29.10.03

TRAVAGLIO, COCILOVO, FERRARA



Signor direttore,
comprendo la sua incredulità nell?apprendere che un giornalista ha scritto notizie vere: capita di rado, dalle sue parti. Comprendo anche il suo il suo spontaneo, istintivo slancio di solidarietà verso Luigi Cocilovo, candidato dell?Ulivo e di gran parte dei "professori" e dei "movimenti" alle elezioni provinciali di Palermo, nonostante i gravi fatti accertati sul suo conto dal Tribunale della stessa città. O forse proprio per questo: se passa la linea secondo cui, per fare politica, è sufficiente non avere condanne, nessuno potrà più dire una parola su Berlusconi, Previti & C. Comprendo, infine, l?eleganza e la correttezza con cui il suo giornale ha voluto raccontare ai lettori il cosiddetto "caso Cocilovo-Travaglio": ascoltando soltanto la campana di Cocilovo e ignorando l?altra, quella del giornalista "giustiziere". Cocilovo ha cos? potuto raccontare allegramente bugie per tutto l?articolo, insultare pesantemente il sottoscritto ("immorale,spregevole,sicario,analfabeta,pseudogiustizialista"), insinuare addirittura velatamente che dietro di me si muovano oscuri "mandanti" (mafiosi?) interessati a rimpiazzarlo con un candidato più "malleabile al momento di discutere certe cose". Anche Emanuele Macaluso ha raccontato la sua brava bugia, su La 7, su Il Riformista e infine sul Foglio, affermando che io avrei "raccontato che Cocilovo era stato processato", ma mi sarei poi "scordato di dire che era stato assolto". Nel mio articolo su "la Repubblica-Palermo" (ripreso dai siti www.centomovimenti.it e www.democrazialegalità.it), ho infatti scritto: "Il processo di primo grado è di quelli che fanno epoca: l?imprenditore Mollica condannato a 3 anni di reclusione per aver versato 350 milioni a Cocilovo, Cocilovo assolto per avere incassato 350 milioni da Mollica. Miracoli della riforma del cosiddetto ?giusto processo?. Mollica infatti, in aula, si avvale della facoltà di non rispondere. Cos? le sue dichiarazioni al pm valgono soltanto contro di lui, ma non contro gli altri. Nella sentenza del Tribunale di Palermo (21 giugno 2002), comunque, si legge che Cocilovo fu ?collettore di una tangente, disposto anche a concedere favori sindacali? e ?percettore di un contributo elettorale?. Ma non pu? essere condannato. Pare uno scherzo, invece è il ?giusto processo??".
Appurato che Macaluso mente, è chiaro che Cocilovo non è stato assolto perché non abbia preso quei 350 milioni e persino la valigetta Cartier che li conteneva (anche "per concedere favori sindacali", cioè per bloccare gli scioperi della Cisl nei cantieri di Mollica). E? stato assolto solo perché, nei suoi confronti, la prova decisiva ? la confessione di Mollica - non è utilizzabile. Il fatto è provato, ma chi ha preso i soldi non pu? essere sanzionato. Il che "libera" Cocilovo sul piano giudiziario: non andrà in carcere. Ma forse pone un piccolo problema politico, e magari anche (scusi il termine) morale. Soprattutto trattandosi di un sindacalista candidato del centrosinistra. E? giusto oppure no che i cittadini elettori sappiano queste cose? Perché questo mi sono limitato a fare: a ricordare quel che dice quella sentenza di primo grado, che ora Cocilovo (proprio nella sua intervista al Foglio) definisce addirittura "definitiva": segno che non è vero ci? che aveva dichiarato dopo il mio articolo, e cioè che l?aveva impugnata per cancellare ogni macchia. Mi diverte, poi, l?idea che mi abbia denunciato al Tribunale di Palermo per farmi condannare per aver pubblicato una sentenza del Tribunale di Palermo. Ma fatico a capire come possa "pretendere" che "tutti riconoscano la mia innocenza, a sentenza definitiva". Perché, delle due, l?una: o non l?ha letta, oppure mente anche su questo. Io, pur essendo un noto "analfabeta", l?ho letta tutta. Cinquantanove pagine, in cui la parola "innocenza" non compare mai. A proposito: perché non la pubblica a puntate sul Foglio?
E? comprensibile che il candidato dell?Ulivo sperasse di tenerla nascosta: purtroppo la stampa esiste proprio per questo. Per informare, soprattutto là dove qualcuno nasconde e occulta. E lei, direttore, mi insegna che per fare politica non basta essere incensurati. Bisogna essere anche insospettati e insospettabili. O almeno lei me lo insegnava quando batteva in lungo e in largo il Mugello a bordo di una Mercedes, per ricordare a tutti gli elettori che Di Pietro se n?era fatta prestare una dal suo amico Rocca della Maa Assicurazioni. Eppure era stato assolto, anzi l?accusa si era rivelata talmente inconsistente da non bastare nemmeno per il rinvio a giudizio. Nessuna formula dubitativa (tipo l?articolo 530 comma 2 applicato a Cocilovo), nessuna ragione tecnica come l?inutilizzabilità della prova: il reato non esisteva, punto e basta. Eppure lei scrisse che c?era anche il piano morale, che non sta bene farsi prestare soldi e auto da amici quando si fa il magistrato. D?accordissimo con lei. Ma che cos?era, lei, nel 1997? Un giustiziere? Un sicario? Un analfabeta? Uno pseudogiustizialista? E in quale "democrazia liberale" ? per usare un?espressione a lei cara (vedi editto di Arcore) ? la sinistra candiderebbe senza batter ciglio un signore con una sentenza (e un fatto) del genere sulle spalle? E in quale democrazia liberale un giornale "liberale" come il suo denuncerebbe un giornalista che fa il suo mestiere, ricordando quella sentenza e raccontando quel fatto? Dopodiché, intendiamoci, la gente si fa un?idea, riflette sceglie, decide e vota come meglio crede. Ma ha il diritto di sapere tutto dei candidati che le chiedono il voto. Soprattutto se in quel "tutto" non ci sono privatissime storie di corna (come accade spesso in America), ma alcune condotte leggermente più pubbliche e più degne di riflessione.
Fino a qualche giorno fa gli elettori palermitani non sapevano nulla di Cocilovo. In seguito al mio articolo, hanno appreso che per il tribunale di Palermo è il "collettore di una tangente, disposto anche a concedere favori sindacali". Ora, grazie al Foglio, sanno che è pure un bugiardo.
MARCO TRAVAGLIO

26.10.03

SIGNORA LEI NON PUO' GIOCARE
dalla Repubblica

CHIETI - E' finita con l'intervento dei carabinieri. Con la partita non disputata e con la gente sugli spalti che rumoreggiava. Al centro della vicenda una donna che vuol giocare a calcio con gli uomini. Una novità che ha scatenato un putiferio. Nicoletta Carlitti, trentaquattrenne calciatrice tesserata per una quadra maschile amatoriale, l'"Osteria dei Miracoli" di Casalbordino in provincia di Chieti, era pronta a giocare contro il "Punto Casa" di Vasto nella quarta giornata del campionato Amatori della Figc Abruzzo. Voleva essere in campo, nonostante il veto imposto dalla Federcalcio nei giorni scorsi.

Alle 15 negli spogliatoi dello stadio comunale di Casalbordino, entra l'arbitro Luigi Scafetta. Deve mettere in pratica la disposizione della Figc che chiede il sequestro del tesserino della Carlitti. E' a quel punto che si scatena il putiferio, con le squadre tenute negli spogliatoi e i dirigenti dell'"Osteria dei Miracoli" determinati a tutti i costi ad impedire il ritiro del documento.

Arrivano anche i carabinieri. "E' una situazione grottesca - ha commentato il legale della società amatoriale, avvocato Luigi Moretta - il sequestro non può essere effettuato, il tesserino è pur sempre un documento personale, con tanto di fotografia, anche se rilasciato dalla Federcalcio". Amareggiata la Carlizzi: "Non avrei mai immaginato che la mia vicenda, nata solo per divertimento e per amore dello sport, suscitasse tanto clamore".

Dopo lunghe discussioni, comunque, l'arbitro ritira il tesserino, sulla base della diffida inviata dalla Figc alla Carlitti il 22 ottobre scorso, che però, dice la società, doveva scadere il giorno 27.

L'ultimo atto vede il direttore di gara lasciare lo stadio, seguito dalla squadra ospite. La partita viene annullata. E per la Carlitti la speranza di giocare per il momento svanisce. "Il calcio è sempre stato la mia passione. Nel 1998 avevo smesso. Ho ripreso da poco e solo per divertirmi. Non avevo intenzione di scontrarmi con la federazione, ma quello che chiedevo era solo di giocare" dice la Carlitti.

"Non avevo nessun imbarazzo a presentarmi oggi in campo - continua la giocatrice - sicura di non aver fatto nulla di male per attirarmi i fulmini della federazione. D'altronde non so come il mio tesseramento potesse essere frutto di un errore: mi chiamo Nicoletta, non ho un nome straniero che potesse generare confusione". Che accadrà adesso? L'Osteria dei Miracoli non intende certo fermarsi nè rinunciare alla presenza della donna nelle proprie file, puntando a inserirla definitivamente nel campionato amatoriale, o quanto meno a ottenere una deroga. Intanto Nicoletta tornerà come sempre al suo posto di operaia allo stabilimento Denso di San Salvo.


COSA NOSTRA E COSI' SIA

di Nando dalla Chiesa (l'Unità, 23 ottobre 2003)

Ragazzi sveglia. Ma come: davvero non avete mai conosciuto un mafioso, non ci siete mai andati a cena, non l'avete mai ospitato a casa nemmeno come stalliere, non siete mai stati ospitati in una sua villa , non gli avete mai fatto un prestito né lui ve l'ha fatto, non ci avete mai concluso un affare piccolo così? Ma che ci state a fare al mondo? Sveglia ragazzi, perché il mondo non è fatto per le belle statuine e nemmeno per le anime candide e un po' pirla. Se uno fa l'imprenditore è normale che finisca per fare affari con chi ha più soldi. Se uno fa il poliziotto è normale che dia informazioni sulle attività sue e dei suoi colleghi a qualche boss, se no come fa ad avere qualche confidenza in cambio? Se uno fa il prete o il frate o l'abate o la suora è ovvio che vada a trovare un mafioso latitante: chi più di un assassino ha bisogno della medicina della fede? Se uno fa politica, specie nelle regioni del sud, è normale che prenda i voti dei mafiosi e non vada troppo per il sottile, se no come farà a far vincere i suoi ideali? E se uno è uomo di spettacolo, specie negli Stati Uniti, deve per forza imbattersi nei mafiosi - lo sanno anche i bambini -, se no alla fine come fa a lavorare?

E vai col liscio. Credete voi che queste frasi siano satira allo stato puro? Ma no, sono distillate ogni giorno, sono il pane quotidiano della grande tragicommedia italiana in cui siamo immersi. La penultima frase, in forma un po' più seriosa, l'ha scritta Piero Ostellino sul "Corriere" di qualche giorno fa. Un articolo-provocazione, ha spiegato. Già, come il titolo (poiché l'espressione non venne usata da Sciascia) sui "professionisti dell'antimafia", sul "Corriere" da lui diretto nel 1987. Anche allora una provocazione. Rileggetevi le ultime, disperate parole pubbliche di Paolo Borsellino sulla polemica, su come l'aveva vissuta lui, e vi farete un'idea di quanto sia stata divertente e amabile quella provocazione.

L'ultima frase, invece, l'ha detta in un'intervista (sempre sul "Corriere") Fabrizio del Noce, direttore di Raiuno. L'ha detta rispondendo alle polemiche che investono la nomina di Tony Renis a direttore artistico del festival di Sanremo. Dice del Noce che vuole le prove delle connivenze di Renis. Anzi, va al contrattacco. E ricorda che anche Sinatra, amico di Sam Gimcana, era amico dei Kennedy. Splendido. Non poteva scegliere esempio migliore. Perché quando John Fitzgerald Kennedy, che era stato effettivamente sostenuto in campagna elettorale da Sinatra, e perciò lo aveva invitato ai festeggiamenti della vittoria, si trovò scodellati sulla stampa i rapporti tra Sinatra e i boss di Cosa Nostra americana e percepì fino in fondo gli interessi del cantante nelle case da gioco di Las Vegas, non gli mandò un messaggio di commiato clandestino o complice, né denunciò le "manovre politiche". Diede solo disposizione al proprio ufficio stampa di annunciare pubblicamente che Sinatra non avrebbe più potuto mettere piede alla Casa Bianca; e che la frequentazione pericolosa lì si interrompeva. Insomma, se Sinatra sta a Renis come Kennedy a Berlusconi, non dovrebbero esservi dubbi sul modo più ovvio per chiudere questa storia.

