30.1.05

Lunardi, ministro con trasporto. Ma senza spazzaneve
di GIAN ANTONIO STELLA (Corriere della Sera, 30 gennaio 2005)

«I tunnel, io, li amo», spiegò un giorno a un settimanale popolare. E quando ama, Pietro Lunardi, ama. Basti ricordare la foga con cui descrisse il suo Cavaliere: «Il governo è come la Ferrari e Berlusconi è Schumacher: ha una marcia in più, riesce a trascinarci e a trascinare l’intero Paese». Una sviolinata tale che un cronista non ostile, Mattia Feltri, gli donò un nomignolo immortale: «Il ministro con trasporto». Lui pure, tuttavia, nonostante l’esperienza e la passione («Nel sottosuolo si incontrano sempre cose nuove, impreviste, straordinarie») comincia ad essere inquieto: dove sarà, la fine del tunnel? La Grande Nevicata Calabra, infatti, è solo l’ultima di un a lunga serie di grane. Per carità, in mezzo alla bufera lui dice d’avere la coscienza a posto: «Non ho nulla da rimproverarmi». Come quando 118 persone morirono nello scontro tra due aerei sulla pista di Linate. O quando una decina di passeggeri perirono nello schianto tra due treni sul binario unico Messina-Palermo. O ancora quando, tre settimane fa, altri 18 cittadini persero la vita in un nuovo scontro tra due treni su un altro binario unico a Crevalcore. Tutte cose che, sommate ad altre fortunatamente minori, sarebbero in al tri tempi bastate, in un Paese dove perfino al Quirinale Enrico De Nicola si teneva accanto un segretario gobbo e Giovanni Leone faceva le corna contro la «jella cosmica», a spingere qualcuno a invocar le arti di uno «schiattamuorto». Come fecero qualche anno fa, con qualche volgarità di troppo, diversi spiritosoni del centro-destra che ce l’avevano con uno dei predecessori di Lunardi. Nemesi storica. Intendiamoci: idiozie. Il rischio che il responsabile delle infrastrutture corre, semmai, è che un uomo attento a certe cose come Berlusconi, che prima delle ultime politiche distribuì ai candidati della Casa delle Libertà anche un opuscolo dove, oltre a lussuosi sondaggi, c’era l’annuncio che «Giove nel segno dello Scorpione» avrebbe dato «garanzia di risultati», si faccia prendere dal dubbio sulle ragioni di Napoleone il quale, come è noto, non si accontentava d’avere generali bravi: li voleva fortunati. Dice oggi Sandro Bondi, riassumendo il coro del centrodestra contro le indignate proteste della sinistra, che «l’Ulivo sa solo chiedere dimissioni» e che non è un Paese serio quello in cui «ogni volta che succede qualcosa si dà la colpa al governo». Ha ragione. La responsabilità del disastro organizzativo sulla Salerno-Reggio Calabria non può essere scaricata sul «ministro con trasporto», che sta lì da meno di quattro anni. Certo, non è facile considerar anche la neve un’eredità del centrosinistra. Ma è f uori discussione: il caos sulla A3 ha molti padri e molti nonni. A destra e a sinistra. Ma cosa dicevano Polo e Lega chiedendo ufficialmente le dimissioni del ministro dei Trasporti del governo Prodi per bocca dei capigruppo di An Gustavo Selva e di Forza Italia Beppe Pisanu? Rileggiamo il forzista Salvatore Lauro: «Sono sconvolto dalle parole di Burlando, che a 18 mesi dall’insediamento definisce drammatica la situazione delle Ferrovie: mi piacerebbe sapere che cosa, fino ad oggi, ha fatto». Per non dire delle ripetute ingiunzioni a dimettersi scagliate contro l’allora ministro dell’Interno Napolitano, reo di aver «lasciato scappare» il boss Pasquale Cuntrera e di non riuscire a fermare una guerra di camorra a Napoli simile a quella di oggi. Aveva ereditato lui pure una situazione ingovernabile lasciata da altri? Macché: dimissioni! «Questo governo», sentenziò con la solita sobrietà Gasparri, «è il miglior alleato della criminalità organizzata in Italia». Spiegavano i leader della destra, allora, che al di là delle responsabilità personali esisteva una «responsabilità oggettiva». Quella che n ei Paesi più seri spinge i politici dotati di dignità ad assumersi davanti all’opinione pubblica, per il bene dello Stato, anche le colpe che non sono direttamente loro. Quella che oggi, da noi, viene negata. Ciò che Pietro Lunardi forse pagherebbe caro in un altro Paese, tuttavia, è qualcosa di più d’una indefinita «responsabilità oggettiva». E’ una certa sproporzione, che non solo a sinistra gli rinfacciano, tra i proclami e i fatti. Entra come presidente della Commissione di indagine nel tunnel del Bianco sconvolto dall’incendio assassino e dichiara che il traforo riaprirà in due mesi: ci vorranno tre anni e passa. Al ministro comunista Nerio Nesi (col quale non si fa tante fisime ideologiche come prima non se l’era fatte con Gaspari, Lattanzio o Di Pietro) propone di far passare la tangenziale di Mestre sottoterra costruendo la più grande talpa di tutti i tempi e poi, convertito dalla destra al passante largo, tuona: «Li faremo tutti e due!». Giura che non esiste conflitto d’interessi tra il suo ruolo futuro e l’azienda Rocksoil perché gli avvocati son pronti a vendere e «in sole 24 ore» il suo «teorico conflitto di interessi sarà liquidato» e appena è ministro cede in famiglia alla moglie e ai figli: «Mi ad eguerò alle regole, senza penalizzarmi sul piano economico più di quanto sia necessario». Spiega che se al Bianco è successo un disastro è colpa dei verdi che non vogliono un doppio tunnel e poi, tre giorni dopo essere diventato ministro, annulla il decreto con cui Nesi aveva annullato ogni nuova costruzione di tunnel a una sola canna e ripristina così la «sua» galleria unica in Val Trompia. E a sentir lui tutta l’Italia è un immenso cantiere e grazie alla legge obiettivo e al rilancio dello spirito che co nsentì «le Piramidi, la Grande Muraglia o i templi Maya», tutti i lavori avviati stanno per finire e tutti quelli da fare stanno per essere avviati e il Mezzogiorno è un fiorir di dighe e di condotte e di depuratori perché entro il 2007 «il problema dell’acqua sarà risolto ovunque» e non esiste proprio intoppo finanziario perché «i soldi sono l’ultimo dei problemi» e certo, è vero che lui una volta non era tanto favorevole al ponte sullo Stretto ma adesso giura che sì, questa meraviglia sarà fatta e «Messi na e Catania diventeranno una sola città, come Budapest». E tutti lì, a bocca aperta, a rimirare il meraviglioso mondo nascente. Finché non nevica e sale un grido: dov’è lo spazzaneve?
Alle primarie con l'alabarda
"Satira preventiva" di Michele Serra

"La soluzione non può che essere politica". Prodi si presenta, non si presenta, non si presenta nessuno o decideranno i probiviri. Tutte le possibilità sulla selezione del leader del centrosinistra

Il punto sulle primarie nel centro-sinistra è stato elaborato dall'associazione Cubo di Rubik, che raduna matematici ed enigmisti di tutto il mondo. Si tratterebbe di un'espressione logaritmica a 14 incognite, resa ancor più difficile da svariate macchie di ragù che imbrattano gli appunti di Romano Prodi, con due sole soluzioni possibili: stracciare il foglio e pensare alla figa, oppure procedere al sacrificio rituale di Pecoraro Scanio affidando le sue interiora a un aruspice perché vi legga il destino.

Non esistendo una soluzione logico-razionale, i leader del centro-sinistra hanno dichiarato che "la soluzione non può che essere politica", gettando definitivamente nel panico i loro elettori. Sono state dunque inserite in una teca le diverse proposte, e un bambino bendato (nuovo simbolo dell'Ulivo) provvederà a estrarre uno dei bussolotti. Secondo indiscrezioni, queste sarebbero le proposte in lizza.

1. Non avendo senso che Prodi sia l'unico candidato, non si presenterà neanche Prodi. Le primarie saranno dunque senza candidati, e gli elettori dovranno scrivere sulla scheda un pensiero affettuoso alla moglie (marito) oppure una massima di La Rochefoucauld.

2. Prodi si presenta, ma essendo l'unico candidato è perfettamente inutile che si presentino gli elettori, che nel giorno delle primarie saranno invitati a testimoniare il loro impegno civile ripulendo in gruppo il greto dei fiumi, dirigendo il traffico all'uscita delle scuole oppure discutendo con i passanti i punti salienti del programma e i nodi irrisolti del Paese.

3. Si presentano tutti: i leader del centro-sinistra, dell'associazionismo e della società civile, gli ex partigiani e deportati, gli intellettuali più prestigiosi, i presidenti di bocciofila e di cineclub, i responsabili del commercio equo e solidale, i leader della galassia pacifista, i preti operai, i sindaci, i sindacalisti, gli editori alternativi, i disobbedienti, i cobas, i familiari delle vittime, i rappresentanti dei carcerati e anche tua sorella. Daranno vita a un torneo cavalleresco, con le regole della Quintana, tentando di disarcionarsi a vicenda con un'alabarda. Il vincitore potrà candidarsi alle politiche e impalmare una vergine di sangue reale.

4. Si presentano solo i candidati mai eletti in tutte le precedenti elezioni: come il 53 sulla ruota di Venezia, prima o poi il loro nome dovrà pure uscire.

5. Si presentano solo Prodi e Bertinotti, ma Bertinotti dichiarando preventivamente che il suo candidato è Prodi. È la soluzione detta, tecnicamente, "ma allora cosa cazzo votiamo a fare", molto apprezzata dai politologi della scuola di Minsk, secondo la quale l'importante, in democrazia, è divertire gli elettori con quesiti surreali per ovviare alla disaffezione per la politica.

6. Si decide all'antica, con una vigorosa stretta di mano che vale più di qualunque contratto scritto. Per la stretta di mano tra tutti gli aventi diritto è stata affittata la pista del circo Medrano: i leader presenti verranno aiutati da esperti acrobati e contorsionisti per riuscire a intrecciare le dita (in tutto 280 dita) con un effetto coreografico spettacolare, riprese televisive dall'alto e musiche di Ennio Morricone.

7. Saranno i probiviri a decidere, in un solenne Consiglio dei saggi, chi è il candidato della grande alleanza. Uomini anziani con lunghe barbe bianche, e donne anziane con rade barbe bianche, vestiti con un'austera tunica candida, simbolo della saggezza e della concordia, si chiuderanno in un monastero e, in conformità alle tradizioni e alle convinzioni della sinistra, si azzufferanno furiosamente scambiandosi orribili insulti e rivangando ogni possibile scissione e litigio dal 1789 in poi, tentando di colpirsi con l'attizzatoio e rinfacciandosi vecchie amanti, tradimenti coniugali e insensibilità nell'educazione dei figli. L'accusa estrema, quella di non avere capito il cinema di Godard, verrà tenuta in serbo per le ore conclusive, al termine delle quali ognuno dei probiviri emetterà un comunicato disgiunto nel quale si spiega che con gli stronzi non si può ragionare.

28.1.05

L’8 per Mille è Finito nel Buco di Tremonti
Nedo Canetti (L’Unità – 4 novembre 2004)

Distolti 80 milioni di euro per arginare il deficit

ROMA Il contribuente italiano, al momento della denuncia dei redditi, decide di destinare la quota dell'8 per mille o allo Stato o ad una confessione religiosa a sua scelta. Se opta per questa seconda soluzione, sa che il suo contributo sarà destinato per esigenze del culto, interventi caritativi, sostentamento del clero. Se sceglie lo Stato sa che, in base alla legge 20 maggio 1985 n.222 , il suo otto per mille dovrà essere utilizzato «per interventi straordinari per la fame nel mondo, calamità naturali, assistenza ai rifugiati, conservazione di beni culturali».

