiscono completamente l'ingegner De Benedetti: l'intervento del governo Craxi era stato molto antecedente a quella data, l'intervento definitivo di regolamentazione delle televisioni, la legge Mammì, avvenne molto tempo dopo, cinque anni dopo, iniziò sotto il governo De Mita e si concluse in parlamento sotto il governo Andreotti. Vorrei aggiungere altre cose sull'abitudine a dire la verità dell'ingegner De Benedetti, ma la mia posizione istituzionale mi consiglia di astenermi.

Quintali, tonnellate di fango
(…) Credo che per accertare definitivamente la verità la Corte non possa esimersi dal chiamare qui tutti i quindici giudici che decisero sulle cause intentate da De Benedetti all'Iri (…), io credo che questo sia importante e che, attraverso questa escussione di testimoni, si possa veramente arrivare a chiedersi, come io mi sono chiesto tante volte, come possa essere nato questo processo. Lo dissi già al gup Rossato, gli dissi allora, in un mio intervento di alcuni anni fa, quale prova esiste, quale indizio, quale accusa, quale testimonianza? Non c'è nulla: c'è soltanto la fervida fantasia di chi ha inventato questo teorema. Non c'è nulla, non ho ritrovato nulla, mi domando ancora come possano spendersi soldi dei cittadini italiani imbastendo un processo che è basato esclusivamente sulle delle invenzioni. Non c'è, ripeto, e lo voglio ripetere con forza, un indizio, una prova, un'accusa, una testimonianza, un documento, e non c'è la motivazione. Quindi, davvero, mi domando come si possano portare avanti dei procedimenti in questo modo, anche esponendo chi entra nel procedimento a delle immagini negative, che diventano quintali, tonnellate di fango che per sette anni mi vengono scaricate addosso dai giornali, dalle televisioni, in Italia, all'estero, quando anche questo qualcuno ha una responsabilità politica molto precisa.
La credibilità del teste Ariosto
C'è un secondo atto di imputazione che riguarda il fatto che, secondo l'accusa, ci sarebbe stata una situazione a Roma per cui il vice capo dell'ufficio Istruzione, diventato poi capo dell'ufficio Gip, cioè dei giudici delle indagini preliminari, il dottor Squillante, sarebbe stato a disposizione, ricevendo in cambio del danaro, per addomesticare, diciamo così, aggiustare dei processi. Dico subito che non sono stati trovati questi processi e che non c'era un solo, non solo il capo dei giudici Squillante, ma nessuno dei suoi collaboratori che aveva tra le mani un processo che potesse riguardare direttamente o indirettamente, personalmente o societariamente, la mia persona. Quindi - e questa è la conclusione a cui arriverò, ma guardando a come si è sviluppato questo problema - la partenza è data dalla dichiarazione della signora Ariosto (...). Vorrei spendere una parola su questo teste: non credo che ci sia nessuno che parlando due volte con la signora Ariosto non possa capire chi ha di fronte.La signora Ariosto ha mentito su tutto, non c'è una sola circostanza delle sue denunce che sia stata successivamente confermata come veritiera. Mente abitudinariamente sulla sua situazione personale - la si è presentata come la "contessina Ariosto", è figlia di una casalinga e di un impiegato statale che lavora al ministero della Difesa; mente presentandosi come vedova di un pilota di alto lignaggio precipitato in Africa - il marito, che avrebbe dovuto essere un pilota di alto lignaggio, ha dato una dichiarazione in cui dice "no, io non sono mai stato pilota, non sono mai precipitato, perché sono ancora qui, e, naturalmente, faccio l'impiegato: sì, è vero, dopo avere lasciato la signora Ariosto, perché il matrimonio è andato a pezzi, io sono anche andato in Africa". E quindi viene fuori una tecnica, che è la tecnica propria dei mitomani, per cui si prende un particolare concreto e lo si veste di situazioni diverse, ma che rendono ciò che si espone degno di qualche credibilità.