In ogni caso, poiché il direttore di Raiuno fa finta di non capire e di credere che la colpa di Tony Renis sia quella di tutti gli uomini e di tutte le donne di spettacolo in America, cioè, testualmente, di essersi "imbattuto in certe persone", ci permettiamo di proporgli alcune semplici domande, davanti alle quali dovrebbe essere un po' più difficile fare i finti tonti e ripararsi dietro le "cacce alle streghe" o dietro i "fini politici". Si gradirebbe dunque risposta a ciascuna delle seguenti domande.

1) Quanti personaggi dello spettacolo italiano (non americano) hanno chiesto di ottenere una parte in un film a un boss mafioso, anzi, a un fondatore dell'anonima assassini, uno di cui il senatore americano Kefauver dichiarò, come si dice, "in velo d'ignoranza" (ossia non immaginando che il successivo protettore del cantante sarebbe stato trent'anni dopo il capo del governo italiano) che "le sue mani grondano sangue"?
2) Quanti personaggi dello spettacolo italiano (non americano) sono stati ospitati nella villa della famiglia mafiosa degli Spatola nell'estate del '79, nella stessa estate in cui vi è stato ospitato Michele Sindona durante il suo falso rapimento?
3) Quanti personaggi dello spettacolo italiano o americano sono stati in rapporti con Michele Sindona (per la giustizia italiana latitante) nelle settimane in cui il finanziere-bancarottiere ha commissionato l'assassinio dell'avvocato Giorgio Ambrosoli?
4) Quanti personaggi dello spettacolo americano hanno dichiarato di essere amici stretti dei membri di una delle più potenti famiglie di Cosa Nostra (i Gambino) e ne sono stati abitualmente ospitati in albergo?
5) Quanti personaggi dello spettacolo italiano o americano sono stati ascoltati dalla magistratura del loro paese sulle proprie amicizie strette con i mafiosi a ridosso di un delitto? E, tra questi (se ve ne sono), quanti si sono rifiutati di collaborare con la giustizia vantandosi anzi successivamente di "non avere cantato"?

Sono domande rigorosamente fondate su atti ufficiali o su dichiarazioni dello stesso Tony Renis, che certo nessuno ha torturato, a suo tempo, affinché le rilasciasse. Sono farina del suo sacco, non frutto di invenzioni o del Maligno. Difficile che Fabrizio del Noce, o chiunque al suo posto, sappia fornire risposte convincenti. Altre risposte, voglio dire, che non siano insulti o aria fritta. Il guaio è che il festival di Sanremo sembra nascere all'insegna di una precisa, cinica (e non inedita) ideologia: quella secondo cui bisogna convivere con la mafia. Il "guaio" opposto (per Tony Renis, Fabrizio del Noce e tutti gli altri) è che c'è un'Italia che - da decenni - a questa ideologia ha già risposto "no grazie". Lasciando sul terreno i suoi martiri. Ad alcuni dei quali questo governo ha dedicato convegni e francobolli. Ricordiamo bene?

Il controfestival

di Nando dalla Chiesa

Lo so che ci sono problemi ben più importanti. So dei condoni; e delle ville e officine abusive nei parchi. So pure che cosa pensa il capo del governo, del fascismo e dei magistrati, specie davanti a una bottiglia di champagne (e se beve un superalcolico che penserà mai?). So ancora della Rai mandata a picco per trasferire soldi alle tivù del capo del governo medesimo. Ma ecco, proprio a proposito di Rai, questo fatto che Tony Renis diventi direttore artistico del festival di Sanremo davvero non mi va giù, davvero non riesco a capacitarmene. Mi sembra uno di quegli sberleffi che i regimi fanno ai sudditi per dargli il senso smargiasso della propria potenza. Sberleffi inutili, insolenti, dannosi anzi all’immagine culturale ed estetica del regime (c’è la libertà di dirlo, o scatta la querela della Casa delle libertà?). Ma utilissimi a dimostrare che il potente si scapriccia con la cosa pubblica come vuole, allo stesso modo che i signorotti di un tempo si scapricciavano con le servette. Potere assoluto. Stile "qui comando io".

Sembra quasi di vederli, Silvio Berlusconi e il Tony 2 (Tony 1 è Blair, almeno per ora...) che parlano mentre il capo dà disposizioni al fido collaboratore che gli organizza le feste private in Sardegna. Chissà chi ha preso il discorso per primo. Forse il capo del governo: "Tony, ma come posso esprimerti la mia gratitudine per queste feste tanto sapientemente e con tanta classe organizzate, con questi champagne che, solo a vederli, ti trasformano in un oratore politico stupefacente? Dimmi, hai mai pensato ad assumere in Italia un ruolo all’altezza delle tue qualità? Te l’hanno mai proposto?". A quel punto il Tony 2 deve avere chinato in una parvenza di umiltà il proprio capino una volta inciuffolito. E deve avere risposto "Be’, no, non mi ricordo; sai Silvio, qua in Italia se non sei raccomandato non vai da nessun parte". E il capo del governo, nel pieno delle sue funzioni di presidente dell’Unione europea: "Ma bisogna rimediare, basta con questa fuga dei cervelli, con i geni italiani costretti a lavorare all’estero. Faremo ciò che chiede la gente. Dove preferisci andare? Alla Biennale, alla Scala, o al teatro greco di Siracusa, lì i cactus ci starebbero una meraviglia, dove?". Forse rispose Tony 2: "Veramente a me basterebbe fare il direttore artistico al festival di Sanremo". Il presidente d’Europa ebbe un moto di giubilo: "Davvero ti basta il festival di Sanremo? Ma certo, come ho fatto a non pensarci prima? Hai ragione, d’altronde hai mosso lì i tuoi primi passi di artista e di manager internazionale". Tony 2 fu felice. Il maestro Apicella (in Italia a un posteggiatore basta cantare con il capo del governo per diventare Maestro, un po’ come Raffaello o Toscanini), ascoltò tutto in silenzio e meditò trepidante su ciò che avrebbe potuto chiedere a sua volta, se il dipartimento musicale della Rai o il teatro Lirico a Milano, appena negato a Marcello Dell’Utri per via di un appalto un po’ birichino (si può dirlo o si rischia la citazione in giudizio da parte dei nemici della "via giudiziaria"?).
Che sia andata così o che il discorso l’abbia intrapreso Tony 2 in un momento di abbandono del capo davanti a una bottiglia di champagne, che possa essere stato il primo a chiedere con una punta di impertinenza "Silvio, ma non ci sarebbe qualcosa per me in Italia?", non fa molta differenza. Fatto sta che la rassegna e trasmissione canora che ha segnato decenni di storia popolare italiana, che ha attraversato la biografia di intere generazioni, è stata messa nelle mani di Tony Renis durante una serata privata del capo del governo. Nessun ostacolo dalla Rai, dove i dipendenti del Capo hanno subito apprezzato la formidabile intuizione -"ragazzi, ma come abbiamo fatto a non pensarci noi?"-. Nessun ostacolo sulla stampa amica e nemmeno su quella neutrale, che si limitano a trasmetterci la fotina di un signore tutto vestito di bianco che sembra riemerso da un vecchio album di famiglia. Già, l’album di famiglia. La ricordate la Milano da bere? Lo ricordate il clima della grande abbuffata che affondò (lui, non i magistrati) il riformismo craxiano? Sfoglio i giornali di allora. Milano che onora Frank Sinatra, "la voce", al Palatrussardi; prezzo, mezzo milione a poltrona. E Craxi e Ligresti e Pillitteri, il sindaco cognato. E tutta la corte dei tempi. Un mondo eterogeneo ma compatto. Nel quale spuntava ogni tanto come autista, a qualche matrimonio che contava, proprio lui, Tony Renis. Amico di Frank Sinatra e, come "la voce", amico di qualche potentissima "famiglia" d’oltreoceano. Quel lontano profumo atlantico si sentiva, arrivava anche a Milano e in qualche occasione veniva perfino rivendicato con una punta di civetteria (ma guarda un po’...).

Forse è per questo che non riesco a capacitarmene. Non posso pensare che la celebre Seconda Repubblica, con i suoi nuovi sistemi elettorali e i suoi nuovissimi contesti mondiali (non per niente c’è un Tony 1...), ripeta il film già visto: anzi, a essere onesti, veda ora montare in cattedre allora inarrivabili i comprimari da festa e champagne di quegli anni. Non posso pensare che nella scoppiettante, aitante Seconda Repubblica trionfi un clima da basso impero (si può dire, o è pronta la denuncia dell’ unico governo che abbia messo nei suoi programmi l’abolizione dei reati di opinione?). Forse, mi dico, è maturo il momento per progettare qualcosa di clamoroso. Non il lancio di pomodori contro Tony Renis a Sanremo, sulla falsariga del lancio squadristico propagandato da Giuliano Ferrara contro Benigni. Ma una manifestazione alternativa organizzata negli stessi identici giorni, se possibile proprio a Sanremo. Alternativa, sia chiaro, non perché minoritaria, o destinata a un pubblico culturalmente o socialmente marginale; ma perché occasione di un nuovo festival della canzone che soppianti questa creatura tanto decrepita da potere essere tranquillamente trasformata, con i soldi del contribuente (si dice così, no?), in povera e luccicante rassegna del regime. Senza gli intrallazzi e i trucchi e i sospetti che hanno gravato su Sanremo negli ultimi anni. Che dia il senso dell’originalità, ma anche di una fresca e piacevole normalità umana proprio nel luogo del crepuscolo, là dove i potenti si scapricciano.
Può avvenire in ogni modo, in ogni forma, c’è solo da discuterne. Ma una manifestazione di livello e qualità ben più alta di quella annunciata da Tony 2 e Fabrizio Del Noce è auspicabile e possibile, anche sotto il profilo del ritorno economico. Diciamo -per ipotesi- qualcosa di simile, in due serate, al concerto del primo maggio. Ci sono professionisti, imprenditori, artisti e intellettuali, radio e tivù private, disposti a fare da "pacchetto di mischia", così come nei concerti organizzati in due mesi per i più nobili motivi civili o sociali? Disposti, anche se non hanno mai amato Sanremo, a mostrare che cosa può diventare quel festival ("il festival") fuori dalle umiliazioni del conformismo mediatico e dalle "turbe di onnipotenza" del premier? Lo so, qualcuno dirà: chissenefrega, mandiamolo a fondo. Facile, giusto; ma lo faremmo in pochi. Una grande impresa collettiva, questo ci vuole. Che usi le risorse esiliate dal Capo e dai suoi cortigiani. E quelle libere, che in Rai non ci hanno mai potuto metter piede. E tutta la vitalità della musica e della cultura. Nulla è efficace, di questi tempi, come mostrare le alternative.
P.S. Scommetto che se il pacchetto di mischia ci fosse e riuscisse nell’impresa, ci sarebbe, oltre alle tivù straniere, una tivù italiana pronta a saltare sull’evento. La Rai no, naturalmente. Ma una tivù di Berlusconi di sicuro. Quando si dice che è un regime strano...

Tony Renis tiene famiglia

di Nando dalla Chiesa (l’Unità, 21 ottobre 2003)

Sorry. Mi dispiace, mi dispiace veramente. Non credevo che albergasse tanta delicata sensibilità tra i giornali della maggioranza verso l’immagine di Tony Renis. Così da farli produrre in attacchi inaciditi contro il sottoscritto. Responsabile di avere ripreso integralmente da documenti ufficiali la storia dei rapporti del nuovo direttore artistico di Sanremo con Joe Adonis, fondatore di Cosa nostra americana, fondatore dell’Anonima assassini ("le sue mani grondano sangue" aveva detto di lui il senatore americano Kefauver) e stratega dell’ingresso della mafia siciliana nel traffico mondiale degli stupefacenti.
Chiedo scusa, ma i documenti ufficiali, oserei dire la storia, non sono colpa mia. E non è colpa mia ciò che Tony Renis ha detto o fatto.
Per questo e solo per questo mi sento sollevato dagli addebiti. E vorrei anzi, in un nuovo sforzo di verità e memoria, raccontare quel che lo stesso Tony Renis ha detto o fatto in altro periodo della sua vita: più precisamente tra l’estate del ’79 e l’inizio dell’80, quando Joe Adonis era ormai morto da otto anni.
Vorrei raccontare una storia dimenticata all’interno di una grande storia di mafia. Vi parlerò dunque del finto rapimento di Michele Sindona, avvenuto nell’estate del ’79. Anche qui è necessaria qualche nota volta a rinfrescare la memoria dei lettori. Michele Sindona, banchiere di fama internazionale, simbolo della finanza d’avventura e della finanza sporca, chiamato da Giulio Andreotti "il salvatore della lira" quand’era in auge (per diventare poi "il finanziere di Patti" quando andò in malora), fece bancarotta in America con la American Franklin Bank e in Italia con la Banca Privata Italiana. Tutto avvenne tra il ’74 e il ’75. Destinatario di un mandato di cattura da parte della magistratura milanese, riparò latitante negli Stati Uniti. Da lì, pur latitante, continuò ugualmente a mantenere rapporti con Giulio Andreotti presidente del consiglio. Legato alla mafia e alla P2, punto d’incrocio dei tanti poteri criminali italiani, e anzi fiduciario dei capitali della nuova Cosa nostra siciliana, il finanziere mise in atto ogni comportamento possibile per salvarsi dalla giustizia americana e da quella italiana. Il 1979 giocò il tutto per tutto. E segnò il punto di svolta della sua parabola; che lo avrebbe portato, sette anni dopo, al suicidio -tramite classica tazzina di caffè- nel carcere di Voghera.

