31.3.03

IL TESTO DEL CORSIVO DI ROBECCHI IN EDIZIONE DOMENICALE



Segnatevi questo nome: Stevedoring Services of America. E' la società che detiene il record mondiale di velocità sull'appalto. Il porto irakeno di Umm Qasr era ancora al centro della battaglia e il governo Bush già le affidava cinque milioni di dollari per ricostruirlo. Sorpresa, anche la guerra preventiva ha un sosia: l'appalto preventivo.

Quando si dice guardare al futuro! Dieci giorni prima del primo missile, il 10 marzo, il governo Bush chiedeva a cinque grandi compagnie di engineering di partecipare a una gara per i primi lavori di ricostruzione. Chi rompe paga e i cocci sono suoi, e allora qui i cocci, se li compravano prima. Poche briciole appena 900 milioni. Ma una buona lezione: quanto è veloce un missile? Sempre meno di un dollaro!

Ragazzi, a bastonate, ma vi portiamo la democrazia! E pure i pompieri. Chi spegnerà gli incendi dei pozzi di Saddam? La Kellog Broown & Root, consociata della Halliburton. E chi era fino a tre anni fa presidente della Halliburton? Dick Chaney, oggi fa il vicepresidente degli Stati Uniti. Visto? E' la vecchia storia del piromane che fa il capo dei pompieri: due lavori, ma si guadagna bene!

Questa è la triste storia del conflitto, e degli interessi. Alla fine, tra qualche anno, sarà una torta tra i 100 e i 200 miliardi di dollari. Se ci pensate, una semplice operazione di cambio: bombardare gli iracheni, liberarli da Saddam, e farli diventare… clienti! C'è da vendere di tutto, è un affarone! Tutti si intristiscono per le bombe sul mercato. Ma chi è che tira le bombe. Il mercato, no?!

28.3.03

IL SOGNO AMERICANO


Il Progetto per il nuovo secolo americano era già pronto nel l998. E’ un piano dei centri di ricerca americani di estrema destra per il dominio mondiale degli Stati Uniti. La prima tappa è l'attacco all'Iraq

Di Jochen Bölsche, DER SPIEGEL

IN TUTTO IL MONDO, I CRITICI DEL PRESIDENTE BUSH sono convinti che la seconda guerra del Golfo serve essenzialmente a sostituire Saddam, anche se il dittatore non ha armi di distruzione di massa. "Non si tratta delle sue armi" scrive il pacifista israeliano di origine tedesca Uri Avnery, "questa è semplicemente una guerra per il dominio del mondo, dal punto di vista commerciale, politico, strategico e culturale". Ed è basata su modelli concreti. Realizzati già negli anni novanta da centri di ricerca di estrema destra.

Organizzazioni in cui i guerrieri della guerra fredda provenienti dai circoli più interni dei servizi segreti, dalle chiese evangeliche, dalle società produttrici di armi e dalle compagnie petrolifere studiavano piani sconvolgenti per realizzare il nuovo ordine mondiale. Nei progetti di questi falchi prevaleva la legge del più forte; e il paese più forte, naturalmente, sarebbe stato l'ultima superpotenza: l'America.

A questo scopo gli Stati Uniti avrebbero dovuto usare qualsiasi mezzo diplomatico, economico e militare, perfino guerre di aggressione per conquistare il controllo a lungo termine delle risorse del pianeta e indebolire ogni possibile rivale. Questi progetti degli anni novanta che andavano dal mettere da parte le Nazioni Unite a una serie di guerre per stabilire il predominio statunitense non erano affatto segreti. Quasi tutti sono stati resi pubblici, alcuni si possono addirittura trovare in rete.

Per molto tempo questi piani sono stati liquidati come frutto delle fantasie di intellettuali isolati, residui dell'era ultraconservatrice di Reagan, il più gelido dei guerrieri della guerra fredda, ibernati nei circoli chiusi dell'accademia e dei gruppi di pressione. Alla Casa Bianca si respirava un'aria di internazionalismo. Si parlava di associazioni per i diritti umani universali, di multilateralismo nei rapporti con gli alleati. Erano in programma trattati sul cambiamento del clima, sul controllo degli armamenti, sulle mine antipersona e la giustizia internazionale.

Il nuovo secolo americano
In quest'atmosfera liberale arrivò, quasi inosservata, la proposta di un gruppo chiamato Progetto per il nuovo secolo americano (Pnac) che nel 1997 tracciava con forza un piano per la"leadership globale dell'America". Il 26 gennaio del 1998 l'équipe del progetto scrisse al presidente Clinton, chiedendo un cambiamento radicale nei rapporti con le Nazioni Unite, e la fine di Saddam.

Anche se non era chiaro se Saddam stesse costruendo armi di distruzione di massa, rappresentava, a loro avviso, una minaccia per gli Stati Uniti, per Israele e per gli stati arabi, e possedeva "una parte consistente delle riserve di petrolio del mondo". Giustificavano così la loro proposta: “A breve termine bisogna essere pronti a un'azione militare senza riguardi per la diplomazia. A lungo termine bisogna disarmare Saddam e il suo regime.
Siamo convinti che, in base alle risoluzioni dell'Onu esistenti, gli Stati Uniti, hanno il diritto di prendere tutte le iniziative necessarie, compresa quella di dichiarare guerra, per garantire i loro interessi vitali nel Golfo. La politica degli Stati Uniti non dovrebbe in nessun caso essere paralizzata dalla fuorviante insistenza del Consiglio di sicurezza sull'unanimità"

La bozza di un'offensiva
Questa lettera poteva restare a ingiallire negli archivi della Casa Bianca, se non fosse stata così simile alla bozza di una guerra desiderata a lungo; e poteva essere dimenticata, se i membri del Pnac non l'avessero firmata. I suoi firmatari oggi fanno tutti parte dell'amministrazione Bush. Sono: il vicepresidente Dick Cheney; il capo dello staff di Cheney, Lewis Libby; il ministro della difesa Donald Rumsfeld; il vice di Rumsfeld, Paul Wolfowitz; il responsabile delle"questioni di sicurezza globale" Peter Rodman; il segretario di stato per il controllo degli armamenti John Bolton; il vice ministro degli esteri Richard Armitage; l'ex vice ministro della difesa dell'amministrazione Reagan e ora presidente della commissione difesa Richard Perle; il capo del Pnac e consigliere di Bush, William Bristol, noto come il cervello del presidente; e Zalmay Khalilzad, che dopo essere stato ambasciatore speciale e responsabile del governo dell'Afghanistan ora é l'ambasciatore speciale di Bush presso l'opposizione irachena.

Ma prima ancora di questo documento - più di dieci anni fa due sostenitori della linea dura che appartenevano al gruppo avevano presentato una proposta di difesa che aveva sollevato scandalo in tutto il mondo quando la notizia era trapelata attraverso la stampa americana. Il progetto rivelato nel 1992 dal NewYork Times era stato concepito da due uomini che oggi fanno entrambi parte del governo statunitense: Wolfowitz e Libby.

Sostenevano che la dottrina della deterrenza utilizzata nella guerra fredda avrebbe dovuto essere sostituita da una nuova strategia globale. L'obiettivo era perpetuare la situazione in cui gli Stati Uniti sono una superpotenza nei confronti dell'Europa, della Russia e della Cina. Venivano suggeriti vari sistemi per scoraggiare eventuali rivali dal mettere in discussione la leadership americana, o dall'assumere un ruolo più significativo a livello regionale o globale. Il documento suscitò molta preoccupazione nelle capitali europee e asiatiche.

Ma la cosa fondamentale secondo il documento di Wolfowitz e Libby, era il completo predominio americano sull'Eurasia. Qualsiasi paese avesse costituito una minaccia per gli Stati Uniti entrando in ossesso di armi di distruzione di massa avrebbe dovuto essere oggetto di un attacco preventivo. Le alleanze tradizionali avrebbero dovuto essere sostituite da coalizioni ad hoc. Questo piano di massima del 1992 diventò poi la base di un progetto del Pnac definito nel settembre del 2000, qualche mese prima dell'inizio dell'amministrazione Bush.

Il documento del settembre 2000 (Ricostruire le difese americane) era dedicato a come "mantenere la superiorità degli Stati Uniti, contrastare le potenze rivali e modellare il sistema di sicurezza globale in base agli interessi statunitensi"

La cavalleria della nuova frontiera
Tra le altre cose, in questo documento si diceva che gli Stati Uniti dovevano riarmarsi e costruire uno scudo missilistico per poter essere in condizione di combattere più guerre contemporaneamente e portare avanti il proprio programma.

Qualunque cosa accadesse, il Golfo avrebbe dovuto essere sotto il controllo americano: "Gli Stati Uniti cercano da anni di svolgere un ruolo sempre crescente nella gestione della sicurezza del Golfo. Il conflitto non risolto con l'Iraq costituisce un'ovvia giustificazione per la nostra presenza, ma indipendentemente dal problema del regime iracheno, é necessaria una forte presenza degli Stati Uniti nel Golfo".

Nel documento le forze americane stazionate nel Golfo vengono indicate usando un linguaggio da far west come "la cavalleria della nuova frontiera americana". Perfino i tentativi di imporre la pace, continua il documento, dovrebbero portare il marchio degli Usa piuttosto che quello dell'Onu.

Appena ha vinto le sue controverse elezioni e ha preso il posto di Clinton, il presidente Bush (junior) ha subito inserito i duri del Pnac nella sua amministrazione. Il suo vecchio sostenitore Richard Perle (che una volta aveva esposto, all'Hamburg Times, la teoria della "di plomazia della pistola puntata alla testa") si é trovato a ricoprire un ruolo fondamentale nella commissione della difesa, che opera in stretta collaborazione con il capo del Pentagono Rumsfeld.

Con una rapidità da togliere il fiato, il nuovo blocco di potere ha cominciato ad applicare la strategia del Pnac. Bush ha affossato un trattato internazionale dopo l'altro, ha messo da parte le Nazioni Unite e ha cominciato a trattare i suoi alleati come subordinati. Dopo gli attacchi dell'11 settembre, mentre gli Stati Uniti erano dominati dalla paura e circolavano le lettere all'antrace, il gabinetto Bush ha deciso che era giunto il momento di rispolverare i piani del Pnac sull'Iraq.

A soli sei giorni dall'11 settembre, Bush ha firmato l'ordine di prepararsi alla guerra contro la rete del terrore e i taliban. Un altro ordine inizialmente segreto era arrivato ai militari, con istruzioni di preparare la guerra all'Iraq.

Un fulgido esempio
Naturalmente le accuse secondo cui l'Iraq sarebbe stato il mandante degli attentatori dell'11 settembre non sono state mai provate, e nemmeno l'ipotesi che Saddam avesse a che fare con le lettere all'antrace (é stato dimostrato che provenivano da fonti dell'esercito statunitense). Ma nonostante questo, Richard Perle ha dichiarato in un'intervista televisiva che "la guerra al terrorismo non si potrà considerare vinta finché Saddam sarà al potere".

Perle considera una priorità degli Stati Uniti deporre il dittatore "perché simboleggia il disprezzo per i valori occidentali". Ma Saddam é sempre stato lo stesso, anche quando ha conquistato il potere in Iraq con il sostegno degli Stati Uniti. A quell'epoca, un funzionario dei servizi segreti dell'ambasciata americana a Baghdad aveva detto nel suo rapporto alla Cia: "Lo so che Saddam è un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana" E dopo che gli Stati Uniti lo hanno appoggiato nella sua guerra contro l'Iran, l'ex direttore della Cia, Robert Gates, ha detto di non essersi mai fatto illusioni su Saddam.

Il dittatore, sostiene Gates, "non è mai stato un riformatore, né un democratico solo un comune criminale". Ma il documento del Pnac non spiega chiaramente perché adesso Washington vuole dichiarare guerra al suo vecchio socio, anche senza il sostegno dell'Onu.

Ci sono molte prove del fatto che Washington vuole eliminare il regime iracheno per portare tutto il Medio Oriente sotto la sua sfera di influenza economica. Bush mette la cosa diversamente: dopo la liberazione, conseguenza necessaria del mancato rispetto delle leggi internazionali, l'Iraq "diventerà un fulgido esempio di libertà per gli altri paesi della regione". Esperti come Udo Steinbach, direttore dell'istituto tedesco-orientale di Amburgo, hanno dei dubbi sulla buona fede di Bush. Steinbach descrive la necessità di democratizzare l'Iraq come "una calcolata distorsione che mira a giustificare la guerra". "Soprattutto in Iraq", dice Steinbach, "non riesco a convincermi che dopo la caduta di Saddam possa prender forma qualcosa di democratico".