(…) Ho detto prima facendo un paragone un po' osè: qua non c'è il morto e cioè non ci sono i processi da aggiustare; non c'è l'arma del delitto perché su Efibanca non esisteva nessun conto; non ci sono situazioni logiche che si possano pensare tese a fini corruttivi, perché sarebbe da pazzi pensare che un'azienda importante e manager qualificati potessero operare con tanta leggerezza; e non c'è la motivazione, non c'è una mia motivazione ad aggiustare qualunque tipo di processi perché non c'erano processi che erano affidati agli uffici penali del giudice delle indagini preliminari che mi riguardassero.

(…) Tutto questo non risulta nel fascicolo degli atti. Si dice che sia in un fascicolo che ormai è diventato famoso, il 9520, si domanda da parte dei miei avvocati di poterlo aprire, la Procura oppone una resistenza dicendo: "No, segreto istruttorio". (...) se c'è un processo contro Silvio Berlusconi, i suoi difensori devono potere avere accesso alle carte e vedere, perché quelle prove che sono fondamentali, basilari per dimostrare l'estraneità al processo di Silvio Berlusconi, sono mantenute in un fascicolo e non vengono portate alla conoscenza della difesa e alla conoscenza della Corte (…).
Io, presidente, avrei ancora tantissimo da dire (...), ma la responsabilità istituzionale mi metterà nella situazione di dover collaborare per esempio con il presidente dell'Iri (Prodi, ndr). Io ho cercato nella prima mia venuta qui di non pronunciarne il nome, malgrado la mia volontà di non tirarlo in campo in questa vicenda, ma io col presidente della Commissione collaboro praticamente tutti i giorni. Avrò con lui uno scambio di attività in 6 mesi in cui avrò la responsabilità di guidare il Consiglio Europeo e quindi ho cercato fino all'ultimo di non farlo.
(...) La mia richiesta, e concludo, è quella che siano ascoltati i testimoni che sono emersi e che si sono spontaneamente fatti vivi».

15.6.03

IL CORAGGIO DELL’OTTIMISMO


di STEFANO FOLLI


Il Corriere della Sera è un grande giornale europeo. Ha attraversato centotrent’anni di storia italiana forte di questa ambizione e ha contribuito in modo decisivo a scrivere la vicenda nazionale. Per meglio dire, ha concorso a costruire un’identità del Paese; e lo ha fatto interpretando (salvo le parentesi buie che pure non sono mancate) lo slancio di un mondo attivo, vitale, determinato sulla via del progresso economico e civile. Il Corriere ha aperto a questo mondo le porte dell’Europa e al tempo stesso si è sforzato di diffondere in Italia i termini di un dibattito nuovo, in grado di trasformare la società, il costume, gli stili di vita. Le sue pagine sono state il terreno su cui si è formata parte della classe dirigente di un Paese condizionato da antichi ritardi. S’intende, non una classe omogenea: divisa, anzi, dalle scelte politiche e dalle esperienze culturali. Ma forse unita, nel suo complesso, da un certo istinto liberale e dal riguardo verso i valori di fondo della tolleranza e del rispetto civile.
Non è stato un processo lineare o esente da errori. Nel corso di una così lunga storia ci sono stati momenti di reale apertura e anni di sterile chiusura. Periodi in cui il Corriere è stato all’avanguardia nella società e nella politica, capace di offrire una voce al Nord e una speranza al Sud, accanto ad altri in cui ha trasmesso un’immagine sbiadita del Paese, anziché una foto nitida e coraggiosa.
Ma, al di là dei limiti, la storia del giornale coincide con quella della sua vocazione europea. Quindi con un fondo di ottimismo circa il destino nazionale. Seguendo quel filo laico e democratico di cui parlava Giovanni Spadolini, attento come pochi - proprio da direttore del Corriere - alla complessità della storia italiana. Il che significa, tra l’altro, leggere il secondo dopoguerra e la Prima Repubblica come un itinerario di sviluppo in cui fondamentale è stato il ruolo delle forze cattoliche, dei partiti della sinistra e degli stessi laici in un equilibrio peculiare e dinamico. Fino agli anni recenti, dominati da eventi senza precedenti nelle democrazie occidentali, ma anche da una transizione troppo lenta verso un bipolarismo maturo ancora lontano.
E’ qui, lungo questo tracciato, che s’intravede il senso della continuità. Ha ragione Ferruccio de Bortoli, un grande direttore che ha dato al giornale un’impronta incancellabile, di tipo professionale e morale: il Corriere è una garanzia. La garanzia offerta ai lettori che una storia antica continua, nella piena volontà di rappresentare l’Italia. Senza mai rinunciare a un’idea del progresso e di che cosa vuol dire stare in Europa.
Si tratta di dare impulso alle energie diffuse nel Paese, più forti di ogni difficoltà, volgendole ad allargare e non a deprimere gli spazi di libertà. Senza chiudere gli occhi davanti a nulla. C’è un’anomalia chiamata conflitto d’interessi che pesa sulle istituzioni; così come esiste una maggioranza voluta dagli elettori, tanto larga quanto impacciata, inchiodata all’eterna questione giudiziaria. Una maggioranza che deve ancora dar prova (a due anni dal voto) delle sue capacità riformatrici. Dall’altro lato c’è un’opposizione che ha il dovere di definire se stessa e la sua prospettiva senza ulteriori indugi. Sullo sfondo si stagliano forze e movimenti che non entrano nello schema del bipolarismo, ma che vanno capiti in quanto espressione talvolta di nuovi diritti.
E’ in questo spirito che assumo da oggi la direzione del giornale, firmandolo dopo l’amico de Bortoli. L’editore e la proprietà mi hanno dato fiducia, assicurando tutte le condizioni di autonomia e indipendenza della testata contro velleitarie pressioni esterne. Sono le condizioni che rendono forte e libero il Corriere della Sera , oggi come ieri. La mia responsabilità consiste nel collegare la fedeltà a una tradizione prestigiosa e la capacità di raccontare un Paese che cambia. Senza perdere se stesso, ma anzi consolidando le ragioni della propria identità.