Che succede dunque in quell’anno, che riguardi Michele Sindona? Succede che a mezzanotte dell’11 di luglio, nel centro di Milano, in via Morozzo della Rocca, viene ucciso l’avvocato Giorgio Ambrosoli, impegnato da anni per conto della Banca d’Italia a difendere gli interessi dei risparmiatori italiani truffati dal banchiere della mafia. Con coraggio eroico l’avvocato milanese aveva respinto per anni ogni allettamento o minaccia affinché ammorbidisse le sue posizioni. Un sicario mandato da Sindona direttamente dall’ America lo uccide davanti a casa sua. L’Italia insanguinata dal terrorismo non capisce. Di fronte a quell’avvocato sconosciuto si volta dall’altra parte, l’unica cosa che la preoccupi davvero sono le Brigate rosse. Passano dieci giorni e si cambia di latitudine. Palermo, 21 luglio: in un bar, alle otto del mattino, viene ucciso il commissario di polizia Boris Giuliano, che da tempo indaga (e con successo) sui traffici di droga e di denaro sporco tra la Sicilia e gli Stati Uniti. Certamente per ordine della Cupola mafiosa, secondo molti in probabile connessione con la vicenda Ambrosoli. Poi, ai primi di agosto, la notizia clamorosa che mette in altra e più inquietante luce quell’estate di mafia e di morti ammazzati: Michele Sindona è stato rapito. Grotteschi comunicati rivendicano il rapimento a una formazione comunista, il "Comitato Proletario Eversivo per una vita migliore". Ma è una formidabile messinscena, preparata da un paio di mesi. In realtà Sindona, con l’alibi del sequestro a fini politici, sparisce dalla circolazione e viene portato di nascosto dall’America in Sicilia. Viene in Italia a sistemare i suoi interessi, a curare le sue strategie, a definire i suoi rapporti con il mondo mafioso, economico e politico, a ricattare, a cercare sostegni per recuperare i capitali perduti. Per completare la messinscena si farà anche sparare a una gamba e farà circolare la polaroid di se stesso ferito dai "rapitori". Lo proteggono nei suoi incontri e nei suoi spostamenti alcuni numi della massoneria e alcuni esponenti delle istituzioni. Ma soprattutto lo proteggono due formidabili famiglie mafiose, una di qua e una di là dell’Atlantico. In America la faccenda viene gestita dalla famiglia Gambino. In Sicilia dalla famiglia Spatola, imparentata con la prima e fresca di egemonia a Palermo nel settore delle costruzioni. Ed è in questo contesto -vi prego, non ridete- che rispunta il nome di Tony Renis.

Per andare avanti nel racconto mi atterrò fedelmente a quanto i giornali riportarono allora e soprattutto a quanto lo stesso Tony Renis ebbe a dichiarare in quel periodo alla stampa o ai magistrati che lo interrogarono. Sempre convinto -io, intendo- che la storia, in un paese libero, non sia una colpa di chi la racconta.
Il cantante e ora direttore artistico del festival di Sanremo viene infatti ascoltato su quel finto rapimento dalla magistratura italiana, in particolare dal giudice Ferdinando Imposimato. L’ipotesi che si staglia con un certo spessore nel corso delle indagini è che Renis sappia qualcosa di quanto è accaduto; e che possa avervi svolto un ruolo per così dire esterno, di fiancheggiamento. Ma vediamo di ripassare con ordine i suoi rapporti con i protagonisti della vicenda. Che sono tre. La famiglia Gambino, anzitutto. Annovera gli eredi di Charles Gambino, potentissimo boss di Brooklyn. In testa a tutti John, Thomas e Vincent. Renis è amico di John Gambino. Ma non amico di sghimbescio. Amico del cuore. Dice testualmente ai giornali di allora, parlando dell’amico diventato nel frattempo latitante: "John Gambino è una persona squisita, un signore. Lui, la sua famiglia, i suoi amici, con me si sono comportati da fratelli. Sono stato anche quest’anno ospite loro a Staten Island. Ospite nel senso che mi pagavano l’albergo. Gli amici di Brooklyn mi hanno donato una targa in onice, fanno le cose in grande. E poi c’è stata Santa Rosalia...". E spiega: "Dunque, gli italo-americani festeggiano due volte la santa protettrice di Palermo: a luglio e a settembre. Io partecipai alla festa di luglio come ’honour guest star’, in una grande sala di convegni a Brooklyn, la Perville room tappezzata di broccato rosso. Una cena per mille ospiti privilegiati (precisiamo: una cena per festeggiare gli anziani immigrati della loggia massonica "Sons of Italy"; ndr)". E rivendica infine perentorio, con amabile tono di sfida: "E perché non dovrei essere amico di John Gambino? E’ un uomo che stimo, che lavora, intelligente, dotato di una gran personalità. E’ generoso: è sempre il primo a esserti utile (proprio così: ’utile’; ndr). E poi, per finire con questa mia incresciosa avventura, voglio dire un grazie a ogni italo-americano d’America, grazie con la ’G’ maiuscola. Se i nostri connazionali possono oltrepassare l’oceano lo dobbiamo a loro, che ci tendono la mano e cercano di darci spazio nel mondo della canzone. Un piatto di minestra ce lo danno sempre, grazie a loro e a John Gambino. Grazie al cielo".
Poi ci sono gli Spatola. Gli italiani in quel 1979 e nel successivo 1980 (all’inizio di quell’anno rimontano infatti queste dichiarazioni) non sanno praticamente nulla degli Spatola. Sono tempi ambigui e ciechi: quando viene ucciso a Palermo il presidente della Regione Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980) il capo del governo Spadolini denuncia meccanicamente non la mafia ma il nuovo atto di "terrorismo". Come volete che gli italiani pensino alla mafia nell’anno in cui il terrorismo fa più di cento morti? Chi volete che si preoccupi sentendo parlare degli Spatola, che pure nell’80 risulteranno essere al quinto posto nella classifica dei contribuenti italiani? Bisognerà aspettare un giovane giudice di nome Giovanni Falcone per sapere, carte processuali alla mano, che gli Spatola erano signori miliardari trafficanti in droga, nuova vertiginosa espressione della potenza della mafia di Bontate e Badalamenti. Stretti alleati degli Inzerillo, responsabili -questi ultimi- nell’agosto di quell’anno 1980, dell’assassinio del procuratore Gaetano Costa. Ebbene, Renis è amico intimo pure degli Spatola. Ma- anche in questo caso- mica amico di sghimbescio. Amico vero. Tanto da esserne ospitato non in albergo, ma in casa. Sentiamolo: "Sono andato da Rosario Spatola, nella sua villa hollywoodiana sui colli di Palermo. Nella villa degli Spatola ho trascorso un periodo di vacanze nel mese di agosto". E degli Spatola nel frattempo finiti in carcere come complici della vicenda Sindona che ne pensa? Risposta: "Io non penso mai, non mi occupo degli affari degli altri, non giudico perché giudicare è difficile e non vorrei mai essere nei panni di un giudice, è brutto mestiere. Questa è la mia dottrina e quando mi sveglio ogni giorno mi dico: giudica solo te stesso. Che ne so io, della gente, delle cose degli altri?".

Insomma, dopo l’amicizia con Joe Adonis, Tony Renis ha continuato imperterrito. Amico intimo dei Gambino. Amico intimo degli Spatola. Di qua e di là dell’Atlantico, il futuro direttore artistico di Sanremo (e futuro amico del capo del governo italiano) coltiva le più potenti famiglie della mafia con meravigliosa metodicità. E non basta. Perché purtroppo, nella vicenda Sindona, c’è un problema di date che complica un po’ il quadro. Seguite infatti con attenzione il calendario. Il falso sequestro di Sindona dura due mesi e mezzo: dal 2 agosto al 16 ottobre. E Renis è ospite degli Spatola a Palermo giusto in quel periodo. E i Gambino, in quei mesi, li vede? Renis viene interrogato se abbia avuto rapporti anche con i Gambino in quel medesimo, compromettente, arco di tempo. Risponde (nel febbraio ’80) di non ricordare se sia stato in America in settembre. Una risposta incredibile. E che appare ancora meno credibile di fronte alla testimonianza del parroco di "Regina Coeli" di Brooklyn. Il quale afferma invece di essere certo che nel settembre precedente Renis fosse proprio con i Gambino a New York. Dunque: avanti e indietro tra gli Spatola e i Gambino, tra Palermo e New York, nei mesi in cui gli Spatola e i Gambino organizzano il finto sequestro di Sindona tra New York e la Sicilia.


A questo punto la domanda -che coinvolge il terzo e maggiore protagonista della storia- è d’obbligo: ma Tony Renis conosceva Sindona? Il cantante risponde di no. Che si tratta di "pura fantasia". Lo ha forse conosciuto la scorsa estate alla festa di Santa Rosalia?, gli viene chiesto. "No, c’erano tutti gli amici italiani di Filadelfia, Boston, Chicago e New York. Sindona non c’era. Me lo avrebbero presentato". Ma interrogato altrove, è lo stesso Sindona che lo smentisce. Sentito dal procuratore distrettuale John Kenney, il finanziere-bancarottiere racconta: "Sì, tra la gente che mi venne a trovare nel mio ufficio, prima del rapimento di cui sono rimasto vittima il 2 agosto ’79, ci fu un cantante di qualche fortuna nella colonia italiana di New York. Si chiama Tony Renis, e questo era il suo nome d’arte. Lo incontrai fuggevolmente, mi disse che veniva da parte di amici". Aggiunge la polizia federale: Renis incontrò Sindona nella hall del Pierre Hotel. Il finanziere lo licenziò dicendogli: "Se ha bisogno di qualcosa, caro, si faccia pure vivo, cercherò di esserle utile. Lasci pure i suoi recapiti alla mia segretaria". La quale, al secolo Xenia Vago, conferma la circostanza alla magistratura newyorkese.

Perché tanto interesse dei magistrati italiani (Sica e Imposimato) per il cantante? Semplice. A torto o a ragione, gli investigatori pensano che egli possa avere svolto un ruolo di intermediario; e più in generale che i rapitori si siano serviti di qualche "insospettabile" per comunicare con la famiglia di Sindona o con uomini della finanza e della politica cui far giungere i messaggi necessari. Ed è appunto questo che essi cercano di chiarire con gli interrogatori. Invano.
Il 29 gennaio dell’80 il cantante viene ascoltato dal giudice Imposimato, che l’ha già sentito in novembre. Renis entra da testimone ed esce da indiziato di reato. Quando gli viene chiesto se sia tornato in America nel settembre precedente, egli dice infatti di non ricordare. Afferma di non conoscere nessuno dei protagonisti della vicenda. Imposimato lo minaccia di arresto per testimonianza reticente, chiama i carabinieri e lo fa fermare per mezz’ora nella caserma del nucleo traduzioni del tribunale. Poi il cantante, a cui un po’ di memoria è nel frattempo tornata, rientra con tanto di avvocato. Riconosce tutti i personaggi che gli vengono indicati nelle foto dell’Fbi ma dichiara di non sapere nulla del sequestro Sindona. All’uscita spiega: "Non ho capito a cosa tendessero le domande del magistrato. Io ho detto quanto avevo da dire. Ci siamo lasciati bene con il giudice. Gli ho promesso anche uno dei miei dischi". Quindi aggiunge sibillinamente: "Io canto solo per la Warner Brothers, non canto altrove" (quasi vent’anni dopo ricorderà testualmente in un’intervista alla "Stampa": "Il giudice mi voleva fare cantare ma io avevo perso la voce"). Chiosa il "Messaggero" del 30 gennaio 1980: "Questa frase è sembrata ad alcuni osservatori un messaggio, quasi un segnale in codice".