La cosiddetta guerra preventiva contro l'Iraq che gli ideologi del Pnac desiderano da tempo, serve anche, a giudizio di Ury Avnery, a dare battaglia all’Europa e al Giappone.

E’ un altro passo verso il predominio degli Stati Uniti sull'Eurasia. Osserva Avnery: "L'occupazione americana dell'Iraq assicurerebbe agli Stati Uniti il controllo non solo delle vaste riserve di petrolio del paese, ma anche di quelle del Caspio e degli stati del Golfo. In questo modo potrebbero condizionare l'economia di Germania, Francia e Giappone a proprio piacimento, solo manipolando il prezzo del petrolio. Un prezzo più basso danneggerebbe la Russia, uno più alto rovinerebbe Germania e Giappone. E’ per questo, che impedire questa guerra é essenziale per gli interessi europei, oltre che per il profondo desiderio di pace dell'Europa".

"Washington non si é mai fatta scrupoli ad ammettere il suo desiderio di domare l'Europa", sostiene Avnery. "Per mettere in atto i suoi piani di dominio del mondo, Bush é pronto a versare enormi quantità di sangue, purché non si tratti di sangue americano".

Infatuati della guerra
L'arroganza dei falchi dell'amministrazione statunitense, e il loro progetto di costringere il mondo a sottomettersi alle loro decisioni sulla guerra e sulla pace, sconvolge personaggi come l'esperto di diritto internazionale Hartmut Schiedermair di Colonia. Lo "zelo da crociati" che porta gli americani a fare certe dichiarazioni, dice, é "molto inquietante".

Allo stesso modo, Haral Mueller - studioso di problemi della pace critica da tempo il governo tedesco per aver "continuato a sottovalutare e ad avallare strategicamente" il drastico cambiamento della politica estera statunitense dopo il 2001. A suo avviso il programma dell'amministrazione Bush é evidente: "L'America farà quello che vuole. Rispetterà le leggi internazionali se le farà comodo e le infrangerà o le ignorerà se sarà necessario... Gli Stati Uniti vogliono libertà completa, vogliono essere l'aristocrazia del mondo della politica".

Anche i politici più navigati dei paesi che appoggiano la seconda guerra del Golfo sono spaventati dai radicali della Casa Bianca. L'anno scorso il vecchio deputato laburista Tom Dalyell ha attaccato il piano del Pnac alla Camera dei Comuni: "Questa é robaccia che viene dai pensatoi dell'estrema destra dove si riuniscono guerrafondai dal cervello di gallina – gente che non ha mai conosciuto gli orrori della guerra, ma é infatuata della sua idea". E non ha risparmiato neanche il suo stesso leader, Tony Blair: "Mi meraviglio che il primo ministro laburista sia pronto a saltare nelletto di questa banda di pigmei morali"

Anche dall'altra parte dell'Atlantico, a metà febbraio, il senatore democratico Robert Byrd (che a 86 anni viene chiamato "il padre del senato") ha detto la sua. Il più vecchio membro dell'assemblea ha dichiarato che la guerra preventiva voluta dalla destra era "la distorsione di una vecchia concezione del diritto all'autodifesa" e "un attacco al diritto internazionale" . La politica di Bush, ha aggiunto, "potrebbe costituire un punto di svolta nella storia del mondo" e "gettare le basi dell'antiamericanismo" in buona parte del pianeta.

Una persona che ha espresso un'opinione inequivocabile sul problema dell'antiamericanismo e' l'ex presidente Jimmy Carter, che è stato altrettanto chiaro sul programma del Pnac. All'inizio Bush ha risposto alla sfida dell'11 settembre in modo efficace e intelligente, sostiene Carter, "ma nel frattempo, con la scusa della 'guerra al terrorismo', un gruppo di conservatori ha cercato di far approvare i suoi vecchi progetti".

Le limitazioni dei diritti civili negli Stati Uniti e a Guantanamo, l'annullamento degli accordi internazionali, "il disprezzo per il resto del mondo" , e infine l'attacco all'Iraq "anche se Baghdad non costituisce una minaccia per gli Stati Uniti"' tutte queste cose, secondo Carter, avranno conseguenze devastanti.

"Questo unilateralismo", avverte l'ex presidente americano, "finirà per isolare sempre più gli Stati Uniti da quei paesi di cui hanno bisogno per combattere il terrorismo"

LETTERA DEL PNAC A CLINTON
La lettera del26 gennaio 1998 con cui il Project for the New American Century chiedeva a BilL Clinton, all'epoca presidente degliStati Uniti, il rovesciamento del regime di Saddam Hussein

RICOSTRUIRE LE DIFESE AMERICANE
La proposta politica deL Pnac, del settembre 2000

GUERRA PREVENTIVA
La dottrina Bush esposta nella National Security Strategy, del settembre 2002

ARMI DI DISTRUZIONE DI MASSA
La politica statunitense per contenere la proliferazione delle armi di distruzione di massa negli altri paesi, del dicembre 2002.

27.3.03

IL CORSIVO DI BALLARO', STAVOLTA, FA IMBIZZARRIRE TEODORI


O con noi, o contro di noi. Lo zio Sam ha parlato chiaro. Ha scritto su un foglio i buoni e i cattivi. I buoni sono 45, e i cattivi tutti gli altri. Di questi 45 buoni, 15 preferiscono restare anonimi. Insomma, sono d'accordo con la guerra, ma preferiscono che non si sappia in giro. E' una novità del Ventunesimo secolo: fare la guerra, sì, ma coi baffi finti.

Dunque i buoni dichiarati sono trenta: la coalizione dei volenterosi. Etiopia ed Eritrea, smettono di spararsi addosso, dimenticano la fame e oplà, eccoli tra i volenterosi. Estonia, Lettonia, Lituania: abili e arruolati. Incassata un po' di moneta dal Fondo Monetario, ecco mezzo patto di Varsavia che si offre volontario.

Ehi, quanti amici! La Colombia, paese quasi invaso dalle truppe americane, ha alzato la mano. El Salvador, Nicaragua, posti che lo zio Sam conosce bene, sono molto volenterosi. La Turchia ha tirato sul prezzo. Albania e Macedonia, in amministrazione controllata, non potevano dire no al consiglio di amministrazione. Qualcuno si aggrega a partita cominciata. L'Italia, presente! E' contro, ma anche pro, un'altra novità del ventunesimo secolo: la guerra con l’elastico.

Restano quindici anonimi. Cucù, chi saranno? Paesi arabi moderati, stati del Golfo, gente che non vuole comparire perché i loro cittadini non gradirebbero. Ecco il problema: se fai la guerra di nascosto, forse non sei una democrazia modello. E se non sei una democrazia, che ci fai nella lista dei buoni? Colpo di scena: tra i buoni c'è qualche cattivo. Però mi raccomando, non diciamolo in giro!

24.3.03

CONTRORDINE - A titolo personale


di Alessandro Robecchi (Il Manifesto - 23 Marzo 2003)

«A titolo personale». Così qualche giorno fa, prima del grande attacco terroristico su Baghdad, il ministro italo-americano delle difesa Martino andava in tivù a sostenere la guerra. Lui l'avrebbe fatta al volo, ma si sa, le istituzioni internazionali... l'Onu... la politica... Insomma, a titolo personale il ministro Martino era favorevole, e ora starà gongolando davanti alla geometrica potenza dei missili Tomahawk. Già noto per aver promesso solennemente alle mamme che nessun soldato italiano avrebbe messo piede in Afghanistan (coerentemente poi ce ne abbiamo spediti mille, che si fottano, le mamme), il ministro Martino non è forse un buon punto di partenza per un ragionamento. Però funziona così: si parte da un dettaglio insignificante (Martino) per arrivare al disegno globale, cioè a un'aggressione militare pensata, organizzata e gestita «a titolo personale». Passati appena pochi giorni, le affermazioni televisive di Martino non suonano più tanto scandalose. E guardandosi in giro si scopre - con un certo sgomento, se ancora ce ne rimane - che il suo approccio «personale» somiglia molto a quello dei padroni del fuoco e del tuono che stanno terrorizzando il mondo ben più di un bin Laden qualunque. «A titolo personale», per esempio, si muove la politica italiana.

Al fronte, ma a titolo personale

Un no alla guerra formale, pubblico e parlamentare, con tanto di voto, si interfaccia magistralmente con un sì alla guerra senza se e senza ma. Cosa c'è di più «personale» di un premier che riesce a partecipare al massacro fingendo di starsene in disparte? E che per di più si complimenta da solo, si dice bravo-bravo, si compiace e si loda? «A titolo personale», contro la stragrande maggioranza della popolazione, in spregio alla Costituzione, la cricca di Silvio appoggia il massacro, nella speranza di raccattare poi qualche briciola degli affari a venire. Ma il gioco, vedete, si allarga. Anche Silvio e i suoi famigli sono piccola cosa - piccolissima davvero - a fronte del «titolo personale» messo in campo dalla junta Bush. Isolata dal mondo (vergognosamente costretta a sbandierare l'appoggio di potenze affamate come Eritrea ed Etiopia), la banda Bush è riuscita a scatenare una guerra privata, contro il volere della stragrande maggioranza del pianeta. A titolo personale, un pugno di uomini comandano morte e distruzione contro un lontano dittatore che (naturalmente a titolo personale) siede da oltre vent'anni su un mare di petrolio. A titolo personale, i guerrieri hanno buoni sponsor: Dio e le lobby petrolifere (Bush), la multinazionale Hallyburton che ha già firmato contratti per rapinare i pozzi iracheni (Cheney), la multinazionale della benzina Chevron (Condoleeza Rice), oltre alle premiate ditte dell'industria bellica. La ridicola solfa Ferrara-style sulla democrazia che - senza far vedere i morti - va a fare il culo al feroce dittatore appare di minuto in minuto più risibile.

Perché uno si chiede: quale democrazia al mondo può agire «a titolo personale», contro le regole internazionali e contro il parere dei suoi cittadini? Dettagli: nelle «democrazie mature» e liberiste, come si vede, il «titolo personale» del re vale più delle regole, e se qualcuno lo ricorda e lo fa notare, a titolo collettivo, in mezzo a milioni di altre persone, viene censurato, percosso o arrestato (come i 1.400 fermati di San Francisco). Sanguinante paradosso: fai la guerra per portare la democrazia, ma nel farlo non puoi permetterti di essere democratico. Il volere di una manciata di uomini guida la crociata petrolifera, il conflitto e gli interessi comandano il gioco. Così più che sull'Onu, sulle popolazioni pacifiste, sui trattati e sulle regole internazionali, sui civili irakeni, i missili di oggi cadono sul concetto stesso di «democrazia occidentale», questo immenso e infiammabile specchietto per le allodole.

Perché va bene la democrazia, ma solo finché non interviene un consistente «titolo personale». I camerieri che sperano nella mancia dopo il lauto pasto, da Blair a Berlusconi, si adeguano, fanno loro - sperando in un guadagno - il «titolo personale» del più forte. La stupidaggine televisiva pre-guerra del ministro Martino si rivela oggi, a mattanza iniziata, affermazione di strabiliante lucidità: sì, si può straziare il mondo a titolo personale. Chi agisce a titolo collettivo, invece, assiste impotente al confrontarsi delle due fazioni private in lotta: mafie contrapposte, clan rivali, cellule terroristiche, una delle quali sta al vertice degli Stati Uniti. Fare poche vittime civili sembra essere (hurrà) un obiettivo politico degli invasori. Per questioni di propaganda si cerca di ammazzarne pochi, le vere tragedie collaterali verranno nei prossimi mesi e anni, difficili da calcolare. Ma intanto il mondo sarà ridisegnato a convenienza del più forte. A titolo personale, appunto.
(Alessandro Robecchi)

20.3.03

IL TESTO DEL CORSIVO DI ROBECCHI A BALLARO' CHE IL MINISTRO GIOVANARDI HA DEFINITO NAZISTA



Istruzioni per l’uso: per portare la democrazia in Iraq servono un po’ di esplosivo, una spoletta e un aeroplano. Più grande è la bomba, più in fretta arriva la democrazia. Guardate Baghdad per l’ultima volta, perché poi non la vedrete più. E quanto agli irakeni, beh, lo facciamo per il loro bene! Al massimo, diventeranno democratici da morti, abbiamo armi di democratizzazione di massa.

Ricordatevi questo nome: Moab. E’ la bomba più grande del mondo, quando casca, fa un buco come tre campi di calcio. Ce n’è un’altra più romantica: si chiama Blu-82, taglia-margherite, nitrato di ammonio e polvere di alluminio. Scoppia e risucchia l’aria. Occhio: la democrazia è altamente infiammabile.