14.6.03

UN’ISTITUZIONE DI GARANZIA


di FERRUCCIO DE BORTOLI (Corriere della Sera del 14 giugno 2003)

Un giornale di grande prestigio e tradizione cambia guida ma rimane sempre se stesso. In particolare il Corriere che è una delle pochissime istituzioni di garanzia di questo Paese. Da domani lo firmerà Stefano Folli, collega di grande valore, accolto dalla redazione con un larghissimo voto di fiducia. La scelta personale di chi scrive ha suscitato interpretazioni esagerate, a destra e a sinistra. Ricordo che nella sinistra al potere c’era chi voleva farmi condannare dall’Ordine dei giornalisti (e per un voto non ci riuscì) oltre a trascinarmi in tribunale, come avrebbe fatto poi la destra negli anni successivi, ultimi gli avvocati del premier (che spero, ora, non si ritirino). Questo per dire che un quotidiano indipendente, impegnato a ragionare sui fatti senza le lenti dell’ideologia o delle appartenenze, dà fastidio sempre. Una novità di rilievo nel mondo della comunicazione è poi inevitabilmente oggetto di discussioni, specie in un Paese governato da un editore; lo sarebbe di meno se si fosse risolto il famoso conflitto di interessi, che anziché ridursi si è ampliato.
Il Corriere ha cercato di essere in questi anni il giornale laico e liberale del dialogo, fedele ai valori della propria tradizione (dalla scelta europea all’economia di mercato, quella vera; dal maggioritario alla costruzione di un autentico sistema bipolare dell’alternanza). Ci siamo sforzati di proporre al lettore il massimo ventaglio delle opinioni, nel rigore delle inchieste e delle cronache, mai di parte. Ma soprattutto nella coltivazione quotidiana del dubbio. Abbiamo preso, quand’era necessario, posizione. Dicendo per esempio sì a due guerre, in Kosovo e in Afghanistan, ma raccontandole senza indossare alcuna divisa o, peggio, un elmetto. Abbiamo detto di no alla terza, l’ultima, quella dichiarata per togliere a un regime odioso le armi di distruzione di massa (che non sono state trovate).
Abbiamo creduto, e crediamo, in un Paese moderno in cui l’opposizione non pensi che chi governa sia un usurpatore della volontà popolare e chi sta al potere non tratti la minoranza come un relitto del passato. Discutano maggioranza e opposizione dei veri problemi italiani, diano insieme l’esempio che in una vera democrazia liberale il rispetto dell’opinione degli altri è un principio irrinunciabile. E’ troppo? Pare di sì. Siamo convinti che chi governa non debba scambiare il consenso per legittimità assoluta: il voto popolare è sacro ma non è un mandato in bianco. C’è una Costituzione, ci sono princìpi e garanzie. Intralci alle riforme? Macché, si facciano, le riforme, magari con la stessa determinazione con la quale si varano provvedimenti personali destinati a incidere sui processi in corso. Senza insultare la magistratura, sulle cui colpe «politiche» non siamo mai stati in questi anni teneri. Basta con le risse. E attenzione a un Paese che non perde occasione, in molte delle sue leggi recenti (condoni compresi) e in diversi comportamenti pubblici, di abbassare il tasso di legalità, deprimendo ancor di più la propria immagine all’estero.
Si è parlato di un declino economico, ma più grave è il declino politico, istituzionale e morale. La politica si separa sempre più dalla morale; l’attività di governo confina pericolosamente con gli affari, non sempre pubblici; la libertà d’informazione è vista con insofferenza crescente. Per fortuna c’è un’Italia migliore, moderata, aperta, europea, in un polo e nell’altro. E per fortuna c’è il Corriere che resta e resterà sempre un’istituzione di garanzia. Non asservita a nessuno. Dunque, scomoda, scomodissima.
Un grazie di cuore ai lettori, scusandomi per gli errori commessi. Un grazie alla redazione, straordinaria, e in particolare ai vicedirettori Carlo Verdelli, Paolo Ermini e Massimo Gaggi; un grazie all’editore e agli azionisti. E un pensiero affettuoso alla memoria di Maria Grazia Cutuli, di Walter Tobagi e di tutti quelli che sono morti facendo questo mestiere. Che amavano, come noi, molto.