Già, facciamo finta per un attimo che Tony Renis non sia diventato vent’anni dopo un caro amico del presidente del consiglio in carica e -per riflesso- dei suoi giornali e delle sue televisioni. E poniamoci le domande che una libera mente si pone, anzitutto per rispetto a se stessa, di fronte a simili dichiarazioni. Che cosa avrebbe dovuto "cantare" Tony Renis che egli, per sua stessa orgogliosa ammissione, si rifiutò di "cantare"? Quale pezzo di verità inconfessabile di quella storia si tenne per sé, dando un mirabile esempio di fedeltà alla causa? Di più: perché disse di cantare solo per la Warner Brothers? Che messaggio mandava? In effetti la casa di produzione cinematografica si chiama Warner Bros: dove Bros, certo, sta per Brothers, ma nessuno, proprio nessuno, usa altro termine da "Bros". Voleva fare riferimento più esplicito e più rassicurante ai famosi "fratelli"? Quelli italo-americani sopra richiamati? O i fratelli Gambino che l’avevano fatto ingaggiare -appunto- per cantare alla festa di Santa Rosalia a New York? O i fratelli Rosario e Vincenzo Spatola? O tutti insieme?
La vicenda ha però una coda, almeno in termini di informazioni acquisite documentalmente. Quando Renis si presenta ai giudici italiani, in effetti, questi sono convinti (almeno stando alle notizie di stampa dell’epoca) che il sequestro, per quanto anomalo, abbia avuto comunque finalità estorsive. E che Sindona non si sia mosso dagli Stati Uniti. Successivamente però sono stati accertati alcuni fatti di qualche importanza da parte dei soliti rompiscatole: i giudici di Palermo (inchieste di mafia) e i giudici di Milano (inchiesta Sindona), ossia gli esponenti per antonomasia delle turbe mentali che affliggono la magistratura italiana. Quali sono questi fatti? Anzitutto, come abbiamo detto, che Sindona sparì in America per venire (da latitante) in Sicilia. Che egli fece sosta ad Atene, dove andarono a prelevarlo il cognato di Stefano Bontate e un importante massone, Giuseppe Miceli Crimi, in buoni rapporti con la questura di Palermo e con la P2, e che gli procurò il primo alloggio nel capoluogo siciliano. Che all’arrivo in Sicilia Sindona e il suo seguito furono ospiti in albergo di Gaetano Graci, uno dei quattro potentissimi "cavalieri del lavoro" di Catania. Che in Sicilia egli venne successivamente raggiunto da John Gambino, che lo accompagnò sia a incontri riservati con i boss sia in giro per ristoranti e pubblici locali di lusso. Che da un certo punto in poi, e per più settimane, Sindona fu ospite degli Spatola nella loro villa di Torretta, località fuori Palermo ad altissima densità mafiosa, a trecento metri sul livello del mare. Che nel ’78 era stata fatta a favore di Sindona, alla presenza di molti boss, una raccolta di fondi in un motel di Staten Island di proprietà di John Macaluso, socio in affari di Sindona.

Da qui alcune domande. Sindona e Renis furono dunque ospitati (a rotazione o addirittura insieme) nella stessa casa degli Spatola in quell’agosto del ’79 (Sindona, sappiamo per certo, nella villa di Torretta; Renis, parole sue, "nella villa hollywoodiana sui colli di Palermo")? In quel periodo Renis incontrò anche a Palermo il fraterno amico John Gambino, visto che si trovava anche lui in Sicilia mentre il cantante era ospite degli Spatola, cugini dello stesso Gambino? Il motel di Staten Island di John Macaluso (il socio di Sindona) è lo stesso in cui Tony Renis ha detto di essere stato, come d’abitudine, ospitato dai Gambino oltreoceano nel mese di luglio del ’79?

The end. Finisce qui, per quanto ne sappiamo, questo inquietante pezzo di storia. Fatta di boss di prima grandezza, di amicizie intime, di viaggi ripetuti, di verità taciute e di "cantate" rifiutate. Preceduta, nella più grande vicenda mafiosa, dall’assassinio di Ambrosoli e da quello di Boris Giuliano. Suggellata, nel corso del "rapimento", tre settimane prima della sua conclusione, il 25 settembre, dall’assassinio del Consigliere istruttore di Palermo Cesare Terranova e della sua scorta, il maresciallo Lenin Mancuso; un assassinio che secondo Pio La Torre era strettamente connesso con la contemporanea presenza di Sindona in Sicilia. Ricordare questa storia non è una colpa. E’ un dovere. Soprattutto per chi continua a pensare che la mafia sia una cosa cattiva e sciagurata; e che dunque gli amici dichiarati dei mafiosi non possano avere in regalo dal governo un pezzo del costume nazionale, diventare tutt’uno con un simbolo culturale e musicale del popolo italiano, quale è, nonostante tutto, il festival di Sanremo. E che se questo avviene, quel simbolo debba essere svuotato di senso, e che glie se ne debba contrapporre un altro. Perché, sembrerà strano, esiste un’Italia che proprio della mafia non ne vuole sapere. E non ci vuole convivere.

Il Padrino di Tony Renis

di Nando dalla Chiesa

Joe Adonis, chi era costui? Leggetela bene questa storia, tratta integralmente da documenti ufficiali. Perché è un uovo di Pasqua con la classica sorpresa. E con tanto di morale, umoristica e istruttiva insieme, che riguarda fatti e personaggi dei nostri tempi. Joe Adonis, dunque. Gli storici della mafia sanno bene chi fosse. Ma anche a loro una "rinfrescata" farà bene. Parliamo di uno dei più famosi boss di tutto il Novecento. Che vantò una rarità per così dire anagrafica: quella di giungere ai vertici delle cosche siculo-americane pur essendo originario della provincia di Avellino; da cui, agli inizi del secolo, partì bambino per gli Stati Uniti con il nome di Giuseppe Doto. Di lui si occuparono a lungo sia la commissione d’inchiesta Kefauver del Senato americano sia la commissione antimafia del parlamento italiano nella sesta legislatura (1972-’76).
Risultava essere uno dei giovani boss emergenti al secondo convegno tenuto dalla vecchia Mano Nera a Cleveland nel 1928; e uno dei fondatori ad Atlantic City, insieme con Frank Costello e Al Capone, della futura Cosa Nostra americana. Risultava anche essere stato l’ideatore e l’organizzatore della micidiale "murderers incorporated", ossia della anonima assassini che dal 1929 funzionò come agenzia di reclutamento di killer in tutto il mondo, invenzione strategica delle famiglie siciliane d’oltreatlantico per commettere delitti senza incappare nelle indagini delle polizie statali. Dicevano i rapporti investigativi che egli giunse all’apice del potere quando, sempre negli Stati Uniti, venne creato il cosiddetto sindacato del crimine, con l’obiettivo di mettere ordine tra le bande rivali e di spartire le zone di influenza. E che di tale sindacato egli curava le relazioni esterne: giudici, poliziotti, politici, uomini d’affari, professionisti. Efficacissimo. Al punto che il senatore Kefauver lo definì "uno degli esempi più clamorosi della collusione fra gangsterismo e grande industria".
Ebbene, nel ’56 Joe Adonis sbarcò definitivamente in Italia. Il progetto? Gestire, in coppia con Frank Garofalo, e per conto di Cosa nostra americana, il passaggio della vecchia mafia siciliana alle attività che già in America si erano dimostrate più fruttuose, a partire dal traffico degli stupefacenti. In contatto con le cosche isolane, Adonis -dopo un periodo trascorso nel Lazio e in Val d’Aosta- si impiantò stabilmente a Milano. Scriveva la commissione antimafia, nella sua relazione di maggioranza: "Il nuovo impero dell’organizzazione almeno fino agli inizi degli anni ’70 ruoterà attorno a Joe Adonis che sarà l’epicentro di una rete organizzativa del contrabbando con ramificazioni in tutti i paesi europei". Distinto, elegante, amante della bella vita e dei locali notturni, Joe Adonis prese casa nel centro di Milano, in via Albricci. E qui intrecciò alle molte attività illegali la compravendita di immobili e costruzioni nonché la gestione di una catena di supermercati. Di fronte a tanto allarmante attivismo, le autorità di polizia, prima distratte, si svegliarono e moltiplicarono i controlli, sfociati in una richiesta di soggiorno obbligato. Scriveva ancora in proposito la commissione antimafia: "Le indagini serrate ed attente condotte tra il 1970 e il 1971 rivelano come Adonis sia ancora un ’capo’ e che la scelta di Milano come sua residenza è stata determinata da precise esigenze strategiche: la direzione internazionale di preziosi, soprattutto brillanti, con ramificazioni in Francia ed in Svizzera ed il coordinamento del contrabbando di stupefacenti verso il nord-Europa".

Tutto chiaro? Bene, perché ora arriva la sorpresa. Una sorpresa -ci credereste?- di nome Tony Renis. Sentite bene e non ridete. Sulla bobina delle intercettazioni telefoniche del 19 e 20 febbraio del 1971, attesta il rapporto del questore di Milano, viene registrata la telefonata "del noto cantante Tony Renis", il quale "avendo saputo che una troupe cinematografica americana era in cerca di attori per il film tratto dal romanzo ’Il padrino’, chiese al Doto (ndr: ossia Joe Adonis) di pregare il regista del film, Francis Ford Coppola, affinché gli affidasse una parte, anche se secondaria, essendo già il ruolo principale coperto da Marlon Brando". Confessiamolo. E’ semplicemente grandioso. Grandioso che Tony Renis ambisse a recitare nel "Padrino". Ma grandioso (e spassoso) anche pensare che, se fosse stato per lui, avremmo perfino potuto avere il "Padrino" con Tony Renis al posto di Marlon Brando! Grandioso anche che per soddisfare questo suo desiderio Tony Renis si sia rivolto a Joe Adonis, ossia che abbia ritenuto che la cosa più naturale da fare, per recitare nel "Padrino", fosse di farsi raccomandare da un padrino in carne e ossa. Attenzione infatti. Il "noto cantante" non giunse ad Adonis involontariamente, attraverso intermediari del mondo dello spettacolo. No, gli telefonò direttamente: a lui, uno dei capi supremi di Cosa nostra; a lui, organizzatore dell’anonima assassini. Aveva consuetudine con Joe, aveva il suo numero di telefono (proprio come ogni giovanotto milanese di belle speranze), e gli telefonò. Volete sapere come andò a finire? Qualche giorno dopo Tony Renis telefonò ancora a Joe Adonis e lo ringraziò. Gli disse che "Sam" aveva "fatto tutto". Chi era "Sam"? Curiosità legittima. Era Samuel Lewin, altro esponente di rango della malavita organizzata, allevatore di cavalli nel New Jersey, mandato apposta in Italia a contattare Adonis da Thomas Eboli, vicecapo di Cosa Nostra in America. Sì, deduzione esatta: Tony Renis era in contatto autonomo pure con "Sam", anche se questi era arrivato in Italia appena da poche settimane. Purtroppo il sogno del film non si avverò. Forse perché alla fine del ’71 Joe Adonis, da poco spedito al soggiorno obbligato, morì di infarto. O forse -è solo un’ipotesi- perché Francis Ford Coppola non ritenne Tony Renis all’altezza nemmeno di una parte secondaria. O per altro ancora.

Di fronte a questa storia-con-sorpresa conosciamo l’obiezione difensiva. Ossia che nel mondo dello spettacolo sia consuetudine non andare troppo per il sottile nelle frequentazioni, specie se c’è di mezzo la carriera. Sicché è meglio aggiungere, per chiarezza del lettore, qualche piccolo dettaglio. E raccontare che il boss effettivamente si dava da fare nel mondo dello spettacolo. Tanto che si mosse su richiesta di Antonio Maimone (implicato in un traffico di preziosi e intenzionato a portare in Italia Frank Sinatra) affinché il maestro Augusto Martelli accettasse di organizzare un festival al quale fare intervenire Mina. Ma non ebbe successo. Evidentemente Mina, al contrario di Tony Renis, non teneva a certe amicizie. Il bello però è che l’idea di arrivare a Mina attraverso il Padrino nasceva dall’ambizione di organizzare, state a sentire, un contro-festival in competizione con quello di Sanremo. Al festival di Sanremo doveva essere inflitto uno smacco; forse (così si arguisce da una intercettazione) perché non aveva spalancato le sue porte agli amici di Joe Adonis.