Un tocco di classico, le vecchie care Cbu-72, un bell’aerosol di ossido di etilene e poi una fiammata. Le altre sono cluster bombs, lasciano sul terreno tante bombette gialle. Gialle, come i sacchetti degli aiuti umanitari, così i per i bambini iracheni è sempre Hallowen: dolcetto o scherzetto?

Ecco, dovrebbe bastare. E se non basta ci sono le mini-nukes, piccole atomiche tascabili. Non fate quella faccia, è per la democrazia! Però bisogna portarla in aereo. E’ facile, si decolla e si sgancia, poi si torna alla base. Per esempio in Kuwait, o in Arabia Saudita. Lì la democrazia ce la portiamo un’altra volta, ok?

ULTIMATUM

di Stefano Benni (per Il Manifesto)


Al presidente George W. Bush
Casa Bianca
Washington (Usa)



Gentile signor Bush,

questa lettera è idealmente firmata dalla stragrande maggioranza degli abitanti del pianeta che per noi si chiama Terra, per lei Teatro delle Operazioni. Sappiamo che lei, come molti liberisti, dice di essere maggioranza anche quando non lo è, o lo è per un pugno di schede elettorali truccate. Ma le assicuro che siamo più del novanta per cento, tutti contrari alla guerra. Perciò le consegnamo questo ultimatum in 15 domande. Ha una settimana di tempo per rispondere, dopodiché la nostra reazione sarà ferma e immediata.

1) Ci dica i veri motivi per i quali lei vuole a tutti i costi questa guerra, e soprattutto chi le dà ordini. La Cia? Le sette sorelle petroliofaghe? Gli undici Skulls superfinanzieri? Cosa Nostra, il generale Jack Daniels, il suo papà, il suo commercialista ? Oppure lei è solo un servo e un fantoccio nelle mani di Berlusconi e Previti ?

2) Lei non accetta veti Onu, rapporti di ispettori, anatemi papali e proteste di pacifisti, e sforna in continuazione dossier taroccati. Insomma, se ha già deciso di attaccare, perché questa commedia? Lei è ipocrita, sadico, o solamente confuso?

3) La sua Cia ha recentemente annunciato di aver visto da un satellite Bin Laden che scappava a cavallo. Saddam viene intervistato ormai anche da Sorrisi e Canzoni. Come mai soltanto i vostri agenti segreti non riescono a avvicinarsi ai vostri nemici? Questione di timidezza?

4) Ci dia l’elenco dei prossimi paesi i cui armamenti la turbano preventivamente. La Corea, la Cina, Cuba, le Dolomiti? Ce lo dica adesso, così noi prenotiamo la vacanza.

5) Ci spieghi, nel trentennale del golpe in Cile, la differenza tra un tiranno armato pericoloso e un tiranno armato innocuo.

6) Ultimatum è una parola di derivazione latina, come più o meno latini sono i suoi alleati Aznar e Berlusconi. Le uniche azioni operative che hanno intrapreso insieme sono state la fuga dai giudici e il matrimonio miliardario di Aznar junior, ovvero l’Oscar della burineria del secolo. Come parteciperanno allo sforzo bellico? Li obbligherà a fare sul serio? Regaleranno orologi d’oro a ogni marine che ammazza dieci nemici? Bombarderanno Baghdad di bomboniere?

7) E’ vero che ha promesso un quarto del petrolio iracheno a Tony W. Blair? Ed è vero che ha anche promesso a Berlusconi un milione di galloni e lui le ha risposto che preferiva dei tacchini?

8) I presidenti Usa troppo intraprendenti o che possono disturbare le manovre della Cia, vengono ammazzati dalla Cia stessa. Lei è il vero capo della Cia o quelli della Cia la considerano troppo cretino per disturbarli?

9) Il suo esercito è cento volte più forte di quello di Saddam. Sarebbe così pettinato e arrogante se i vostri eserciti fossero pari? Lei ha parlato ultimamente dello spirito del West. Ma i pistoleri si affrontavano almeno uno contro uno, in fessissimi duelli. Lei assomiglia al latifondista che assolda cento pistoleri per far fuori un solo fetentissimo bandito. Il western non le insegna che il fetentissimo bandito alla fine può farci una figura migliore?

10) Lei è un depresso megalomane alcolista. Queste persone meritano normalmente tutto l’aiuto possibile. Ma lei è un depresso megalomane alcolista con in mano la valigetta della distruzione nucleare. Essendo il suo caso anomalo e delicato, perché non si fa curare da uno psichiatra, magari su un lettino radioattivo?

11) Lei ha dichiarato che prima di prendere una decisione importante sulla guerra, va a spasso col suo cane e si chiarisce le idee. Lo fa:
a) perché tanto il suo cane non la ascolta?
b) perché lei non ha un cane che la ascolti

12) Lei ha recentemente redarguito alcuni intellettuali americani che le avevano attribuito la sindrome di Hitler. Non siamo d’accordo con loro. La Polonia era vicina, l’Iraq è lontano. Lei spende sicuramente di più. Quanto?

13) Lei ammazzerà come al solito un mucchio di civili, ma è già lì che eufemizza e minimizza, parla di armi superintelligenti, nuovi sistemi di puntamento e soprattutto di armi nucleari «limitate». Ci spiega cosa sono queste nuove atomiche a gittata federalista e regionale? A cosa somigliano ? A uno scaldabagno di Bergamo? A Borghezio caricato a lenticchie e purganti?

14) Dov’è finita la storia dell’antrace? E le navi irachene piene di armi chimiche in giro per i mari? E il mullah Omar? E la plastica facciale di Bin Laden? E le torture ai prigionieri? E lo scandalo Enron? E le sue società a metà con gli arabi? E i rapporti Cia prima dell’undici settembre? E i rialzi in borsa pilotati? E cosa ha chiesto davvero all’Italia? E dov’è finita la sua cravatta rosa dopo che il manifesto ne ha parlato?

15) E’ vero che l’ultima volta che si è confessato il reverendo Bill Hook, un prete nero di cento chili, l’ha centrato con un diretto destro attraverso la grata?

Caro presidente, ha una settimana per rispondere. Allo scadere dell’ultimatum non bombarderemo né cancelleremo lei o il suo popolo. Sappiamo che questo per lei è bizzarro e incomprensibile, ma è così. Non tema il nostro odio e disprezzo, reazioni possibili ma sterili. Tema l’impegno e la promessa che noi ricorderemo per lungo, lunghissimo tempo, ogni inutile e evitabile sofferenza che lei avrà inferto al mondo. Questo vale anche per il suo detestabile nemico, ma cento volte di più per lei perché lei è cento volte più potente e avrebbe cento strade diverse da prendere.
Questo impegno e giuramento di non dimenticare, ha cambiato e può cambiare la storia esattamente come le sue armi. Non aspettiamo una sua risposta scritta, ma le sue azioni.

Cordiali saluti, gli abitanti del Teatro delle Operazioni.

19.3.03

"Io dico grazie a Bush
perché milioni di persone si sono unite per la pace"



di PAULO COELHO

Grazie Presidente Bush. Grazie, grande leader George W. Bush. Grazie di aver mostrato a tutti il pericolo che Saddam Hussein rappresenta. Molti di noi avrebbero potuto altrimenti dimenticare che ha utilizzato armi chimiche contro il suo popolo, contro i curdi e contro gli iraniani. Hussein ? un dittatore sanguinario e una delle più chiare espressioni del male al giorno d'oggi. Ma questa non è la sola ragione per cui la ringrazio. Nei primi due mesi del 2003 ha mostrato al mondo molte altre cose importanti e perciò merita la mia gratitudine. Così, ricordando una poesia che ho imparato da bambino, voglio dirle grazie. Grazie di aver mostrato a tutti che il popolo turco e il suo parlamento non sono in vendita, neanche per 26 miliardi di dollari. Grazie di aver rivelato al mondo l'abisso che esiste tra le decisioni di coloro che sono al potere e i desideri del popolo. Grazie di aver messo in evidenza che né José Maria Aznar né Tony Blair danno la minima importanza né mostrano il minimo rispetto per i voti che hanno ricevuto.
Aznar è capace di ignorare che il 90 per cento degli spagnoli sono contro la guerra e Blair è rimasto indifferente alla più grande manifestazione pubblica svoltasi in Inghilterra negli ultimi trent'anni. Grazie di aver costretto Tony Blair a recarsi al parlamento inglese con un dossier falso scritto da uno studente dieci anni fa e di averlo presentato come "prova determinante trovata dal servizio segreto britannico". Grazie di aver permesso che Colin Powell si esponesse al ridicolo mostrando al Consiglio di Sicurezza dell'Onu delle foto che, una settimana dopo, sono state pubblicamente contestate da Hans Blix, l'ispettore responsabile del disarmo dell'Iraq. Grazie di aver adottato la posizione attuale e di aver pertanto fatto sì che il discorso contro la guerra del ministro degli Esteri francese, Dominique de Villepin, alla sessione plenaria dell'Onu fosse
accolto dagli applausi - cosa che, a quanto ne so, è successa solo una volta in precedenza nella storia delle Nazioni Unite, dopo un discorso di Nelson Mandela. Grazie perché, in seguito ai suoi sforzi in favore della guerra, le nazioni arabe, normalmente divise, nell'incontro al Cairo avvenuto l'ultima settimana di febbraio sono state per la prima volta unanimi nel condannare qualsiasi invasione. Grazie di aver affermato che "l'Onu ora ha una possibilità di mostrare la sua importanza", affermazione che ha indotto
a prendere una posizione contro l'attacco all'Iraq anche i Paesi più riluttanti. Grazie per la sua politica estera che ha spinto il ministro degli Esteri inglese, Jack Straw, a dichiarare nel ventunesimo secolo che "una guerra può avere una giustificazione morale", perdendo in questo modo tutta la credibilità. Grazie di aver cercato di dividere un'Europa che sta lottando per l'unificazione: è un avvertimento che non sarà ignorato.
Grazie di aver ottenuto ciò che assai pochi sono riusciti a ottenere in questo secolo: unire milioni di persone di tutti i continenti nella lotta per la stessa idea, anche se essa è opposta alla sua. Grazie di averci dato di nuovo la consapevolezza che le nostre parole, anche se non saranno udite, almeno sono state pronunciate; questo ci renderà più forti nel futuro.
Grazie di averci ignorato, di aver emarginato tutti coloro che si oppongono alla sua decisione, perché il futuro della Terra appartiene agli esclusi.
Grazie perché, senza di lei, non saremmo stati coscienti della nostra capacità di mobilitazione. Potrebbe non servirci questa volta, ma sicuramente ci sarà utile in futuro. Ora che sembra non ci sia modo di zittire i tamburi di guerra, vorrei ripetere le parole che un antico re europeo disse a un invasore: "Che la mattina sia bella, che il sole
splenda sulle armature dei soldati, perché nel pomeriggio ti sconfiggerò".
Grazie di aver permesso a noi, un esercito di anonimi che riempie le strade nel tentativo di fermare un processo già in atto, di capire quel che significa essere impotenti e di imparare a fare i conti con quella sensazione e a trasformarla. Pertanto si goda la mattina e la gloria che potrebbe ancora riservarle. Grazie di non averci ascoltato e di non averci preso sul serio, ma sappia che noi la ascoltiamo e che non dimenticheremo le sue parole.
Grazie grande leader George W. Bush. Molte grazie.

18.3.03

SIGNORE E SIGNORI, BUONA SERA


Siamo qui per annunciarvi che giovedi' 27 marzo 2003, alle ore 21 saremo in onda con una trasmissione comica su almeno 20 televisioni locali e via satellite. Cioe' dovremmo riuscire a raggiungere tutta Italia con due ore di spettacolo. Si parlera' della guerra in Iraq, della situazione in Italia e di alcuni avvenimenti che le televisioni ufficiali tacciono.
Diciamo subito che non siamo in grado di produrre una televisione stabile. Si tratta solo di un esperimento per dimostrare che e' possibile farlo. E in ogni caso ci sembrava doveroso cercare di raggiungere, almeno una volta, un grande pubblico con un discorso non omologato. Siamo sull'orlo di una tragedia di portata immensa e non ci sentiamo di lasciare nulla di intentato.
La situazione anomala della tv in Italia ha reso possibile qualche cosa di incredibile: ci sono 6 televisioni in mano a un uomo solo e centinaia di tv locali strangolate da un monopolio pubblicitario quasi assoluto. E un altro uomo (Murdock) che controlla Stream e Tele+. Ma le nuove tecnologie hanno reso molto piu' economico fare e trasmettere
tv. Oggi pensare a una televisione indipendente non e' una follia.
Questa nostra televisione e' per ora in grado di esistere per una notte sola come Cenerentola. E' un atto dovuto, per la situazione drammatica che il pianeta sta attraversando. Vogliamo far conoscere al pubblico televisivo le grandi menzogne che le televisioni nazionali stanno spacciando.
Ma lo scopo di questa trasmissione sara' anche un altro, vogliamo vedere quante persone, in Italia e in tutta Europa via satellite, riusciremo a raggiungere. Crediamo che oggi ci siano parecchi milioni di persone che sono stanche di questo regime del Pensiero Unico. E crediamo che ci siano tutte le premesse per creare una vera televisione libera e stabile.
...
Vuoi dare una possibilita' alla nascita di una tv indipendente?
Aiutaci a far sapere che giovedi' 27, alle ore 21 saremo in onda. Per una sera soltanto e forse mai piu'.