12.6.03

La borsa badanti

di Alessandro Robecchi (per Il Manifesto)

Il lavoro è un diritto. Giusto. Date la vostra disponibilità e avrete un diritto a chiamata. Cioè funziona così: vi telefona l'azienda e vi dice, scusi, signor Gino, abbiamo un picco di produzione imprevisto, venga a lavorare un po', perbacco, è un suo diritto. Per i diritti occasionali, invece, c'è il buono-lavoro. Vai in un'apposita agenzia, compri un buono da un'ora (7,5 euro comprensivi di optional welfare, souvenir del passato comunista tipo Inps) e hai comprato un'ora di qualcuno. Diritti? Ah, aspetti, le do il buono. Non sottovalutate la cosa: uno può avere nel portafoglio, per così dire in contanti, un centinaio di ore di lavoro di altra gente. Fa ridere, ma mica tanto: qualcuno gira per la città con qualche ora del tuo tempo in tasca, accanto alla patente e alle banconote. Ci sarà gente che perde a poker due anni di babysitter. Il gratta e lavora è allo studio, naturalmente. L'imprenditore prende il caffè al bar e distrattamente, gratta via la vernicetta da un cartoncino. Oplà, ha vinto sei ore di facchinaggio ritirabili presso l'apposita agenzia. Lo staff leasing è un'altra cosa ancora: puoi avere la fabbrica, il magazzino, i macchinari. Ma puoi non avere i lavoratori.
Che dei 4 beni strumentali elencati è l'unico che ti può seriamente mandare affanculo. Li affitti a chilometraggio illimitato e poi li molli all'autogrill, come il cane che sì, era simpatico, ma che rottura, alla fine, costava e basta. Il lavoro in due è più complesso, si discute se la somma faccia due diritti, oppure un diritto diviso a metà, oppure due mezze fregature. Però è utile per raddoppiare le cifre roboanti dei posti di lavoro costruiti da Silvio: se per ogni impiego si contano due lavoratori è un bel colpo. Per quello lo chiamano lavoro ripartito: magari un giorno si potrà fare in quattro lo stesso lavoro, un vero boom dell'occupazione.