Ed ecco qui la morale umoristica e istruttiva. Oggi l’amico di Joe Adonis è diventato direttore artistico di Sanremo. Per riuscirci non ha dovuto fare alcuna telefonata. Tutto gratis. Gli è bastato passare l’estate al fianco del capo del governo e chiedere a lui direttamente l’ambito posto, in nome di una lunga amicizia. Trent’anni dopo, insomma, il controfestival non lo devono più fare gli amici di Joe Adonis, visto che nel frattempo si sono impadroniti di Sanremo. Lo devono fare, però, artisti e imprenditori e creativi e letterati che vogliano difendere le tradizioni (anche quelle diventate un po’ sgangherate) del paese. L’ ho proposto il mese scorso su questo giornale. Ora (con riserbo assoluto sul resto) posso anticiparlo: il controfestival si farà. Musica, parole, satira, cultura. C’è chi ci crede, c’è chi ne coglie il senso di simbolica rivolta civile. E oltre a denunciare l’indecenza dei costumi vuole seppellire questo circo assurdo sotto una grande, intelligente, implacabile risata.

21.10.03

COTRONEO VERSUS LILLI GRUBER

1. Paratesto editoriale. "Soglie" come direbbe Genette. A sinistra della pubblicità una fotografia mostra la copertina del libro. Sotto l'autore e il titolo ("I miei giorni a Baghdad") il volume reca una fotografia della Gruber in copertina. Sullo sfondo una Bagdhad ingrigita dai bombardamenti. In primo piano Lilli come l'abbiamo vista negli ottimi collegamenti dal Tg. Bene non si fa, è demi-monde mettere l'autore in copertina, toglie autorevolezza. Si fa coi comici televisivi, o con l'autobiografia di un grande autore. Ma devi avere ottant'anni e magari pure un Nobel.
2. Parte centrale della pubblicità, il testo che informa della presentazione. Si legge: "La giornalista più amata dagli italiani racconta la guerra che ha diviso il mondo". Buona per la seconda parte. Ma la prima parte? "La giornalista più amata dagli italiani"? Due considerazioni. Prima. Poniamo che sia vero, che una task force di sondaggisti abbiano setacciato il paese per sapere se la Lilli è più amata della Botteri o della Maria Luisa Busi. Poniamo che il risultato sia si', è vero. Sette italiani su dieci dicono che lei è la più amata. Buon gusto direbbe che non è il caso di spiattellarlo in un libro di guerra e dolori. Peccato per? che ovviamente non è vero. Nel senso che nessuno pu? dire che la Gruber sia la giornalista più amata dagli italiani. E poi l'unica che prima d'ora aveva usato questa formula era la ditta di cucine Scavolini, a proposito dei suoi fornelli, dei suoi piani cottura e di Lorella Cuccarini. Ma in quel caso "la più amata dagli italiani" conteneva un semiotico fondo di ambiguità. Non potevi decidere se fosse proprio la Cuccarini, o la cucina stessa a essere "più amata dagli italiani".
3. Quot. Si chiama cosi' in termini editoriali. La frase tratta dal libro, dell'autrice, per valorizzare il prodotto editoriale. "Ho tentato di dare ordine agli avvenimenti sparsi che, giorno dopo giorno, ho raccontato. E mi sono assunta un rischio: quello di aprire la porta sui sentimenti". Allora, come al solito per la prima parte bene. "Mi sono assunta un rischio", è invece un italiano perlomeno discutibile, buono al massimo per un promotore finanziario, non per la giornalista più amata dagli italiani. L'ultima parte, con tutto il rispetto, perché credo che i sentimenti siano una cosa dilagante in contesto drammatico come quello di Bagdhad, l'ultima parte dicevo è tamaresca. D'altronde anche la Tamaro crede di essere la scrittrice più amata dagli italiani. Ma la porta sui sentimenti, Lilli, si apre senza dirlo, tantomeno in una quarta di copertina, o nella pubblicità di una presentazione. E' un problema di eleganza.
4. Dopo tutto questo ti aspetteresti come presentatori, una Silvia Vegetti Finzi, Umberto Galimberti, Gino Strada e Luciano Canfora. Tanto per dire. E invece eccoti la tentazione - riuscitissima - dell'esthabliment. Terribile vizio italiano: Reginald Bartholomew, ex ambasciatore americano in Italia; Massimo D'Alema, presidente Ds, ex presidente del Consiglio, Gianfranco Fini, leader di An, vice presidente del Consiglio. Modera il direttore di Limes (e questo va bene), Lucio Caracciolo. E tra i presentatori Anna Cataldi, che è una giornalista, e almeno lei conosce Baghdad. In fondo, carattere corsivo: sarà presente S.E. Card. Roger Etchegaray. Sarà presente in che senso? Parla? Farà una domanda, interverrà? O potremmo soltanto vederlo? E perché non sta tra i relatori? E' meno importante di Fini? O lo è troppo? E allora Fini o D'Alema non dovrebbe vagamente infastidirsi. Oppure, essendo Etchegaray inviato dal papa in Iraq per scongiurare la guerra non è in grado di parlare ufficialmente alla prtesentazione di un libro? Probabile, ma allora perché mettere "sarà presente"? Per aumentare il grado di trionfo di una presentazione da parata?
E allora, cara Lilli Gruber sei stata a Bagdhad, rischiando la vita come molti altri giornalisti. Hai fatto il tuo lavoro. Poi hai scritto un libro, giustamente, perché in un servizio televisivo non riesci a metterci tutto. Siamo di fronte a un dramma che ci porterà altre sventure. Il dramma di una guerra assurda. Invece di presentarti al Residence di Ripetta in alta uniforme, tra frasette e fotografie, e slogan da pensili in listellato di faggio, visto che il libro è un bel libro, vai a prensentarlo nelle scuole, tra i ragazzi, nelle librerie di provincia, e almeno tu, fai un gestoautentico, in un paese finto e sempre più finto, risparmiaci queste lustrini. Te lo puoi permettere.

IO MI VERGOGNO


da Silvia Palombi

18 ottobre 2003, sabato pomeriggio a Milano. Ieri è stata, come ogni anno dal 1993, la giornata mondiale di lotta alla povertà.
Nella saletta di una banca Sebastiao Salgado ci fa la doccia scozzese, senza tregua, senza pietà.

Guardare le foto del Brasile e ascoltarlo mentre le illustra una a una mostrando i progressi della riforestazione in atto nel Minas Gerais a cura del progetto TERRA, promosso dallo stesso Salgado, dalla Banca Etica e altri enti sensibili provoca un senso di conforto, di tepore consolatorio.
Che passa presto e lascia il posto a uno scoramento senza fondo, a un magone insopprimibile, anche a lacrime di pietà e rabbia e senso di impotenza, nel momento in cui appare la prima delle numerose foto che ha scattato in Africa.
Meravigliose, profonde, inequivocabili, taglienti, quelle foto ci fanno sentire in colpa.
In colpa per un profumo di troppo, per i chili di troppo, per l'acqua che si spreca lavandosi i denti.
Nel momento in cui la scienza conferma che la culla dell'umanità è l'Africa, noi italiani accogliamo la notizia con l'approvazione della legge Bossi-Fini, seguito dellaTurco-Napolitano: un bel modo di ringraziare mamma Africa per la vita che ci ha dato!
Io sono convinta che se ogni essere umano con un lavoro retribuito mettesse un dollaro ogni settimana in una cassa comune amministrata onestamente, verrebbe fuori una cifra enorme, con la quale affrontare e risolvere tanti vergognosi problemi.
Sarebbe un modo di dare un aiuto concreto ai bisognosi della terra senza neanche accorgersene, e non solo all'Africa.
Se non facciamo così come potremo mai restituire alla nostra grande madre quello che le stiamo rubando? Abbiamo mangiato e stiamo mangiando tutti troppo, noi occidentali agiati. TROPPO.
Con quale faccia tosta riusciamo a tollerare la certezza di essere i responsabili dell'annientamento del diritto alla dignità di milioni di essseri umani, come?
Io mi sento in imbarazzo per ogni bambino sovrappeso che vedo per strada, per ogni persona che vedo girovagare nei triangoli della moda con le sporte eleganti dei marchi sartoriali gonfie di roba, mi sento in imbarazzo quando apprendo che esistono penne stilografiche il cui costo sarebbe sufficiente per mantenere un villaggio in Sudan per anni.
Io mi vergogno.
Sprechiamo tutto, spensieratamente, illusi che pantalone pagherà per sempre, ma non è così, la prospettiva che abbiamo è di vivere in un mondo sempre peggiore, in tutti i sensi, e la colpa è solo dell'occidente, cioè nostra.
Con l'acqua che un americano utilizza per lavarsi ogni giorno si risolverebbe il problema della sete di centinaia di persone. Non parliamo degli ettolitri che vengono scialacquati per lavare le automobili. Presto non ne avremo più neanche per noi, di acqua. La terra non è un pozzo di San Patrizio, a un certo punto finirà.
Io non penso che di punto in bianco si debba mettersi a vivere come dei monaci, inutile illuderci di esserne all'altezza? Ritengo invece che sarebbe sufficiente impostare la nostra esistenza in un modo improntato ragionevolmente al non spreco: per esempio si potrebbe cominciare a spremere fino in fondo i tubetti di dentifricio, di crema, di maionese, di colore, oppure a chiudere i rubinetti mentre ci laviamo i denti e la doccia mentre ci insaponiamo (e magari farla un giorno si e uno no, la doccia, lasciando in pace la pelle che ce ne sarebbe grata); potremmo imparare a non far scadere il cibo nei nostri frigoriferi, zeppi come armadi, e i medicinali nei nostri armadietti, a spegnere la luce nelle stanze vuote, a non buttare i piccoli avanzi di saponette e a metterli tutti insieme per farne uno arlecchino di rimasugli da adoperare in cucina, potremmo imparare a sciogliere tutto lo zucchero che mettiamo nella tazzina del caffè, a non spalancare i rubinetti dell'acqua ma ad aprirli con moderazione, a fare qualche fotocopia in meno.
Magari adesso che è tempo di riscaldamento potremmo smettere di stare a casa in maglietta a maniche corte infilando un maglione, così potremo abbassare un po' la temperatura delle caldaie e? respireremo meglio perché con l'aria fresca la polvere vola meno, molto meno.
Sono milioni i modi che abbiamo di risparmiare per non depredare il pianeta, che si sentirà sicuramente? più sollevato, con beneficio di tutti.
Non è difficile, si può fare, basta pensarci, sono gesti leggeri, semplici, che alla fine lasciano la bocca dolce, per la consapevolezza di aver fatto una cosa giusta, utile, civile, corretta e in qualche modo rivoluzionaria.
Ma bisogna farlo da oggi in poi, per sempre.

19.10.03

HOMO ADORNATUS
di Alessandro Robecchi sul Manifesto

Un testo satirico? Un breviario da consultare quando la fede vacilla? Un manuale di istruzioni? Nonostante abbia letto molte anticipazioni, recensioni, analisi, commenti, mi è difficile collocare nella parabola del pensiero moderno il nuovo libro di Ferdinando Adornato, un evento culturale che l'umanità non poteva attendere oltre. Sarebbe (copio dai titoli dei giornali) il "manifesto del centrodestra", ma anche il "catechismo dei moderati" che vanta, naturalmente, "la benedizione di Berlusconi". Metto il tutto tra virgolette in modo che non pensiate che rubo le battute ad altri comici.
In soldoni, risulta che Ferdinando Adornato, da solo, a mani nude, si sia messo a disegnare la futura identità politico-culturale del centro destra. L'obiettivo sarebbe quello di superare le solite abusate categorie di ex e post, per tracciare un "identikit etico" dell'universo liberal-popolare. Traduco dall'Adornato all'italiano: escluse le pistolettate, come diavolo si fa a fare il partito unico della destra e a riunire sotto una stessa ideologia ex fascisti, ex democristiani, ex socialisti, ex comunisti, ex piduisti, cinici avvocati, guidatori di gipponi 4x4, estremisti cattolici, idealisti ottocenteschi, venditori di Publitalia, tradizionalisti della famiglia, e magari pure Giovanardi? Ammetterete che il compito è titanico, che ci riesca un cervello solo è strabiliante, e se poi il cervello è quello di Adornato siamo nel campo dell'esoterico.
Se a questo punto vi gira la testa, non posso darvi torto, ma per fortuna ci viene in soccorso lo stesso Autore, che quell'identikit lo presenta per voci numerate, tipo Tavole della Legge. In questo modo si può cogliere fior da fiore. Esempio (punto 8): a destra c'è attaccamento al sentimento tradizionale della famiglia, mentre a sinistra c'è affermazione delle famiglie di fatto di ogni tipo. Persino banale. Come risaputo è che (punto 19): per la destra c'è primato della produzione di ricchezza sulla redistribuzione, mentre a sinistra se ne stanno in panciolle e pensano solo a ridistribuire. Come saggio fondante di un'identità etico-politica, francamente, voliamo parecchio bassi.
Ma non trascuriamo la vita privata: il neo-destro, poveretto, non più ex e non più post, nella vita quotidiana "ricerca la distinzione", E poi preferisce il cinema d'azione a quello d'autore, preferisce i film americani a quelli europei. Adornato compie il suo capolavoro approdando a una forma perfetta di luogocomunismo: non più ex, non più post, ma un po' trash, quel che i tempi esigono.
Se è concessa una notazione semantica, è strabiliante quante volte venga citata nella costruzione della nuova identità della destra la parola "etica": è proprio vero che la lingua batte dove il dente duole.
Ma visto che di politica si parla, alla fine, ci sarebbe da chiedersi a cosa si deve questo mostruoso sforzo intellettuale per definire in fretta e furia un'identità. La vera urgenza delle riflessioni di Adornato sta proprio nella precarietà dell'identità della destra attuale. Serve un minimo comun denominatore ideologico. Per ora c'è, ha un nome e un cognome, paga i conti, organizza il marketing, fa pesare tutta la sua potenza mediatico-economica, striglia i dissidenti e promuove i fedelissimi, ha buoni avvocati ed è pure l'editore del libro di Adornato. Ma un domani? Che succederà nel dopo-Silvio, si azzanneranno come pit-bull? Urge la costruzione di un ideale Silvio-man teleguidato da poche regole-chiave, da un sistema etico-filosofico facile da maneggiare, tascabile, consultabile all'uopo come l'orario dei treni. Un impianto teorico talmente vasto da comprendere tutti, cani e gatti, indiani e cow-boy, preti e squali della finanza. Dunque il compito dell'Autore è difficile davvero: fabbricare una filosofia prêt-à-porter in poche settimane, congegnarla in modo che sia un omaggio al Capo, fare credere agli altri che sia invece per il bene di tutti e persino vendere il libro, incassando in proprio e facendo incassare un'azienda del Capo. Bingo! L'Homo adornatus è bell'e pronto, appena uscito dal microonde, e già ha inventato la quadratura del cerchio. Sorride. Proprio come in una televendita.