Uno schema di decreto del presidente del Consiglio prevede l’utilizzo di parte di quelle entrate - 80 milioni di euro - «per migliorare i saldi di finanza pubblica». No dell’opposizione

Hai dato l’8 per mille allo Stato? Servirà per pagare i buchi di bilancio

Ritiene così di aver compiuto un atto utile, rinunciando, con coscienza tranquilla, ad una parte del suo reddito. Non ha fatto però i conti con il governo Berlusconi e con i guai che alla finanza pubblica ha arrecato Giulio Tremonti.
Ecco, infatti, che come arriva alla commissione Bilancio del Senato, per il prescritto parere, lo schema del decreto del Presidente del Consiglio sulla ripartizione, appunto dell'8 per mille per l'anno 2004, i senatori si trovano davanti ad una sorpresa non da poco. Una decisione scandalosa. Quella di destinare una parte di quelle entrate, pari a 80 milioni di euro, «al miglioramento dei saldi di finanza pubblica». Per tappare, in parole povere, qualcuno dei buchi che l'ex ministro dell'Economia ha aperto nel bilancio dello Stato. E non è finita. Sempre il governo ha presentato un emendamento ad un suo decreto in materia di politiche sociali, che prevede di utilizzare, una quota delle entrate dell'8 per mille, per la copertura di parte degli oneri derivanti dai prepensionamenti dei dipendenti dell'Alitalia, non trovando altra copertura.
Immediata la reazione dell'opposizione. Protesta Antonio Pizzinato, ds, rilevando che è il modo questo di «snaturare il contenuto della legge del 1985, utilizzando le somme a disposizione per finalità spesso improprie, come in questo caso, in palese violazione delle norme legislative». Protesta l'opposizione, ma anche nella maggioranza sorgono non poche perplessità, che trovano corpo nello stesso parere che la commissione emette, al termine dei lavori e che, per questa parte di critica all'esecutivo, viene votato anche dal centrosinistra. Si rileva, nel documento, che «la suddetta misura (quella di destinare una parte delle entrate a tappare i buchi di bilancio, ndr) presenta elementi di problematicità sotto il rispetto della normativa sulla contabilità dello Stato». Ed inoltre che «la suddetta misura si pone in palese contraddizione con l'opzione esercitata dai contribuenti in sede di dichiarazione sulla destinazione dell'8 per mille». Sempre la commissione raccomanda «l'adozione di misure legislative necessarie per il ripristino, per i prossimi esercizi finanziari, della completa disponibilità delle risorse, relativamente alla quota destinata allo Stato, per le finalità previste dalla legge, in coerenza con le opzioni formulate dai cittadini in sede di dichiarazione dei redditi sulla destinazione dell'8 per mille dell'Irpef».
Già lo scorso anno, c'erano state alcune avvisaglie di voler utilizzare il contributo in maniera diversa dalle finalità di legge. Allora si era levata solo qualche protesta dell'opposizione; quest'anno si è però esagerato, tanto da far insorgere la stessa maggioranza, la quale però non se l'è sentita di andare a fondo, fino ad esprimere parere contrario allo schema della Presidenza. Dura rampogna a cui, però, fa poi seguito un contraddittorio «parere favorevole», non votato ovviamente dal centrosinistra.

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Finanziaria: l'8 per mille va alla sicurezza
Corriere della Sera (19 gennaio 2005)

Un comma della legge di bilancio stabilisce che i fondi destinati allo Stato finiscano in gran parte alle forze di polizia
ROMA - I soldi dell'otto per mille destinati allo Stato finiscono alla sicurezza. Crolla così nel 2004 l'entità delle risorse provenienti dall'8 per mille dell'Irpef, destinate allo Stato e messe a disposizione per progetti di carattere sociale. A fronte dei 105 milioni del 2003, nel 2004 i fondi a disposizione sono stati pari a 20 milioni (circa l'80% in meno rispetto all'anno precedente). La cifra degli stanziamenti è indicata nello schema di una risoluzione della Commissione Bilancio del Senato che è riportato nei resoconti parlamentari. La diminuzione dei finanziamenti per progetti con finalità sociali e umanitarie non dipende da un cambiamento nel comportamento dei contribuenti (il cittadino può infatti destinare la quota allo Stato italiano, alla Chiesa Cattolica o ad altre confessioni religiose) ma da una disposizione della Finanziaria per il 2004 che ha stabilito di stornare per il 2004, 2005 e 2006, 80 milioni del gettito dell'8 per mille Irpef dato allo Stato per finanziare la sicurezza.
RESIDUE DISPONIBILITA' - Per quanto riguarda il 2004, tolta la quota devoluta alla diretta gestione statale di 80 milioni, «le residue disponibilità - si legge nel documento della Commissione di Palazzo Madama - risultavano di ammontare pari a 30 milioni di euro. Un'ulteriore decurtazione delle risorse è stata disposta, sempre con riferimento all'esercizio 2004, in sede di assestamento, per cui risultano disponibili poco più di 20 milioni di euro, a fronte di oltre 105 milioni di euro erogati nell'anno 2003». «Stante la esiguità delle risorse stanziate - si evidenzia nello schema di risoluzione - nella predisposizione dello schema di decreto del presidente del Consiglio di riparto relativo all'anno in corso, non è stato possibile soddisfare se non un numero estremamente esiguo di domande per cui larga parte di quelle presentate, pur avendo ricevuto un parere favorevole, non hanno trovato un esito positivo».

Biancaneve e il nano prelato
di Marco Travaglio (L'Unità del 25 Gennaio 2005)

Nel suo ultimo giro delle sette chiese, un giorno da don Verzè, un giorno da don Gelmini, un giorno dai salesiani, il Nano Prelato ha voluto esagerare persino rispetto ai suoi standard, il che non era facile. Ha detto che «la sinistra è contro i padri e contro la famiglia»: lui infatti ama la famiglia a tal punto da averne due. Ha benedetto le campagne di Sirchia contro il fumo, l'alcol e prossimamente la ciccia in esubero, che nuocciono gravemente alla salute, e contemporaneamente ha annunciato il ritorno al nucleare che, com'è noto, fa benissimo: infatti i bambini di Chernobyl non bevono, non fumano e sono magrissimi, almeno quelli ancora vivi. Poi ha scritto a tutte le famiglie italiane invitandole a non esagerare con i farmaci, lui che s'è rifatto dalla testa ai piedi dal chirurgo plastico. La sera, per ritemprarsi lo spirito, ha preso un aperitivo con Bud Spencer e cenato con Mara Venier, Apicella, Loredana Lecciso, Cossiga e altri maestri di meditazione.
L'indomani, visita pastorale al congresso del Nuovo Psi che, essendo guidato da De Michelis e Bobo Craxi, ha preferito eliminare l'aggettivo «Nuovo». E lì - riferisce la sobria cronaca del Giornale di famiglia - «Berlusconi ha dato fondo alle sue risorse dialettiche, toccando il tasto degli ideali». «La sinistra è contro la Nazione, contro la Bandiera, contro la Patria», ha predicato, prima di magnificare l'amico Bettino Craxi, molto affezionato alla Bandiera, alla Nazione e alla Patria: quelle svizzere e tunisine, però.
Ma il meglio di sè il Nano Prelato l'ha dato quando s'è inginocchiato con don Gelmini e i suoi ragazzi giurando lotta senza quartiere al traffico di droga, con quella che il sacerdote definisce la «Cristoterapia» il premier, più modestamente, «Silvioterapia». Peccato che alla cerimonia non abbiano potuto presenziare Vittorio Mangano, Marcello Dell'Utri e Gianfranco Miccichè. Il primo, uno dei più noti narcotrafficanti della storia patria, è morto nel 2001. Il secondo e il terzo avevano altro da fare. Eppure avrebbero avuto un sacco di cose da raccontare. Miccichè, intervistato da Sabelli Fioretti, ha ammesso di aver sniffato coca in gioventù e di essersi poi disintossicato, anche se due anni fa un suo amico spacciatore fu segnalato dalle parti della sua abitazione romana e del ministero delle Finanze. Miracoli della Cristoterapia. Quanto a Dell'Utri, è una vera autorità in materia. Fu lui nel 1974, grazie al suo fiuto da rabdomante, a selezionare Mangano fra migliaia di stallieri: quel Mangano che nel 1980, quattro anni dopo la partenza da Arcore, gli telefonò per proporgli un «cavallo» (Borsellino ricorderà che di solito i «cavalli» di Mangano non erano quadrupedi, ma partite di droga). Arrestato da Falcone nel 1980 per traffico di droga e condannato a 11 anni, appena uscito di galera Mangano tornò a incontrare l'amico Marcello fino almeno al novembre '93. E nel '96, quando tornò dietro le sbarre per mafia e omicidio, Dell'Utri dichiarò: «Se Mangano fosse libero lo frequenterei ancora».
E non c'è solo Mangano. Il 24 ottobre 1976 il boss catanese Nino Calderone festeggia il compleanno nel ristorante milanese "Le colline pistoiesi", con i mafiosi Nino e Gaetano Grado, celebri per aver inondato Milano di eroina. E chi ti spunta alla cenetta intima? Dell'Utri in persona, scortato dall'inseparabile Mangano. Sarà lui stesso a confermarlo, ma precisando che fu perchè «avevo paura di Mangano» comunque «i commensali non mi furono presentati». Lo tennero all'oscuro per tutta la cena. Il 19 aprile 1980 si sposa a Londra Gerolamo Fauci detto "Jimmy", un pluripregiudicato che gestisce il traffico di droga del clan Caruana fra l'Italia, la Gran Bretagna e il Canada. E chi compare al banchetto nuziale? Naturalmente Dell'Utri, insieme ai boss Bontate, Teresi e Di Carlo: il fior fiore del narcotraffico mafioso. Sarà lui stesso ad ammetterlo, con le solite scuse: «Mi portò l'amico Cinà (condannato per mafia in primo grado, ndr), ma non sapevo chi fosse lo sposo. Mi trovavo casualmente a Londra per una mostra sui vichinghi...». Nel 1998 si pente Vincenzo La Piana, imparentato col boss Gerlando Alberti, che trafficava droga con Mangano e altri capimafia fra Italia e Colombia: racconta di aver incontrato tre volte Dell'Utri a Milano, in due ristoranti e in un capannone, dove Marcello avrebbe offerto 2 miliardi per finanziare una partita di cocaina: c'erano anche Enrico Di Grusa (genero di Mangano, latitante per mafia e droga) e due impresari siciliani di pulizie, Natale Sartori e Nino Currò, poi condannati per favoreggiamento della latitanza di Di Grusa. Con loro lavorava anche il nipote di Mangano, Daniele Formisano, poi condannato per importazione di «300 chili marijuana ottima qualità». Con Currò e Sartori Dell'Utri aveva rapporti sicuri. C'è un filmato che riprende Sartori il 12 ottobre '98, mentre entra in Via Senato per avvertire Marcello che La Piana s'è pentito e lo accusa di traffico di droga. Ecco: una simile esperienza conquistata sul campo non può andare sprecata.
L'altro giorno, dai salesiani, Berlusconi raccontava: «C'era tra gli studenti del collegio un ragazzo traviato: un giorno lasciò la scuola e divenne un bandito, fino a diventare il vice del capo supremo». Che fa, allude?
Lodo Barabba
di Marco Travaglio (L'Unità del 27 Gennaio 2005)