(Nei prossimi giorni comunicheremo la lista esatta delle frequenze sulle quali sara' visibile questa trasmissione.)

Dario Fo, Franca Rame, Jacopo Fo

16.3.03

ORIANA FALLACI
Quelle lezioni

lettera di Alessandra Mussolini al Corriere della Sera

Gentile direttore, ho letto l’articolo della «signora» Fallaci pubblicato il 14 marzo scorso dal suo quotidiano, nel quale ci vengono impartite lezioni di storia, di democrazia e di civiltà attraverso l’intolleranza ma soprattutto l’odio.
Un odio viscerale verso tutto ciò che non è conforme al «suo» pensiero occidentale.
Un odio che si trasforma in apologia verso la guerra, che è la vita per la «signora», tanto ci tiene a dire che lei la guerra l’ha fatta davvero: beata la «signora», che la può raccontare ancora la guerra, dimenticando Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e i tanti altri corrispondenti meno fortunati perché i mercanti d’armi e di morte li hanno uccisi.
L’esaltazione di ogni guerra, non solo verso quella che purtroppo ci stiamo apprestando a vivere, rappresenta una sorta di ossessione sanguinaria per la «signora», la quale per convincerci che la guerra per l’affermazione della «sua» civiltà e della «sua» democrazia è giusta, mischia di tutto.
Le guerre risorgimentali, la guerra d’Indipendenza dei coloni americani, la Resistenza, Pearl Harbour, la guerra del Golfo, Fort Alamo, la Toscana, i 224.484 militari americani morti nella Seconda guerra mondiale, Hitler e Mussolini.
Già, Benito Mussolini, mio nonno, che toglie il sonno alla «signora».
Un Mussolini, nella immagine di Piazzale Loreto, che la «signora» immagina debba essere da riferimento per il trattamento da riservare a Saddam Hussein.
Chiedo perdono a Dio e ai lettori perché dovrei avere pietà per una «signora» anziana, rivolta con la mente al passato, una mente probabilmente malata.
Ma non ho pietà per chi vorrebbe bere il sangue dei suoi nemici nel loro cranio.
Non provo pietà per chi esalta l’assassinio e la guerra.
Non provo pietà per chi vuole la giustizia dei cappi al collo.
Quell’atroce sussulto di bestialità che venne rappresentato a Piazzale Loreto e che trasformò la fine del fascismo in un atto di barbarie medievale è evidentemente uno dei feticci ai quali la «signora» ancora si attacca per trovare la ragione della propria esistenza e per giustificare una guerra probabilmente ingiustificabile.
L’immagine dei corpi straziati di Benito Mussolini e Claretta Petacci, che meglio di ogni altra ha saputo incarnare la guerra civile in Italia, è una icona alla quale la «signora» da carnefice qual è non vuole rinunciare, è la bandiera da sventolare sui corpi dei cadaveri che conteremo in Iraq, non importa se colpevoli o innocenti.
Così come poco importa se qualche soldato, quando combatterà in Iraq «a sangue freddo» come piace tanto alla «signora», dovesse comportarsi come quei partigiani, che usarono le donne di Salò come racconta una di esse, scampata al massacro:
«Adesso che ero prigioniera dei partigiani, apparivo doppiamente colpevole perché vedevano in me il fascismo fatto donna. Mi usarono in dieci, forse in venti. Il tempo non esisteva più. Una volta mi tennero ferma come se dovessi essere crocefissa, in due mi bloccavano le gambe. Poi questi ultimi mi costringevano ad aprirmi e, come una bestia dell’inferno, avanzò un loro compagno ubriaco che entrò selvaggiamente dentro di me. Avevo conservato la verginità fino a quegli infami giorni dell’aprile-maggio 1945».
Per la «signora» sicuramente quei partigiani sono eroi, meritano la medaglia perché stavano dalla parte «giusta» mentre meritano di essere impiccati a testa in giù le SS che hanno torturato i «simpaticissimi» americani.
A me fanno schifo i torturatori, sia partigiani che SS, così come la guerra che hanno combattuto, fa schifo la guerra civile, fa schifo ogni altra guerra di ieri e di oggi in ogni parte del mondo, forse perché non l’ho vissuta e ho paura di viverla, al contrario della «signora».
E mi fa schifo anche la «signora» con le sue lezioni di storia, di democrazia, di civiltà e di odio. Mi fa schifo.
Alessandra Mussolini
Camera dei Deputati

11.3.03

BELLI SENZ'ANIMA?

da Piergiorgio Welby

"L'anima dell'uomo non ha niente di sovrannaturale, anzi e' la banale fusione di un gruppo di neuroni del cervello. Francis Crick, padre del Dna, lancia le basi per quella che potrebbe essere la madre di tutte le battaglie tra scienza e religione, tra prove tangibili e regno della fede."

L'anima? Eh signora mia, non ci sono più le anime di una volta! La Patristica era stata contraddittoria: toglie l'anima alla donna e poi gliela restituisce con riserva, il feto non ha anima, il bambino così così. Tutti sono concordi sull'esistenza dell'anima...perché la sua esistenza non incide sul reale? anche se i processati da Bellarmino non sarebbero d'accordo, sì perché il buon cardinale prima di bruciarli li obbliga a salvarsi l'anima con la confessione. Arriva la scienza con la S maiuscola e Descartes separa la res cogitans dalla res extensa, un po' come le convergenze parallele di Aldo Moro. L'Ottocento! Il treno a vapore, l'elettricità, scoperte, invenzioni, la scienza diventa la nuova religione e gli scienziati da bravi sacerdoti cercano di rispondere a tutte le domande. Lombroso si diverte a pesare i moribondi: se l'anima esiste avrà pure un peso! L'anima che per ottocentomila anni non era mai stato un problema per l'evoluzione ma, al pari degli angeli, del demonio e dei marziani, un fatto legato alla fede, con l'inverarsi delle più impensabili conquiste scientifiche entra in conflitto con l'antropine techne. L'anima che era stata localizzata in pancia, nel cuore, nel cervello, viene sfrattata dalla trapiantologia. Rimasta senza un tetto sulla testa si rifugia nel mistero della vita. Più ci si avvicina ai meccanismi segreti dell'origine della vita più l'anima intralcia e pone problemi. È un problema intervenire sull'embrione, le ricerche della Montalcini potrebbero portare al trapianto della testa (già attuato sulle Resus). Se il futuro, come sembra certo, ci metterà di fronte ad organismi acefali nati in provetta ed utilizzabili come banche per organi, cosa ne faremo dell'anima? Siamo arrivati al capolinea degli animofili o questa impalpabile appendice fermerà la "techne" l'unica realtà che governa il mondo? Forse perderemo l'anima così come abbiamo perso i peli, le unghie robuste, le bozze frontali e tutte le altre inutili appendici o con uno scatto di orgoglio integralista sapremo rinunciare a sconfiggere una malattia, restituire la vita ad un congiunto, sfruttare un organo di una creatura nata in laboratorio? Non lo so, sinceramente non lo so, ma non scommetterei sull'anima nemmeno un euro bucato.

10.3.03

TRAVAGLIO E COCILOVO



Tutta l'Italia dei movimenti e dei girotondi guardava a Palermo con speranza. Una speranza che faceva di Palermo un nuovo punto di riferimento, come negli anni d'oro della "primavera siciliana", poi troppo presto precipitata nell'autunno senza nemmeno passare per l'estate. La speranza sbocciava dall'esperimento delle elezioni primarie, cioè dall'unico strumento che, se usato bene, potrebbe restituirci un po' di democrazia espropriando gli apparati di partito. Purtroppo quella speranza sembra durata lo spazio di un mattino. O almeno si è di molto ridimensionata. Anzi, visto il risultato finale, l'esperienza palermitana rischia di diventare un boomerang che potrebbe dissuadere altri dal riprovarci, dal pronunciare ancora la parola «primarie». Perché è vero che la proposta iniziale per una vera onsultazione della base sulle candidature provinciali, senza truppe cammellate né trucchetti da Ancien Regime, è stata poi snaturata da una convention che è il tipico distillato dei migliori laboratori della peggiore partitocrazia. E non ha nulla a che vedere con le primarie all'americana, quelle vere, quelle che Paolo Flores d'Arcais ha cercato di ridisegnare sull'ultimo numero di MicroMega per scongiurare manovre gattopardesche. La vittoria finale di un politico di lungo corso come Luigi Cocilovo, ex Cisl, ex D'Antoni, ex Ppi, ora Margherita, era lo sbocco naturale. E forse i girotondi, i movimenti e lo stesso gruppo dei professori hanno pagato un tasso eccessivo di
ingenuità, lasciandosi irretire in una tela di ragno che ha finito con l?intrappolarli, in un meccanismo che ora li costringe a legittimare una candidatura non proprio venuta «dal basso», dalla base, dalla società civile. Fin qui, il metodo. E ora il nome. Cocilovo, chi era costui? Chi scrive si era imbattuto, scrivendo "La Repubblica delle banane" (Editori Riuniti, 2001), insieme al collega Peter Gomez, in un certo Luigi Cocilovo. Anche lui era palermitano, uomo Cisl, amico di D'Antoni. Il suo nome compariva nelle agende di Pierfrancesco Pacini Battaglia, il banchiere italo-svizzero che dirigeva il traffico delle mazzette sui grandi affari, dall'Eni all'alta
velocità ferroviaria. Quel Cocilovo risultava aver incontrato Pacini un paio di volte nel 1996. Secondo il Corriere della Sera, «risulta battezzato "Cocilovo" uno dei conti svizzeri registrato su un'agenda di Pacini Battaglia. Il quale nella sua rubrica telefonica ha scritto tutti i numeri di Cocilovo: abitazione, centralino Cisl e cellulare Gsm». Cocilovo confermò di conoscere Pacini: «Mi è stato presentato - spiegò ai magistrati - nel 1995 da comuni conoscenti, a lui collegati da rapporti del tutto privati di frequentazione familiare». E ammise di averlo incontrato un paio di volte: «Due pomeriggi domenicali, su invito dei comuni amici di famiglia di cui
sopra». Ma escluse «radicalmente di avere alcun conto corrente in Svizzera o comunque all?estero e di aver mai avuto con il Pacini rapporti di interesse
finanziario». Poi però quel Luigi Cocilovo rimase impigliato in un'altra inchiesta, ben più spinosa e imbarazzante. Quella sui 350 milioni che l'imprenditore messinese Domenico Mollica gli avrebbe versato per la Cisl siciliana in cambio di un po' di «pace sociale» nei suoi cantieri martoriati dagli scioperi. Il primo a parlarne, dinanzi alla Procura di Messina, fu lo stesso Mollica il 6 febbraio 1995: «Alcuni progetti mi furono finanziati attraverso l'interessamento dell'onorevole Nicolosi (Rino, all'epoca presidente della Regione Sicilia, ndr) collegato a una dazione di 350 milioni di lire che io, su sua precisa indicazione, effettuai nelle mani di un funzionario Cisl, tale dottor Cocilovo, oggi stretto collaboratore del segretario D'Antoni, presso gli stessi locali di piazza Politeama a Palermo, e il cui destinatario finale doveva essere lo stesso sindacato, così almeno mi fu detto». In un successivo interrogatorio, il 13 giugno '95, Mollica aggiunse altri particolari: «Dopo la dazione di denaro, il sindacato non mi creò più problemi, sia in quel cantiere (a Modica, ndr) sia in tutti gli altri che avevo. Ricordo che, ad accompagnarmi nell'ufficio del sindacato in piazza Politeama, fu il professor Alessandro Musco, consulente dell'on. Nicolosi. Il Musco peraltro, al momento in cui consegnai al Cocilovo una borsa Cartier
piena zeppa di banconote da 100 mila, era presente; esso sapeva che all?interno della borsa vi erano 350 milioni nonché il motivo per cui li stavo consegnando». Musco conferma tutto, ricordando per filo e per segno quel viaggio in auto con Mollica, il quale «al momento in cui entrò nella stanza del Cocilovo, aveva una borsa elegante». All'uscita, invece, non più. Mollica racconta di aver aperto la Cartier, rovesciato le banconote sul tavolo, richiuso la borsa e fatto per uscire dall'ufficio. Sennonché Cocilovo, con un cenno negativo, lo richiamò indietro: gradiva anche la Cartier e Mollica dovette lasciargli anche quella. «Valeva 4 milioni e mezzo», sospirò poi davanti ai magistrati. L?inchiesta messinese passò per competenza a Palermo. Qui Cocilovo fu rinviato a giudizio insieme a Musco e Mollica per corruzione aggravata. E subito eletto parlamentare europeo nelle liste del Ppi. Il processo di primo grado è di quelli che fanno epoca: Mollica condannato a 3 anni di reclusione per aver versato 350 milioni a Cocilovo, Cocilovo assolto (come pure Musco) per avere incassato 350 milioni da Mollica. Miracoli della riforma del
cosiddetto «giusto processo». Mollica infatti, in aula, si avvale della facoltà di non rispondere. Così le sue dichiarazioni al pm valgono soltanto contro di lui, ma non contro gli altri. Nella sentenza del Tribunale di Palermo (21 giugno 2002), comunque, si legge che Cocilovo fu «collettore di una tangente, disposto anche a concedere favori sindacali» e «percettore di un contributo elettorale». Ma non può essere condannato. Pare uno scherzo, invece è il «giusto processo». Ora, a Palermo, "Cocilovo" è un cognome piuttosto diffuso. C'è dunque da augurarsi che fra il Luigi Cocilovo amico di Pacini Battaglia e collezionista di Cartier imbottite, e il Luigi Cocilovo candidato dell'Ulivo alle elezioni provinciali dopo la grande convention, ci sia soltanto un rapporto di omonimia. Altrimenti qualcuno potrebbe credere che i due siano la stessa persona. E pensare a un altro scherzo di pessimo gusto.

