28.3.04

LADY DI FERRO FACCIA DI BRONZO
di Alessandro Robecchi per il Manifesto


"Siamo americani, baby, i nostri nomi non vogliono dire un cazzo". La battuta è di John Travolta (in Pulp Fiction), ma si applica perfettamente al consigliere per la sicurezza nazionale americana, Condoleeza Rice. Dicono le cronache che il papà voleva chiamarla Condolcezza, ma poi hanno fatto casino all'anagrafe e così gli americani si sono ritrovati un refuso a guardia della loro sicurezza nazionale. Inutile dire che Condoleeza fu subito adottata, coccolata e vezzeggiata dai media bushisti di tutto il mondo: per la sua grinta, per la sua determinazione e pure per i suoi tailleur (Carlo Rossella su Panorama in una memorabile intervista-genuflessione). Insomma, per qualche anno la signora, afflitta da un errore di stampa fin dalla nascita, è stata portata in palmo di mano: donna e nera in un clan di bianchi affaristi texani sembrava perfetta per quella finzione di democrazia in cui l'America è maestra. Oggi di quell'affetto è rimasto pochino, perché la signora Rice sta collezionando una serie epica di figuracce, bugie, imprecisioni, contraddizioni e autogol, anche il New York Times (e l'America tutta) comincia a pensare che la sicurezza degli americani merita qualcosa di meglio di una ragazza volonterosa e determinata che si arrampica sugli specchi.
L'occasione di mettere Condoleeza davanti alle numerose contraddizioni, sue e dell'amministrazione di Dabliù, viene dalla commissione d'inchiesta sull'11 settembre, dove la Rice ne ha combinate di tutti i colori. Commissione ostacolata dall'amministrazione, silenziata, boicottata, fino al rifiuto della Rice di deporre (sotto giuramento) in un'udienza pubblica, con la tivù e tutto il resto. Ha preferito deporre in modo informale e senza giuramento, finendo per dire una tale carrettata di bugie che molti, persino dentro l'amministrazione americana, cominciano a pensare che nel suo caso l'errore di stampa non sia quello più grave. Prima ha negato che l'amministrazione uscente (quella di Clinton) avesse lanciato allarmi su Al Quaeda, poi ha cambiato versione. Prima ha detto di non sospettare nemmeno lontanamente che i terroristi avrebbero potuto usare aerei come bombe, poi ha cambiato versione. Prima ha detto che l'invasione dell'Iraq era per l'amministrazione un "problema a parte" rispetto agli attentati dell'11 settembre, poi è stata smentita da un ordine scritto di Bush, che già il 17 settembre 2001, con Ground Zero ancora fumante, chiedeva al Pentagono (fumante pure lui) di occuparsi della guerra a Saddam. Nell'ordine Condoleeza è stata smentita senza tanti giri di parole da Richard Clarke (antiterrorismo), Richard Armitage (sottosegretario di Stato), George Tenet (Cia), oltre che da un documento firmato George Bush (petroliere e figlio di). Però, nel frattempo, tra una bugia e l'altra, ha fatto il giro dei media per farsi intervistare e gettare fango su chi l'aveva smentita, con un'invasione impressionante di tivù, giornali e talk show. Dovesse rimanere disoccupata, potrebbe assumerla Silvio, lo stile è quello.
Resta il fatto che (forse) Condoleeza la pagherà, e al primo rimpasto (Dabliù lo sta studiando) toglierà il disturbo: dal suo insediamento non si può dire che la sicurezza americana sia aumentata, e siccome era sul suo tavolo che confluivano i rapporti di Cia e Fbi c'è chi avanza il dubbio che lei non si sia mai presa la briga di confrontarli. Da ragazza di ferro a capro espiatorio il passo è breve, insomma, mentre si sospetta sempre più che sull'11 settembre - questo snodo fondamentale delle nostre vite - nessuno ci abbia detto tutta la verità e anzi qualcuno teme che venga a galla a ridosso delle elezioni di novembre. Rimangono, a futura memoria, l'infatuazione per questa lady di ferro (le lady, ai marines del giornalismo nostrano, piacciono solo se di ferro), i peana e i battimani, le dichiarazioni di stima e di ammirazione di cui oggi - guarda tu il caso - non si sente più nemmeno l'eco. Memoria corta, un classico. Condoleeza verrà archiviata e dimenticata in fretta, come un refuso della storia, l'anello più debole della lunga catena di magliari che oggi, ahinoi, governa la prima (e unica) potenza mondiale.

27.3.04

SOLO PER CONCLUDERE, CON LE MIE "DIMISSIONI"
da Pier Franco Schiavone, Milano



Certo che è incredibile! Consentimi, CSF, per l'ultima volta di sforare. Questa storia su Yassin inizia da una mia provocazione (chiedevo, semplicemente, come mai non se ne parla?) e vengo tacciato di moralismo da CSF per la forma più che per i contenuti. Questa accusa inoltre, non ha permesso, oggettivamente, di chiarire perché alcuni blogghisti avevano preferito il tema di Miss Padania, e adesso per favore non si apra la discussione per difendere il diritto di ciascuno di parlare di cose leggere, perché sono d'accordo, d'accordissimo, ma c'è un tempo per ogni cosa. Credo di aver articolato bene o male una risposta spiegando che il moralismo non c'entra ma c'entra la legalità, cioè il diritto nazionale e internazionale senza i quali non è possibile nessun discorso serio di pace. Mi spieghi CSF come può l'ONU trattare nuovamente il problema israeliano sulla base di esecuzioni senza processo. In questo senso l'omicidio ordinato da Sharon è stato, dal suo punto di vista, molto opportuno, visto il rilievo che egli da' all'ONU. Quasi tutti, a cominciare da quel fine intellettuale di Luca Sofri, per non parlare di chi addirittura ha confuso il mio intervento con un sostegno ad Hamas, fino a Ceratti (ha letto quanto avevo scritto?), hanno affermato le ragioni di CSF che avrebbe ricondotto l'episodio sul piano della politica e dell'opportunità, come se si potesse parlare di politica e quindi di pace trascurando la legalità. Dunque le prese di posizione dell'ONU, di parte della sinistra e della destra italiana, degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, di Francia e Germania, di parte degli Israeliani, dell'Autorità Palestinese (importantissima presa di posizione) che hanno parlato di legalità, sono sciocchezze. Per concludere, a proposito di Sofri, mi spiace CSF, ma tu che sei sempre così giustamente severo nel redarguire chi gioca sporco, non puoi permettere a quel signore di offendere impunemente i tuoi interlocutori trattati alla stregua di babbei. Personalmente credo di essermi comportato sempre educatamente, pur polemizzando con qualcuno, Sofri invece ha dimostrato con quel suo supponente intervento, che l'intelligenza, l'educazione e la cultura non sono ereditarie. Con questo non disturberò più perché non mi piace essere insultato.

Con invariata stima a CSF e ai blogghisti (continuerò a leggervi), cordiali saluti.


SCIARE
da Domenico de Franco

SCIATOR OPTIMUS:

1. Prende il gancio dello ski-lift con una mano sola.
2. In seggiovia fuma annoiato, non prende il sole, tiene gli sci penzoloni, scende dal seggiolino all'ultimo momento.

3. Mangia un panino con lo speck, beve una coca-cola poi dice: "Vado perché è l'ora migliore e non c'è nessuno". E va a farsi una discesa.

4. Curva perfettamente da tutte e due le parti.

5. Se cade da' la colpa agli scarponi che non hanno retto la velocità.

6. Scarponi: li infila con facilità, li toglie con leggerezza.

7. Ha l'attrezzatura da un milione: maggior spesa gli occhiali.

8. Quando alla TV vede cadere Tomba dice che è perché è male allenato.

9. Se esce di pista è per farsi un canalone in neve fresca.



SCIATOR MEDIUS:



1. Prende il gancio dello ski-lift con due mani, a volte lo strangola.

2. In seggiovia non fuma ma prende il sole, che è sempre alle sue spalle, a rischio di violenti torcicollo. Tiene gli sci sull'appoggio e per scendere si prepara tre piloni prima.

3. Mangia zuppa di verdura, beve un quarto di vino e poi dice: "Vado perché è l'ora migliore non c'è nessuno". E va a dormire su una sdraio.

4. Curva peggio da una parte, quasi sempre la sinistra.

5. Se cade da' la colpa alle lamine, ma non sa cosa siano.

6. Scarponi: li infila con ferocia, li toglie con odio.

7. Ha l'attrezzatura da un milione: maggior spesa la giacca a vento.

8. Quando alla TV vede cadere Tomba dice che è perché ha sbagliato il peso sullo sci interno.

9. Se esce di pista è per farsi una pisciata.



SCIATOR CAPRINUS:



1. Prende il gancio dello ski-lift nei coglioni.

2. In seggiovia se fuma fa cadere un guanto, se prende il sole fa cadere gli occhiali. Per scendere dal seggiolino si prepara dieci secondi dopo la partenza viene preso dal panico sei piloni prima dell'arrivo,momento in cui perde un bastoncino e con l'altro tenta di accecare l'inserviente.