17.10.03

Puntata di Report sul Terrorismo



Cari Amici,
sono Paolo Barnard, coautore della puntata di Report "L'Altro Terrorismo" del 23/09/03. Avrei veramente voluto rispondere a tutti individualmente, e ci ho povato, ma la mole incredibile di email ricevute mi obbligano a desistere. Perdonatemi dunque se vi rispondo in gruppo. Cercherò di dare indicazioni per ciascuno dei temi che più frequentemente mi avete posto.

Innanzi tutto grazie per i complimenti, che ci hanno persino commosso. Essi sono graditissimi perchè contrariamente a quanto si crede, noi lavoriamo nel silenzio e quasi mai abbiamo riscontri di quello che facciamo. Grazie ancora.

Perchè ci fanno ancora parlare nell'Italia di oggi? Perchè siamo stati in grado di proporre sempre fatti documentati e non opinioni, e dunque non diamo appigli a nessuno per poterci stroncare. Poi credo che la RAI abbia bisogno di mantenere una facciata di libertà di qualche tipo, ed ecco che Report si presta bene a ciò. Terzo, è vero che viviamo sempre con i bagagli fatti.. perchè mai sappiamo se ci sarà una prossima serie.

Noi non siamo coraggiosi, cari amici, la realtà è che non abbiamo nulla da perdere. Siamo il sottoscale della RAI, mal pagati, nessuno assunto, senza uno straccio di possibilità di far carriera e allora che almeno ci sia lasciata la possibilità di essere liberi. Non vi immaginate con quali mezzi di fortuna dobbiamo lavorare, varrebbe la pena scriverci un libro. Forse se un coraggio c'è stato fu iniziale, quando col nostro modo di intendere l'informazione ci precludemmo ogni chance di far carriera ("..lei è bravo Barnard, ma non sa fare corridoio.." mi disse anni fa un direttore di rete). Però la gente di Report ha passione per quella che ritiene sia la decenza umana, questo sì. Per quelli che ci hanno scritto che siamo dei "venduti comunisti prezzolati ecc.." sottolineo che se lo fossimo non saremmo ridotti con le pezze al sedere.

In merito alla mia inchiesta. I documenti riservati sono oggi depositati presso il National Security Archive di Washington, all'interno della George Washington University e credo li abbiano anche messi sul loro sito. Altri documenti si trovano presso il Public Record Office di Londra, altri ancora li ho avuti da fonti riservate, sorry. Il testo integrale della puntata si trova sul sito http://www.report.rai.it, e per ottenere una cassetta andate sul sito e cliccate su Info a sinistra. Costa parecchio e sappiate che sono soldi che NON vengono a noi, a scanso di equivoci.

Per tutti quelli che hanno sollevato dubbi sull'inchiesta. Pochissimi hanno scritto insulti e quelli possono solo vergognarsi. Per gli altri: il motivo per cui non abbiamo incluso nella puntata il terrorismo di Cina, Urss, Birmania, Cuba ecc.. è semplice: primo, esso è arcinoto, da mezzo secolo tutto l'occidente ne ha straparlato con dovizia di particolari (l'Impero del Male..) e noi di Report avevamo poco da aggiungere. Siamo totalmente d'accordo, quegli stati furono e sono terroristi. Ciò che invece fu detto troppo poco è che noi fummo e siamo come o peggio di loro. Questo andava e andrà detto. Secondo, Cina, Urss, Birmania, Cuba ecc.. non si sono mai eretti a gendarmi globali vestiti del manto immacolato dei giusti, e non hanno mai dichiarato una Guerra al Terrore a nome di tutta la civiltà, in altre parole sono stati meno ipocriti di quanto non lo siamo noi oggi. Terzo, crediamo che il dovere principale dei giornalisti occidentali sia quello di controllare le fonti del proprio potere politico, innanzi tutto. Quarto, le vittime dei gulag, delle carceri di Castro o dei terroristi islamici hanno goduto almeno di vari gradi di riconoscimento. I bambini di Rufina Amaya o le donne curde torturate a morte non sono neppure memoria, non contano. A New York una placca recita "Agli eroi dell'11 di settembre". Dove sono le lapidi agli "eroi" del Salvador, Cile, Paraguay, Colombia, Laos, Sudafrica, Bangladesh, Indonesia? E non sono 3.000, sono decine di milioni. Report è a favore della guerra al terrorismo, nessuno di noi vuole trovarsi incenerito da un aereo che ti entra in ufficio. Ma nessuno di noi vuole dormire sul sangue di milioni di poveracci che pagano per il nostro confort. Report è dunque a favore di una lotta contro TUTTI i terrorismi e contro TUTTI i terroristi, questo era il senso della puntata.

In generale. Noi non molleremo, ma è importante che non molliate voi. I potenti temono una cosa sola, e non è il giornalismo. Essi temono l'opinione pubblica, ne hanno il terrore. E allora fatevi sentire, basta poco. Una telefonata ai media, una lettera ai politici, oppure divulgare, anche a voce, nelle scuole, negli ipermercati, ai giardini con chi si incontra, sui treni, ovunque. Siete voi che contate. Se Report avesse l'audience di Striscia la Notizia sarebbe in prima serata tutto l'anno. E chi ha in mano il telecomando? A chi ci ha scritto "Report è la nostra voce" io rispondo "E allora alzate la voce, e Report si alzerà con lei".

Spero solo che "L'Altro Terrorismo" sia servito ad aggiungere quel granello di speranza per un mondo migliore. Che sia servito a ricordare per una volta gli sconfitti e i perdenti, gli eroi dimenticati che nessuno celebra.

Paolo Barnard

P.S: non sono mai stato comunista..

10.10.03

Scuole poco paritarie

Bambini down? No, grazie

Lunedì 6 ottobre 2003
da Radio Capital


Da poco sono cominciate le scuole e cosa fa il ministro per la Pubblica Istruzione Letizia Moratti?


Decide di fare un bel regalo a 120 mila fortunatissime famiglie italiane! Si chiama

il BONUS

In pratica chi iscrive i figli alla scuola privata riceve un premio di circa trecento euro...
Buttali via
L'opposizione insorge: è una rapina a danno della scuola pubblica!
Ma la ministra si difende. Ecco che cosa ha dichiarato:
"C'è un grande equivoco quando si dice che questo progetto favorisce le scuole private!"

Ah! C'è un equivoco...

"Perché in realtà esso mira a dare più aiuti alle famiglie affinché possano scegliere liberamente il percorso educativo per i figli"
La filosofia della Moratti è questa: la funzione pubblica dell'insegnamento può essere svolta sia da una scuola pubblica, sia da una scuola privata. Le famiglie devono scegliere, lo Stato garantisce la parità.
Ecco l'articolo 1 comma 3 della legge n.62 del 2000, intitolata non a caso "Norme per la parità scolastica":

"Le scuole paritarie, svolgendo un servizio pubblico, accolgono chiunque richieda di iscriversi, compresi gli alunni e gli studenti con handicap"

Che bello, ma è vero?

Noi abbiamo finto di essere i genitori di Marco, un bambino, uno studente, un cittadino italiano
affetto da sindrome di Down e abbiamo provato a iscriverlo a una scuola paritaria cattolica di varie città italiane.
Il posto per Marco sembrava esserci...
ma ecco cosa ci è stato risposto quando abbiamo pronunciato la parola down...

"Allora no. Non perché è affetto da sindrome di Down, ma perché abbiamo già un bambino con handicap..." "No signora, è un problema perché non possiamo dare il sostegno arrivati a questo punto dell'anno...forse una scuola statale..." "Questi non li prendiamo...ci vorrebbe il sostegno e noi non ce l'abbiamo" "Signora mi dispiace, ma non possiamo venirle incontro" "Signora, mi dispiace, ma non è possibile" "Allora no signora, non abbiamo bambini che hanno bisogno di insegnanti di sostegno" "Non abbiamo assistenza scolastica" "Non abbiamo il sostegno, la nostra scuola è paritaria" "...a meno che... io so che qualche bambino più debole... i genitori pagano una persona..."

Niente, per Marco proprio non c'è posto.
Eppure secondo la legge il posto per Marco dovrebbe esserci.
Su quaranta scuole contattate a Roma, Napoli, Bologna, Milano e Bari, 30 hanno rifiutato l'iscrizione, 9 si sono mostrate disponibili ed una ha accettato senza riserve.

Ecco l'avvocato Salvatore Nocera dell'osservatorio integrazione scolastica dell'APID, Associazione Italiana Persone Down...
"Le scuole paritarie hanno diritto ad avere un contributo pari quasi al 100% dello stipendio dell'insegnate delle attività di sostegno. Le scuole paritarie sono obbligate ad accettare le iscrizioni senza alcuna eccezione , altrimenti vengono immediatamente denunciate al ministero e perdono la parità"
Chiaro, le scuole paritarie sono obbligate ad accettare le iscrizioni di bambini down perché svolgono una funzione pubblica. Siccome però l'insegnamento ad un bambino down non conviene, allora lo rifiutano, comportandosi da soggetti perfettamente privati.
Ecco l'uomo che più si è battuto e che più ha battuto cassa per la parità:
padre Antonio Perrone, presidente nazionale della FIDAE, Associazione Scuole Cattoliche...


LA TELEFONATA

-Pronto?
-Noi abbiamo fatto una piccola inchiesta a proposito delle scuole private...
-Si chiamano scuole pubbliche non statali!
-Noi però abbiamo telefonato a molte scuole paritarie dicendo di avere un bambino affetto da sindrome di Down e nessuno lo ha voluto. Ma lei come spiega questo fatto?
-Ah, non lo so! Bisogna vedere quali sono le circostanze particolari. Prima i più bisognosi e poi i normali...
-Ecco, però non è così! Noi abbiamo fatto tante telefonate a scuole di preti e di suore, ma non l'hanno voluto! Come mai?
-Capisco bene quel che dice. Le voglio dire che è il motivo che spaventa. Se per esempio la scuola è piena, non c'è posto ne' per il normale, ne'...
-E invece ci dicevano che per il normale c'era posto, per l'handicappato no.
-Male, male, male, male
-Ogni tanto abbiamo l'impressione che le scuole cattoliche accolgono i ricchi e non i poveri
-Siamo nati per i poveri. Noi vorremmo che lo Stato dia questo riconoscimento. Ecco, vorremmo la scuola della società e non la scuola dello Stato. La scuola dello Stato dovrebbe scomparire a mio giudizio e dobbiamo fare la scuola della società.
-E i bambini down stanno a casa, però!
-No, devono stare in tutte le scuole, per carità, ma con gli strumenti necessari, che sono sulla base dei soldi, di spiccioli...
-O voi prendete i soldi pubblici e vi comportate come scuola pubblica o non li prendete per niente. Prendere i soldi pubblici ed escludere i bambini disabili non va bene per niente!