DA THE OBSERVER DEL 26 GENNAIO 2003

da Tito Schipa Jr.

Sono davvero entusiasta delle ultime motivazioni di George Bush per bombardare l'Iraq: sta perdendo la pazienza. Be', anch'io! E' un po' di tempo che il signor Johnson, quello che vive un paio di numeri più in là, mi ha scocciato. Be', lui e pure il sig. Patel, il proprietario del negozio di alimentari.
Tutti e due mi guardano in modo strano, e sono certo che il Johnson sta tramando qualcosa di losco nei miei confronti, anche se fino ad ora non sono riuscito a scoprire cosa.
Sono anche stato nei pressi di casa sua un paio di volte per capire cosa sta combinando, ma tiene tutto molto ben nascosto. E' il segno di quanto è sfuggente. Quanto a Patel, non chiedetemi come ma so - da ottime fonti - che in realtà è un assassino di massa. Ho detto a tutti quelli della mia strada che se non agiamo per primi ci farà fuori uno per uno.
Qualcuno dei vicini mi ha chiesto perché se ho delle prove non vado alla polizia. Ma è semplicemente ridicolo. La polizia direbbe che hanno bisogno di flagranza di reato per perseguire il mio vicino.
Arriverebbo con chilometri di nastro rosso, disquisendo sui pro e i contro di un'azione preventiva mentre il Sig. Johnson porterebbe a termine i suoi piani terribili contro di me, e il Sig. Patel ucciderebbe gente in segreto.
Dal momento che sono l'unico nel vicinato a possedere un quantitativo decente di armi da fuoco, suppongo che sia mio compito mantenere la pace. Ma di recente è stato un pò difficoltoso. Ora, comunque, George W. Bush ha messo bene in chiaro che tutto quello che devo fare è perdere la pazienza, dopodiché posso entrare in azione e fare tutto quel che mi pare. E ammettiamolo, la politica verso l'Iraq accuratamente elaborata dal sig.Bush è l'unico modo di creare pace e sicurezza internazionali.
L'unico modo sicuro di fermare i fondamentalisti musulmani che mirano agli USA o alla Gran Bretagna è bombardare un po' di paesi musulmani che non ci hanno mai minacciato. Ecco perché voglio far saltare il garage del Sig. Johnson uccidergli la moglie i figli.
Colpire per primi! Gli servirà di lezione. Così ci lascerà in pace e la smetterà di sogguardarmi in quel modo del tutto inaccettabile.
Il signor Bush ha detto chiaramente che tutto quel che gli serve sapere prima di bombardare l'Iraq è che Saddam è un vero cattivo e che possiede armi di distruzione di massa - anche se nessuno riesce a trovarle. Sono sicuro di avere altrettante giustificazioni per uccidere moglie e figli del sig. Johnson quante ne ha il sig. Bush per bombardare l'Iraq.
L'obbiettivo a lungo termine del sig. Bush è di rendere il mondo più sicuro eliminando "stati canaglia" e "terrorismo". Come obbiettivo a lungo termine è davvero brillante, dato che quando mai si riuscirà a sapere se lo si è raggiunto? Come farà il sig. Bush a sapere quando ha spazzato via tutti i terroristi? Quando ogni singolo terrorista è morto? E poi il terrorista è tale solo quando commette un atto di terrore. Come la mettiamo coi terroristi potenziali? Quelli da eliminare davvero sono questi, visto che la maggior parte dei terroristi conosciuti, essendo kamikaze, si sono già eliminati da soli.
Forse il sig. Bush deve eliminare ogni possibile terrorista futuro. Forse non può esser certo di aver conseguito l'obbiettivo finché ogni fondamentalista islamico non è morto. Ma a quel punto qualche musulmano moderato potrebbe convertirsi al fondamentalismo.
Non sarà che l'unica cosa sicura per il sig. Bush si rivelerà eliminare tutti i musulmani?
E' lo stesso nella mia via. I sigg. Johnson e Patel sono solo la cima di un iceberg. Ci sono dozzine di persone che non mi piacciono, nella strada, e che - francamente - mi guardano in modo strano. Mia moglie dice che forse esagero un po', ma io le rispondo che sto solo usando la stessa logica del Presidente degli Stati Uniti. E la zittisco.
Come il sig. Bush ho finito la pazienza, e e se questa è una buona ragione per il Presidente, lo è anche per me. Adesso do a tutto il vicinato due settimane - no, dieci giorni - per uscire in strada e consegnare tutti quei dirottatori alieni di astronavi, fuorilegge galattici e menti del terrorismo interstellare, e se se non li tirano fuori con gentilezza dicendo pure "grazie" bombardo tutta la strada di santa ragione. E' un proposito sano esattamente quanto lo è quello di George W. Bush - e, a differenza di quello che si prefigge lui, io avrò distrutto soltanto una via.

3.3.03

RICETTA DEL TACCHINO AL WHISKY

da Mitì Vigliero

Essendo un’appassionata di cucina, vado spesso navigando alla caccia di ricette nuove e diverse dal solito. Ieri mi sono imbattuta in questa: purtroppo l’autore è anonimo, ma chiunque sia merita un pubblico ringraziamento. Ve la consiglio, raccomandandovi però di NON seguirla alla lettera…

Acquistare un tacchino di circa 5 chili per 6 persone e una bottiglia di whisky; sale, pepe, olio d'oliva e lardo.
Lardellare il tacchino, cucirlo, aggiungere sale e pepe e un filo d'olio.
Scaldare il forno a 250 gradi per 10 minuti.
Nell'attesa versarsi un bicchiere di whisky.
Mettere in forno il tacchino su di un piatto di cottura.
Versarsi due bicchieri di whisky.
Bettere il dermosdado a 300 gradi ber 20 minuti. Versciarsci dre bicchieri di whisky.
Dopo una messci'ora, aprire il forno della porta e sciorvegliare la bollitura del tacchetto.
Brendere la vottiglia di vishschi e infilarscene una bella golata nel gargarozzo.
Dopo un'altra bezz'ola, trascinarsci verscio il forno, spalancare quelo schifo di porta e ributtare, no, rimirare, no….insciomma, mettere la gallina nell'altro verscio.
Uscitionarsci la mano con lo schifo di porta deeel forno e chiuderla - 'orca pffppff...
Cercare di scedersci su una scedia e verscarsci un uissski di bikkiere – o il contrario? Non sciò piyùùù…
Nuocere, no, suocere, no….ah sì, cuocere l'animale ber 4 ore.
Eh hop!, un bicchierino! Sciempre gradito.
Levare il forno dal dacchino.
Ciucciarsci un po' di wisdky.
Cercare di nuovo di estrarre il bestio da foorno, perchi la prima volta no ci sciamo riusciti.
Raccogliere il facchino caduto sul pavimento.
Pulirlo con uno schifo di straccio e sbatterlo su un gatto, un matto, un piatto. Ma chissenefrega.
Scivolare sciul pavimento causcia il grascio fetente, oscervare il graasso rimasto sciuul scioffitto della cugina e cercare di rialzarsi.
Decidere che si sta meglio tutti giy per terra, ridere di pancia e finire la bottiglia di rhisky.
Arrambicarsi sul letto e dorbire duuudda la noche.
Mangiare il tacchino freddo con la maionese l'indomani mattina e per il resto della giornata ripulire il bordello fatto in cucina.

1.3.03

la Repubblica, sabato 1º marzo 2003

Niente udienza alla Corte Ue

Il tribunale nega a Sofri il permesso per Strasburgo



L´ex leader di Lc non sarà martedì davanti alla Corte europea Proteste da Forza Italia, Ds e Udc: "Decisione punitiva"
di CLAUDIA FUSANI

ROMA - Adriano Sofri non sarà martedì prossimo a Strasburgo. Né da libero, come aveva richiesto, né in manette, come invece doveva essere, secondo i suoi legali, un suo diritto. Al no del tribunale di Sorveglianza di Firenze si è aggiunto il no del ministero della Giustizia. L´udienza, l´unica prevista davanti all´Alta Corte europea dei diritti dell´uomo, si terrà ugualmente ma Sofri non potrà illustrare personalmente le sue ragioni. Il rifiuto del Tribunale è stato notificato a fine mattinata a Sofri nel carcere Don Bosco di Pisa, dove è detenuto dal gennaio '97 dopo la condanna per l´omicidio del commissario Calabresi. In pratica, i giudici spiegano che, poiché la presenza del ricorrente-condannato non è necessaria e poiché è detenuto in Italia, non può essere in alcun modo concesso un permesso all´estero. Nessun riferimento alla Convenzione del 1996, ratificata dal Parlamento italiano nel 1997, che stabilisce invece «il diritto delle persone a partecipare alle udienze» e «impegna gli Stati contraenti a non ostacolare in alcun modo la circolazione delle persone per assistere alla procedura».
La vicenda, nei suoi aspetti tecnico-giuridici. Sofri, Bompressi e Pietrostefani hanno fatto ricorso alla Corte dei diritti dell´uomo contro lo Stato italiano contestando l´imparzialità del giudice e la lesione dei diritti della difesa. Un paio di mesi fa l´ex leader di Lc chiese di partecipare all´udienza a Strasburgo. «Lo considerava un appuntamento irrinunciabile» racconta Enzo Brogi, sindaco di Cavriglia, che ha incontrato Sofri un paio di settimane fa. Gli avvocati, Alessandro Gamberini e Bruno Nascimbene, gli hanno spiegato che non solo poteva ma che era un suo diritto sancito da un trattato internazionale. Il problema era semmai un altro: a Strasbrugo Sofri sarebbe dovuto andare come detenuto e non libero in permesso. Su questo punto però poteva essere tentata una richiesta al tribunale di sorveglianza.
Ma il giudizio del tribunale è stato diverso. I giudici di Firenze hanno ripreso, confermandolo, un precedente giudizio emesso dai colleghi di Pisa che avevano rilevato come la trasferta dell´ex leader di Lc potesse avvenire unicamente in manette. A questo punto il Dap, il dipartimneto dell´amministrazione penitenziaria, ha interpretato questo giudizio come un no a tutti gli effetti negando la possibilità di essere trasferito a Strasburgo anche nelle condizioni di detenuto ammanettato. Era una prima volta in assoluto - mai un detenuto italiano aveva chiesto di partecipare ad un´udienza a Strasburgo - tanto che in questi giorni ci sono state numerose telefonate tra il Dap, l´ufficio legislativo del ministero della Giustizia e le cancellerie della Corte europea. Tutti alla ricerca di un precedente italiano che però non esiste. In assenza di esempi, è stata scelta l´interpretazione più restrittiva. «La Convenzione europea - spiegano al Dap - non prevede il caso di persona detenuta quindi vuol dire che il detenuto non può andare».
Era l´ora di pranzo quando ha cominciato a circolare la notizia. Unanimi i commenti dei politici. Marco Follini, segretario dell´Udc, parla di decisione che «stupisce, amareggia e lascia l´amaro in bocca». Sandro Bondi, portavoce di Forza Italia, accusa la giustizia italiana di «mancanza di buon senso». Severe anche le reazioni del centrosinistra. Per Gavino Angius, capogruppo ds al Senato, è un provvedimento «punitivo e ingiusto». Ermete Realacci, Margherita, che sabato scorso è andato con Cofferati a incontrare Sofri in carcere, sostiene che è stato «negato un atto di ordinaria civiltà».
La quarta sezione di Strasburgo, presidente sir Nicolas Bratza, vicepresidente il finlandese Matti Pellonpaa, chiamata a esprimere il suo giudizio, avrà modo di leggere fra gli atti anche le ragioni di questo ultimo no. La corte deciderà entro due-quattro mesi. Se darà ragione all´ex leader di Lc, lo Stato italiano sarà condannato a pagare una multa.