3. Mangia polenta e salsiccia, beve quattro grappini e poi dice:

"Vado perché è l'ora migliore e non c'è nessuno". E va al cesso.

4. Curva peggio da una parte, quella dove ci sono gli ostacoli.

5. Se cade da' la colpa ad un lastrone di ghiaccio, anche con due metri di neve fresca.

6. Scarponi: glieli infilano gli amici, glieli tolgono gli infermieri

7. Ha l'attrezzatura da un milione: maggior spesa gli sci da gara.

8. Quando alla TV vede cadere Tomba gode.

9. Se esce di pista è per schiantarsi contro un albero.



SCIATOR MILANENSIS:



1. Si incazza se non c'è l'omino che gli passa il gancio dello skilift, visto che ha pagato anche per quello.

2. In seggiovia, rompe i coglioni lamentandosi che la neve non e' come a St. Moritz, che gli impianti non sono come ad Avoriaz, che gli alberghi non sono come a Cortina, eccetera eccetera.

3. Mangia polenta e capriolo, si incazza con la cameriera perchè non gli fa la fattura scaricabile come spesa di rappresentanza, poi dice: "Vado perché è l'ora migliore e ci sono tutti" e si mette a fare a pallate di neve con gli amici in mezzo alle ragazze che prendono il sole.

4. Curva solo a due centimetri di distanza dagli altri sciatori, badando bene di sollevare quanta più neve possibile.

5. Se cade si incazza con qualcuno che, secondo lui, gli ha tagliato la strada.

6. Scarponi: non li toglie nemmeno in albergo (con quello che li ha pagati).

7. Ha l'attrezzatura da 5 milioni, maggior spesa il gel per le labbra.

8. Quando alla TV vede cadere Tomba dice che è perchè è un coglione di Bologna.

9. Se esce di pista e' per esibirsi in un salto acrobatico (nel campo scuola).



SCIATOR ROMANUS:



1. Sullo skilift, chiama a gran voce l'amico che sta tre ganci più avanti per raccontargli la sua ultima cagata.

2. Blocca tutta la coda della seggiovia perche' deve aspettare gli amici che sono rimasti indietro.

3. Fa spostare dodici persone per organizzare la tavolata comune (tre famiglie con bambini), estrae pane-formaggio-cioccolata in quantità industriali, fa casino, mena i bambini che fanno casino, poi dice: "Andiamo perché è l'ora migliore e non c'è nessuno" e organizza una partita a calcetto sulla neve.

4. Curva solo se la moglie lo sta riprendendo con la telecamera.

5. Se cade cerca di coinvolgere quante più persone possibili e fa chiamare l'elicottero del soccorso.

6. La cerimonia di chiusura degli scarponi coinvolge tutta la famiglia e ha un costo (in tempo e bestemmie) paragonabile allo scavo di una trincea in Cecenia.

7. Ha l'attrezzatura da un milione: maggior spesa il cellulare

8. Quando alla TV vede cadere Tomba, bestemmia ad alta voce.

9. Se esce di pista è per far pisciare il bambino.

25.3.04

UNA RISPOSTA A CSF
Da Pier Franco Schiavone, Milano


Pur caro CSF, questa volta non ci sto. Premesso che chi scrive sul tuo sito spesso esprime emozioni più che lucidi commenti, non intendevo fare del moralismo sull'omicidio di Yassin. Se si uccide una persona in spregio alle regole del diritto internazionale, perchè ritenuta terrorista, non è solo inopportuno, è barbaro. Quello che ci deve distinguere dai terroristi è che dobbiamo rispettare sempre e comunque le regole del diritto che ci siamo date, altrimenti liquideremmo tutto con un "opportuno-non opportuno", da Guantanamo ai bombardamenti su Bagdad. Dici che la situazione necessita di risposte politiche, per me la politica è prassi che si deve conformare a principi civili e le norme del diritto internazionale non sono astratte considerazioni di ordine morale, ma principi stratificati in millenni di civiltà. Per quanto riguarda Yassin, mi limito a dire che ho trovato molto interessante quello che ha affermato Nemer Hamad, rappresentante in Italia dell'Autorità Palestinese, persona equilibrata e certo non terrorista (perché non lo intervisti?). Inoltre gli stessi israeliani, al 40%, non hanno approvato l'omicidio e non sappiamo se solo per motivi di opportunità. Essendo Israele un grande Paese democratico, non è escluso che parte degli israeliani temano che in questo modo scompaia ogni principio di diritto e, quindi, possa arretrare la stessa democrazia .

23.3.04

lettere al Foglio

SCRIVE ADRIANO SOFRI

Ho senz'altro una ripugnanza per Marco Travaglio, ma anche per troppi altri, e ne cavo la conseguenza di tacerne. Qualche volta preferisco di no, perché mi sembra che la mia esperienza possa illuminare meglio una questione generale. Così, qualche tempo fa, svolgendosi la elegante discussione sulle pezze al culo, pensai di scrivere all'"Unità", ma lasciando il direttore libero - sul serio, non per buona educazione - di non pubblicare la mia lettera se solo gli fosse dispiaciuto, perché Travaglio è un suo ingente collaboratore.
Per esempio ieri, nella sua rubrica, Travaglio ha concluso un catalogo di nomi contemporanei (Previti, Berlusconi, Baget Bozzo, Cirami, Ferrara, Tanzi, Cesare Battisti jr, Delfo Zorzi, e Gaetano Pecorella) con la seguente frase: "A questo punto, profittando della confusione generale, Sofri chiede la scarcerazione di Priebke". Bene. Ecco il testo della mia lettera che l'"Unità", con il mio sentito consenso, non pubblicò.
«Caro Furio Colombo, il tuo editoriale di lunedì mi induce a descriverti la mia esperienza personale del caso Travaglio, benché sappia che non potrà che procurarti un dispiacere. Però, al di là della mia rivendicata parzialità, conto che la trama abbia una sua vivacità. Andrò a ritroso, così risalendo anche la carriera di quello specialista investigativo. Prendo a pretesto un incidente di pochi giorni fa, quando si è grottescamente perfezionato un quindicennio di dannazione e contraffazione della mia persona: l'Enciclopedia Rizzoli-Larousse (come la chiamerò piuttosto: prestigiosa? Autorevole?) nell'edizione a diffusione straordinaria che accompagna il "Corriere della Sera" ha pubblicato, come l'"Unità" ha riferito, alla voce "Brigate Rosse", una fotografia che ritrae me e Renato Curcio, con la didascalia: "Renato Curcio e Adriano Sofri, militanti del cosiddetto 'nucleo storico' delle Brigate Rosse".
Quando me l'hanno mostrato, non mi sono nemmeno stupito, né indignato. Mi è sembrato poco meno che ovvio. Un tocco finale. Il "Corriere" ha definito l'episodio un errore, e l'errore "imperdonabile": aggettivo appropriato. La circostanza della foto (sul cui fondo figura infatti Bruno Vespa) era la mia partecipazione, con Curcio e con esponenti politici di partiti varii, a una puntata di "Porta a Porta" dedicata alla eventualità di un indulto, già nel giugno del 1996. Sulla prima pagina del quotidiano "Il Giorno" quella trasmissione fu commentata, col titolo "I cattivi maestrini ci risparmino le loro prediche", dalla firma, a me del tutto sconosciuta, di Marco Travaglio.
Il quale, dopo aver deplorato i "furtivi incontri amorosi fra D'Alema e Fini, Prodi e Berlusconi, repubblichini e partigiani", ospitati dal "paraninfo catodico Bruno Vespa", spendeva la sua retorica squadristica contro "il duo Anni di Piombo", cioè io e Curcio, e concludeva così (ti prego di leggere con attenzione): "Implorino l'indulgenza plenaria da quello Stato borghese che ancora vent'anni fa sognavano di rovesciare. Ma lo facciano alla chetichella, dietro le quinte, con un fil di voce, lasciando perdere le tv e i giornali, che non fanno per loro. E quando usciranno di galera, lo facciano in punta di piedi, strisciando contro i muri magari nottetempo, senza farsi vedere né sentire. Poi, possibilmente, evitino di impartire lezioni, di pubblicare articoli, libri, memoriali, mie prigioni... Meglio che scompaiano dalla circolazione. Perché a qualcuno, sentendoli ancora parlare, potrebbe venire la tentazione di ripensarci e di andarli a cercare. Lievemente incazzato".
Hai letto con attenzione? Sono stato assai addolorato quando la polemica fra "il Foglio" e "l'Unità" ha evocato istigazioni all'omicidio o volontà di chiudere la bocca all'avversario. Oltretutto, si rischia di smarrire il senso delle vere istigazioni all'omicidio. Cose scritte su "Lotta Continua" (non fui mai io a scriverle, ma, per dirla brutalmente, "Lotta Continua" ero io, e dunque me ne assunsi la responsabilità) contro Calabresi tra il 1969 e il 1972 furono istigazioni all'omicidio. Che cos'era l'articolo del 1996 di quello sconosciuto Travaglio? Allora io telefonai al "Giorno", declinai l'offerta del direttore di rispondere sulla prima pagina del giornale, e trasmisi una dettagliata informazione privata sul mio indirizzo, i miei orari e i miei itinerari, da trasmettere a Travaglio, per l'eventualità che volesse intanto venire lui "a cercarmi".
Non vidi comparire sul mio viottolo quel giustiziere. Poi Travaglio si esercitò anche sul "Borghese", con due lunghe puntate di illustrazione "investigativa" della mia vicenda giudiziaria, sulle quali la mia opinione non può esser detta con parole vigilate. Sull'"Espresso" Travaglio avrebbe poi compilato una quantità di testi contro me, raccolto dalla più spregevole mondezza l'insinuazione sui depistaggi degli ex di Lotta Continua per l'assassinio di Mauro Rostagno, protestato contro i miei famosi privilegi carcerari, e in genere contro la rilassatezza dei tribunali e delle galere nei confronti dei delinquenti comuni. Qualche ulteriore riflessione di questa portata Travaglio ha poi trasferito nelle sue rubriche sull'"Unità".
Ecco. Immagino di darle un dispiacere. Non ho niente da obiettare alla presenza di chiunque sui giornali o gli schermi di più diverso orientamento politico - io stesso vado dovunque mi invitino - e confido, nella confusione dei tempi, su quello che si dice e si è, piuttosto che sull'anagrafe ufficiale. E considero del tutto irrilevante la discussione sull'eventualità che Marco Travaglio sia di destra o di sinistra; e anche, ma con più pena, sulla presa che lo stile di Marco Travaglio (o di Antonio Di Pietro) fa sullo stato d'animo di persone che si sentano di sinistra e moralmente intransigenti. Non entro in dispute come quella sollevata a proposito delle pezze al culo: non hanno bisogno di me, né io di loro. La mia incresciosa situazione mi esenta da ogni solidarietà di schieramento. Ho una cella singola, sono una minoranza di uno: è della mia personale esperienza che ti ho voluto parlare. Buon lavoro».