-Ma se i soldi pubblici sono un milione ed il costo è di 100 milioni, che si può fare? Niente!
- Allora non vi chiamate scuole paritarie, chiamatevi scuole dei ricchi che stanno bene...
-No, perché purtroppo soltanto i ricchi possono mettere mano al portafoglio. Noi vorremmo che possano iscriversi anche coloro che non sono ricchi...sa cosa dico io?
-Prego...
-Un fiore di meno a Gesù e un handicappato in più nelle scuole
-Sì, però lei fa i comizi. Io invece vorrei sapere perché le sue scuole non prendono i bambini down
-Le sto dicendo...
-Perché ci devono guadagnare e non ci guadagnano!
-No, ma le scuole ci rimettono centinaia di milioni l'anno
Scuole cattoliche disparitarie...

E' tutto. Elisa Storace ha curato la puntata di oggi.

6.10.03

LA NEMESI TELEVISIVA
di SEBASTIANO MESSINA (Repubblica)


Ecco cosa succede a chiedere ai telespettatori come la pensano. Ecco cosa succede quando la tv dà la parola a chi la guarda. Succede che al primo posto, tra le dieci cose alle quali gli italiani vogliono dire «basta!» non c?è un nemico vago e impalpabile come il traffico o la maleducazione o l?inquinamento, ma un bersaglio in carne e ossa: «Berlusconi e i politici che non fanno quello che dicono».
Che la gente la pensasse così, da un po? di tempo a questa parte, non era un mistero. Ma nessuno, neanche Bertinotti o Mussi o Rosy Bindi, si sarebbero aspettati che la sentenza fosse annunciata all?ora di cena dall?ammiraglia del palinsesto Rai, ovvero da Domenica In, nella prima puntata della gestione Bonolis. Perché in questa televisione più realista del re, in questa Rai epurata e corretta che censura le gaffe del premier per non danneggiarlo e trucca le immagini dei suoi interventi alle Nazioni unite per fargli fare bella figura, la normalizzazione è arrivata così a buon punto - si fa per dire - che il semplice risultato di un sondaggio ha l?effetto del bambino che grida, con candida irriverenza, che il re è nudo. In questa fortezza mediatica sempre più blindata - ormai spossata dallo sforzo di rendere simpatico il ministro Gasparri e credibile il portavoce Bondi - basta una crepa nel muraglione delle veline (quelle di carta, non quelle di Ricci) per far passare di schianto il «basta!» del popolo della tv, basta un attimo di distrazione del direttore forzista perché una valanga di sms e di email diventi un coro democraticamente eversivo, per l?ordine costituito del video berlusconiano. Un «basta!» che brucia due volte, sulla pelle del presidente del Consiglio.
Primo, perché viene dalla tv che lui credeva di aver messo sotto controllo, a cominciare dal diktat ancora vigente su Biagi, Santoro e Luttazzi, e addirittura dal pubblico più tradizionalista, più tranquillo e più pantofolaio, quello della domenica pomeriggio. Secondo, perché arriva nel momento in cui il Grande Comunicatore avverte il suo vero momento di difficoltà, e cerca una via d?uscita nei messaggi a reti unificate e nelle lettere a domicilio, avendo già esaurito il campionario delle promesse. E cosa ti combina, nell?ora del bisogno, la rete che era stata affidata alle fidate cure di un ex deputato di Forza Italia? Spiattella ai quattro venti che la gente non solo non gli crede più, ma s?è proprio stufata di quelli come lui, di quei politici «che non fanno quello che dicono» e delle loro promesse da marinaio.
Ora ci diranno che è stato un errore tecnico o un pirata informatico a produrre risultati così eclatanti: dovranno trovare una scusa, per il berlusconismo è inconcepibile che il capo non sia amato. Tanto di cappello, dunque, all?uomo - un funzionario? un autore? il conduttore? - che ha trovato invece il coraggio di dire la verità senza cancellare dalle risposte il nome più scottante. All?uomo che ha voluto mantenere - forse per una sola puntata: mettiamo già nel conto la cancellazione del gioco - il patto stipulato con i telespettatori con quella formula di cui tanti hanno abusato e che dunque sembrava quasi falsa sin dagli spot che annunciavano la consultazione televisiva, «vi daremo la possibilità di dire la vostra». Ecco, gli italiani la pensano così, vogliono mandare il Cavaliere sull?Isola dei famosi, e adesso sono cavoli di Del Noce.

3.10.03

SE LA SINISTRA SCOPRE CHE IL PONTE E' DI SINISTRA
di FRANCESCO MERLO


FOSSE pure vero che non c'è convenienza economica, il Ponte sullo Stretto di Messina andrebbe comunque costruito, senza arroganza verso le ragioni dei ragionieri ma con un filo d'ironia, visto che nessuno ha fatto i conteggi alla Torre Eiffel o alla Statua della Libertà ma tutti capiscono che senza Torre e senza Statua a Parigi e a New York ci sentiremmo persi. Solo grazie ai simboli infatti uno spazio dove ci smarriamo diventa un luogo nel quale ci ritroviamo.

Non è insomma per ragioneria che si fanno i ponti, ma per ridurre le distanze. Anche in bocca, tra due denti, si fa un ponte. Tra due feste si fa un ponte. Si fanno ponti per i sospiri, e persino il ballerino di Lucio Dalla "balla su una tavola tra due montagne". Non c'è civiltà che non sia stata edificata attraverso i ponti, non c'è bellezza di città senza ponti, negli Usa come in Portogallo, in Svezia come in Francia, in Scozia come in Australia e in Giappone. Del resto chi fa ponti, in qualche misura diventa pure papa, pontifex, pontefice.

Si fanno ponti anche come sberleffo alla natura, quella dei terremoti e quella dei vulcani, e si fanno ponti per dare ordine e bellezza al paesaggio che non è fatto di mitili e di mostri omerici, ma è fatto dagli uomini e dai loro progetti, perché nessun uomo ha mai visto la Terra senza gli uomini. Il Ponte insomma è bello, ed è sempre e comunque sviluppo, è progresso, è darsi la mano, è il binario per il pendolino e per l'Eurostar che si sono fermati a Eboli, è l'adeguamento delle autostrade al flusso di automobili e di camion.

Il Ponte sconvolge l'arretratezza del sistema viario perché accelera e parifica. E anche con i bilanci in rosso, il Ponte sarebbe comunque ricchezza, risorse, opportunità straordinarie, nuovi posti di lavoro. Alla fine insomma questo Ponte sullo Stretto è l'opera più bella e più avanzata che l'Italia possa realizzare, è un risarcimento al nostro Sud, ed è - deve essere - un'operazione laico simbolica keynesiana, la fine di un handicap, la fusione di Messina e Reggio nella Città dello Stretto, come una nuova Costantinopoli. Perciò il Ponte è di sinistra, anzi è quanto più di sinistra si possa fare (non dire, ma fare) oggi in Italia.


E infatti, a sorpresa, la sinistra meridionalista sta riscoprendo le ragioni del Ponte sullo Stretto e, senza troppa timidezza, avanzando per riviste e per convegni, si fa ponte verso il Ponte di Berlusconi, vorrebbe spingerlo a passare dal virtuale al reale, posare insieme con lui quella prima pietra prevista nel prossimo mese di maggio, e magari pure sfilargliela di mano, perché i ponti si possono anche discutere, ma poi, alla fine, si fanno, e mai per ragioni contabili, visto che nessuno le ha mai applicate al Ponte di Brooklyn, e si viaggia magnificamente dentro il tunnel che attraversa la Manica, malgrado i bilanci siano ancora drammaticamente in rosso.

Torna dunque il Ponte di sinistra o, meglio, la sinistra del Ponte, proprio quando il più grandioso progetto del governo Berlusconi, il più meridionalista dei suoi progetti, maltrattato dalla burocrazia di Bruxelles, rischia di rivelarsi, già nei prossimi vertici europei della prima metà d'ottobre, un ponte di sabbia o meglio un ponte di carta. Aggredito dall'arcaismo retorico del più candido, ingenuo e peggiore ambientalismo, e trascurato dallo stesso Berlusconi che lo ha usato come strumento propagandistico, uno dei suoi tanti belletti, il Ponte è infatti, come tutte le trovate berlusconiane, un'impresa, ma solo nella dimensione virtuale e mediatica, la dimensione dell'inesistenza.

E però l'impresa, perfetta per simulazioni, prove e controprove, disegni, grafici e colonne sonore, non può diventare reale senza gli attrezzi politici e culturali, la voglia di potenziare il territorio, e il rischio degli imprenditori privati che, sia pure con il sollievo dei crediti agevolati della Banca Europea (Bei), dovrebbero affrontare il 60 per cento di un investimento che si avvicina ai 6 miliardi di euro. Ed è inutile cercare un punto mediano tra la virtualità catastrofista della sinistra economicista che prevede, testualmente, "un Ponte frequentato solo dai gabbiani" e la virtualità berlusconiana che lo immagina come "una macchina per soldi" capace di "risolvere i più grandi problemi del Mezzogiorno".

Opposte previsioni di spesa si fronteggiano sugli spalti dei giornali avversari, ma sono dati che non andrebbero contrapposti ma invece giustapposti. I vantaggi infatti non andrebbero assolutizzati e gli svantaggi non andrebbero drammatizzati. Bisognerebbe lavorare per ridurre l'area degli svantaggi e accrescere quella dei vantaggi. Questa è la politica.

Ebbene, che la politica, la cultura politica di sinistra, voglia riscoprire il Ponte, aprirsi, articolarsi e magari da subito riprendersi quel Ponte che aveva fatto sognare i suoi migliori meridionalisti, che la sinistra voglia infilarsi nel progetto Ponte, lo si scopre con gioia leggendo il numero 41 della rivista del neomeridionalismo di sinistra, che si chiama appunto Meridiana e che al Ponte è interamente e variamente dedicata, con un bellissimo saggio introduttivo di Lea D'Antone. Con l'idea dinamica, non scontata, che non esiste il Mezzogiorno ma esistono i Mezzogiorni, dove non tutto è sempre e comunque arretrato, la rivista è marcata Donzelli, editore di tutto rispetto e rivista-manifesto degli storici meridionalisti cinquantenni in cerca del simbolo di una generazione.

E difatti leggendola si capisce bene come il Ponte sullo Stretto possa rappresentare, finalmente meglio e più del terrorismo, il simbolo della generazione del Sessantotto. Sono infatti loro che lo vogliono; siamo noi che, giunti alla maturità, vogliamo i ponti mentre prima volevamo dittature e bardature, chiusure e costruzioni anti. Il Ponte per la sinistra italiana potrebbe significare dunque anche il giro di volta della maturità, perché questa generazione del Sessantotto è ancora alla ricerca del suo simbolo, e il ponte è la conclusione logica di quel percorso, di quell'avventura fatta tutta per rottura di ponti.

E la mafia? A Palermo non ci sono ponti, la mafia non è nata né sopra né sotto i ponti. Certo, la mafia c'è e qualsiasi grande investimento corre il rischio della mafia. Ma forse, contro la mafia, non bisogna più investire nel Sud? E non sarebbe, il rinunciare al progresso e allo sviluppo per paura della mafia, la maniera più vile di arrendersi alla mafia? Per alcuni la mafia cresce nella povertà e nel sottosviluppo, per altri nella ricchezza e nello sviluppo, c'è chi la lega al grano e alla terra arida, chi all'arancia e all'acqua. A Gela la mafia è arrivata con l'industria ma a Villalba, Mistretta, Montelepre, Corleone non c'è mai stata industria.

La verità è che la mafia si combatte con polizia e magistratura, con la pazienza, l'eroismo e il rischio d'impresa che è fatto di innovazione e dunque anche di ponti. I testi di Morale ci insegnano del resto che l'angoscia d'esser nati può diventare forza criminale quando va verso la disoccupazione, o forza propositiva, ergon, quando va verso il lavoro.

Infine, e di nuovo, Berlusconi. Si può volere il Ponte che vuole Berlusconi e cominciare a farlo insieme a lui. È questo il solo modo per sottrarlo alla sua ormai proverbiale e furba dabbenaggine, il modo per introdurre garanzie, rapporti con il sindacato, e alla fine fare del progetto Ponte un Parlamento con maggioranza e minoranza, prendere il controllo di una grandiosa operazione che non è solo economica e deve essere gestita da tutta la cultura politica italiana, perché riguarda tutta l'Italia, la simboleggia tutta, Ponte tra le due Italie, tra le due culture, tra le due esigenze.

Il Ponte che, come la rivista di Piero Calamandrei, unifica senza confondere, e addirittura rinsalda le identità perché le fa diventare identità aperte contro le identità chiuse che ti fanno orgoglioso e spocchioso, ma non ti portano da nessuna parte.