Accade spesso, in tribunale, che il giudice ritenga gli elementi portati dal pm insufficienti per condannare un imputato, e lo assolva. Poi, in appello e in Cassazione, si saprà se aveva visto giusto. È normale, fisiologico. Il pm maneggia indizi, il giudice prove. In Italia, siccome i processi che fanno notizia sono, di solito, quelli agli imputati eccellenti, quando il giudice li assolve si leva un coro unanime di applausi, congratulazioni, encomi solenni. «C'è un giudice a Berlino», «Crolla il teorema dell'accusa», «Finalmente un po' di terzietà», «Nel dubbio, è giusto assolvere» e via turibolando. Quando invece il giudice condanna, allora diventa «giustizialista», «giacobino», «toga rossa» e pure «nazista» (lo disse la Parenti dopo la condanna di Contrada, lo ripeté Mantovano dopo quella di Dell'Utri), oltreché «appiattito sul pm», ergo «bisogna separare le carriere».
L'altro giorno, la scena s'è rovesciata. Il gup di Milano Clementina Forleo ha condannato tre fondamentalisti islamici per ricettazione di passaporti falsi e favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, ma li ha assolti dall'accusa più grave di terrorismo internazionale perché ritiene che i pm non abbiano provato a sufficienza che costoro reclutavano uomini in vista di attività terroristiche vere e proprie: più probabile che fossero destinati ad azioni di guerriglia contro l'occupazione militare in Iraq. Contro la sentenza, il governo delle impunità ha schierato i suoi giureconsulti più insigni: l'imputato Berlusconi («non fatemi parlare»), Calderoli («sentenza vomitevole»), Cicchitto («aberrante»), La Russa e Gasparri («ideologica»), Biondi («test psico-attitudinali»), Borghezio («Forleo vergogna», scritto a spray sui muri del tribunale), Casini («incredibile»), Pisanu («manda a spasso i terroristi»), Gasparri («il Csm punisca i giudici»), Giovanardi («sentenza che ripugna la coscienza morale e civile del Paese»), Fini («rabbia e incredulità»), Fragalà («intossicazione ideologica»). Il cosiddetto ministro Castelli ha annunciato l'ennesima ispezione e minacciato procedimenti disciplinari (come se un governo potesse interferire in una sentenza sgradita), poi s'è superato dichiarando a Libero che bisogna «andare in piazza contro i giudici» che non condannano chi vuole lui, chi vuole «la gente». Cossiga ha completato il quadro parlando di «sentenza porcheria» invitando la Gup a «darsi al tennis».
Stiamo parlando degli stessi giuristi per caso che da dieci anni strillano come vergini violate a ogni arresto o condanna di ladroni conclamati sommersi di prove, di conti svizzeri miliardari, di lingotti d'oro, in nome del «garantismo» con appelli all'Alta Corte Europea, ad Amnesty International e all'Esercito della Salvezza. Ora pretendono la condanna senza prove di un pugno di nordafricani per terrorismo internazionale. In base all'articolo 270 bis del Codice penale, introdotto da questo governo con una legge scritta coi piedi, che in quattro anni ha prodotto un mare di assoluzioni e una sola condanna, provvisoria.
Intanto Il Giornale - quello che da dieci anni insorge a ogni condanna eccellente - scopre all'improvviso l'infallibilità della Procura di Milano e il primato dall'accusa sul tribunale. Titolo a tutta prima pagina: «Ecco cosa preparavano gli islamici assolti. L'accusa: organizzavano attentati. Gli Usa non hanno dubbi: sono terroristi». Se lo dice l'accusa, il giudice è pregato di adeguarsi. E se lo dicono anche gli Usa, allora la sentenza non conta: assolti, ma terroristi lo stesso. È quel che pensa anche Piero Ostellino: lo stesso che tifava per la separazione delle carriere («Oggi il pm è un "giudice travestito" che può darsi arie di imparzialità... però ha un ruolo "di parte", quello dell'accusa, come quello della difesa», Corriere, 14.8.98), tuonava contro gli «abusi della carcerazione preventiva» e un mese fa, sempre in nome del «garantismo», voleva abolire il concorso esterno in associazione mafiosa dopo la condanna di Dell'Utri. Ora, sempre sul Corriere, questo garantista a singhiozzo tira in ballo Montesquieu per denunciare la Gup che non ha accolto le richieste dell'accusa e non ha prolungato un altro po' la carcerazione preventiva per quei signori che in carcere nemmeno avrebbero dovuto entrare. Ecco: il «garantista» Ostellino è «esterrefatto e scandalizzato» per la sentenza «esplicitamente politica, in sintonia con chi continua a definire "resistenti" i terroristi iracheni». E accusa la Gup di «ignorare la situazione irachena e il diritto internazionale», soprattutto «la risoluzione Onu del 16.10.2003 che legittima la presenza della coalizione militare internazionale a garanzia della sicurezza del Paese». Il pover'uomo non sa che le risoluzioni Onu non sono materia di tribunali e che i reati contestati agli imputati arrivano al marzo 2003, cioè alla vigilia dell'attacco di Usa & C. all'Iraq (sferrato senza l'Onu, contro l'Onu). E dimostra scarsa dimestichezza financo con i dizionari, che da sempre distinguono il terrorismo (contro i civili inermi) dalla guerriglia o resistenza (contro gli eserciti di occupazione). Da che mondo è mondo, come ha scritto Umberto Eco, «se i locali combattono contro truppe occupanti straniere, si ha resistenza, non c'è santi che tengano».
Infatti la Convenzione Onu del 1999 sul terrorismo (che diversamente dalle risoluzioni è materia di tribunale) riconosce e legittima «gruppi armati e movimenti diversi dalle forze istituzionali dello Stato» se le loro «attività violente o di guerriglia in contesti bellici» non trascendono in «azioni di terrore indiscriminato verso al popolazione civile». Il Gup l'ha letta, infatti la cita alla base della sentenza. Ostellino invece no, infatti denuncia «l'assurdo corollario che ammazzare gli americani o gli inglesi non sarebbe un crimine, ma un'azione di guerra». E perché assurdo? E perché singolare? Se gli iracheni che sparano a chi occupa il loro paese sono tutti terroristi, allora lo sarebbero anche i nostri partigiani che sparavano ai nazisti. Che cosa vogliono, questi signori? Un bel processo ai «terroristi» della Resistenza, che infatti i tedeschi chiamavano «banditen»?
Anche Cossiga dovrebbe fare attenzione.Ha sempre difeso i 622 «patrioti» di Gladio, che ogni tanto venivano aviotrasportati nella base Nato di Capo Marrargiu per addestrarsi clandestinamente ad azioni di guerriglia in caso di attacco sovietico. Oggi, se la logica ha un senso, dovrebbe chiamarli terroristi. E poi denunciarli. E poi autodenunciarsi.
Gli stessi che gridano da dieci anni ai «giudici politicizzati» e alla «giustizia di piazza» proprio questo chiedono. I giudici politicizzati sono proprio quelli che obbediscono ai politici, anziché alla legge e alla coscienza: il che si potrebbe dire della Forleo se, prevedendo gl'insulti che le sarebbero piovuti addosso in caso di assoluzione, avesse condannato quei tizi pur ritenendoli innocenti. Magari in base a quelle anonime «fonti di intelligence» che piacciono tanto al governo, ma che per legge sono - fortunatamente - inutilizzabili. Non sarebbe insorto nessuno, anzi: applausi, baci e abbracci al giudice giusto. Che, quando si tratta di magrebini, è quello che condanna. Se poi qualcuno resiste, e insiste a interpellare la legge e la coscienza, ci pensa l'ingegner ministro, con una bella ispezione e una bella marcia di piazza, a estorcergli la sentenza che vuole lui. Ecco: questa è la giustizia di piazza,quella che asseconda le aspettative della «gente» e dei suoi rappresentanti. Montesquieu è meglio lasciarlo in pace: inorridirebbe. Si citi invece Ponzio Pilato. «Chi volete libero: Gesù o Barabba?». Naturalmente, stravinse Barabba.
PERCHÉ CRAXI È INDIFENDIBILE
di Massimo Fini (IL GAZZETTINO, 21 Gennaio 2005)

Cadono in questi giorni i cinque anni dalla morte di Bettino Craxi . Tenterò di farne un ritratto, politico e umano, il più possibile obbiettivo, anche se è difficile per chi, come me, è stato iscritto al Psi fino al 1979 e, pur essendo un antimodernista, resta, per il "qui e ora", un socialista libertario ritenendo che coniugare libertà e giustizia sociale sia ancora l'idea più bella.

Craxi e il partito. Craxi ebbe l'indiscusso merito di liberare il Psi dalla sempiterna sudditanza psicologica dal Pci che, con le segreterie di Mancini e De Martino, era diventata una dipendenza assoluta, spazzò via anche il massimalismo inconcludente alla Riccardo Lombardi e, nei primi anni, indirizzò il partito verso una più pragmatica socialdemocrazia di tipo europeo. Ma questo lavoro è stato completamente annullato da quello che venne dopo. Craxi introdusse nel Psi il "culto del capo" di derivazione comunista e totalmente estraneo alla tradizione socialista, eliminò qualsiasi dibattito interno e si circondò di "yes men", distaccandosi progressivamente dalla realtà e perdendo quell'intuito politico che, agli inizi, ne aveva fatto la fortuna. Non capì che il crollo del muro di Berlino cambiava molte cose anche in Italia, che la gente ne aveva le tasche piene dei taglieggiamenti in stile mafioso della partitocrazia, di cui egli era uno dei principali fautori e beneficiari anche a titolo personale (si leggano le motivazioni delle sentenze che lo hanno condannato a 15 anni di reclusione), e che non vedeva l'ora e l'occasione per liberarsene. Adesso circola la vulgata che Craxi ebbe il coraggio di denunciare in Parlamento la corruzione politica. Lo fece solo dopo che era stato già colto con le mani sul tagliere. Ma quando, pochi mesi prima, era stato arrestato Mario Chiesa, che lucrava sugli ospizi come altri socialisti sui cimiteri e sugli aiuti al Terzo Mondo, parlò di una "mela marcia". L'ultimo Psi era diventato un "comitato d'affari", zeppo di "nani e ballerine", come disse il compagno Formica, di stilisti, di visagisti, di gran mondane e di socialista non aveva più niente. Se un partito centenario e glorioso come il Psi si è ridotto, con lui, a percentuali d'albumina la responsabilità non può che ricadere su chi lo diresse, in modo totalitario, per 16 anni.

Craxi uomo di governo. Le cose migliori le ha fatte in politica estera riuscendo a mantenere la tradizione democristiana di un rapporto equilibrato col mondo arabo e con Sigonella rimarcò che noi eravamo alleati degli Usa, non necessariamente dei servi. In politica interna gli si deve la battaglia contro la contingenza, ma anche una dissennata politica di indebitamento, di assistenzialismo e di offensivo sperpero di denaro pubblico (chi non ricorda i congressi faraonici e kitsch del Psi?), che ha pregiudicato le generazioni future (vedi pensioni) ed è oggi la nostra principale causa di debolezza in Europa.

Craxi uomo. Quando lo incontrai la prima volta, di ritorno dal Cile di Pinochet, di cui denunciò le nefandezze, era uno spilungone smilzo, aveva occhi vellutati e belli (che son gli occhi di sua figlia Stefania) dietro le lenti, una ruvidezza dovuta a una profonda timidezza e un fascino che si deve a quell'elemento inspiegabile che è il carisma. Nel tempo il corpo si appesantì, forse anche per il diabete di cui soffriva dall'età di quarant'anni, la ruvidezza divenne arroganza, il carisma prepotenza. Fu così sorprendente e umiliante vedere il "decisionista" Craxi , il "gradasso" Craxi fuggire come una lepre impaurita dall'Italia e darsi alla latitanza (latitanza, non esilio quasi fosse uno dei fratelli Rosselli in fuga dal fascismo). Quando chiesi al mio vecchio e caro amico Ugo Intini perché Bettino si comportasse così mi rispose: «Perché ha paura della prigione».
Chi ha la pretesa di guidare un grande Paese non ha diritto alla paura, ha il dovere del coraggio. E comunque un uomo di Stato degno di questo nome non delegittima e infanga le leggi e le Istituzioni del suo Paese, di cui è stato Presidente del Consiglio, delegittimando così anche se stesso. È con l'ignominiosa fuga dall'Italia che Bettino Craxi diventa indifendibile.
Ancora oggi.