SCRIVE MARCO TRAVAGLIO

Al direttore- Ringrazi da parte mia il mandante dell'omicidio Calabresi per la "ripugnanza" che ha voluto manifestare ieri nei miei confronti, citando uno dei miei articoli di cui vado più orgoglioso. I complimenti fanno sempre piacere, ma non osavo sperare tanto. Ora mi manca solo la ripugnanza di Cesare Battisti jr., poi finirà che mi monto la testa.
che cosa hanno detto Totti e Rossetti alla Polizia
di Roberta Catania (Libero)



Domenica notte, dopo la sospensione del derby capitolino, il capitano della Roma Francesco Totti e l’arbitro Roberto Rosetti sono stati ascoltati in Questura. Ecco i verbali.

Francesco Totti
«All'inizio del secondo tempo dopo pochi minuti ci siamo resi conto che sugli spalti avveniva qualcosa di strano. Infatti, qualche secondo dopo, vi è stato un lancio di petardi nel campo e alcuni tifosi della Roma che erano entrati in campo e ai quali mi avvicinavo nella mia veste di capitano mi informavano in modo convulso e agitato che fuori dello stadio era morto un giovane di anni 16, investito da un'auto della polizia. Gli stessi mi invitavano a dire alla squadra di non giocare. A quel punto ho rappresentato all'arbitro Rosetti quanto mi dicevano, raccontando tutto anche ai miei compagni».

A domanda risponde: «Alcuni tifosi che provenivano dalla Curva Sud mi hanno riferito la notizia, non sono in grado di riferire chi fossero».
Adr: «Ho riferito la notizia agli altri giocatori ed all'arbitro».
Adr: «Dopo qualche minuto ho richiesto all'arbitro di sospendere la partita per quanto avvenuto».
Adr: «Non ho ricevuto dai tifosi minacce, anche se si era creata un'atmosfera pesante che lasciava intuire la possibilità che potesse succedere qualcosa di grave se la partita fosse continuata».

Adr: «Le citate preoccupazioni le ho rappresentate unitamente ai miei compagni all'arbitro».
Adr: «La partita è stata sospesa dall'arbitro dopo aver consultato il presidente della Lega».
Adr: «L'arbitro in più occasioni ci ha richiesto di riprendere la partita, ma unitamente ai miei compagni e ai giocatori della Lazio ci siamo rifiutati per il clima che si era venuto a creare».

Roberto Rosetti
«Al secondo minuto del secondo tempo, notavo che sul terreno di gioco erano presenti tre fumogeni in seguito a lanci di entrambe le tifoserie. Per questo motivo, come da regolamento, per rimuovere gli stessi, sospendevo temporaneamente il gioco. Mentre i pompieri provvedevano alla rimozione degli stessi, un gruppo di giocatori della Roma, che allo stato non so identificare per la lontananza, si portavano in prossimità dei cartelloni pubblicitari posti dietro la porta del campo di gioco della Curva Sud ed intrattenevano un dialogo con alcune persone, presumibilmente tifosi. Dopo qualche istante i calciatori della Roma, tra cui il capitano Francesco Totti, rientravano verso il centro del campo ed il Totti, unitamente agli altri, mi esprimeva la volontà di non riprendere a giocare, in quanto era morto un tifoso fuori dallo stadio, così come gli era stato riferito dalle persone che aveva avvicinato dietro la porta».

«Immediatamente, tutti i calciatori, sia della Roma che della Lazio, compreso il capitano Mihajlovic, preoccupati per la situazione, probabilmente per le minacce ricevute, manifestavano la preoccupazione per la loro incolumità, in quanto, se avessimo ripreso il gioco, entrambe le tifoserie avrebbero invaso il campo. Nel frattempo, dagli spalti si elevavano dei cori che invitavano i giocatori a terminare la partita. Nella circostanza, oltre che tra i calciatori, cominciava un conciliabolo anche tra i dirigenti delle due squadre, tra cui Tempestilli e Mancini».

«Successivamente, ero raggiunto in campo dal Questore il quale mi diceva che la notizia sulla morte di un tifoso era priva di fondamento e che bisognava riprendere la partita. Il dialogo con il Questore avveniva alla presenza dei calciatori e dei dirigenti, già citati, delle squadre. In queste fasi, all'interno del terreno di gioco entravano tre tifosi della Roma che intimavano ai giocatori giallorossi di non riprendere assolutamente la partita, in quanto, in caso contrario, ci sarebbe stata un'invasione di campo. A quel punto, invitavo i giocatori a riprendere la partita con una mia rimessa del pallone, ma prima che facessi ciò, il capitano della Lazio Mihajlovic mi sfilava il pallone delle mani e lo calciava mandandolo in tribuna. Mi facevo dare un secondo pallone, rifacevo la mia ripresa di gioco, ma i calciatori delle due squadre manifestavano di nuovo palesemente la volontà di non giocare, ribadendolo anche nella loro disposizione sul campo. Inoltre, mi ripetevano la loro preoccupazione per una possibile invasione di campo ed una paura per la loro incolumità e per l'incolumità del pubblico».

«Dopo tre o quattro minuti, riprendevo ancora il gioco, ma un calciatore della Lazio, platealmente, calciava fuori il pallone, manifestando nuovamente la condivisa volontà di tutti i giocatori di non giocare. Nel frattempo, sono stato raggiunto dal prefetto, nonché dai dirigenti delle squadre Baldini, De Mita, Cinquini e Pradè. Questi ultimi, unitamente alla volontà dei giocatori, mi ribadivano l'intenzione di non giocare, nonostante il prefetto avesse dichiarato che la notizia della morte del tifoso era falsa. Nel medesimo contesto, veniva palesato il timore dei giocatori per la loro incolumità e per quella degli spettatori. Molto probabilmente rafforzati in questo convincimento dalla presenza di alcuni tifosi all'interno del campo di gioco. Nuovamente davo la mia disponibilità a riprendere il gioco al signor Prefetto, invitando i giocatori alla ripresa del gioco, ma ciò era assolutamente impossibile da attuarsi per il diniego dei giocatori e dei dirigenti.
Rissa da cortile
di Rossana Rossanda (Manifesto)

Con un colpo magistrale un centinaio di sedicenti antagonisti e altrettanti dirigenti Ds sono riusciti a oscurare dal palcoscenico mediatico un milione o due di persone che sabato hanno sfilato a Roma contro la guerra. Erano gli uni e gli altri infastiditi dall'evento, che non avevano né organizzato né animato. Protagonista era quella società civile, così spesso evocata a vanvera, che da qualche anno si coagula e si articola in gruppi, associazioni ed elaborazioni diverse, si convoca in grandi appuntamenti su questioni decisive, e aggrega attorno a sé un'opinione vastissima, stufa di manipolazione, che scende per le strade. Che cosa diceva la manifestazione di sabato, inattesa per l'affluenza, calorosa, preoccupata, comunicante? Diceva a un anno dall'inizio della guerra in Iraq, che era stato un disastro, che aveva esiti infausti, che aveva moltiplicato il terrorismo e che l'Italia doveva dissociarsene senza equivoci, consegnando la gestione dei guasti all'Onu, alla quale va da sé ch
e si potrebbe dare aiuto.