il manifesto - 1º marzo 2003

Sofri sequestrato «No a Strasburgo»

Il caso Sofri infila un'altra perla. Adriano Sofri non sarà martedì a Strasburgo, dove la Corte europea dei diritti dell'uomo vaglierà il suo ricorso contro lo Stato italiano che l'ha condannato a 22 anni per il delitto Calabresi. Il Tribunale di sorveglianza dice che non può andarci in permesso premio da uomo libero, ma potrebbe andarci sotto scorta da detenuto. Il ministero della giustizia, attraverso il Dap, sostiene invece che potrebbe andarci da uomo libero in permesso e si rifiuta di condurlo a Strasburgo in manette. Risultato, Sofri martedì sarà nel solito posto, la cella del don Bosco di Pisa, dove sta da oltre 6 anni. Ecco un caso in cui non si sa se prendersela di più con il formalismo esasperato dei giudici di sorveglianza o con la riottosità del ministro Castelli. Pioggia di critiche per il divieto incrociato che nega a Sofri un elementare diritto. Ma non era un detenuto «privilegiato»?

Strasburgo vietata a Sofri

Adriano Sofri non potrà assistere all'udienza della Corte europea per i diritti dell'uomo cui è ricorso contro la condanna per l'omicidio Calabresi.
E' l'assurdo esito delle ordinanze dei giudici e di quelle del ministero della giustizia

di MANUELA CARTOSIO

Adriano Sofri non andrà a Strasburgo, «né a piede libero né a mani legate». Martedì non potrà essere presente all'udienza della Corte europea dei diritti dell'uomo che discuterà il suo ricorso contro lo Stato italiano. L'aveva presentato nel 1997 con Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani, condannati come lui a 22 anni di carcere per il delitto Calabresi. Il divieto è l'effetto combinato di due decisioni. Quella del Tribunale di sorveglianza di Firenze, che ha negato a Sofri il permesso-premio per andare a Strasburgo da uomo libero. E quella del Dap, il dipartimento per l'amministrazione penitenziaria, che non si sente obbligato «tradurlo» all'estero sotto scorta da detenuto. Un classico scarabarile italico, di cui il «privilegiato» Sofri paga ancora una volta le conseguenze, stretto tra l'iperformalismo e la mancanza di coraggio del tribunale di sorveglianza e l'eccesso di zelo causidico del Dap. Se i giudici rispondono - così si dice - solo alla legge, il Dap «risponde» al ministero della giustizia. Il che autorizza a pensare che nel no del Dap a scortare Sofri a Strasburgo ci sia lo zampino del ministro Castelli. Lo stesso che tiene nel cassetto la seconda domanda di grazia di Bompressi e che si è messo di traverso alla grazia d'ufficio per Sofri. Una coincidenza?

Dal carcere di Pisa Sofri spiega «come stanno le cose» in una lettera al direttore del Foglio Giuliano Ferrara. «Il ministero ha comunicato di non essere tenuto a traduzioni all'estero, e ha aggiunto che il Tribunale di sorveglianza mi ci avrebbe potuto mandare in permesso. Il Tribunale di sorveglianza ha detto che non può mandarmi in permesso all'estero... All'udienza sarei stato superfluo, non dovevo parlare, solo essere presente in una circostantanza meramente simbolica, dunque per me suprema. Conosci il problema, ci sarà un giudice in Europa, eccetera». Sofri aggiunge di non avere «commenti da fare». In effetti, i fatti si commentano da soli: Tribunale di sorveglianza e Dap si sono comportati come due compari che sostengono che tocca all'altro fare una cosa, con il risultato che la cosa non viene fatta.

Gianni Sofri si dichiara «allibito» per «l'incredibile accanimento», per il gioco delle parti che impedirà al fratello di presenziare all'udienza. Pur mantenendo il suo «triste stupore», invita a recuperare la tranquillità: «Noi desideriamo andare a Strasburgo sereni e fiduciosi». Aldilà delle «polemiche interne», la cosa importante è il processo che si celebrerà di fronte a una Corte che si chiama, «e questo è molto bello», Corte europea dei diritti dell'uomo.

Toccherà ad essa valutare se nella lunga vicenda processuale chiamata per brevità «caso Sofri» i giudici non sono stati imparziali ed è stato violato il diritto alla difesa. Se Strasburgo darà ragione ai ricorrenti, allo Stato italiano sarà inflitta una sanzione pecuniara. E, cosa più importante, il nostro paese sarà sollecitato a «porre rimedio» a una condanna ingiusta. Un rimedio che, a questo punto, non può essere che la grazia.

Sandro Gamberini, difensore di Sofri, definisce «ingiusta e ammantata di motivazioni puramente formalistiche» la decisione del Tribunale di Firenza che conferma l'ordinanza del magistrato di sorveglianza di Pisa che aveva negato il permesso perché i tre giorni all'estero non si possono «scomputare» dai 22 di anni di pena.

La sentenza di Pisa affermava, comunque, che Sofri poteva esercitare il suo diritto a presenziare all'udienza chiedendo alle «competenti autorità» d'essere tradotto sotto scorta a Strasburgo. Cosa che, per cautela, la difesa Sofri aveva fatto più di un mese fa. Mai più immaginando che il Dap, pur di non far arrivare Sofri a Strasburgo, avrebbe tirato fuori argomentazioni che l'avvocato considera «più che insultanti, farsesche».

Solo «per ragioni di sicurezza e di ordine pubblico», osserva Gamberini, è possibile derogare all'articolo 4 della Convenzione sottoscritta dai paesi membri della Corte europea dei diritti dell'uomo. L'articolo dice che non può essere imposta alcuna «limitazione» al diritto delle parti di partecipare al processo. «Si vuol sostenere che Sofri a Strasburgo avrebbe costituito una minaccia per la sicurezza dell'Italia e per l'ordine pubblico?», domanda l'avvocato. Sul punto il Dap non ha replicato. Si è limitato a far sapere di non essere obbligato a «tradurre all'estero» il detenuto Sofri.

Tace anche il ministro Castelli, mentre un coro trasversale di critiche si riversa sul combinato disposto che impedirà a Sofri d'andare a Strasburgo. A Sofri è stata negato un atto di «ordinaria civiltà», commenta Ermete Realacci della Margherita, un diniego che «nessuna ottusità burocratica giustica». Per un altro parlamente della Margherita, Willer Bordon, va trovato il modo perché Sofri possa comunque esserci all'udienza di martedì. Marco Follini, segretario dell'Udc, è stupito da una sentenza che «lascia l'amaro in bocca». Il portavoce di Forza Italia Sandro Bondi afferma che la giustizia italiana manca di buon senso e si ricorda dello «spazio giuridico europeo» solo per spiccare mandati di cattura, non per tutalare il diritto alla difesa. Il presidente dei senatori Ds Gavino Angius vuol sapere dal Dap motivi di un provvedimento «francamente ingiusto e umanamente punitivo» per un uomo che pur dichirandosi innocente ha sempre rispettato le sentenze.


l'Unità, 28 febbraio 2003

«No» del Tribunale a Sofri:
non andrà alla Corte europea
per sostenere il suo ricorso



di red

Quando martedì prossimo la Corte Europea di Strasburgo esaminerà il suo caso, Sofri non potrà essere lì. La legislazione in vigore impedisce che un detenuto in Italia, anche se sotto scorta, possa lasciare il paese per recarsi all'estero. Lo ha spiegato il presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, Vincenzo Sapere, che non faceva parte del collegio che ha respinto il ricorso avanzato dall¹ex leader di Lotta continua.

Il Tribunale di Sorveglianza di Firenze ha, quindi, respinto la sua richiesta di ³permesso premio², il primo richiesto dall'ex-leader di Lotta Continua, condannato a 22 anni di carcere per l'uccisione del commissario Calabresi, di cui sei già scontati.

L'ex leader di Lotta Continua, con Bompressi e Pietrostefani, avevano presentato un ricorso contro lo Stato italiano sostenendo che la giustizia italiana ha violato più volte nel corso della loro lunga e controversa vicenda giudiziaria il principio dell' imparzialità del giudice e il diritto di difesa. Il ricorso verrà discusso dalla Corte di Strasburgo martedì prossimo.

Già il 17 febbraio scorso il magistrato di sorveglianza di Pisa gli aveva negato il permesso per recarsi all'udienza. Secondo il tribunale di Firenze la decisione dei colleghi pisani era corretta e adeguatamente motivata. Inizialmente si pensava che Sofri avrebbe partecipato ugualmente all¹udienza di martedì prossimo, anche se in manette. E invece, no.

«Nel caso di Sofri - ha rilevato il magistrato - c' erano probabilmente le condizioni perché gli venisse concesso un permesso premio che gli consentisse, senza scorta, di spostarsi in Italia. Ma non è consentito che un detenuto in carcere possa lasciare, anche momentaneamente, il paese. L' unica possibilità di espatrio temporaneo per un cittadino detenuto in Italia sarebbe un differimento temporaneo dell' esecuzione della pena, che dovrebbe comunque essere motivato da gravi condizioni di salute e dall' esistenza fuori del nostro paese di qualche centro clinico specializzato in cure che in Italia non sarebbe possibile fare».







LE REAZIONI

La difesa: "Farsa più che un insulto"

ROMA - Un no incomprensibile. Gli avvocati di Adriano Sofri, Alessandro Gamberini e Bruno Nascimbene (docente di diritto internazionale) sono stupiti della decisione del Tribunale di sorveglianza: «È un detenuto che si è sempre consegnato al carcere, non ha mai chiesto un permesso pur avendone il diritto. E il suo comportamento, come detenuto e come cittadino, è sotto gli occhi di tutti», commentano i legali. A Sofri avevano detto che non solo poteva andare a Strasburgo, ma che era un suo diritto sancito da una Convenzione del 1996 fatta propria dall´Italia. Il problema era semmai un altro: a Strasburgo sarebbe dovuto andare come prigioniero e non come detenuto in permesso.
Dopo il "no" del Tribunale, immediata anche la reazione del fratello di Sofri, Gianni: «Sono allibito, è un incredibile accanimento».


Sofri dal carcere

"Ci sarà un giudice in Europa..."


ROMA - «All´udienza sarei stato superfluo, non dovevo parlare, solo essere presente in una circostanza meramente simbolica, dunque per me suprema... Ci sarà un giudice in Europa...». È quanto scrive dal carcere Adriano Sofri al direttore del Foglio, Giuliano Ferrara. La lettera è pubblicata oggi. «Non andrò a Strasburgo, né a piede libero, né a mani legate. Il Ministero ha comunicato di non essere tenuto a traduzioni all´estero, e ha aggiunto che il Tribunale di Sorveglianza mi ci avrebbe potuto mandare in permesso. Il Tribunale di Sorveglianza ha detto che non può mandarmi in permesso all´estero. Non ho commenti da fare».



la Repubblica, sabato 1º marzo 2003


C´È UNA SENSAZIONE OGGETTIVA DI PERICOLO

Caro Adriano sui diritti l´intransigenza è necessaria

di SERGIO COFFERATI

Caro Adriano vorrei, come avevo cominciato a fare qualche giorno fa, dare una risposta alle tue fondate preoccupazioni sulla singolare situazione che si è progressivamente creata nella politica italiana. Come puoi facilmente immaginare mi riferisco ai problemi che travagliano la sinistra ed ancor di più a quella piccola parte di questioni che forse posso contribuire a chiarire, non penso nemmeno a risolvere. Trovo singolare quel che capita nel campo amico, non sono per nulla sorpreso di ciò che succede in quello avverso, anzi ho la sensazione che ci aspetti un´ulteriore recrudescenza dei loro comportamenti, prodotta dal carattere della coalizione che governa immeritatamente il paese e dalle enormi contraddizioni della stessa.