26.1.05

«La strage di Nassiriya? Avrei deciso in altro modo»
P.B. Corriere della Sera - 25/01/2005

MILANO - «Ma no, figuriamoci: non mi sono mai sognata di legittimare attacchi della guerriglia contro i soldati italiani in Iraq. Nella sentenza ho dovuto affrontare un problema giuridico che ha pochissimi precedenti: cosa significa terrorismo internazionale? Per risolverlo, mi sono limitata ad applicare il diritto internazionale e in particolare quella convenzione delle Nazioni Unite che distingue, appunto, tra guerriglia e terrorismo. Ma nella motivazione spiego più volte che mi riferisco solo agli atti di questo processo, cioè a un’attività di reclutamento che si ferma al marzo 2003 e coincide con il periodo dell’attacco statunitense all’Iraq, cioè con la guerra vera e propria. E’ chiaro che, se avessi dovuto occuparmi della strage di Nassiriya, del recente agguato all’elicotterista italiano o comunque della situazione odierna dell’Iraq, la mia decisione sarebbe stata ben diversa». Il giudice Clementina Forleo risponde così al diluvio di critiche che non solo politici, ma anche magistrati hanno indirizzato contro la sua sentenza «troppo garantista». Mai coinvolta nelle cicliche polemiche sulle presunte «toghe rosse», anche se fu proprio lei a ordinare nel ’97 gli arresti dei neofascisti veneti (condannati in primo grado all’ergastolo ma poi assolti per insufficienza di prove in appello) per la strage di piazza Fontana, Clementina Forleo appartiene alla generazione «giovane» dei giudici poco più che quarantenni e non ha mai simpatizzato per alcun partito e neppure per una delle correnti organizzate della magistratura. Laureata in giurisprudenza a Bari, ha iniziato la carriera nella polizia e ha lavorato come commissario capo a Milano. Qui, nel ’91, ha passato il concorso in magistratura e da allora fa il giudice delle indagini. Il quasi coetaneo pm Francesco Prete, come lei originario di Francavilla Fontana (da loro definita «la capitale intellettuale della Puglia»), riassume così «la fattispecie»: «Clementina Forleo è una bravissima collega che ha sempre saputo dimostrare la propria effettiva indipendenza rispetto a qualsiasi tentativo di pressione esterna: politica, economica o giudiziaria. Non ha posizioni predefinite: in un caso può sembrare più a sinistra di Bertinotti, in un altro processo più a destra di Rauti. È fatta così: ha carattere e coraggio». Molti altri giudici sottolineano che «gip come Bricchetti e Salvini avevano già applicato lo stesso principio di diritto internazionale che impone di distinguere tra guerriglia e terrorismo. E comunque la sentenza verrà riesaminata in appello». Ma in Procura, dove i pm già studiano l’impugnazione, almeno ieri «la gip Forleo» era indubbiamente molto meno popolare.
«Farsi saltare in aria e uccidere è sempre terrorismo»
P.B. Corriere della Sera - 25/01/2005

MILANO - «E’ andata male». Uscendo dall’aula con la faccia scura, il procuratore aggiunto Armando Spataro non riusciva a nascondere la delusione per la sentenza che ieri ha assolto dall’accusa di terrorismo internazionale i primi imputati di Al Ansar: la più importante inchiesta italiana sul reclutamento di combattenti per la guerra in Iraq e, secondo l’accusa, anche di kamikaze. Nel pomeriggio, ritrovata la calma, Spataro accetta di parlare «solo per difendere le indagini della Digos, che lo stesso giudice ha definito encomiabili». Con una premessa. «Noi rispettiamo la sentenza. Solo che non siamo d’accordo, per cui la impugneremo». Il pm Stefano Dambruoso, che aveva condotto le indagini, contesta al giudice di non aver valutato il peso delle intercettazioni sull’invio in Iraq di terroristi suicidi.
«Il punto è proprio questo: non si possono usare i kamikaze per fare la guerriglia. Mandare un giovane a farsi saltare in aria significa accettare il rischio di fare stragi indiscriminate di militari e di civili. E questo è sicuramente terrorismo».
Per il giudice Forleo, però, non c’è la prova piena dell’invio di kamikaze: agli atti c’è solo una velina incontrollabile di fonti anonime del Sismi.
«Giustamente il giudice ha ritenuto di non attribuire alcun valore probatorio alle fonti d’intelligence e a tutte le notizie non riscontrate. Ma né io né il pm Elio Ramondini le abbiamo mai utilizzate nella requisitoria».
Avevate chiesto fino a 10 anni di prigione, nonostante il rito abbreviato: con che prove?
«L’esempio più chiaro è proprio quell’intercettazione del capo-cellula, il mullah Fouad, che chiedeva ai complici di reclutare in Italia combattenti in grado di "spaccare il ferro" precisando: "Cerca quelli che stavano in Giappone". Per noi è chiaro che parlavano di kamikaze: è una frase in codice, ma è tutt’altro che ambigua. E poi non è detto che siano davvero inutilizzabili le rogatorie della polizia norvegese, cioè le confessioni dei giovani curdo-iracheni che hanno ammesso di aver ricevuto l’ordine di farsi esplodere direttamente dal mullah Krekar, che è l’emiro di Al Ansar».
Il giudice applica i principi del giusto processo: testimoni e coimputati vanno controinterrogati da tutti i difensori, altrimenti le accuse non valgono.
«Ma qui stiamo parlando di detenuti interrogati in Iraq: ho qualche dubbio che siano nulli anche gli interrogatori fatti in Kurdistan secondo la legge norvegese».
Questa sentenza rischia di danneggiare le altre indagini sul terrorismo islamico?
«Il gip Luigi Varanelli ha già condannato un coimputato anche per terrorismo internazionale, altri giudici potranno seguirlo. E per salvare le testimonianze dei kamikaze mancati, potremmo chiedere di sentirli in videoconferenza».
Bisognerebbe allargare il reato di terrorismo internazionale?
«No, bisogna trovare prove ancora più inoppugnabili».

25.1.05

L'INDIGNAZIONE E IL DIRITTO
di GIUSEPPE D´AVANZO


la Repubblica - 25 gennaio 2005


L´INDIGNAZIONE non serve a capire. Può infiammare l´opinione pubblica, forse. Per il resto lascia le cose come sono. Al più le confonde. I sentimenti non servono a capire che cosa e perché è accaduto a Milano dove sono stati prosciolti cinque maghrebini accusati di aver reclutato, alla vigilia dell´attacco americano, combattenti da inviare nel nord dell´Iraq. La decisione del giudice milanese risponde a due questioni ancora aperte, dopo l´11 settembre, dopo la creazione di norme antiterrorismo più adeguate a fronteggiare una minaccia che, rispetto al passato, è non convenzionale e caotica.
Quali sono i comportamenti e le attività che ci permettono di dire che un uomo faccia parte di un´associazione terroristica? È sufficiente che raccolga del denaro o falsifichi un passaporto per poter dire quell´uomo un terrorista? E ancora: che cos´è il terrorismo? È terrorismo quello che insanguina l´Iraq? La decisione di Milano propone una risposta. Parziale. Discutibile. Da discutere comunque, e non da liquidare, soprattutto nel giorno dell´addio a Simone Cola, con lo sdegno di Fini o con il furore demagogico di un Calderoli dallo stomaco debole.
Fossimo negli Stati Uniti, quei dubbi sarebbero fuffa. Come si sa, gli Stati Uniti, obiettivo primo dell´offensiva terroristica, hanno tagliato con la spada il nodo dei problemi regredendo a uno stadio pre-giuridico il concetto di pericolo. Non è più prioritario dimostrare l´inevitabilità e la concretezza del pericolo. È sufficiente che ci sia un sospetto di pericolosità per trasformare chiunque in enemy combatant. Nemico combattente. La formula soffoca il processo full and fair e quel che lo costituisce: presunzione d´innocenza, diritto al contraddittorio e al silenzio. La vera finalità delle procedure americane non è accertare i fatti e definire le responsabilità, in realtà.
I fatti non hanno più alcun rilievo o importanza. Il nemico combattente è una "risorsa", è uno "strumento informativo" utile a colmare il vuoto di "intelligenza" dei governi. «In tutta la storia della penalità moderna - sostengono gli addetti - nessun processo ha avuto meno garanzie». Ma gli americani si considerano "in guerra" e "di guerra" è la loro interpretazione della "legalità" tutta giocata nella logica dei rapporti amico-nemico.
Non siamo però negli Stati Uniti. Siamo in Italia. Anche il nostro Paese, consapevole di dover svolgere la sua parte nella guerra globale al terrorismo, ha adeguato ritoccandole alcune regole per favorire l´iniziativa poliziesco-giudiziaria contro le "cellule" di Al Qaeda impegnate in Italia - come in una retrovia - nel reclutamento, nel finanziamento, nel proselitismo e nella propaganda ideologica. Per dare più spazio e profondità alle indagini e ai processi è nato l´ambiguo reato di "associazione terroristica internazionale" (articolo 270 bis) che ancora cerca una giurisprudenza condivisa. Le interpretazione che finora ne sono state date sono divergenti. È utile qualche esempio. Il giudice delle indagini preliminari di Milano, Renato Bricchetti, il 16 settembre 2003, ha assolto dall´accusa di terrorismo il tunisino Mekki Ben Imed Zarqawi con queste parole: "La prova della sussistenza del delitto associativo di terrorismo internazionale impone la dimostrazione dello scopo terroristico. Esige che venga esternato un proposito serio, preciso, circostanziato di porre in essere atti di violenza determinati, idonei a mettere in pericolo l´incolumità sociale e a diffondere il terrore nella collettività. (?) Né la prova di questo proposito non può desumersi dal coinvolgimento degli imputati nell´attività di contraffazione di documenti perché resta la possibilità che queste attività siano finalizzate a realizzare altri scopi". Per contestare, dunque, l´associazione terroristica internazionale non è sufficiente documentare che un passaporto è falso e lo ha falsificato l´imputato. Bisogna provare che l´imputato lo ha falsificato nella consapevolezza che sarebbe stato utilizzato dall´organizzazione del terrore. Questa interpretazione è stata capovolta due mesi dopo, da un altro giudice. 25 novembre 2003. Guido Salvini ha disposto la cattura di alcuni presunti "kamikaze" di Al Ansar argomentando così: "Per configurare la sussistenza del reato di terrorismo internazionale è sufficiente che una struttura organizzata, costituita anche solo in parte in Italia, si prefigga con mezzi adeguati di eseguire atti di terrorismo anche al di fuori del territorio nazionale. Nel nostro Paese può avvenire quindi solo parte della condotta e, in ipotesi, neanche la più grave, quale il mero supporto logistico degli associati destinati ad agire all´estero".

Siamo all´oggi. Il supporto logistico offerto dallo sceicco Abderrazac ad Ansar al Islam è terrorismo? Clementina Forleo, giudice delle indagini preliminari accetta l´interpretazione più "colpevolista", per dir così, di Salvini. Il giudice non ha dubbi che falsificare un passaporto, proteggere l´immigrazione clandestina dei combattenti, favorire il viaggio di un combattente verso i luoghi del conflitto definisca la partecipazione degli imputati alla lotta armata di quel gruppo. "Gli imputati - scrive Clementina Forleo - avevano come precipuo scopo il finanziamento e, più in generale, il sostegno di strutture di addestramento paramilitare in Medioriente presumibilmente nel nord dell´Iraq". Si chiede, però, il giudice: la battaglia che combatte Ansar al Islam è terrorismo o guerriglia? Che cos´è il terrorismo? Ora si può cadere dalle nuvole, in buona o cattiva fede, ma il problema c´è, è solido, ha molte contraddittorie interpretazioni. Prima dell´11 settembre la definizione universalmente accettata di terrorismo era stata messa insieme dall´Fbi e recitava: "Terrorismo è l´uso illegale della forza e della violenza contro persone o proprietà per intimidire o costringere un governo, la popolazione civile e ogni loro segmento, nel perseguimento di obiettivi politici o sociali".
Con l´attacco alle Torri, questa definizione è apparsa un arnese senza significato. È stata riscritta per creare le premesse alle azioni di contrasto. Oggi la definizione americana più attuale è: "Il terrorismo impiega l´uso calcolato della violenza e della minaccia di violenza per conseguire obiettivi generalmente politici, religiosi e ideologici attraverso l´induzione della paura, l´intimidazione o la coercizione".