Ecco: il Ponte, per la sinistra, è anche un ponte contro la spocchia, contro la sicumera, contro il complesso di inferiorità coperto di muscoli, il Ponte al posto dei baffi di ferro e dei girotondi, il Ponte per non smarrirsi nello spazio astratto dell'ideologia, nell'Italia-manicomio che, pur di fare un'altra pernacchia a Berlusconi, vorrebbe volare da Scilla a Cariddi con la liana e l'urlo di Tarzan.


2.10.03

LETTERA DI MASSIMO FINI ALL'UNITA'

Caro direttore,
ieri sera, all’una di notte, doveva andare in onda un nuovo programma di Rai Due, Cyrano, dove io avrei vestito i panni del celebre spadaccino di Rostand. L’idea del format era venuta qualche mese fa a Edoardo Fiorillo, producer di Match Music, un gruppo di giovani, bravi ed entusiasti che si erano occupati finora prevalentemente di programmi musicali ma che intendevano fare il salto verso un tipo di televisione più impegnata e avevano individuato in me la persona più adatta per la parte di Cyrano, un osservatore della vita un po' trasognato e fuori dagli schemi il cui compito era quello di commentare, a modo suo, i temi e i servizi della trasmissione, in genere di costume (la prima puntata, intitolata «Morire prima, morire tutti», era sarcasticamente dedicata all’incapacità, tutta moderna, di accettare la vecchiaia e la morte).
Fiorillo ha proposto il programma ad Antonio Marano, direttore di Rai Due, che l’ha accettata in blocco, compresa la mia partecipazione. Abbiamo firmato i contratti, fatto le prove in corso Sempione, l’ufficio stampa Rai ha emesso un comunicato in cui si dava notizia del nuovo format, che si sarebbe articolato in 15 puntate, e del fatto che Cyrano sarebbe stato Massimo Fini, è uscita un Ansa in proposito, molti giornali ne hanno parlato e Tv Sette, nella sua consueta rubrica ha segnalato il programma, corredandolo con una mia fotografia, fra quelli da vedere, cosa, mi dicono, rarissima e forse unica per una trasmissione in onda a quell’ora.
Infine, il 24 settembre, abbiamo registrato la prima puntata. Ma quello stesso giorno - e prima di poter vedere la puntata, che andava comunque montata - Edoardo Fiorillo è stato convocato da Marano che gli ha comunicato che c’erano delle grosse difficoltà, dei veti. «Sul programma?» ha chiesto Fiorillo. «No, sulla persona, su Massimo Fini» ha risposto Marano che quindi ha proposto al producer di fare ugualmente la trasmissione, ma togliendomi di mezzo. Fiorillo ha replicato: «Non è possibile: Fini è coautore del programma e inoltre il personaggio di Cyrano è stato pensato e tagliato su di lui». Una risposta coraggiosa perché Fiorillo sapeva di giocarsi in questo modo due mesi di lavoro, un programma su cui aveva investito molto dal punto di vista professionale ed emotivo e, probabilmente, ogni futuro rapporto con la Rai.
L'altro ieri, 29 settembre, mi sono visto con Antonio Marano nel suo ufficio di corso Sempione, alla presenza di un suo collaboratore, Michele Bovi, e di Edoardo Fiorillo. Il direttore di Rai Due mi ha tenuto il seguente discorso: «Voglio essere franco con lei. Potrei salvarmi dicendo che la trasmissione non va bene, che ha bisogno di aggiustamenti. Ma non sarebbe giusto. La puntata che ho visto funziona benissimo. Il fatto è che c’è un veto su di lei, un veto politico e aziendale, da parte di una persona cui non posso resistere. Chi sia questa persona non intendo dirglielo, lo farò il primo gennaio».
Quindi mi ha proposto, come mediazione, di rimanere come autore ma di sparire dal video. Ho risposto: «Non so se vi rendete conto della violenza che mi state usando. Mi avete avvicinato voi, mi avete contrattualizzato, poiché si trattava di quindici puntate, ho dovuto modificare i miei programmi, rinunciare ad altri lavori. Facciamo le prove, le facciamo in Rai, l’ufficio stampa Rai manda fuori un comunicato in cui si dice che Massimo Fini sarà Cyrano, i giornali ne parlano, facciamo la prima puntata e senza neanche vederla, senza nemmeno entrare nel merito, mi si dice: no, tu non puoi lavorare. Cioè, io non posso lavorare in questo Paese?»
Marano: «No, no, lei può lavorare...»
Io: «Sarò più preciso: ci sono lavori che io, cittadino di questo Paese, non posso fare perché qualche federale me lo vieta».
Marano: «Ecco. È così».
Adesso Marano, rispondendo ai giornalisti che lo interrogano sul caso che si è creato, si difende dicendo che la trasmissione andava messa a punto, che era deboluccia. Lo capisco. Non può dire pubblicamente ciò che ha detto a me. E mi dispiace anche tirarlo così pesantemente in mezzo perché mi è sembrato, tutto sommato, un brav’uomo, il diavolo meno brutto della compagnia, schiacciato da forze troppo più potenti di lui. Ma la verità è quella che ho scritto io, qui, e ho tutte le possibilità di dimostrarlo perché, a parte la testimonianza di Fiorillo, quella conversazione è registrata.
Chi ha posto il veto? Marano non l’ha detto e io non gliel’ho chiesto. Posso solo fare delle deduzioni. Le sinistre no perché attualmente non hanno questo potere in Rai. La Lega no, perché Marano è leghista ed è lui che ha sponsorizzato Cyrano. In quanto ad An, uno dei collaboratori di Marano, Spoto ha fatto un sondaggio presso il ministero delle Comunicazioni, Maurizio Gasparri, il quale ha risposto che non mi vede certo di buon occhio ma che comunque non c’erano pregiudiziali (poteva essere un po' più generoso, monsignor Gasparri, ricordando che negli anni Ottanta, quando l’Msi era al bando, io ero, insieme a Giampiero Mughini, l’unico intellettuale italiano non di destra a partecipare alla loro convention e alle loro manifestazioni culturali, lo facevo non perché condividessi, ma per testimoniare che quattro milioni di italiani non potevano essere arbitrariamente esclusi dal gioco politico).
Le correnti di An però oggi sono tante. Gasparri, poniamo, non è La Russa. La mia impressione è comunque che si tratti di un berlusconiano, di Forza Italia, di An, di Comunione e Liberazione, non importa, molto potente per costringere un direttore di Rete come Marano a fare la figuraccia che ha fatto, un berlusconiano forse più realista del Re al quale le mie critiche non sono mai andate giù, non perché, ovviamente, abbiano chissà quale risonanza, ma perché sono comunque fastidiose dato che non è facile gabellarmi per «comunista».
Di chiunque sia, un veto c’è stato. Politico e, oserei dire, quasi antropologico. Non essendo iscritto ad alcun partito, non essendo riferibili ad alcuna area politica, non essendo intruppato in alcuna lobby sono abituato, da un quarto di secolo, ad essere emarginato, non pensavo però di diventare addirittura un appestato. Ma se a 58 anni suonati, in cui, caso, credo, quasi unico, non ho mai lavorato né per la Rai né per Mediaset, neppure con una consulenza piccina piccina, non posso nemmeno avere una parte in una trasmissione di costume che va in onda all’una e mezza di notte, cosa devo pensare?
Che cosa dobbiamo fare? Ci dicano dove possiamo lavorare. Abbiano almeno il coraggio di dirci apertamente che ci sono dei cittadini che non possono fare certi lavori. Promulghino delle leggi, come ai bei dì. Sarebbe una situazione più chiara e eviterebbe perlomeno a dei disgraziati, come Fiorillo, ma anche come Marano, di entrare in contatto con degli appestati senza poter sapere che sono tali.
Caro direttore, perdona lo sfogo, il lungo sfogo. Ma è particolarmente deprimente vivere in un Paese dove ogni santo giorno le più alte cariche dello Stato tuonano contro il fascismo che fu, facendo finta di non accorgersi del fascismo che è.
Quanto a me mi appunterò, da ora, una stella gialla al petto, come una medaglia al merito.

1.10.03

«C» come coerenze


«CONTRORDINE» di Alessandro Robecchi

Mettiamola così: alcune decine di uomini, seduti sugli scranni di una solenne istituzione, decide come e in che modo le donne possano restare incinte. Quando le donne protestano per questa bizzarra invasione di campo si beccano insulti, contumelie, volgarità, più una carrettata di doppisensi. Molte le letture possibili: l'uomo è uomo e la donna, si sa, è un po' zoccola. Oppure: l'uomo fa le leggi e la donna fa i bambini, ma come dice l'uomo, sennò si perde il senso della misura. O ancora: l'uomo è uomo, e la donna faccia il piacere di non contestare in modo scomposto e clamoroso: qui siamo al Senato, mica al mercato rionale. Un posto dove non ci si può nemmeno levare la giacca (sacrilegio!), ma dove si può tranquillamente dare della «troia» alla collega. Ciliegina sulla torta: il presidente di turno degli uomini senatori dice che «nella confusione», le frasi volgari non si sono sentite troppo chiaramente, e dunque... Bene, l'incidente fa giustizia di tutti quei luoghi comuni che vogliono il Palazzo lontano dal paese reale. Direi invece che il Palazzo al paese reale è vicino, vicinissimo e a volte è pure peggio, il che è tutto dire. Naturalmente abbondano i commenti e le reazioni pseudo-scandalizzate che, grazie a dio, evitano il «dove andremo a finire», per il semplice fatto che ci siamo finiti già, e da tempo, e ci affondiamo fino al mento e speriamo soltanto che qualcuno non faccia l'onda. In qualche modo, però, c'è da stupirsi dello stupore.

Questa faccenda della donna decorativa, che è meglio per tutti se sta zitta e meglio ancora se appartiene alla categoria «bellafiga», pare assai radicata nel paese reale, e sarebbe davvero strabiliante se i suoi rappresentanti politici riuscissero a liberarsene. Abbiamo del resto un «premier» imbonitore che tenta di attrarre in Italia capitali stranieri puntando sulle «bellissime segretarie», e dunque vedete che lo stupore è mal riposto. Del resto, trattasi dello stesso «premier» che ha contribuito non poco, negli ultimi vent'anni, con le sue tivù, a consolidare l'immaginario machista già presente nella cultura latina del paese, e a usare le ragazze come gradevoli soprammobili. Uno che a Natale regala ora un bracciale, ora un collier, ora un paio di orecchini alle signore, facendosi aiutare nella contabilità dal maggiordomo e da un computer, segno che anche nella cafoneria più atavica le nuove tecnologie hanno il loro peso. E poi del resto, se la tivù guida e comanda l'immaginario nazionale, per le ragazze si mette male sul serio, anche perché ormai, sistemata la giustizia, nel Palazzo si parla quasi solo di tivù e di come garantire al «premier» il suo dominio indiscusso. Sarà un cortocircuito, forse i senatori pensavano di essere in onda anziché in aula, e si sono sguaiatamente adeguati. Ma vedete, anche senza volere mi scappa un tono scandalizzato. Sarà che mi fanno velo alcune cose, che so, storia, cultura, libri letti, il fatto di vivere con una ragazza che non è esattamente un soprammobile. E temo di sbagliarmi. Perché se invece uno sbarcasse da Saturno e venisse qui a guardare la realtà, forse si farebbe un'altra idea. Che la pubblicità, forma maggioritaria di comunicazione, insiste molto su questa faccenda della donna decorativa e un po' puttana. Che i «contenuti», cioè quelle cose giornalistiche che servono a dividere una pagina pubblicitaria dall'altra, insistono uguale. Che persino per leggere la posta elettronica dalla home page del suo provider uno finisce a navigare tra natiche e seni. E che se invece vuole le notizie, può sempre comprare il primo newsmagazine italiano, di proprietà del «premier» di cui sopra, che registra urlando in copertina la prevalenza nella donna del «fattore C» (il Culo). Gli italiani lo preferirebbero decisamente al fattore T (le Tette), mentre il direttore del newsmagazine lo preferisce di gran lunga al fattore F (le Figure di merda del suo editore & «premier»). Insomma, alla fine, se il ruolo del Senato è interpretare e codificare quel che sente il paese nel suo profondo - appena sotto la cintura dei pantaloni - ecco che ci ritroviamo in un perfetto stato di coerenza culturale e politica, in linea con il progressivo e inarrestabile genocidio culturale in atto nel paese, scientemente realizzato da chi ne controlla e ne determina l'immaginario a colpi di monopolio mediatico. Tutto qui, nessuno scandalo. Soltanto qualche decina di maschietti liberati nell'ambiente e rinchiusi dal destino nell'austera aula del Senato della Repubblica, ubbidienti all'aria che tira, un po' goliardi, molto burini e, soprattutto, coerenti.