Il lavoro a progetto è un'altra variante, interessante. Soprattutto perché il progetto è quello del padrone, che lo realizza affittandoti. A progetto finito, tanti saluti, il progetto tuo - di avere un lavoro - non è contemplato, né compatibile con l'economia nazionale.

Tutto questo serve, naturalmente a combattere il precariato. E' una nobilissima causa che il governo di destra e il padronato hanno combattuto strenuamente per difendere i diritti dei lavoratori: quando saremo tutti precari il precariato non sarà più una piaga sociale. Bisognerà soltanto sterminare quelli della generazione prima, che ancora si ricordano quando c'era il lavoro fisso: erano altri tempi, che non mettano in testa ai giovani quelle idee antiquate. Ora qualcuno esulta che l'Italia sarebbe il paese più flessibile d'Europa. Il collocamento sarà privato, cioè dei privati venderanno ore-lavoro ad altri privati ricavandoci un guadagno, qualcosa di simile all'organizzazione di alcune zone del meridione dove il collocamento è da sempre in mano alla mafia. Però questo si chiama mercato. Con tanto di Borsa valori. Prepariamoci alle oscillazioni: idraulici meno due per cento. Falegnami più cinque. Pony-express meno uno e cinquanta al mercato ristretto. Compri un paramedico per tre ore? Speciale promozione, ti diamo un quarto d'ora di badante ucraina o, a scelta, due facchini di cinquant'anni, reclutati con le speciali norme sul reinserimento lavorativo. Gente di mezza età che sul mercato del lavoro nessuno vuole più e che quindi viene via a prezzi stracciati. Se la Borsa valori del lavoro funzionerà, si potrebbero avere sviluppi interessanti. Ho preso sei edili albanesi a Otranto e li ho girati su un conto a Torino due ore dopo. Senza aver spostato nemmeno un mattone ho guadagnato una bella sommetta. Ora investo in neolaureati di Udine perché c'è un'interessante ricapitalizzazione: per due ingegneri ti danno un professore di lettere sardo, che puoi vincolare a due anni o rivendere subito per tre assistenti universitari, ma solo il giovedì pomeriggio. Mentre tutto questo avviene, il gigantesco ufficio stampa dei padroni - la pubblicità - ci convince che la flessibilità è una sciccheria per fighetti. Più tempo libero, meno vincoli, una vita finalmente spensierata, anzi, una garrula fiducia nel futuro, visto che lavorerai tre ore domenica notte, poi il pomeriggio di martedì e poi chissà, forse una settimana intera in agosto. Tutto il resto del tempo puoi passarlo a cercarti un lavoro, in due, o in leasing, o a chiamata, o con il buono. O anche a buttarti a fiume. Non è un'inebriante libertà?

11.6.03

STATUTO DEI LAVORATORI - ART. 18


ART. 18. - Reintegrazione nel posto di lavoro.
Ferma restando l'esperibilità delle procedure previste dall'art. 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell'art. 2 della legge predetta o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.
Il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno subito per il licenziamento di cui sia stata accertata la inefficacia o l'invalidità a norma del comma precedente.
In ogni caso, la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione, determinata secondo i criteri di cui all'art. 2121 del codice civile.
Il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al comma precedente è tenuto inoltre a corrispondere al lavoratore le retribuzioni dovutegli in virtù del rapporto di lavoro dalla data della sentenza stessa fino a quella della reintegrazione.
Se il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell'invito del datore di lavoro non abbia ripreso servizio, il rapporto si intende risolto.
La sentenza pronunciata nel giudizio di cui al primo comma è provvisoriamente esecutiva.
Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'art. 22, su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, pu? disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
L'ordinanza di cui al comma precedente pu? essere impugnata con reclamo immediato al giudice medesimo che l'ha pronunciata.
Si applicano le disposizioni dell'art. 178, terzo, quarto, quinto e sesto comma del codice di procedura civile.
L'ordinanza pu? essere revocata con la sentenza che decide la causa.
Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'art. 22, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al primo camma ovvero all'ordinanza di cui al quarto comma, non impugnata o confermata dal giudice che l'ha pronunciata, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all'importo della retribuzione dovuta al lavoratore.