La manifestazione è stata sentita come intollerabile per il centrodestra, che l'ha accusata di tutto, compreso di essere nostalgica di Saddam, per il centrosinistra che dalla guerra del Kosovo in poi frascheggia alla Blair con interventi e occupazioni armate, per le smanie di protagonismo di alcuni giovani e meno giovani, che non rappresentano nessuno ma che cercano di inserirsi per scacciare coloro che considerano indegni di prenderne parte.

Né gli uni né gli altri erano in cima ai pensieri del grande gomitolo che si è andato srotolando da mezzogiorno in poi per ore e ore fino a riempire e svuotare un paio di volte il Circo Massimo. E che felicemente ignorava come verso le cinque, cioè a manifestazione inoltrata già da un pezzo, la direzione Ds, asserragliata nella sede di via Nazionale (i ds normali erano fluiti per conto proprio fra i manifestanti) decideva di inserirsi nel corteo standoci pochissimo, forse per non stancarsi o forse per non compromettersi troppo. Ma aveva trovato fuori della porta un centinaio di autoproclamati guardiani della rivoluzione che l'aspettavano per coprirla di ululati. Che è successo fra il ceto politico arrivato e quello aspirante tale? Le immagini consegnano alla storia qualche spintone e strillo, un Fassino verde in faccia, un breve accalcarsi e una sola immagine pulita, i giovani ds che avanzano con le braccia pacificamente alzate. Il segretario se la svignava offeso e coperto dalla pol
izia per una via laterale. I baldi antagonisti continuavano a spintonare i ds rimasti per cinque minuti, che sarebbero sprofondati nell'oblìo se la segreteria Ds non avesse diramato un drammatico comunicato che denunciava «l'aggressione squadrista» - scusate se è poco - e, come da tradizione, la attribuiva a un complotto di alleati ed eletti irriconoscenti. Miserabile. Sono seguiti il giubilo della
destra, una pioggia di telegrammi di solidarietà a Fassino da An e compagnia, telegiornali in fibrillazione, Gad Lerner che scongiurava Luigi Ciotti a dissociarsi da Zanotelli e abiurare Strada, e consimili scemenze. Tempo un'ora, uno o due milioni di persone erano state azzerate al momento di andare sugli schermi e sulle prime pagine dei giornali.

Bel lavoro. Grave per il movimento per la pace? No. Non se n'era neanche accorto. Ma grave per la stampa parlata e scritta, che ne esce inaffidabile per la distanza fra quel che è avvenuto e quel che essa trasmette, per il manifesto servaggio agli inquilini del Palazzo, per l'inattendibilità come osservatore politico. E grave per la sinistra. Sia per quella radicale, cui non giova vedersi attribuita una manciata di estremismo primario, ma soprattutto per la sinistra che si vorrebbe di governo ed è sempre più impigliata nelle sue codardie, incapace di tenere una linea di opposizione e però desiderosa di nascondere dietro presunte aggressioni il suo anelito a schierarsi con Blair. Giorno per giorno precipita la sua capacità di rappresentanza. In Spagna, in grado di raccogliere la protesta di una maggioranza del paese, c'era il modesto Zapatero, da noi neanche quello.
come aumentano i posti di lavoro in italia
da Toni Fontana

Sono un ragazzo di 28 anni. MI sto laureando presso la facoltà di Lettere di Palermo e vivo a Sciacca (Ag).
Le voglio raccontare e spiegare una legge assurda in atto da pochi giorni. Non sò con chi parlare, non sò cosa bisogna fare.
Durante questi anni universitari mi sono diviso fra lo studio e il lavoro presso la macelleria di mio padre. Non ho mai lavorato assiduamente nel negozio. Ma solo quando c'è stato bisogno di aiuto o in periodo festivi, quando il lavoro aumenta. E' di questi giorni la notizia che io non posso più aiutare mio padre. Mio padre deve mettermi in regola ed io devo pagare i contributi previdenziali. Mio padre non può più permettersi di chidermi di pulire il banco, di spazzare per terra, di trasportare un carico. La cosa terribile è che la notizia è giunta tramite altri commercianti che sono stati multati. Multate le loro mogli, i loro figli. 250Euro, più obbligo di mettere in regola il parente e arretrati da gennaio 2004.
Questa è una legge assurda e mi chiedo quale sia lo scopo. Qui non si tratta di sfruttamento. Qui si tratta di tirare avanti la baracca, il carretto. Mio padre non mi sfrutta. Mio padre mi da da vivere, da mangiare, mi permette di studiare. Perchè non dovrei aiutarlo?
Ma la multa comprende, comunque, chiunque sta dall'altra parte del bancone. I funzionari dell'ufficio registri, a cui è stato affidato il compito, non vogliono sapere ragioni. persino se la moglie sta facendo una telefonata.
La conseguenza comunque è che da oggi i posti di lavoro aumenteranno. Perchè tutti i negozianti saranno costretti a mettere in regola i propri familiari in part-time o a tempo indeterminato, anche se fanno altri lavori. I posti di lavoro aumenteranno. ma chi è disoccupato resterà disoccupato e chi invece aveva un lavoro o svolgeva una attività, ne farà due, tre.
Seguiremo la legge, ma mi auguro che il popolo capisca e che si possa cambiare. e che un nuovo governo cancelli queste leggi assurde.

22.3.04

MODUS MANIFESTANDI
da Peter Freeman

Caro Csf, non sono un pacifista integrale a tutto tondo, e me ne dolgo. Per questo, a quelli dei "ceffoni umanitari" io rifilerei ceffoni affatto umanitari. Penso che manifestare sia un diritto, che quel diritto sia sancito dalla nostra Costituzione, che la Costituzione vada difesa con le unghie e con i denti da chiunque la metta in discussione. Punto.
Ma c'e' dell'altro. Vado alle manifestizioni da ventidue anni, ne conosco le forme e i modi, i soggetti che vi partecipano ed il modo che essi hanno di rappresentare se stessi in quel particolare momento. In ventidue anni molte cose sono cambiate, direi in meglio. Chiamiamola evoluzione della specie.
Le "frange violente" rappresentano, rispetto ad un tempo, una frazione infinitesimale. Pochi davvero, quantunque dannosi. Si possono trovare molti modi per neutralizzarli. E' complicato ma non impossibile.
Dunque sabato a Roma. Il corteo me lo sono fatto tutto. Ho visto quel che c'era da vedere. E ho visto anche i media al lavoro: hanno fatto un pessimo servizio. Un milione e passa non se lo aspettava nessuno. E' stata una sorpresa: la vera notizia. Un anno fa, dopo l'invasione dell'Iraq, buona parte dei commentatori davano per spacciato il movimento per la pace, agonizzante ed impotente. Sui giornali di domenica la notizia invece e' la contestazione a Fassino. Inaccettabile per le forme che ha assunto ma enfatizzata ben oltre la realta' dei fatti.
Non sono un ingenuo e so quali siano le priorita' per i nostri modestissimi media nazionali. Mi becco il ribaltone delle notizie e me lo tengo. Non spendero' altre righe per i violenti. Pero' due cose le voglio dire e riguarda il modo di stare dentro i cortei e le manifestazioni. Chiamiamola "fenomenologia dei gruppi dirigenti", la conosco bene per averla a lungo seguita ed osservata sul campo. Funziona cosi': ci si presenta al corteo, qualunque esso sia, intruppati in una sorta di falange macedone chiamata servizio d'ordine. Dentro il quadrato ci stanno i membri del gruppo dirigente (meglio, il "grumo dirigente") e un nutrito codazzo di giornalisti e di telecamere in febbrile attesa di qualche epocale dichiarazione. E si passa la manifestazione li' dentro, blindati dal mondo, rigorosamente tra simili (per censo, non per idee), comunicando soltanto tra simili. Fuori, dall'altra parte del muro di protezione, ci stanno gli altri, il "popolo" che guarda, fotografa ("Hai visto? C' e' Fassino.. E c'e' anche la Melandri.."), applaude, saluta. Posso garantire che si tratta dell'identico fenomeno descritto in un celebre documentario di "Sciuscia'" sui Vip in Sardegna: un voyeurismo deprimente che la dice lunga su che cosa sia oggi il rapporto tra rappresentanti e rappresentati. Parliamo di persone che non sono piu' capaci neppure di andare al cinema se non per una "prima" con il posto riservato a proprio nome e rigorosamente assieme ai propri simili. Ceto e censo dirigente. Cosi' stando le cose, mi pare evidente che, quando si sente minacciato o contestato, il "grumo dirigente" non puo' che reagire in maniera speculare: piu' servizio d'ordine, piu' muro di cinta, piu' separazione. Dimenticavo: sabato ho visto l'onorevole Castagnetti (Margherita) sfilare tranquillo e serafico in mezzo al corteo, senza bodyguard. Nessuno gli ha detto nulla.
Proposta ai gruppi dirigenti: e cambiare stile????