Le energie nuove si possono però spegnere e in questo caso il riflusso porterebbe al plebiscitarismo

Oggi i movimenti riempiono il vuoto lasciato dai partiti perché in politica il vuoto non esiste

Dal carattere poiché nella miscela pessima di neoliberismo imitativo, populismo d´occasione e improvvisazione mediatica manca il rispetto elementare delle funzioni istituzionali (il caso dalla Rai è solo l´ultimo in ordine di tempo); dalle contraddizioni perché le stesse vengono sempre risolte cementando la coalizione al punto più basso possibile, fino a lasciare esterrefatti noi cittadini («non è possibile, non avrei mai pensato che potessero arrivare a tanto....», queste ed altre esclamazioni di attonito stupore sono entrate nel lessico quotidiano, purtroppo!). Il loro stare insieme si realizza su equilibri sempre più precari, ma distruttivi del tessuto connettivo della democrazia, forse per il momento è solo quella con la d minuscola, quella però che utilizziamo e riproduciamo ogni giorno, quella che ci consente di vivere sereni.
Sono invece preoccupato e coinvolto in quello che succede nel nostro campo. Proverò a rispondere alle tue domande, però ti chiedo ancora un attimo di pazienza; vorrei ripetere per alcuni di coloro che ci leggono, non certo per te, che le ragioni per le quali milioni di persone si sono mosse in questi mesi, come non capitava da tempo per intensità, convinzione, passione, ecco quelle ragioni hanno qualche radice comune, di merito ma direi anche di ambiente, di contesto. Sono in genere ragioni legate a diritti, richiesti o difesi, oppure a grandi valori come la pace, sono esplicitate, anche in funzione mediatica, con tanta veemenza perché quelle persone non le avvertono come adeguatamente vissute e proposte dai soggetti fondamentali della politica, dai partiti. C´è molta radicalità nelle proposte e molta pratica riformista, mi verrebbe da dire, nelle forme utilizzate per renderle visibili. In fondo, il punto massimo di trasgressione è apparso in qualche timido accenno a forme di disobbedienza sulla guerra poi nemmeno praticate. Sono convinto che la radicalità è spesso direttamente proporzionale alla sensazione soggettiva di pericolo ed ancor di più alla percezione dell´abbandono e della conseguente solitudine. Radicalità dunque, ma non estremismo. Il timore e il rischio che mi indichi di esercizio, da parte dei movimenti, della pratica, anche inconsapevole, del veto sul necessario lavoro della politica nelle sue forme e con le sue prassi tradizionali, sono condivisibili e fondati, non mi sfuggono. Sono però convinto che in nessuna parte significativa dei variegati e magmatici movimenti si nasconda una simile intenzione, la scelta consapevole e praticata di esercitare veti, di sbarrare la strada ai partiti, di alzare l´asticella lasciando in ambasce il saltatore che ha preso la rincorsa. Anzi ho più volte notato e fatto notare, che questi movimenti sono mossi da intenti positivi, a differenza di quelli che entrambi abbiamo conosciuto negli Anni '60 e '70. Questi non vogliono diventare partiti e, per fortuna, non sono nemmeno ostili a quelli attuali, che pure vivono una stagione non esaltante per la loro anchilosi e per qualche non breve momento di afasia su temi delicati per tutti noi. Sai che in politica il vuoto non esiste, ed oggi la singolarità della nostra condizione è data dal fatto che gli spazi ampi lasciati dai partiti sono riempiti non da altri partiti nascenti ma da movimenti, associazioni od organizzazioni nelle quali trovano rifugio quasi schizofrenico addirittura molti militanti degli stessi partiti tradizionali, in quella contaminazione da te segnalata. Gli spazi sono ampi e le persone che li riempiono tantissime.
Considero questo quadro di grande interesse e, se il termine non ti appare frivolo, addirittura intrigante. So benissimo che la grande energia positiva rappresentata da queste persone deve produrre "politica" nei canali possibili, a partire da quelli tradizionali. Se non accadrà in tempi accettabili gli effetti negativi potrebbero essere ancora più grandi di quelli che tu stesso paventi. Perché le energie si possono spegnere, e in questo caso il riflusso conseguente impoverirebbe la partecipazione e favorirebbe la delega ad altri con quell´atteggiamento che, secondo me, sta poi alla base delle forme di plebiscitarismo già da molti teorizzate. Perché la mancata attenzione alle proprie esigenze, di vita, di senso, di identità possono spingere i giovani alla violenza (non ti sembra straordinariamente bello il carattere pacifico, non violento di questi movimenti anche dopo prove terribili come quelle di Genova?). Perché può nascere l´antipolitica anche nella forma più banale: «ecco i partiti non ci ascoltano, dunque sono inutili». Perché si può creare, a quel punto, il limbo dei puri che giudicano e non si rendono disponibili a confrontarsi con la complessità, i praticanti del veto da te descritti. Sono convinto che gli effetti disastrosi della somma di questi perché non siano inevitabili. Anzi. Queste energie vanno utilizzate, instaurando un rapporto tra la politica organizzata e loro. Per farlo ci sono secondo me cose piccole ed elementari da risolvere in premessa. Ad esempio il riconoscimento reciproco della legittimità ad agire, in ambiti e con funzioni diverse ma non necessariamente confliggenti o alternative. Ancora: la fissazione di discriminanti nella propria attività di diversa rappresentanza, sai benissimo cosa vale la scelta della pratica non violenta per dei movimenti. Oppure: che nessuno chieda all´altro di sparire dalla scena una volta individuato l´obiettivo comune e la strada per raggiungerlo, anzi che si proceda insieme in funzioni distinte. Penso sinceramente che sia molto, molto difficile fare quello che ti sto scrivendo, non c´è memoria storica alla quale fare riferimento, le diversità di compito e funzione sono enormi, ci sono le storie e i timori delle persone. Processi consistenti tolgono certezze a tutti, ti buttano in mare aperto, ti richiedono una generosità che come sai è merce rara nei leader piccoli o grandi di qualsiasi forma associativa, perché la nascita di nuove classi dirigenti (come si sarebbe dette un tempo) non è mai indolore. Sì, è difficile, ma tutt´altro che impossibile ed in ogni caso necessario.
I modi e le forme di questo dialogo per riportare la politica a riempire quei vuoti, senza cancellare chi ha svolto una fondamentale opera di supplenza ma anzi valorizzandolo, sono tutti da sperimentare, rapidamente però. Sono molto contento che anche tu sia convinto, ma non avevo dubbi, che l´ipotesi di dividere ulteriormente la sinistra «per far chiarezza sulla prospettiva futura» sia sbagliata. Al di là della collocazione attuale, le sinistre sono tante anche nell´alveo delle semplicistiche catalogazioni riformismo-antagonismo. Dunque il problema di noi tutti è quello di unire, e io sono convinto che per farlo sia più efficace e giusto partire da una faticosa ricerca di linee per un programma che dalle regole per gestirlo (dovrebbe essere normale, no?), o dalla scelta, per quanto evocativa anche di contenuti, del leader. Ed è in questa ricerca che va coinvolto fin dall´inizio l´arcipelago dei movimenti, senza confondere in alcun modo questo esercizio con quello pur necessario di trovare le migliori pratiche possibili per far funzionare l´opposizione in Parlamento. Il breve periodo e la sua gestione sono sempre importanti e delicati, perché richiedono efficacia nell´agire da parte dell´opposizione ed anche perché dalla selezione che la stessa fa dei temi, tra quelli importanti e quelli no, e dalla convinzione con la quale sostiene le proprie tesi, contrasta quelle degli altri, ne derivano indicazioni importanti per i cittadini sulle concrete intenzioni dei partiti che la compongono.
Ora sai bene che tutto ciò ha per la sinistra un banco di prova terribile: la guerra, che le chiede la capacità di sostenere contemporaneamente in Parlamento e nella società una linea di contrasto al conflitto che incombe, realizzando lo schieramento di forze più ampio che sia possibile. La cultura della pace va costruita contemporaneamente al contrasto della guerra, e passa dalla soluzione paziente di tante contraddizioni, dal recupero di tanti ritardi, dalla rimozione di ignavia e cinica tolleranza. Un nuovo equilibrio nel mondo non può che partire dalla costruzione di una legalità internazionale, come dici tu, bisogna però decidere in premessa se nel compiere questo sforzo si considera la guerra, come alcuni pensano, uno strumento per gestire "le contraddizioni" esistenti o se, come anch´io vorrei, si mette la guerra al bando e si utilizzano sempre e solo gli strumenti della politica. La semplificazione nelle parole utili a promuovere iniziative e manifestazioni è necessaria, ovviamente non supera miracolosamente la complessità spesso sedimentata dei problemi, ma è fondamentale per segnare il discrimine dell´azione politica, per tracciare confini e orizzonti. Per questo spesso affascina anche quando non risolve facilmente. Sono convinto che moltissima energia si è sprigionata perché molte scelte, in questi mesi, sono apparse coerenti e rigorose, non utopiche. Perché molti hanno compreso che ci sono cose per le quali è risolutiva la direzione che si sceglie per cambiarle, ma che poi il loro mutamento è inevitabilmente graduale. E che invece ce ne sono altre, i diritti
fondamentali o la pace ad esempio, per le quali è utile l´intransigenza, per ottenere risultati e per marcare il diverso valore dal resto. Sai che questa è una mia robusta convinzione, ne abbiamo parlato. Credo che sia anche quella di moltissime persone. Non penso di rappresentare le loro istanze, non ho nessuna delega formale a farlo e ritengo anche che sarebbe un errore ipotizzarlo. Mi considero uno di loro, con maggior visibilità e un po´ di credito costruito in questi anni. Non voglio usare l´una e l´altro per condizionare alcuno, ma per aiutare la ricerca di quel difficile percorso. La mia "estraneità" attuale è scelta che ho fatto per rispetto e affetto verso l´organizzazione della quale provengo e verso il suo gruppo dirigente. Ogni mio coinvolgimento diretto e immediato in ruoli di partito o istituzionali sarebbe stato strumentalmente utilizzato per attaccare la Cgil e metterne in dubbio l´autonomia. Mentre cerco di non interrompere il filo che mi lega a molte persone, così non mi considero estraneo alla politica, ma decidere come anche le mie poche energie potranno essere utilizzate dalla stessa è cosaopportuna, ma, converrai, che non compete solo a me.
Sergio Cofferati, Presidente della fondazione Giuseppe Di Vittorio


I DIALOGHI

Caro Cofferati che politica è senza se e senza ma?

di ADRIANO SOFRI

CARO Sergio, metto per iscritto un po´ delle cose sulle quali abbiamo cominciato a discutere l´altro giorno. La manifestazione romana l´avevo intravista così da lontano che le mie impressioni valevano poco. Belle impressioni. Tutta quella gente così fiduciosa non poteva essere stata convocata dalla paura: o almeno altrettanto dalla speranza. Avrei tanto voluto che la manifestazione esprimesse vistosamente insieme il no alla guerra e la condanna di Saddam Hussein. L´enormità della partecipazione e quella forza quasi allegra hanno superato la questione, come un´onda troppo alta per lasciar vedere il lavorio che l´aveva aspettata. Il problema tuttavia tornerà fuori dopo la piena.