Si può stringere in questo confine quel che accade in Iraq? Evidentemente no, si è risposto il giudice di Milano. Che dovendo definire il fatto per decidere delle responsabilità - insomma per fare il suo mestiere - ha guardato in alto alla definizione di terrorismo offerta dalla convenzione delle Nazioni Unite. C´è chi può dire che è stata una mossa avventata? L´Onu scava un discrimine tra il terrorismo e la guerriglia a partire dalla violenza e la morte indiscriminata della popolazione civile. "Le attività violente di guerriglia in contesti bellici - conclude infatti il giudice - sono diverse da quelle di tipo terroristico, dirette a seminare terrore indiscriminato verso la popolazione civile in nome di un credo ideologico e/o religioso, ponendosi dunque come delitti contro l´umanità". Se si combatte non contro civili inermi - come a New Yok l´11 settembre - ma contro truppe armate, eserciti, addirittura coalizione di eserciti e soprattutto con armi infinitamente meno potenti e distruttive, appare al giudice che quella lotta non può definirsi terrorismo, ma guerriglia.
Si può credere che non tocchi a un giudice definire la qualità o il significato di quel che accade in Iraq, ma gli si deve concedere che lo ha fatto per fare il suo lavoro appellandosi alle convenzioni internazionali. Quasi una scelta obbligata. A chi doveva appellarsi, altrimenti? Al dibattito politico? Alla nozione attuale di "legalità" del Patriot Act? Può non piacere, ma non servono anatemi e scomuniche. Occorre buon senso, testa fredda, disponibilità al dialogo per affrontare quel che accadrà in Iraq e saperlo guardare, valutare, comprendere. L´ipocrisia della "missione di pace" ha fatto il suo tempo. Come prima delle ragionevoli parole di un giudice, ci ricorda il destino di Simone Cola.
KAMIKAZE LIBERO
di PIERO OSTELLINO

Corriere della Sera - 25 gennaio 2005

Nell' Esprit des lois, Montesquieu scrive che ci sono quattro specie di delitti, una delle quali, la quarta, è contro la sicurezza dei cittadini. Aggiunge Montesquieu che «le pene inflitte devono derivare dalla natura di ciascuna di queste specie». Non sembra proprio che il magistrato milanese che ha condannato per reati minori - fra i quali il traffico di documenti falsi - tre nordafricani, accusati di aver reclutato e mandato kamikaze in Iraq, e sospettati di aver preparato attentati in Europa, e che ha inviato alla Procura di Brescia la posizione di altri due, sia una gran lettrice. Non solo di Montesquieu, il che non sarebbe grave, ma, quel che è peggio, neppure delle più recenti normative di diritto internazionale. Nelle motivazioni della sentenza, il magistrato - ignorando palesemente la risoluzione dell’Onu 1511 del 16 ottobre 2003, che legittima la presenza della coalizione militare internazionale a garanzia della sicurezza del Paese - ritiene, infatti, che inviare combattenti e aiuti economici in Iraq non configuri il reato di terrorismo internazionale, in quanto una cosa sarebbero gli attentati alle truppe di occupazione, che rientrerebbero nella fattispecie della guerriglia, un'altra quelli contro civili che cadrebbero, invece, in quella di terrorismo.
Ciò che lascia francamente esterrefatti e scandalizzati è, dunque, oltre all'ignoranza della situazione irachena e del diritto internazionale, il carattere esplicitamente politico che finisce con assumere la sentenza, in perfetta sintonia con l'estremismo di chi continua a definire «resistenti» i terroristi iracheni. Il fatto, poi, che il magistrato dichiari di non aver voluto, con ciò, legittimare anche l'attentato di Nassiriya ai nostri militari, perché quella italiana è una «missione di pace», mentre quella del resto della coalizione non lo sarebbe - con l’assurdo corollario che ammazzare gli americani o gli inglesi non sarebbe un crimine, ma un'azione di guerra - non ne attenua, bensì ne aggrava la posizione. A conferma della confusione concettuale che sembra aver presieduto alla singolare sentenza.
Meno grave, in questo contesto, appare, invece, la parte della motivazione in cui si dice che non risulterebbe provato che gli imputati stessero preparando attentati anche in Europa. Qui, siamo sul terreno - dice ancora la sentenza - «riferibile alle più svariate fonti di intelligence» che non fanno testo sotto il profilo del diritto penale. L'assenza di strumenti legislativi, o quanto meno giurisprudenziali, e la conseguente difficoltà di accertare reati che sono oggetto di indagini da parte dei servizi di sicurezza, anche se non giustifica, quanto meno attenua le responsabilità del magistrato, chiamando a rispondere del caso le forze politiche. Sono note le riserve che la legislazione antiterroristica americana (il Patriot Act ) ha sollevato, anche negli Usa, in tema di tutela dei diritti civili. Ma che qualcosa si debba fare anche da noi, la sentenza di Milano lo prova con tutta evidenza.
postellino@corriere.it
Piero Ostellino
Dopo Wojtyla un musulmano?
"Satira preventiva" di Michele Serra

Ratzinger sostenuto dagli ambienti finanziari e dalle Kessler. Gutierrez conta sull'appoggio di Minà. Ecco le alleanze attorno ai possibili successori di Giovanni Paolo II

Cominciano a trapelare da Oltretevere le prime indiscrezioni sul successore di Giovanni Paolo II. Il problema principale, in questo momento, è spiegare a Karol Wojtyla che, quando sarà il momento, non potrà ricandidarsi per un secondo mandato. Nel frattempo si perfezionano le alleanze attorno ai principali papabili.

Joseph Ratzinger Sarebbe il primo papa tedesco dal Medioevo. Negli ultimi sette secoli non è stato possibile eleggerne un altro a causa dell'alimentazione pesante, che avrebbe causato problemi durante le udienze. I suoi detrattori hanno diffuso la voce che, se eletto, intenderebbe chiamarsi Rapunzel I e spostare il papato a Colonia dove vive la sua anziana sorella. Raffinato intellettuale e uomo spiritoso (ha tradotto Trilussa in tedesco, omettendo tutte le parolacce), è difensore intransigente della dottrina cattolica, ma sostiene l'importanza del dialogo con le altre confessioni, purché parlino solo se interrogate. Recentemente, ha favorevolmente impressionato le femministe italiane con una dotta confutazione del precetto "chi dice donna dice danno". Gode dell'appoggio dell'Opus Dei, degli ambienti finanziari e delle gemelle Kessler.

Giacomo Biffi Potrebbe essere la carta a sorpresa dei tradizionalisti. L'ex cardinale di Bologna è un sostenitore appassionato dell'ortodossia e ha già fatto sapere che, se sarà eletto, indosserà la tiara anche sotto la doccia. È favorevole alla scomunica degli atei e delle donne nude. Tra le riforme che ha in mente, la trasformazione delle guardie svizzere in un corpo d'assalto e il rafforzamento del battesimo, da ripetere verso i due anni di età come il richiamo dell'antipolio. In memoria dei primi martiri della cristianità, prenderebbe il nome di papa Ben Hur I. Ha l'appoggio dell'Opus Dei, di Gianni Baget Bozzo e della Beretta.

Joao Gutierrez Vescovo del Guatemala, ultimo seguace della teologia della liberazione, propone l'abolizione della proprietà privata e l'esproprio dei latifondi. Conta sull'appoggio del sindacato dei tagliatori di corteccia e di Gianni Minà. La sua elezione è molto improbabile perché è in carcere da 23 anni.

Ho Huang Chao Presule delle zone interne della Manciuria, è il principale esponente del cattolicesimo asiatico. Ma vivendo molto isolato, non lo sa. Sulla sua elezione contano i sostenitori della nuova evangelizzazione, disposti a portare il messaggio cristiano anche nei luoghi più impraticabili e distanti dalla fede, come la Cina comunista, i disco-pub di Marina di Ravenna e casa Tronchetti Provera. Fortemente ostile alla sua elezione l'ala tradizionalista, che ha messo in giro la diceria secondo la quale un eventuale papa cinese sostituirebbe l'ostia con gli involtini primavera. Gli è d'ostacolo la lingua: parla solo cinese e scrive qualche parola in latino, ma con gli ideogrammi. Una delegazione vaticana, che lo ha incontrato di recente, ha scambiato il suo messale per un catalogo di tatuaggi autoadesivi. Ha l'appoggio dell'Opus Dei, sezione di Chinatown. In caso di elezione, il problema principale sarebbe riuscire ad avvertirlo.

Charles O' Connor Uomo di punta del cattolicesimo americano, è vescovo di Chattanooga ed è diventato famosissimo perché è riuscito a raccogliere in un'agenda il numero di telefono esatto di tutte le chiese e le sette cristiane degli Stati Uniti. Gioca anche bene a scacchi. Non gli si conoscono altri meriti, ma ha l'appoggio dell'Opus Dei.

Abdul Fakir Vescovo di Antiochia, è l'uomo di punta del dialogo interreligioso. Ha pregato ad Assisi con musulmani, ortodossi, ebrei e buddisti, è buon amico del Dalai Lama e conosce a menadito i riti animisti del Centrafrica, il wudu dei Caraibi e le litanie funebri dei lapponi. Sarebbe il papa ideale per il mondo globalizzato, l'unico problema è che, nel corso dei suoi viaggi, è diventato musulmano. Per perorare la sua causa e chiarire le incomprensioni, la moglie si è recata spesso in Vaticano assicurando che il vescovo Fakir è un ottimo padre per i suoi figli, e dunque può esserlo anche per i cattolici di tutto il mondo. La sua elezione pare però improbabile, nonostante l'appoggio dell'Opus Dei.
Un eroe di troppo
"Contrordine" di Alessandro Robecchi

Il ventesimo eroe italiano della pace in Iraq, mitragliere che mitragliava dall'alto, è morto mitragliato da terra, proprio come se fossimo in guerra. Inevitabile per (quasi) tutti i media l'uso della parola «eroe». Giusto il cordoglio e giusto il dolore: il ventesimo eroe italiano della pace in Iraq lascia una figlia di cinque mesi, che certo sarebbe stato più eroico veder crescere, andare a scuola, affrontare le mille difficoltà della vita. Si dice (ma l'ho letto soltanto su questo giornale) che non ci volesse andare, in Iraq, che l'avesse sfangata un paio di volte e che poi non abbia potuto evitarlo. E' sicuro, invece, che volasse su una carretta poco adatta e non corazzata, datosi che gli elicotteri corazzati non li mandiamo laggiù in Iraq, essendo armi da guerra ed essendo noialtri laggiù a far la pace. Comma 22. Un anno fa alcuni elicotteristi italiani si permisero di far notare che non c'erano le condizioni di sicurezza nelle missioni, nessuna certezza di non morire mitragliati dal basso mentre si vola, e si rifiutarono di volare. Furono presi a pesci in faccia, sbertucciati, sgridati di brutto e trattati come codardi. Non erano eroi. Pussa via, femminucce.

La parola eroe, sparsa ieri dai molti neo-cogl di casa nostra a piene mani tra le pieghe di un cordoglio che suona falso lontano un chilometro, non è però del tutto fuori luogo. Un uomo giovane mandato a combattere una guerra sbagliata e illegale che abbiamo chiamato missione di pace per puro paraculismo, senza nemmeno gli strumenti tecnici più sicuri per farlo, può ben essere un eroe. Uno che lavorava in mezzo alle ovvie menzogne della guerra, quelle che ci dicono quanto siamo amati laggiù, quanto a Nassiriya va tutto bene, quanto siamo umanitari. Uno che si muoveva in una realtà difficile, dove tu spari addosso alla gente e la gente spara addosso a te, circondato da una fiction ufficiale fatta di belle parole, inni, pacche sulle spalle, discorsi su libertà e democrazia, nazionalismo e maschia voglia di menar le mani, ma - si capisce - solo perché Saddam era tanto cattivo, anche se non aveva armi di distruzione di massa.