VERDAD

da Alessandro Robecchi (Il Manifesto)

Verdad y paz, verità e pace. Della pace non dico, visto che ieri a Roma l'hanno raccontata benino e anche di più. Sulla verdad calerei un velo pietoso: dopotutto se siamo qui a manifestare, e là a sparare, e là ancora a saltare in aria sui treni è perché un paio di governi si sono fatti i rapporti dei servizi segreti su misura, a ricalco sui propri desideri di impero. I moderni inglesi hanno scaricato da internet la loro verità sulle armi di distruzione di massa; i modernissimi americani si sono fatti passare un dossier-pacco da un settimanale-pacco di proprietà di un premier-pacco che abita qui. Non c'è male come verdad.
Il fatto è che la democrazia si vanta molto di sé e dei suoi effetti collaterali, tipo la libertà di stampa, però ci sono momenti in cui le cose scricchiolano. Il premier Aznar che due giorni prima delle elezioni, con duecento civili morti sotto casa, telefona ai maggiori quotidiani per dettare il titolo di una falsa (e comoda) pista è una buona dimostrazione che tra potere e media il cortocircuito è all'ordine del giorno. E' una cosa che ha a che vedere con la stampa (aquiescente? Disposta alla menzogna? Vogliosa di compiacere e aiutare il potere?) ma anche con la democrazia. Uno, da cittadino democratico, vorrebbe che un premier, chiunque sia, davanti a una strage come quella di Madrid, si attivi in riunioni e vertici e si scapicolli nell'attività di intelligence invece di passare minuti preziosi al telefono per dare la linea ai giornali (anche dell'opposizione).
Ma non è solo questo: la cosa più stupefacente è come certi valori e doveri e diritti dati per acquisiti, saltino in pochi minuti davanti ad interessi "superiori". E come queste eccezioni ai sacri principi siano alla fin fine valutate con leggerezza, registrate e comunicate come un affaruccio burocratico. E' un po' quel che avviene al trattato di Shengen, o con la libera circolazione delle persone: con grandi feste e inni e parappàppà si comunica che i cittadini europei possono andare in Europa dove vogliono. Poi si blocca tutto se c'è una manifestazione. E comunque non vale per gli europei nuovi dell'est, che se circolano vogliono lavorare, e se vogliono lavorare rompono i coglioni alla famoso mercato. E' la democrazia flessibile, che stabilisce le dosi di libertà come fossero gocce di psicofarmaco, la stessa democrazia che può andare a far la guerra contro il parere della maggioranza dei propri cittadini, o rinchiudere all'infinito senza processo i presunti terroristi in gabbie per polli.
Se si può paragonare il piccolo al grande, il minuscolo segnale alle cose importanti e rischiose, ecco un altro esempio strabiliante. Qualche mese fa i principali giornali italiani scrissero (scusate il francesismo) che l'erede al trono di Gran Bretagna si sarebbe ingroppato un valletto. Ah, l'amour! Niente di male. Quei giornali non uscirono in Inghilterra, non furono distribuiti, la più antica democrazia del mondo bloccava la carta stampata che conteneva quel terribile gossip. Nell'era della fermezza si viene a patti volentieri e senza traumi con i propri princìpi.
La faccenda della menzogna, però, pare un po' sorpassata. Certe figure epiche della bugia - da Alì il comico in Iraq ad Acebes il comico in Spagna - ci hanno un po' vaccinato. L'emergenza non è smascherare i falsi, ma, in qualche modo, sopravviveregli. Perché oggi persino nella retorica di chi sostiene la guerra e nell'eloquio dei falchi quelle bugie che ci hanno portato in guerra sono accettate e bollate come bugie. I mentitori di ieri mettono su un'aria contrita, ma molto efficiente e realista e dicono: e adesso? Come uscirne? Sarà stato sbagliato andarci, ma ora che siamo là è impossibile venire via. Una logica da manicomio (non a caso perfettamente espressa dal "filosofo" ministro Buttiglione, ma anche da molti altri) che accetta la menzogna come motore della storia, un motore che poi non si sa bene come spegnere. Non fu così anche per la baia del Tonchino? Certo, si spara ovunque, la paz non sta benissimo. Se dipende dalla verdad, poi, c'è il rischio che stia pure peggio.

GIULIANO FERRARA (Il Foglio)


Il voto ad personam della destra parlamentare contro Adriano Sofri mostra chiaramente il carattere cialtrone della coalizione che governa questo paese. I suoi partiti, la maggioranza dei suoi deputati, il suo leader Silvio Berlusconi, uno che sa distrarsi come pochi altri quando non si tratti degli affari suoi, hanno dato una prova miserabile. Berlusconi aveva detto e scritto in coscienza, e si tratta della vita di un uomo e di un caso civile di evidente valore, che "sono maturi i tempi per la grazia a Sofri". Da un anno e mezzo si è fatto prendere in giro da un manipolo di vecchi missini riciclati e dal capociurma delle tifoserie varesotte della Lega, e dopo avere ceduto a questi inflessibili garantisti, a questi combattenti strenui per la libertà e il diritto, ma solo in casa propria e a proprio vantaggio, dopo aver rinunciato a esercitare dignitosamente le sue prerogative di guida, ha pensato bene di dare lo squillo di tromba della ritirata: il Cav. non vuole grane prima delle elezioni, e la legge Boato vada a farsi fottere, e con la legge tutto, coscienza personale e ragionevolezza politica e civile di una soluzione umanitaria alla quale si frapponeva solo l'idiosincrasia per gli "intellettuali" del burocrate che fa le funzioni di Guardasigilli e di quattro mozzorecchi forcaioli. Noi sul caso Sofri non abbiamo mai fatto, da sedici anni a questa parte, cioè da un tempo in cui Berlusconi si occupava solo del Milan e delle sue tv, una battaglia ideologica o anche solo politica. Abbiamo detto quel che pensavamo nell'ordalia dei processi, abbiamo chinato il capo e messo la più rigorosa sordina al nostro convinto innocentismo di fronte ai verdetti finali, abbiamo chiesto un provvedimento di grazia per un prigioniero esemplare, che era stato un imputato esemplare dal punto di vista del funzionamento dello stato di diritto in una democrazia moderna. Ci è stato detto che avevamo ragione, che la nostra richiesta era condivisa, e alla fine che la soluzione Boato era "ragionevole". Poi è stata tradita vergognosamente la parola data, e con un voto gaglioffo una legge che autorizzava il presidente della Repubblica a esercitare un potere che la Costituzione gli garantisce in via esclusiva è stata colpita e affondata per paura delle "pernacchie", come ha detto Er Pecora, uno degli statisti della Casa delle libertà e della galera. Questo giornale è nato da un patto d'amicizia non servile con Berlusconi, ora dovrebbe chiudere all'istante, insieme con un'amicizia consumata. Essendo un giornale minimamente utile, andiamo avanti nella più assoluta libertà, senza più illusioni e senza rancori, finché la proprietà editoriale non deciderà di cacciarci. Poi ne faremo un altro, se possibile ancora più bello.