1.6.03

Rottamate i poveri

di Alessandro Robecchi (per Il Manifesto)

Per essere un rebus somiglia parecchio a un paradosso. Dunque riassumiamo: secondo l'Istat gli italiani sono sfiduciati. Quindi non spendono. E se non spendono si fermano i consumi, e l'industria non tira. Quale industria? La stessa che ha voluto «più flessibili» i lavoratori, pagandoli con 8-9 mensilità invece di 13. Dunque li ha impoveriti, e ora li accusa di non spendere. Per la prima volta i poveri - per il solo fatto di essere poveri - fanno un dispetto ai ricchi. Dunque, ci ammoniscono gli economisti liberisti, questo è male per tutti, e per i poveri è male due volte (l'unico caso in cui hanno un bonus). Si lascia intuire, con quella sorta di determinismo mesmerico che i liberisti amano applicare al liberismo, che se i poveri si comprassero appartamenti, gioielli e macchinoni saremmo tutti meno poveri. Chiusura del cerchio: siamo più poveri per colpa dei poveri. Bastardi. Dunque si torna lì, ai consumi. Dei consumi indotti si sa e si è detto mille volte. Ma ancora si sobbalza di fronte a certe evidenti cretinate. Perché in un paese dove non si possono superare i 130 all'ora uno dovrebbe fare il pieno con la V Power, «la benzina studiata in collaborazione col team Ferrari»? Mistero.

Perché uno dovrebbe fremere all'idea di guardarsi il videooroscopo sul videotelefonino, e magari indebitarsi per questo? Probabilmente non lo sapremo mai, finché non inventeranno un videotelefono che ce lo spiega: per soli 1 euro e 20 cent al minuto puoi sapere finalmente quanto sei scemo: parecchio.

Nonostante tutto questo ben di dio in agguato, i poveri si ostinano ad essere poveri. E anzi aumentano: otto milioni di italiani sono sotto la soglia di povertà, a pensarci l'incremento dei meno abbienti è l'unico segno «più» di questa mirabolante patacca che è il signor Silvio.

Secondo alcuni (i guru del commercio e della pubblicità), il problema è psicologico: non c'è ottimismo. La gente ha il muso lungo e le palle girate, ha paura del proprio futuro, e questa non è esattamente la situazione in cui uno esce a comprarsi una videocamera digitale o un pigiama di lino.

C'è da capirla: l'ultima volta che la gente è stata ottimista e ha guardato con fiducia al futuro è uscita a comprarsi dei fondi o delle obbligazioni, ed è stata rapinata di ogni suo avere. Il risparmio delle famiglie, specie nei ceti medi, è già stato tosato alla grande.

Alla garrula esortazione «ehi, sii più ottimista», si è tentati di rispondere, «ancora?, ma io ho già dato!». Uno - per buona volontà - ci prova. Con l'affitto (o il mutuo) che fa metà stipendio, il lavoro flexy che traballa, l'assicurazione della macchina aumentata del trecento per cento e magari il nonno portatore sano di tiket sanitari e il piccolo al nido privato, deve essere ottimista per forza, se no si spara. Ma scusate, questa è la solita demagogia, mentre invece il problema è serio, per quanto risolvibile con un po' di ottimismo e un bel sorriso.

Dunque si reclamano e si studiano, per incentivare il consumo, nuovi entusiasmanti barbatrucchi. La rottamazione, partita per le macchine prima che si rottamasse la Fiat, è il nuovo trend. Forse potremo avere incentivi per buttare via la libreria o la lavatrice vecchia e comprarcene una nuova.

La «roba» dura troppo: la nostra libreria, la nostra lavatrice vivono troppo a lungo per le esigenze dell'economia nazionale. Quella stronza ronza, sputacchia e fa casino, ma lava ancora i panni egregiamente. Maledetta lavatrice comunista che boicotta la crescita. Identificatela!

Sicuramente ci penserà la scienza, sempre al servizio del progresso: «Grazie per aver scelto le nostre poltrone, esse si autodistruggeranno alla prossima fase di stagnazione economica».