Non è una cosa facile passare al setaccio la retorica del momento, distinguere nel lutto e nel dolore le frasi di circostanza dalla sostanza vera. Lo faceva per passione. No, per aiutare i bambini (di cui incidentalmente, però, mitragliava i padri). No, per senso del dovere. No (Salvatore Scarpino su Il Giornale) «per distribuire caramelle senza allentare la vigilanza». Si può scegliere fior da fiore, ma sempre si nota l'imbarazzo e il disagio dei sostenitori della guerra, gli stessi che la chiamano pace, gli stessi che sono costretti a chiamare eroi i caduti da loro stessi mandati a cadere. Eroi che vengono celebrati da fiumi limacciosi di retorica e sommersi da messaggi ufficiali, ma che dopo un po' sono ingombranti, ricordano a tutti che sono stati mandati a fare una cosa sbagliata e per di più con mezzi inadeguati, la versione moderna delle vecchie scarpe di cartone con cui si mandarono altri giovani a diventare eroi sul Don e sulla Drina. Avere un eroe può far piacere - fidelizza l'utente, come dicono quelli del marketing, e la guerra ha il suo - ma prima o poi si diffonderà l'idea che era meglio non averlo, che si poteva non averlo, che con qualche accortezza (politica o militare) si poteva avere un eroe in meno e un marito, un padre in più.

Per questo il ventesimo eroe italiano della nostra benemerita pace con l'Iraq sarà celebrato con tutti gli onori e poi frettolosamente dimenticato, archiviato come «casualità», o come incidente nel luminoso percorso della consegna porta a porta della democrazia in Iraq. Secondo le carte dell'inchiesta, sarà soltanto stato vittima di «attentato con finalità di terrorismo», che è un altro bell'esercizio di paraculismo per evitare di dire che stiamo facendo la guerra. Mitraglia alla mano, sorvoli un territorio che hai invaso, ma se per caso ti sparano sono soltanto terroristi. Non è una novità che si neghi agli iracheni la patente di combattenti. Ma è un chiaro effetto collaterale che se quelli non sono combattenti (soltanto terroristi), l'eroe è un po' meno eroe. Ecco che già nelle pratiche della burocrazia e nelle carte bollate la parola eroe trascolora, perde forza, si squaglia un po'. Tra pochi giorni anche i neo-cogl la useranno con più pudore: celebrare troppi eroi fa male alla guerra, è cattiva pubblicità, meglio scordarseli presto e, soprattutto, scaricarseli dalla coscienza. Quelli che oggi usano con tanto ardore la parola eroe sono quelli che l'eroe l'hanno mandato là, usandolo da vivo e poi pure da morto. Grande cordoglio. Ma l'eroe meglio scordarlo in fretta.

23.1.05

Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale
(www.cicap.it)

Ormai siamo agli sgoccioli. Nelle poche ore che ci separano dal 2005, infatti, Osama Bin Laden dovrebbe morire per una malattia ai reni, e se ne dovrebbero andare (assassinati o meno) anche Saddam Hussein, Fidel Castro e il Papa; inoltre, dovrebbe finalmente arrivare la ripresa economica in Italia e dovrebbe venire catturato un dinosauro vivo!
O, almeno, questo è quello che i più famosi astrologi e veggenti del mondo prevedevano all'inizio del 2004 per il nuovo anno. "Le alternative sono due" dice Massimo Polidoro, Segretario nazionale del CICAP, "o i giornali usciranno nei prossimi giorni con enormi supplementi per stare dietro alla quantità di eventi che ci aspetta, oppure avremo l'ennesima conferma che gli astrologi hanno fatto fiasco un'altra volta".
***
Da oltre 10 anni, infatti, il CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale)* tiene sotto monitoraggio il lavoro di chi sostiene di potere prevedere il futuro. A tutt'oggi, però, nessuno ha ancora dimostrato di possedere realmente questa capacità. E le previsioni per il 2004 lo dimostrano.
Per l'astrologa Maria Carla Canta, per esempio, il conflitto iracheno si sarebbe chiuso entro l'anno (mentre è tutt'ora in corso). Per l'astrologo "Jupiter" le elezioni europee le avrebbe vinte il centro-destra (mentre le ha vinte il centro-sinistra), negli Stati Uniti, Bush sarebbe stato sconfitto da Hillary Clinton (Bush ha vinto e Hillary Clinton non si è nemmeno candidata) ed entro l'anno avremmo avuto la certezza della morte di Bin Laden (non risulta). Per il "Mago Johnny" il Papa sarebbe morto e la sua successione avrebbe scatenato "uno scandalo, nuove rivelazioni, sgomento e paura. Il Vaticano e il Clero saranno nell'occhio del ciclone" (non è successo niente del genere). Secondo la comunità astrologica di Oroscopofree, poi, la ripresa economica in Italia sarebbe stata evidente, con la riduzione dell'inflazione e una crescita degli investimenti in Borsa (la ripresa ancora non è arrivata).
Di gran lunga più cauto e generico Barbanera, secondo cui "grandi vecchi" avrebbero messo la propria saggezza ed esperienza a disposizione della società, una cerimonia di nozze "tra teste coronate o personaggi famosi" avrebbe attirato l'attenzione, ci sarebbero state polemiche e confronti tra il presidente del consiglio sia con esponenti politici che con i sindacati, e avremmo visto un'estate calda e un inverno freddo… Sebbene questo tipo di previsioni potrebbe farle chiunque, Barbanera aveva anche lui azzardato l'arrivo della ripresa economica e, addirittura, una concordia tra partiti di governo e opposizione "mai vista prima". E, infatti, non si è vista nemmeno questa volta.
Ben più originali e arrischiate (anche se totalmente sbagliate) le previsioni dei veggenti e degli astrologi americani. Secondo i gemelli Terry e Linda Jamison, per esempio, Saddam Hussein sarebbe stato ucciso dall'esercito americano all'inizio dell'anno: la sua cattura, invece, non era stata prevista da nessuno. Sempre loro, poi, avevano previsto la morte del Papa in giugno.
Il sensitivo Anthony Carr prevedeva che sarebbe stata portata a termine la prima gravidanza maschile, Osama Bin Laden sarebbe stato catturato e portato a New York vivo o morto e un terremoto avrebbe distrutto Hollywood. Per la veggente Martha Henstridge il Segretario di stato Colin Powell sarebbe passato con i Democratici ed entro l'anno sarebbe stato brevettato un congegno che avrebbe permesso di vincere la forza di gravità. Niente di tutto ciò si è verificato.
"Dunque, non solo veggenti, astrologi e sensitivi hanno di nuovo sbagliato le loro previsioni" commenta Polidoro "ma, come sempre, non hanno visto nessuno degli eventi davvero importanti dell'anno. Nessuno, per esempio, ha previsto i terribili attacchi terroristici in Spagna e nella scuola di Beslan in Ossezia, la morte del leader palestinese Arafat o le torture sui prigionieri in Iraq. Proprio come in passato nessuno aveva previsto gli attacchi dell'11 settembre o la tragica fine di Lady Diana, sulla quale ogni anno si sprecavano le previsioni astrologiche".
"Del resto, l'astrologia non è una scienza" spiega Stefano Bagnasco, fisico dell'INFN, Università di Torino, e coordinatore per il CICAP del Gruppo di studio sull'astrologia. "Sono state fatte decine di verifiche sperimentali sull'astrologia e tutte hanno sempre dato esito negativo: non solo l'astrologia non serve per prevedere eventi futuri, ma non permette nemmeno di descrivere il carattere di una persona, come invece molti sarebbero portati a credere".
Bagnasco ha anche curato per il sito del CICAP uno documentatissimo speciale sull'astrologia (www.cicap.org/astrologia) dove questa disciplina viene analizzata da più parti.
Ma possibile che non si trovi un astrologo davvero bravo? "Il CICAP è sempre desideroso di poter tentare nuove sperimentazioni" concludono Bagnasco e Polidoro, "sarebbe per tutti noi una grande soddisfazione trovare qualcosa di interessante! Purtroppo, dopo i primi risultati negativi è sempre più difficile trovare astrologi disposti a collaborare a una sperimentazione adeguatamente controllata; saremo perciò ben lieti di prendere in considerazione proposte in questo senso. Ricordiamo, infatti, che è anche possibile fare domanda per concorrere al Premio Randi: un milione di dollari in palio per chi riuscirà a dimostrare di poter fare previsioni serie e controllabili del futuro".
A giudicare dalle previsioni per il 2005, che stanno già comparendo sui giornali americani, però, il Premio Randi non sembra correre grandi rischi. Secondo i veggenti statunitensi, infatti, nel nuovo anno ci sarà un omicidio a bordo dello Shuttle diretto verso Marte, Osama Bin Laden sarà colpito da una cometa e il ritrovamento di un manoscritto inedito di San Paolo rivelerà che mangiare con una forchetta è peccato…

21.1.05

Totò alla prova del cuoco
di Marco Travaglio (L'Unità del 20 Gennaio 2005)

Mentre il centrosinistra s'interroga astutamente sul concetto di «riformista» e di «estremista», alla ricerca di «moderati» in grado di stare al passo con quel campione di moderazione che è Berlusconi (infatti parla ora come il senatore McCarty, ora come i volantini delle Br) e di non spaventare gli elettori «di centro», Tg3 Primo Piano manda in onda uno dei simboli del «moderatismo» italiota: Totò Cuffaro, il tondeggiante democristiano che i bambini non li mangia ma li bacia, il burroso governatore dell'Udc che molti spiritosi considerano «la parte migliore del Polo».
Bisogna essere grati a Giuliano Giubilei per averci mostrato il governatore di Sicilia in tutto il suo adiposo splendore. Perché chi pensava che peggio di Schifani non si potesse essere, dopo aver visto Cuffaro si è convinto che sì, si può. Qualcuno, alla vista di cotale spettacolo, è persino riuscito a capire perché il cuffariano Casini sentì l'impellente bisogno di telefonare a Dell'Utri e poi di farlo sapere alla nazione e soprattutto ai giudici appena riuniti nin camera di consiglio, nella speranza che ascoltassero il suo, di consiglio.
Due ore prima che Totò Baciabacia si affacciasse al teleschermo, all'evidenza troppo stretto, Blob aveva riproposto una sua spettacolare performance giovanile al Maurizio Costanzo Show: doveva essere il 1991, si parlava di mafia e se ne parlava male, la qual cosa offese il piccolo Totò, che insorse in diretta, magnificando come il meglio che c'era in giro un politico come Calogero Mannino (il suo spirito-guida) e sostenendo la tesi già cara ai sindaci di Palermo degli anni '50, '60 e '70: e cioè che parlare di mafia significa infangare il buon nome della Sicilia. Costanzo tentava di sdrammatizzare chiamandolo «Puffaro», mentre Giovanni Falcone, in studio, scuoteva il capo sconsolato. Doveva essergli tornato in mente qualche analogo discorso dei sindaci Lima, Ciancimino, o Castellucci (quello che nella seconda guerra di mafia, mentre per le strade di Palermo scorreva il sangue con tre o quattro morti ammazzati al giorno, rispondeva infastidito ai giornalisti che gli omicidi sono un fenomeno nazionale).
L'altroieri è andato in onda il Cuffaro di oggi, tredici anni dopo: pesa qualche chilo in meno (dopo la dieta imposta dall'amato Cavaliere), ma dice le stesse sconcezze con la stessa levità dei putti svolazzanti sui presepi barocchi, e riesce pure miracolosamente a passare per un «moderato». A controbattergli in collegamento da Bruxelles, al posto di Falcone, c'era Claudio Fava, eurodeputato dei Ds, spesso contestato nel suo stesso partito in Sicilia perché troppo «estremista» e «giustizialista».
Chi l'ha visto accanto a Fava ha subito capito che il moderato è Fava e l'estremista Cuffaro, uno che fa discorsi eversivi infischiandosene della libertà di stampa, delle leggi e del comune senso del pudore (vedi rinvio a giudizio per favoreggiamento alla mafia, per comportamenti gravissimi che in tempi meno generosi si sarebbero chiamati concorso esterno in associazione mafiosa).
Totò urlava che non si può parlare impunemente di mafia in tv senza parlare anche delle bellezze dell'isola, come ha osato fare Report senza il suo permesso (ma ora la Rai riparerà con una puntata di Punto a Capo, e magari anche con uno speciale della Prova del Cuoco sulla cassata, il cannolo e la caponata). Perché così «si offende la Sicilia onesta e i morti ammazzati dalla mafia»: parola di uno che candidava uomini del boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro e lo avvertiva delle intercettazioni a suo carico.
Fava, pacatamente, gli rammentava il suo processo per mafia, ricordando che Brancaccio è il quartiere di Palermo in cui gli amici del boss amico di Totò uccisero don Giuseppe Puglisi. Ma Baciabacia, con la bava alla bocca, seguitava a scalmanarsi, invitando il calmissimo Fava a «calmarsi» e accusandolo di «vedere mafia dappertutto»: in effetti a Fava, anziché votarlo e farlo votare, la mafia ha ammazzato il padre. Di qui quella fastidiosa deformazione che lo porta a scrivere e a parlare spesso di mafia, e di considerarla non una chance, ma un pericolo.
Solo quando Fava accennava al suo processo, Totò ritrovava una olimpica serenità dicendo che lui ha la massima fiducia nei magistrati, come se la cosa non lo riguardasse (in effetti, come dargli torto? le accuse di concorso esterno e di rivelazione di segreti sono già cadute, e qualcosa gli dice che le cose andranno anche meglio in futuro). «Ho già detto che al processo parteciperò», assicurava, come se fosse uno spettatore, e non l'imputato principale.
Poi magnificava un fantomatico, prodigioso aumento del Pil siciliano del 1.8% nel 2004, mentre Fava citava un organo eversivo come la Banca d'Italia di Palermo per dimostrare che l'aumento è stato dello 0.4%. E appena Fava mostrava con dati oggettivi lo strapotere di Cosa Nostra nella Sicilia di Cuffaro, Totò gli urlacchiava addosso: «Parla, parla pure, tanto quando parli tu noi guadagniamo voti».
Quelli della mafia, sicuramente. Ecco: se la mafia ti ammazza il padre, sei un estremista; invece chiedere o prendere voti da Cosa Nostra fa molto moderato. Si porta su tutto.
Facce da Bondi
di Marco Travaglio (L'Unità del 19 Gennaio 2005)