21.3.04

LA VOCE CHE PARLA A DON GIANNI
di Luigi Castaldi


Ogni tanto due bravi, lo scettico pien di sussiego ed il materialista beffardo, si appostano ad un tratto della stradicciola lungo la quale solitamente vien don Gianni, in una mano reggendo il breviario, nell'altra la cintola dei pantaloni. Lo aspettano, come in un agguato, per chiedergli in una burbera celia che sa di tormento e sfida: "Ripeti, se n'hai ardimento: tu senti voci?" Lui n'ha e, fiero e mite in una, ammette: "Sì, le sento". Don Gianni ha un cuor di leone, non è mica un vaso di coccio.
Stavolta il bravo era uno solo, quel Sabelli Fioretti che è davvero bravo. In un punto di Sette, frazione di Corsera, ha atteso il nostro prete e gli ha chiesto: "Che voce era?" E quello a lui: "Una voce mentale che mi parlava dentro" (Sette, n.11/2004, pag.59). Lo scettico pien di sussiego ed il materialista beffardo, che il bravo giornalista riassumeva, ne son rimasti come scornati. A me quella risposta ha ricordato un libro: "Il crollo della mente bicamerale e l'origine della coscienza" (Adelphi 1984), di Julian Jaynes, professore di psicologia dell'Università di Princeton. L'ho tirato giù dallo scaffale. Lo ricordavo più smilzo, come succede sempre quando un libro ci è piaciuto, a suo tempo. Invece, più di 500 pagine. Da una d'esse ritrascrivo: "Alcune persone provano difficoltà perfino a immaginare che possano esserci voci mentali che si odono con la stessa qualità esperenziale di voci prodotte dall'esterno". Diremmo: bravi! Ma andiamo avanti ancora un poco: "Quali che siano le aree del cervello utilizzate, è assolutamente certo che tali voci esistono e che, per chi le sperimenta, sono assolutamente identiche a suoni reali". E ancora, un poco oltre: "Esse vengono udite in vario grado da molte persone assolutamente normali". Questo è quel che scrive lo studioso di neuroscienze, il cui libro costruisce una teoria con efficacissima pazienza: la nascita della coscienza nell'uomo è successiva al crollo di una mente bicamerale. In sintesi: ciò di cui, oggi, si ha coscienza, ieri, si aveva ascolto come di voce esterna. E' in questo modo, forse, che creammo il dio che ci aveva creato. Per questo Julian Jaynes afferma (cito i titoli di alcuni capitoli del libro): "La coscienza non è una copia dell'esperienza"; "La coscienza non è necessaria per i concetti"; "La coscienza non è necessaria per l'apprendimento"; "La coscienza non è necessaria per la ragione". Per poi ammettere, prove alla mano: "Nell'emisfero destro esiste una funzione vestigiale a carattere divino". A leggere questo libro, ce n'è di che far fuggire più d'un giornalista con la coda tra le gambe. Ma per loro fortuna i giornalisti leggono giornali, e i preti breviari.

Mi chiedo

di STEFANO BENNI (dal Manifesto, 20 marzo 2004)

Mi chiedo se non sarebbe corretto cambiare la definizione di "pacifisti" in "la maggioranza dei cittadini italiani contrari alla guerra". Mi chiedo, se è sensato e utile manifestare per la pace e penso, se il potere ogni volta ha un attacco isterico, allora deve essere anche più sensato e utile di quanto speravamo.

Mi chiedo se dopo che è stato dimostrato che l'Iraq non possedeva armi di sterminio, è più vile ritirarsi o è più vile accettare ogni menzogna e veleno di questa guerra.

Mi chiedo, se l'occupazione doveva riportare la pace in Iraq, perché si continua a morire più che in guerra. Se ciò è inevitabile, è frutto di incompetenza militare o è in parte pianificato.

Se l'Onu vuole esistere o continuare a lamentarsi che non esiste.

Se quello che dice il Papa sono gaffes.

Se tra i favorevoli alla guerra quanti sono onesti e convinti, quanti stanno soltanto dalla parte del più forte e quanti antiamericani in più ci sarebbero stati se Saddam avesse vinto e fosse diventato il primo petroliere mondiale.

Mi chiedo perché c'è chi diventa pacifista solo quando sa che c'è la televisione a riprendere.

Mi chiedo se quelli che tirano sempre in ballo Hitler è perché temono un suo ritorno o perché rimpiangono i suoi metodi.

Mi chiedo se c'è già un rapporto sulle armi di sterminio di Prodi.

Mi chiedo perché Berlusconi non è ancora andato a Nassiriya e poi me lo spiego. Uno, che coraggio pretendete da uno che ha paura anche di affrontare Fassino? Due, sta aspettando la settimana prima delle elezioni. Tre, il caldo scioglie il fard.

Mi chiedo dove sono finiti Saddam Hussein, Osama e il mullah Omar e se sono già cominciati i provini per il nuovo Satana.

Mi chiedo dove trova tutti questi soldi Al Qaeda se ogni conto era stato bloccato, e come mai si fermano gli aerei per un passeggero sospetto e non si riesce a intercettare un solo carico di armi.

Mi chiedo perché è più facile trovare una tonnellata di esplosivo che un carciofo a buon prezzo.

Mi chiedo se quelli che ti dicono sottovoce che comunque una bomba sui treni a Madrid è un bel colpo contro l'America sono stupidi, sanguinari o ignoranti in geografia.

Mi chiedo quanti strateghi televisivi giocherebbero entusiasticamente coi soldatini e il plastico, se in studio ci fossero i parenti dei soldati.

Mi chiedo se quando andrò a votare, voterò per il nuovo parlamento o per un rinnovo di consiglio aziendale.

Se dopo il voto resterò un cittadino sia nella maggioranza sia nella minoranza.

Se adesso che la Fininvest si è salvata dai debiti scenderanno in campo anche la Tim, la Fiat e il campionato di calcio. Il Bingo sappiamo già che si presenterà.

Se un premier che ha mandato Previti a corrompere i giudici tra tre anni deve ripresentarsi alle urne o al commissariato.

Se un premier che controlla il novanta per cento dell'informazione strilla contro il restante dieci per cento, che bella opinione ha della verità delle sue idee.

Mi chiedo se la sinistra istituzionale comincerà a chiamare le cose col suo nome una settimana prima delle elezioni, oppure la settimana dopo, o mai.

Se non si parla più delle Pidue perché ormai è tutta al governo o perché non è più di moda.

Mi chiedo, avendo quasi cento parlamentari la fedina penale sporca, se non sarebbe meglio sostituire l'obsoleto termine di onorevole col moderno termine di riciclabile. Il riciclabile Dell'Utri, parlando con il riciclabile Pomicino.... Mi chiedo perché la sinistra non ha il coraggio di togliere dalla liste persone che hanno la fedina penale sporca. Mi chiedo perché nessuno parla delle tangenti di Tanzi.

Mi chiedo a chi serve pensare che la magistratura è un monolito e non un istituzione complessa e contraddittoria, fatta di toghe rosse, subumani antropologicamente inferiori, collusi con la mafia, corrotti , piduisti, e uomini onesti che rischiano la vita.

Mi chiedo perché ogni giorno qualcuno mi dice che Sofri sta per uscire, e Sofri è sempre dentro.

Mi chiedo perché i banchieri hanno problemi cardiaci al momento dell'arresto e gli extracomunitari mai.

Mi chiedo perché dopo cinquant'anni di stragi senza un colpevole né sinistra né destra vogliono aprire i dossier segreti. Se è perché ci ritengono poco maturi o troppo maturi per giudicare.

Mi chiedo quando vado in banca se sto consegnando i miei risparmi a una grande mamma premurosa o sto finanziando qualche bancarottiere.

Mi chiedo se di questi tempi ha senso parlare di cultura e rispondo sì, perché questo governo ha una paura fottuta di ogni forma di intelligenza.

Mi chiedo se Goebbles avrebbe detto "quando sento la parola cultura metto mano al telecomando".

Mi chiedo perché nessuno dice che la televisione sta perdendo ascolto e i libri e le biblioteche resistono benissimo.

Mi chiedo perché siamo l'unica televisione in Europa che non ha una vera trasmissione per i libri.

Mi chiedo: se Vespa è il primo piano, chissà che schifo è il pianterreno.

Mi chiedo se è Baget Bozzo ad aver ispirato Jabba di Guerre Stellari, o viceversa.

Mi chiedo come fanno i ragazzi a essere se stessi se la riforma scolastica gli viene presentata da due cyborg liftati, patinati e cotonati come Silvio e Letizia.

Mi chiedo se la società Autostrade dà un Viacard per due mesi agli automobilisti rimasti bloccati per ore nella neve, se li sta prendendo per il culo o sta cercando di dargli il colpo di grazia.

Mi chiedo se faranno prima il ponte di Messina o la bretella di Mestre.

Mi chiedo quando rifaranno un cellulare che serve solo per telefonare.

Mi chiedo se i cortei per la pace sono più veloci o io sono diventato più vecchio.

Mi chiedo cosa avrebbe scritto oggi Luigi Pintor.

Mi chiedo quanto continueremo a definire anomalo un clima ormai normalmente disastroso.

Mi chiedo se un documento di settecento grandi scienziati che prevede il collasso della terra entro cinquant'anni è meno importante di una pieno di benzina.

Mi chiedo se dobbiamo clonare gli uomini o migliorare i prototipi.

Se non sarebbe meglio ammettere che non esiste un Dio ma tante idee di Dio, non un terrorismo ma cento terrorismi, e che ogni guerra è diversa dall'altra, ma abbiamo un mondo solo.

Mi chiedo se il decimo pianeta recentemente scoperto, non sia quello pronto a sostituirci.