Caro sergio niente veti alla sinistra


Penso da molti anni che la questione "pacifista" sia tragicamente destinata a lacerarci

Tu puoi essere il leader affidabile dei movimenti capace di investirne la forza nella politica sociale

Non sono un ammiratore del "No senza se e senza ma" ­sono uomo di congiuntivi, pieno di se e di ma, come un´acne senile - e dunque riconosco tanto più schiettamente che una mobilitazione così imponente è merito di chi ha coniato quella formula. I partiti in questo paio d´anni non avrebbero saputo mobilitare tante persone, la tua Cgil e i movimenti sì: e per giunta arrabbiati o delusi dai partiti maggiori. Dunque c´è almeno una doppia ragione di soggezione psicologica delle persone dei partiti: la sensazione di stare in quelle piazze da scolari riammessi dopo una convocazione in presidenza; e la difficoltà di rivaleggiare, con le proprie opinioni un po´ più complicate, con parole d´ordine drasticamente semplificate, in una folla così numerosa. Il ritorno in scena delle masse fa fuori le belle statuine politiche, ma spalanca anche le porte alla demagogia.
Salvo che si sottolinei la complicazione di questo ancora ribollente fermento nelle sinistre per mero opportunismo, bisogna riconoscere che è essenziale un gusto per la ridiscussione di tutto e fra tutti. Una specie di costituente sregolata delle idee e dei linguaggi. Non sono sicuro che le cose stiano andando in questa direzione. Se prendiamo per buona la diffidenza fra partiti e movimenti ­ in realtà, soprattutto alla "base", anche intrecciati e contaminati - continuiamo ad avere l´impressione che ci sia fra loro una rivalità che dilaziona e aspetta una resa dei conti, in cui vincano gli uni o gli altri. I movimenti ­anche qui, passo sopra alle importanti differenze - hanno un leader politico-elettorale che sei tu, e badano, sembra, a non fondersi e confondersi con gli ambiti dei partiti, a tenere una distanza di sicurezza, e al tempo stesso però non si candidano a una leadership complessiva, che proponga il ricambio di quella esistente. Lasciano maturare i tempi, ma per far questo, per tenersi in bilico fra dissociazione e istanza di successione, si affidano intanto al calcolo e al piacere dell´esercizio del veto. I movimenti tengono in libertà provvisoria e vigilata la politica partitica e parlamentare, segnandole, con la forza del loro vasto seguito militante, confini invalicabili.
È appena successo ora con l´interdizione emanata da te, Strada, don Ciotti e altri, all´indomani della manifestazione romana, come un giusto conto da saldare nel voto parlamentare. Ma era già successo in modo dichiarato, nei girotondi ecc.: dove la dichiarazione, sincerissima direi, del rifiuto di "entrare in politica", da Nanni Moretti ai professori, si traduceva nella fissazione alla politica di confini da non superare, pena la squalifica da parte del "movimento". In quel caso il piacere del veto corrisponde per così dire a una intenzione permanente: persone che non scendono nel campo della politica professata, e anzi fanno di questa certificata estraneità il fondamento del loro disinteressato controllo-sorveglianza sull´operato dei professionali. Nel tuo caso, il ricorso al veto è invece provvisorio, benché non sia chiaro quanto. Tu, mi pare, non miri a fare l´ispettore generale della sinistra, o di una sinistra sull´altra: miri a una sinistra di maggioranza, e che governi. Era l´impegno cui molto ragionevolmente ti votava a Firenze Moretti.
Temo molto l´inclinazione alla demagogia che l´esercizio del potere di veto rischia, e l´irresponsabilità. La vicenda italiana è da molto tempo segnata da questa duplicazione di poteri diversi, rivali ma non concorrenti. Negli anni detti di Tangentopoli il doppio potere della magistratura milanese versus la politica romana aveva questa differenza rispetto al classico dualismo di poteri: che quello della Procura e del suo Palazzo non si proponeva ­ se non in qualche alzata di gomito e in qualche attore più improvvisato, come Di Pietro - una discesa in campo "politico", una presa del potere per sé o per interposti partiti prediletti, ma l´esercizio metodico di una funzione di ispezione e tutela superiore, giuridica e morale, sulla vita pubblica, di veto sulla legislazione e il governo. Ne siamo usciti ­in realtà non ne siamo usciti affatto - al prezzo di una rivincita della politica nella forma dello sbancamento elettorale da parte dell´ardimentoso gioco d´azzardo berlusconiano, tutto o niente, la cui vittoria per compiersi deve coincidere con la dissoluzione del veto giudiziario, e ormai con la mortificazione della stessa
normale funzione giudiziaria.
Farò un altro esempio, che non ti paia bislacco. Craxi, grosso animale politico in piccolo partito, non si contentava della rendita proporzionale: voleva il governo e il potere. Per arrivarci (e tenerlo) usava dell´interdizione. Bertinotti sembra aver rinunciato una volta per tutte a maggioranza e governo (forse anche per conservare quella denominazione di "comunista", forse per la dannazione di tenere un congresso, nel 2002, in cui "superare lo stalinismo"...) e contentarsi del potere di veto e di interdizione, dentro la coalizione di governo finché è durata, dentro le sinistre poi. Due idee opposte della politica: in mezzo alle quali sta l´eventualità di conquistare la maggioranza alle proprie buone idee ­alle proprie idee che si credono buone.
La pace senza se e senza ma suona come un impegno di nettezza, ma anche come una tipica formula di interdizione. Un bando pregiudiziale. Non viene dopo l´esame di tutti i se e di tutti i ma, li inibisce. Segna una riga per terra, per contare chi è dentro e chi è fuori. Non ti pare che questo trascini almeno due guai concreti? Il primo è che i veti fanno la fila, e l´uno resta ostaggio del prossimo: non risponde infatti alla logica del veto il referendum sull´art.18, che in fondo ha per mira di prendere al laccio te? Il secondo è che, mirando a mettere nell´angolo dei concorrenti politici, leader rivali o partiti, il veto finisce per respingere il consenso di persone che sono arrivate grazie ai se e ai ma.
Qui c´è l´altra enorme novità delle mobilitazioni di massa, questa della pace ora, ma già prima, una volta spogliate dalle esuberanze manesche, quelle sulla globalizzazione dei diritti. Esse rovesciano l´amara esperienza storica della sinistra: che la vastità superba delle mobilitazioni di piazza era inversamente proporzionale al consenso passivo, e specialmente al voto. La sinistra (perfino noi, da rivoluzionari) metteva in piazza tanta gente, la Dc (e ora Berlusconi) vinceva le elezioni. Oggi la tanta gente in piazza ha la solida possibilità, e nel caso della guerra la certezza attestata dai sondaggi, di avere dietro di sé e rappresentare la maggioranza: benché il consenso della maggioranza non si traduca direttamente nel voto. Tuttavia le leadership di nuovi temi e mobilitazioni hanno su sé la responsabilità enorme di unire e consolidare questa maggioranza potenziale. I veti fondati sulla purezza sono un vicolo cieco. Non perché per tenere insieme le persone occorra mettere molta acqua nel proprio vino, ma perché quei veti possono essere miopi e sbagliati, la loro limpidezza può essere faciloneria.
Ho apprezzato che tu e altri abbiate controfirmato la posizione del pacifismo cosiddetto assoluto. Diventava ormai imbarazzante una personalizzazione della discussione su Gino Strada. Non solo per la forte avventatezza di certe dichiarazioni di Strada, che devono dipendere più dal suo carattere e dal suo umore che da una convinzione ferma (Bush come Hitler: ci mancherebbe. Oltretutto, nessuno è "come Hitler", salvo ottenere, oltre a uno svarione contemporaneo, il regalo del tutto improvvido d´una banalizzazione di Hitler). C´è una ragione in più: che chi si prodiga nella cura davvero umanitaria delle ferite di guerra e apre ospedali a Kabul o a Bagdad accetta perciò stesso una autolimitazione del proprio giudizio e del proprio impegno contro i regimi dei paesi ospiti. Non è vero, purtroppo, che il maneggio dei corpi squartati da rammendare basti a motivare la condanna di ogni impiego della forza: perché la sepoltura delle vittime e la cura dei feriti è la più nobile delle imprese, ma la più necessaria è quella che si propone di far cessare morte e ferite. Di ripudiare ogni guerra, ma di far cessare le guerre che ci sono e infuriano. Ho in mente l´esperienza amarissima della Croce Rossa di Ginevra nella Seconda Guerra, che riluttò, quando non si oppose, all´idea che le armi alleate intervenissero ad Auschwitz, per paura di vederne ostacolata la propria opera di assistenza.
Penso da molti anni che la questione "pacifista" sia tragicamente destinata a lacerare la sinistra: e poiché credo che la divergenza derivi in massima parte da un equivoco di fondo, trovo che a maggior ragione sia insensata su questo terreno la rassegnazione (o addirittura l´entusiasmo) alla rottura fra due sinistre. Sono contrario alla guerra, a tutte le guerre, e all´abuso stesso del loro maledetto nome. Ma la condizione per esserlo è di volere una legalità internazionale, un tribunale internazionale, una forza di polizia internazionale. Una polizia internazionale deve intervenire dove lo esiga (e lo permetta) l´urgenza del soccorso e della legittima difesa, e deve farlo nel modo proporzionato e con la premura per l´incolumità delle persone con cui diamo per ovvio che debba procedere la polizia dentro uno Stato. Non battersi per questo, o limitarsi a dire sì o no al ricorso alla forza, vuol dire lasciare campo libero all´esercizio della forza nella forma unilaterale e ottusa della guerra.
Tu dici ora di aver ripensato alla lezione del Kosovo. Ma per il Kosovo il dilemma non si esauriva nel sì o nel no all´intervento: doveva investire il modo dell´intervento, la scelta a tappeto della diserzione del terreno e dei bombardamenti d´alta quota. La guerra, appunto, e a senso unico, come sono ormai le guerre, quando non siano mutue stragi tribali, o sfide scioviniste e teocratiche, o risse di capibanda. Si chiamava arbitrariamente guerra l´aggressione genocida di Serbia (e Croazia) contro la Bosnia; si chiamò guerra l´intervento aereo pressoché incruento della Nato che liberò in poche ore Sarajevo da un assedio di anni; si sarebbe chiamata guerra l´intervento vilmente omesso che fece macellare fra le 6 e le 7 mila persone nella cittadina "internazionalmente protetta" di Srebrenica. Forse non saresti stato fautore di quel soccorso armato? Non lo saresti stato di fronte al mostruoso genocidio del Ruanda? Non lo saresti stato, nel momento in cui si andava compiendo il massacro di curdi col gas iracheno? Oggi la guerra in Iraq ci sembra una terribile avventura: l´avallo dell´Onu la renderebbe legittima, ma non meno spaventosa.
Concludo. C´è un´opinione che punta sulla chiarezza, e auspica che le due sinistre si separino, e facciano la propria strada. Io ­ previi i ma e i se d´obbligo - penso il contrario. Oltretutto perché le sinistre non sono due, ma parecchie di più: e dunque possono provare a essere una. I fautori della divisione ­ che siano scissionisti amatori, o onesti cultori della separazione consensuale - ti prendono per il titolare ideale della mezza eredità di sinistra. Io, come sai, spero e penso il contrario. Che non ti piaccia dimezzare i patrimoni, anzi. La fiducia che ti sei guadagnato, per tuo merito, per altrui demerito, e per le circostanze, fa sì che la messa in comune delle energie di tutte le sinistre, altrimenti ardua, sia una vera grande occasione. Dicono che tu sia cambiato, eri riformista, sei massimalista. Anzi soreliano, che vuoi uno sciopero generale dietro l´altro... Non ci scommetterei mezzo euro. Sei uno che sa come essere riformatori non significhi affatto mancare di rigore e intransigenza e coraggio personale: che il riformismo (quello dell´apostolato socialista, dei fondatori della Confederazione del Lavoro come Rinaldo Rigola che citi nelle interviste come se qualcuno li avesse sentiti nominare) non è la versione arrendevole e compromissoria del rivoluzionarismo. Che un riformismo rigoroso può far fruttare un rivoluzionarismo a fondo perduto.
Questa radicalità personale, non una fraseologia estremista, può fare di te il leader affidabile dei movimenti, e insieme capace di investirne la forza e le idee nella politica sociale ed elettorale e legislativa, italiana, europea e internazionale. Tu ti guardi dalle sabbie mobili di partito e di parlamento che vogliono inghiottirti, e d´altra parte rischi di diventare ostaggio dei movimenti che ti acclamano. Di stare dove si tocca, nell´acqua bassa del veto, di farlo durare troppo. Di puntare sul programma (fai bene, ma senza troppe illusioni: il mondo complicato non si lascia scrivere in un programma) da anteporre agli uomini, quando è chiaro che gli uomini, tu per primo, hanno già tolto il primato ai programmi. Quando hai proposto di escludere i segretari di partito dal pool di cervelli da mettere a ragionare del programma, hai dato l´impressione di compiacerti di un veto: superfluo, se non altro perché i segretari hanno tante interviste da dare che, dopo la prima riunione, non li avresti visti più. In questa reciproca trasfusione, in questa grande alleanza, dovresti proporti ­ se te la senti - di convocare tutti, o quasi.
C´è gente in gamba. E tutti, o quasi, dovrebbero fare la propria solidale parte. Vanità e risentimenti a parte ­ non li sottovaluto affatto, siamo fatti di risentimenti e vanità per il 95 per cento, il resto è acqua - non c´è nessuna ragione perché non avvenga.
Adriano Sofri