Allo speciale concorso «Facce da Bondi», aperto in permanenza da quattro anni, si sono aggiunte nelle ultime ore nuove, prestigiose candidature. La prima è quella dello stesso James Bondi, che dà il titolo alla rassegna.
L'altra sera, nell'ansia quotidiana di compiacere il padrone, il popolare Pallore Gonfiato dichiarava con aria compunta ai tg: «Ormai, in Italia, tutte le opposizioni sono raccolte sotto le insegne del comunismo. Silvio Berlusconi (sospiro, ndr) ha detto ciò che tutti sanno: ovunque hanno governato, i comunisti hanno portato terrore, miseria e morte».
Un'autoaccusa impietosa, visto che fra quei comunisti che governavano c'era pure un certo Sandro Bondi, sindaco di Fivizzano iscritto ed eletto nel Pci. Lui ci provava, poverino, a esportare la miseria, il terrore e la morte in Alta Lunigiana. Ma appena lo vedeva passare, la gente - chissà perché - si scompisciava dalle risate. Ora, dopo la sua, si attendono altre adesioni alla lucida analisi di Silvio Berlusconi.
Giuliano Ferrara potrebbe raccontare sul Foglio o su Panorama come fu che, fanciullo nella Mosca sovietica, riuscì a scampare alla miseria mettendo pure su qualche chiletto. Renzo Foa potrebbe spiegare sul Giornale come mai all'Unità ricordano ancora con terrore le tirature della sua direzione.
Quanto al capitolo «morte», Ferdinando Adornato potrebbe rievocare, sul Giornale o su Liberal o in Parlamento, i bei tempi in cui mangiava bambini al giornale della Fgci. Poi magari, se resta tempo, si potrebbe interpellare l'amico Putin per una consulenza.
Ma quando James sembrava avere il «Faccia da Bondi» in tasca, ecco inserirsi autorevolmente Peppino Gargani, responsabile giustizia (si fa per dire) di Forza Italia. Ce l'ha con quel comunista del cardinale Ruini, che ha osato criticare la legge Salvapreviti senza dirgli niente. Sua Eminenza ha «il sospetto che il provvedimento abbia di mira situazioni di singole persone». E come ha potuto sfiorarlo un simile pensiero? «Sono un cattolico da sempre - ribatte Gargani - e sono sinceramente sorpreso. Un cattolico del livello di Ruini non può attaccare in questo modo disposizioni limpide, inattaccabili, europee come queste». Già, come può? Quelle - aggiunge il giureconsulto irpino - «sono norme di assoluta garanzia per i cittadini. Norme erga omnes, che riguardano tutti, anche lui». Ecco, casomai al cardinale Ruini dovesse capitare inavvertitamente di corrompere uno o più giudici su conti svizzeri, com'è accaduto a Berlusconi e Previti, potrebbe approfittarne. Dunque «c'è mancanza di carità cristiana in un attacco come questo. Ruini ha commesso un peccato veniale, ma pur sempre un peccato». E i peccati, a differenza dei reati, non si prescrivono. Salvo emendamenti.
Nel simpatico testa a testa fra James e Peppino s'inseriscono però altre facce da Bondi da competizione. Il governatore di Sicilia Totò Cuffaro, i ministri La Loggia e Giovanardi e il senatore Schifani (con rispetto parlando) protestano per il Report di Maria Grazia Mazzola sulla mafia. E ottengono dal direttore di Rai2 Massimo Ferrario (altra faccia da Bondi, reduce da un duro scontro con Molière) una «trasmissione riparatrice». Una puntata di Punto a Capo con la formidabile coppia Masotti-Vergara, che per fortuna non vedrà nessuno. Qui, riconosciamolo, siamo oltre il genio. Siamo al sublime. Alla vigilia del processo che lo vede imputato per favoreggiamento alla mafia, il governatore Totò partecipa all'inaugurazione dell'anno giudiziario nei panni - si presume - del fornitore. Poi chiede alla Rai di «riparare» a un programma sulla mafia che «offende il buon nome dell'isola» con un altro che «mostri la Sicilia perbene». Il che, fra l'altro, escluderebbe la presenza di Cuffaro. Il direttore generale della Rai Flavio Cattaneo benedice l'operazione, spiegando che «la nostra azienda è come l'agorà greca, tutti hanno diritto di alzarsi e parlare». Eccettuati, si capisce, Biagi, Santoro, Luttazzi, Sabina Guzzanti, Rossi, Hendel, Massimo Fini, Oliviero Beha, Carlo Freccero e gli altri destinatari dell'ostrakos greco.
«I direttori - ammonisce Cattaneo, uomo dal cognome francamente eccessivo - sanno che devono essere rappresentate tutte le posizioni». Chiarissimo. Si fa un programma contro la mafia? Bene, la settimana dopo se ne fa uno favorevole alla mafia. Si parla di Falcone e Borsellino? L'indomani si dà la parola a Riina e Bagarella. Ma poi, perchè limitarsi alla Sicilia? Si parla tanto di camorra, con gravi danni all'immagine dei quartieri di Scampia e Secondigliano: vogliamo dare un po' di spazio alle posizioni dei camorristi,in ossequio al contraddittorio?
Sono gli ultimi ritrovati del cerchiobottismo scambiato per pluralismo. Uno speciale sul caso Moro? Immediata intervista riparatoria a Mario Moretti. Sessantesimo anniversario della Liberazione? E vai col sessantesimo anniversario dell'ingiusta fine di Hitler, che è pure una vittima del comunismo. Inchiesta sul mostro di Firenze? Controinchiesta sulle delizie enogastronomiche del Chianti. Ennesima puntatona sul delitto di Cogne? Per non offendere il buon nome della Val d'Aosta, si dedicano un paio d'ore alla mocetta di camoscio e alla toma di malga. Che, fra l'altro, ricorda vagamente Sandro Bondi.
Affermarsi alle primarie e perdere le elezioni - La democrazia dei militanti
di GIOVANNI SARTORI (Corriere della Sera, 19 gennaio 2005)

Romano Prodi ospite di Porta a porta (Liverani) Magnifico, magnifico! Finalmente arriva in Italia, o quantomeno in Puglia, la vera democrazia, «l’esercizio democratico di dare voce al popolo» (Bertinotti). Inoltre, sorpresa, sorpresa! Infatti ha vinto Vendola, candidato di Rifondazione, contro Boccia, candidato della Margherita. «Io ho sempre saputo che l’idea di un pirata era quella vincente; e il pirata ha vinto, ha affondato la nave del vecchio sistema di potere» (ancora Bertinotti). Anche Prodi esulta: «E’ stato un grandissimo esempio di democrazia». Perché, secondo i prodiani, in Puglia hanno perso i partiti, ha vinto lo spirito dell’Ulivo.

Trascinato dallo stesso entusiasmo anche il bravissimo amico Paolo Franchi commenta che Prodi «è stato lucido» nel considerare Bertinotti il suo interlocutore privilegiato. Io, invece, in tutto questo peaneggiare non vedo nessuna lucidità. Allora, e per cominciare, vittoria della democrazia? Facciamo qualche conto. L’affluenza è stata dichiarata un boom. In realtà gli 81 mila «primaristi» che hanno votato costituiscono meno del 10 per cento dell’elettorato di centrosinistra che ha votato in Puglia alle ultime elezioni europee. E siccome il voto si è diviso pressoché a metà (la differenza è stata di mille voti), Vendola è stato designato da un 5%, che poi si riduce a un 2% di chi ha diritto al voto (in Puglia sono 3.500.000). Ai bei tempi di Stalin, la sua democrazia richiedeva il 99%. Oggi Bertinotti si contenta del 5-2%. Lui sì, e anche Prodi sì; ma io no. E quando Vendola dichiara che «questo voto... segna l’esplosione della democrazia» direi che esagera alla grande.

Veniamo alla sorpresa. Se Bertinotti ha sempre saputo che l’idea del pirata era vincente, io ho sempre saputo (dalla letteratura sull’argomento) che il pirata non c’entra e che alle primarie partecipano e vincono quasi sempre i militanti, i più ideologizzati, gli attivisti, e cioè i «sinistri» della sinistra e, simmetricamente, i «destri» della destra. E questo perché gli elettori «tranquilli» disertano le primarie e detestano il voto continuo. Gli elettori tranquilli, sia di sinistra che di destra, votano, quando votano, alle elezioni vere, non alle elezioni preliminari.

Dunque, per chi si intende di queste cose la vittoria di Vendola non è una sorpresa. La sorpresa sarebbe se Vendola vincesse la Puglia. In questi casi (da non confondere con le primarie sulla presidenza degli Stati Uniti, un discorso da fare a parte) la regola è che chi vince le primarie perde le elezioni. E’ così - ripeto - perché gli «intensi», i militanti, sono sempre più a sinistra, o più a destra, del loro elettorato di riferimento. Dal che consegue che al loro elettorato la loro scelta non piace. Sbaglierò, ma la scelta di Vendola faciliterà la vittoria di Fitto. E, in generale, ha ragione Diliberto (cossuttiano): «Prodi e Fassino riflettano, le primarie rischiano di non rappresentare i reali rapporti di forza dell’elettorato». Appunto.