18.3.04

AZNAR E LA GUERRA IMPOSTA

di Massimo Fini (Il Gazzettino)

Dopo la vittoria socialista in Spagna alcuni esponenti del Polo hanno affermato che «sono le prime elezioni decise dai terroristi» e il ministro Gasparri ha detto che «il risultato di questo voto è davvero una sconfitta della democrazia».
Io penso che bisognerebbe avere un po' più di rispetto per gli elettori e per la democrazia. Le elezioni spagnole sono state decise dai cittadini di quel Paese, che hanno una testa per pensare, e il responsabile della bruciante sconfitta del governo Aznar è innanzitutto Aznar. Se il governo spagnolo avesse mandato le truppe in Iraq col consenso della maggioranza del proprio popolo, gli attentati di Madrid non avrebbero cambiato l'esito del voto perché i cittadini spagnoli decidendo di partecipare a una guerra si sarebbero assunti anche la responsabilità delle conseguenze. Il fatto è che Aznar è andato in guerra contro la volontà della maggioranza del proprio popolo, in una misura ancora maggiore di quanto sia avvenuto in Italia (l'85\%, secondo un sondaggio condotto da un istituto pubblico). Ora, in democrazia non dovrebbe essere possibile fare una guerra contro la volontà della popolazione. Queste cose le poteva fare forse Mussolini. La guerra è un evento fondante nella vita dei popoli e parteciparvi è la decisione più grave e impegnativa che una Nazione possa prendere. Per le implicazioni pratiche e morali che ha, fra cui c'è quella di legittimare l'omicidio e di accettare, ovviamente, la possibilità di essere colpiti allo stesso modo. Se non si richiede il consenso per cose di questo genere, mi domando per che cosa mai lo si debba chiedere.
Forse le dirigenze occidentali si sono abituate male. Si sono abituate a quella che viene chiamata la guerra "post-eroica" dove uno solo, noi, può colpire e l'altro solo subire. Così è stato nella prima guerra del Golfo, così in Bosnia, così in Afghanistan e così anche in Jugoslavia nel 1999 dove i serbi, che sul terreno sono i migliori combattenti del mondo (e lo dimostrarono contro le armate di Hitler ritardando di tre settimane decisive l'attacco dei nazisti all'Urss) non poterono far altro che prendersi le bombe che venivano scagliate da un'altezza per loro irraggiungibile. E bisogna dire che i serbi furono molto cortesi con noi italiani perché se, mentre noi facevamo il palo per gli americani che li massacravano, avessero gettato un paio di missili su Bari o su Ancona non vedo che cosa ci sarebbe stato da ridire.
I musulmani sono meno cortesi. In Iraq fanno guerra di guerriglia colpendo obiettivi prevalentemente militari, fuori fanno terrorismo ammazzando i civili. Il terrorismo è infame, appunto perché colpisce civili. Ma anche la guerra "post-eroica" colpisce civile - e in misura molto maggiore del terrorismo globale - in modo consapevole perché quando per mesi si bombardano da diecimila metri di altezza, senza avere il coraggio e la lealtà di scendere sul terreno, città come Baghdad, Belgrado, Kandahar, si sa benissimo che gli effetti saranno quelli (nella prima guerra all'Iraq i bambini uccisi sono stati 32.195, in quella attuale la stima delle vittime civili varia da 15 mila a 55 mila). La guerra fra la guerra "post-eroica" e il terrorismo globale è la cosa più abbietta che sia mai stato dato di vedere. Ma questa, grazie alla tecnologia, è la guerra moderna. E diciamo anche un'altra verità, molto sgradevole: nella cosiddetta "guerra asimmetrica", dove le potenze occidentali hanno una superiorità di armamenti inarrivabile, non si vede con cosa possano battersi "gli altri" se non con il terrorismo. L'enorme disparità tecnologica ha ucciso per sempre la cara, vecchia, onesta guerra fra Stati, con la sua epica, la sua estetica e anche la sua etica, per lasciare il posto alla carneficina, senza onore e senza gloria, che vediamo oggi, da una parte e dall'altra.
È anche perché sapevano o intuivano e temevano le conseguenze cui sarebbero andati incontro sulla loro propria pelle, partecipando a una guerra cui nulla, ma proprio nulla, li obbligava (a differenza, poniamo, degli inglesi), che gli spagnoli, come gli italiani, erano contrari. Non si tratta di essere pacifisti a tutto tondo e calabraghe, alla Bertinotti, ma di non condividere una guerra, questa, all'Iraq e di non essere sufficientemente motivati per accettarne gli inevitabili contraccolpi, che per gli spagnoli sono stati gli attentati di Madrid e per noi Nassiriya.
Aznar ha voluto fare la guerra lo stesso, accodandosi agli Stati Uniti. E il suo popolo l'ha punito. Non si dice sempre che essenza della democrazia, ciò che la distingue da ogni altro regime, è poter punire le proprie classi dirigenti, quando non ci convincono, cambiandole? Quale altro potere democratico resta a noi cittadini, che pur ne siamo formalmente i depositari, se non questo? Ecco perché, checché ne pensi il ministro Gasparri, il voto di Spagna non è stata una sconfitta ma una vittoria della democrazia. Sempre che per democrazia si intenda un regime in cui il cittadino conti ancora qualcosa.

PACE E GUERRA - Venite a Madrid

di LUIS SEPÚLVEDA (Il Manifesto, 16 marzo 2004)

Venite a vedere il sangue per le strade di Madrid. Erano donne, uomini, bambini, anziani, la semplice e pura umanità che cominciava un altro giorno, un giorno di lavoro, di sogni, di speranze, senza sapere che la volontà assassina di qualche miserabile aveva deciso che fosse l'ultimo. Venite a vedere il sangue per le strade di Madrid, questa città amata in cui tutti arrivano e tutti sono benvenuti. Venite a vedere gli appunti, i libri, le cose sparse fra i resti del massacro. Venite a vedere un giorno morto e il dolore di una società che ha gridato mille volte il suo diritto di vivere in pace. Scrivo queste righe mentre ascolto i notiziari e posso solo pensare alla tristezza delle aule, delle tavole, delle case a cui non ritorneranno più quelle centinaia di cittadini, di fratelli e sorelle le cui vite sono state stroncate in un miserabile atto di odio, perché l'unico obiettivo del terrorismo è l'odio contro l'umanità, perché non c'è causa che possa giustificare l'assassinio collettivo, perché non esiste idea che valga un genocidio, perché non esiste giustificazione alcuna di fronte alla barbarie.
Venite a vedere il sangue per le strade di Madrid, assassini, e verificate che sebbene è certo che ci avete sprofondato nel dolore, lo è altrettanto che con questo crimine inqualificabile una volta di più non avete conseguito nulla. Il valore dei madrileni che immediatamente si sono riversati a soccorrere i feriti, a donare il sangue, a facilitare il lavoro delle forze di sicurezza e di salvataggio, è stata l'immediata risposta morale di una città fraterna, di una cittadinanza responsabile e solidale. Mentre scrivo queste righe so che gli assassini stanno nelle loro tane, nei loro ultimi nauseabondi nascondigli perché non ci sarà luogo sulla o dentro la terra dove possano nascondersi e sfuggire al castigo di una società ferita. So che guardano la televisione, ascoltano la radio, leggono i giornali per misurare i risultati della loro codardia, l'infame bilancio di un atto che ripugna e che ha trovato solo la condanna dell'umanità intera.
Venite a vedere il sangue per le strade di Madrid, venite a vedere il giorno inconcluso, venite a vedere il dolore che lascia allibiti, a sentire come l'aria di un inverno che si ritira porta il «perché?» per i parchi amorosi, le fabbriche, i musei, le università e le strade di una città il cui unico modo di essere è e sarà sempre l'ospitalità. Assassini; la vostra zampata d'odio ci ha causato una ferita che non si chiuderà mai, però siamo più forti di voi, siamo meglio di voi, e l'orrore non interromperà né piegherà quella normalità civica, cittadina, democratica che è il nostro bene più prezioso e il migliore dei nostri diritti.
Venite a vedere il sangue per le strade di Madrid, anche il cinismo di quelli che hanno provato a lucrare sul dolore di tutti, di quelli che manipolano le lacrime e la disperazione, di quelli che non vedono orfani, vedove, esseri mutilati ma solo voti.
Venite a vedere il sangue per le strade di Madrid, di questa città che ha gridato «pace» con voce unanime, e il suo grido è stato ignorato da un servo dell'imperialismo nordamericano, da un lacché del signore della guerra che pretende di governare il mondo, ed è solo riuscito a portare l'orrore in Europa.
Venite a vedere il sangue per le strade di Madrid, il lavoro sereno di medici e infermiere, il gesto triste dei governanti solitari, e anche il sorriso infame di un buffone italiano, l'unico al mondo ad assecondare Aznar con le sue menzogne.
Venite a vedere il sangue per le strade di Madrid, bagnateci le vostre mani e scrivere «pace» su tutti i muri della terra.