Inoltre, nessuno si è ancora soffermato sul problema posto dalle primarie «aperte», e cioè aperte a tutti. In Puglia si è chiesto ai primaristi di sottoscrivere con firma leggibile la loro adesione al «progetto politico della Grande Alleanza». Ma questa è una protezione risibile. A parte il fatto che il progetto è ancora nelle nuvole, chi mi impedisce di mentire o comunque di cambiar parere il giorno dopo? Se io fossi Fitto avrei spedito i miei fedeli a votare per Vendola. Fitto non lo ha fatto (non credo a chi denunzia dei brogli). Però, fatta la legge trovato l’inganno. Succederà, o può sempre succedere. Mettete la faccenda in mano a un Cuffaro (tanto per fare un nome) e ne vedremo di belle.
Sì, temo che con le primarie ne vedremo in ogni caso di belle.

19.1.05

Le tre scimmiette (più una)
di Marco Travaglio (L'Unità del 15 Gennaio 2005)

Che si direbbe se la Rai mandasse in onda un nuovo telequiz dal titolo: «La stella a cinque punte»? Che si è deciso di riabilitare le Brigate rosse. E se trasmettesse un giochino intitolato «La croce uncinata»? Che s'è deciso di sdoganare il nazismo. Ecco, invece nessuno ha detto niente di fronte al titolo del nuovo quizzetto di Simona Ventura, intitolato «Le tre scimmiette», quelle che non vedono, non sentono e non parlano. Possibile che nessuno sappia che le tre scimmiette sono il simbolo della mafia, cioè dell'omertà che le garantisce lunga vita da oltre un secolo? Possibile. Anzi, sicuro. In una Rai che censura Paolo Rossi perché minaccia di leggere un discorso di Pericle, pericoloso girotondino ateniese, o perché manda in scena Molière, temibile esponente del giacobinismo parigino, è normale che si ignori la storia di Cosa Nostra. È bene che questi ignorantoni sappiano che Stefano Bontate, «principe di Villagrazia», boss dei boss fino al 1981, teneva sul comodino da notte una statuina d'oro raffigurante proprio le tre scimmiette. Mentre «Toti», il leggendario barman dell'Hotel Des Palmes, ne conservava gelosamente sotto il bancone un esemplare d'argento. Anche questo è un segno dei tempi, e nemmeno il peggiore, se si pensa al «convivere con la mafia» del ministro Nullardi, o allo spot di una nota casa automobilistica francese, che scherza amabilmente su un gruppo di picciotti che stanno per murare un compare in un pilone di cemento armato. O se si pensa che lo scorso anno la stessa Rai affidò il Festival di Sanremo a un tizio, Tony Renis, che si vantava delle sue amicizie mafiose, ed ebbe ospite Adriano cementano, che non trovò di meglio che difenderlo dal palco dicendo: «In fondo, chi di noi non ha avuto un amico mafioso?». È quel che dice sempre Marcello Dell'Utri, inspiegabilmente trascurato da Viale Mazzini come possibile presentatore delle «Tre scimmiette».
Falcone e Borsellino, per fare un esempio, non avevano amici mafiosi. Li avessero avuti, magari quest'anno dirigerebbero il Festival di Sanremo. O forse, chissà, sarebbero ministri o qualcosa di più. Invece non ne avevano, e fecero una brutta fine. Peggio per loro. Intanto la Rai è pregata di proseguire sulla stessa linea. Dopo l'inno all'omertà, si attende con ansia il prossimo passo. Tipo un giochino intitolato «La bomba», in omaggio alle stragi, o «Lo schianto», in onore di Ustica, o «Gli incappucciati», seguito naturale de «I raccomandati» per commemorare degnamente la P2. Ospiti d'onore, Berlusconi, Cicchitto, Gervaso, Publio Fiori, il professor Trecca e, per la sinistra, Maurizio Costanzo. In quest'epoca di amnesie di regime, potrebbe essere un'occasione per ricordare.
Oggi quella catastrofe semovente del ministro Castelli sarà a Palermo per inaugurare l'anno giudiziario, in rappresentanza della quarta scimmietta: quella che fa danni ogni volta che vede, sente e parla. Praticamente sempre. Che cosa lo porti a Palermo, non s'è capito, salvo lo muova il desiderio di constatare de visu i disastri combinati dal suo governo nella lotta alla mafia. I magistrati, che quei disastri ben conoscono, hanno molto opportunamente e unanimemente (moderati e progressisti all¹unisono) deciso di riunirsi altrove, lontano da lui: prima nella piazzetta intitolata ai martiri dell'antimafia, poi in un'altra sala del palazzo di giustizia.
Lasciando che il presunto ministro si inauguri da solo, in compagnia di quattro cosiddette autorità. Ma ieri il tremebondo presidente della Corte d¹appello ha incredibilmente negato loro l¹aula: Castelli può entrare, i magistrati no. Chiunque viva o si trovi a passare per Palermo, faccia un salto in piazza della Memoria e si stringa ai magistrati. Ne vale la pena. Sia per l¹incredibile boicottaggio dei loro capi che per l'inspiegabile freddezza con cui l'Anm nazionale ha accolto l'iniziativa. Sia perché a Palermo si sta giocando, in questi giorni, una partita decisiva per la lotta alla mafia e dunque per la nostra democrazia. Da un lato gli ultimi fuochi della normalizzazione della Procura, dall'altro il decreto con cui Castelli pretende di decidere chi sarà e chi non sarà il prossimo procuratore nazionale antimafia. Un decreto che piace molto al Foglio, al Giornale e a Panorama, e dunque anche al Riformista, questo samiszdat che se uno smette di leggerlo gli dimezza la tiratura. Il Riformista ha avviato un dotto dibattito sui guasti del «casellismo» (espressione coniata dal neocondannato per mafia Dell'Utri), sostenendo che Caselli alla Superprocura è incompatibile con quel fantomatico «nuovo spirito di unità nazionale necessario per riformare la giustizia» senza riaprire l'antica guerra civile tra "amici di Previti e amici di Violante", che naturalmente - ad avviso delle tre scimmiotte del Riformista - vanno messi sullo stesso piano. Poi il Riformista parla di una (altrettanto fantomatica) «lunga serie di processi di mafia sistematicamente smontati in sede dibattimentale»: chissà a quali si riferiva. Forse alle centinaia di boss mafiosi latitanti catturati e condannati all'ergastolo negli anni di Caselli? O forse alla condanna di Dell'Utri in primo grado? A quella di Mannino in appello? Alla prescrizione definitiva in Cassazione di Andreotti per il «reato commesso» di associazione per delinquere fino alla primavera del 1980? O all'assoluzione di Contrada in appello annullata dalla stessa Cassazione? Misteri del riformismo antimafia. Anti, si fa per dire.
Toghe alterne
di Marco Travaglio (L'Unità del 18 Gennaio 2005)

C'è almeno un vantaggio, a vivere in un regime. Quello di scoprire il vero volto delle persone. Perchè i regimi hanno almeno questo di buono: tracciano confini netti, chi non è con loro è contro di loro, sicchè costringono la gente a scegliere, a schierarsi, a gettare la maschera. E, nei regimi, anche il non schierarsi diventa una scelta di campo: ovviamente a favore del regime. Fanno quasi tenerezza i terzisti di destra e di sinistra, quelli che un mese fa attaccavano Prodi per aver definito mercenari i mercenari di Berlusconi, e ora non trovano una parola per definire l'ultima sparata del ministro Buttiglione che dà del «pedofilo» a Daniel Cohn-Bendit e l'ultimo delirio del ducetto - collegato telefonicamente dalla clinica con gli azzurri in settimana bianca - sui «comunisti portatori di miseria, terrore e morte». Comunisti italiani, s'intende (quelli che in cinque anni di governo gli lasciarono le tv e gli levarono i debiti, invece del contrario). Perché Berlusconi gli orrori del comunismo li denuncia in Italia, salvo scordarsene a Mosca e a Pechino.
Gli effetti del regime si sono misurati anche sabato nelle inaugurazioni dell'anno giudiziario. La stragrande maggioranza della magistratura, sentendosi un bersaglio fisso del regime, s'è schierata apertamente contro (anche giudici conservatori come il Pg di Genova, che ha evocato il Piano di rinascita di Licio Gelli). Ma c'è pure una ristretta minoranza che, affascinata o intimorita dal regime, ha fatto finta di niente. Da una parte le moltissime toghe che uscivano mentre gli emissari del regime entravano. Dall'altra parte le pochissime toghe che entravano, o restavano (senza parlare di quelle che collaborano, come il giudice che ha denunciato a un politico governativo il segretario dell'Anm Fucci per l'sms sul ducetto). E dire che il regime aveva organizzato una serie di provocazioni talmente indecenti da rendere davvero improbo il compito ai magistrati terzisti. A Milano il governo ha inviato il giudice Angelo Gargani, fratello del più noto Peppino (responsabile giustizia di Forza Italia): cioè il presidente di tribunale a Roma che nel 2002, cooptato dall'ingegner Castelli al ministero, lasciò giù il processo che portava avanti da sei anni sulle mazzette della cooperazione proprio alla vigilia della sentenza, e che ripartì praticamente da capo garantendo agli imputati la sospirata prescrizione. Scelta perfettamente coerente, nell'anno giudiziario dedicato alla denuncia delle prescrizioni: ad ascoltare quella del Pg Favara, in Cassazione, c'era il più grande collezionista di prescrizioni (sei, su dieci processi) che la Storia ricordi: il presidente del Consiglio. A Palermo, com'è noto, s'è paracadutato l'Ingegner Ministro in persona. Il quale, non contento di esibire la sua faccia, già di per sè significativa, ha pure preso la parola per «sfidare gli intelligenti» (impresa pienamente riuscita) e paragonarsi al «fanciullo della fiaba di Andersen che grida 'il re è nudo'». Metafora geniale, per uno che ha lasciato la Giustizia in brache di tela. Come se non bastasse l'Ingegner Fanciullo, in sala c'era pure il governatore Totò Cuffaro, in rappresentanza degl'imputati. Una specie di fiera del tartufo, alla presenza di pochi intimi: le cosiddette autorità. Fiutando l'aria, l'Anm palermitana all'unanimità aveva deciso di inaugurare l'anno giudiziario prima nel piazzale della Memoria (che ricorda i martiri dell'antimafia), poi in un'altra aula del palazzo di giustizia. Ma il procuratore generale e il presidente della Corte d'appello si son presi paura e hanno pensato bene di negarle l'ingresso, almeno finchè era in corso la fiera del tartufo. Così centinaia di giudici e pm di tutte le età, le correnti, le funzioni e le sedi (Palermo, Marsala, Sciacca, Trapani, Agrigento) sono rimasti fuori, mentre dentro l'imputato Cuffaro era comodamente assiso in poltrona, a poche decine di metri dall'aula in cui in febbraio verrà processato per favoreggiamento alla mafia (essendo le accuse di concorso esterno in associazione mafiosa e di rivelazione di segreti cadute nel frattempo). E a qualche sedia di distanza dal procuratore capo che rappresenterà l'accusa residua. Probabilmente Grasso non poteva fare altrimenti, come del resto gli altri capiufficio. Ma il presidente del tribunale Giovanni Puglisi è almeno passato in piazza a solidarizzare con i colleghi. Il pm Gioacchino Natoli, uno degli epurati dell'antimafia palermitana, ha osservato: «Oggi si misura sul campo il vero grado di indipendenza di ciascun magistrato rispetto ai desideri, anche impliciti, dei potenti di turno». Il procuratore s'è sentito chiamato in causa e ha replicato con dichiarazioni piuttosto infelici: «Facile cercare la propria indipendenza protetti dal branco» (Ansa), «Quella era una manifestazione sindacale, roba da Cobas...» (La Stampa). Pare che i pm della sua Procura (tutti in piazza, tranne l'aggiunto Pignatone) non abbiano gradito la degradazione animalesca a «branco» e l'accostamento ai duri del sindacato di base che paralizzano i servizi pubblici. Ma in fondo non è questa la filosofia della controriforma dell'ordinamento giudiziario: al vertice, un gerarca onnipotente e, ai suoi piedi, il branco?