16.3.04

E' INTELIGENCE, MA NON SI APPLICA

di Gianluca Neri (Macchianera)

Scrive Camillo, riguardo agli attentati di Madrid: "La colpa viene al solito data alle vittime, agli israeliani che vengono massacrati, agli americani che danno da mangiare ai musulmani e non hanno la pensione e la sanità solo perché ci hanno dovuto salvare due volte in 50 anni".
Christian Rocca, la versione intellettuale di Natalino Russo Seminara (quello che proprio su questo blog ha scritto: "Eta o Al Quaeda che siano stati a mettere le bombe, sono entrambi amici, anzi soci, vostri") sostiene, insomma, che "ora che attaccano anche qui in Europa, dove siamo così buoni, dicono che la colpa non è dei fascisti islamici ma della coca cola medesima".
Poi aggiunge: "Infine accusano Aznar che aveva capito come l'attacco riguardasse anche noi". Ora: io Aznar l'ho visto in tv poco dopo gli attentati dichiararsi sicurissimo fosse stata l'Eta, e sarà questo, sarà che spesso a fare i seguaci del Lombroso ci si indovina, ma non mi ha dato affatto l'impressione di uno che fosse in grado di capire qualcosa prima di chiunque altro.
Conclude, Camillo, con un monito: "La guerra al terrore si combatte con l'intelligence". Io rispondo: un cazzo. La guerra al terrore si combatte facendo la guerra al terrore, non alle sue controfigure. E per carità, mettetela da parte l'intelligence, la boria da nazione dominante che piazza e spazza carri armati da un tavolo di Risiko grande quanto tutto il mondo, senza aver capito una beata fava delle regole.
La guerra al terrore si combatte senza finanziarlo quando non fa ancora paura, ad esempio. Senza usarlo a mo' di ruffiano per recapitare un messaggio ad un nemico comune. Si fa senza reggere il moccolo durante guerre altrui. Si fa senza finanziare colpi di stato e senza piazzare alla guida della nuova colonia ceffi scelti nel corso un casting tra quelli che più hanno la faccia di uno che appena ti giri te lo mette nel culo. Si fa senza fare affari con i suddetti. Senza difenderli da criminali di eguale portata, e senza vendergli armi coltivando l'insana convinzione che è meglio vinca il meno peggio.
La guerra al terrore si combatte senza neanche sperare che il terrorismo possa essere completamente sconfitto, che si possa mettere fine ad una cosa che esiste da che mondo è mondo, come il male, il dolore, la pioggia, i monsoni, i neoconi. Poi, si fa prendendo la mira: colpendo Al Quaeda quando è il caso, e non sparando a casaccio, così tanto per fare incazzare il più alto numero di terroristi possibile, pure quelli che Osama lo impiccherebbero per primi, con le loro mani.
La guerra al terrore si combatte senza raccontare balle, tipo sostenere che l'attentato ai Carabinieri di Nassirya era opera di Al Quaeda, o che Saddam Hussein - uno cui i talebani stavano persino sulle palle, uno che era stronzo di persé, senza alcun bisogno dell'aiuto di una religione - finanziasse la rete di Osama Bin Laden e non, piuttosto, il terrorismo in generale.
E, infine, la guerra al terrore si combatte senza andare a riverire quelli che nel giro di un decennio finiranno nell'album di figurine dei "most wanted". Perché non c'ero io, il 20 dicembre 1983, a Baghdad, a stringere la mano a Saddam. E non c'erano nemmeno i tanti che dell'intelligence statunitense si fidano quanto di lasciare la figlia in compagnia di Valerio Merola in overdose da Viagra. C'era invece Donald Rumsfeld, inviato da Reagan e scelto dalla Casa Bianca come responsabile per il Medio Oriente. E ci tornò pure l'anno successivo, nello stesso giorno in cui le Nazioni Unite pubblicarono un dossier che dimostrava l'utilizzo di gas nervino da parte dell'esecito iracheno contro le truppe iraniane.
Accanto a Rumsfeld, insomma, non c'era nessuno di quegli impenitenti stronzi che i neoconi deplorano per aver gioito alla mancata rielezione di Aznar, mentre dichiarava al New York Times che "i diplomatici americani si dichiarano soddisfatti delle relazioni tra Iraq e Stati Uniti e, in nome del rinnovato rapporto di fiducia, suggeriscono la ripresa dei normali rapporti diplomatici"

14.3.04

CHE SORPRESA: SILVIO VUOLE LA TV A SCUOLA

di Alessandro Robecchi (Il Manifesto)

Ma tu guarda come va il mondo. Qui finisce che Silvio ce lo faremo spiegare da una adolescente dell'Ohio, Crudelia Moratti da un teenager della Georgia. Dopo il tam-tam mediatico e l'overdose tele-radiofonica del "premier" e il monologo-vespasiano in seconda serata, la riforma della scuola finisce che ce la spiegano le cronache Usa - avamposto del liberismo - più che l'accalorato eloquio del liftato. Già, perché Silvio l'ha buttata lì senza parere, quasi en passant: nelle ore di refezione, a scuola, si potrà guardare alla tivù un divertente programma televisivo per imparare l'inglese. Ecco sdoganata la tivù anche nelle scuole, la tivù come educatore, la tivù-supplente. La tivù.
Per informazioni si può chiedere a Carlotta Maurer, 14 anni (nel 2001), studentessa di una scuola dell'Ohio, che per il rifiuto di guardare la tivù a scuola, nelle ore di lezione, è finita addirittura in galera. Storia poco edificante, ma vera. Perché negli Usa - come vanta il sito di Channel One -12.000 scuole pubbliche (350.000 classi, un totale di 8 milioni di alunni dai 6 ai 14 anni) si "formano" assistendo nelle ore di lezione al telegiornale "per ragazzi" prodotto dal Network "educativo" privato. Ogni dieci minuti di "lezione", due minuti di pubblicità, un affarone per le scuole (un telecomando costa pur sempre meno di un docente) e per il Network (otto milioni di spettatori obbligati sono un bel pacco di dollari di spot); un furto di sapere e dignità per i bimbi, ipnotizzati dalla tivù (e dunque incoraggiati a capire come va veramente il mondo). Fu così che Carlotta Maurer, 14 anni, fece il suo gesto di ribellione, uscendo dall'aula una bella mattina, dicendo che a vedere la tivù e a chiamare tutto questo scuola non ci stava. Grande preoccupazione delle gerarchie dell'istituto, allarme per il ribellismo adolescente e misure drastiche: un po' per ammonimento e un po' per punizione, Carlotta passò la giornata al Wood County Juvenile Detention Center, riformatorio della contea, insomma in galera.
Inutile dire che Carlotta è diventata una specie di simbolo, la punta di lancia della protesta, un "caso clamoroso". Per quanto, a dirla tutta, sembra un "caso" ancor più clamoroso e terrificante che otto milioni di marmocchi americani della scuola pubblica (quel che ne resta) siano educati dalla tivù. Tornando a casa nostra, non si fatica a capire che il maggior beneficiario del mercato pubblicitario - incidentalmente anche capo del governo - sia favorevole alla televisione che insegna l'inglese (e l'impresa? E l'informatica? Si torna sempre alle tre I di Berlusconi: I soldi, I soldi, I soldi).
Ma il problema liberista con la scuola pubblica è proprio questo: è una cosa che deve dare, e non prende niente. Eppure la scuola di cose da vendere ne ha. Per esempio - come spiegano i pubblicitari americani - ha un bene inestimabile: l'accesso agli studenti. Un mercato interessante, immenso, un prorompente serbatoio di consumi. Diciamo la verità: nel clima attuale di smantellamento generalizzato del pubblico, qualcuno si scandalizzerebbe se una grande impresa donasse computer a una scuola? Se sul tappetino del mouse ci fosse il nome del gentile sponsor? Se il libro di testo te lo regalano, puoi sopportare che in copertina ci sia la pubblicità dei fiocchi d'avena, o le facce delle star di Fox tv? Se con i tuoi ditini incerti impari a contare due più due, ti secca proprio farlo con le caramelle Tootsie Roll? Esilarante il caso di bibite e merendine: piani decennali consentono alle scuole di incassare milioni di dollari assicurando la distribuzione di coca-cola. Contratti che contemplano anche sostanziosi bonus in caso di incremento delle vendite, per cui si assiste allo spettacolo di presidi e professori che caldeggiano l'uso di bibite gassate, anche in classe, che piazzano meglio i distributori, che ammaestrano gli alunni a un filo-aziendalismo sospeso tra il ridicolo e il talebano. Anche questa piaga ha il suo piccolo eroe, ovvio. Mike Cameron, 17 anni (nel '98) decise che non era per niente contento di celebrare al suo liceo - la Greenbrier High School di Evans, in Georgia - il coke-day, la giornata dedicata allo sponsor, in cui tutti, studenti e insegnanti, cantano le lodi delle bollicine che cacciano i soldi per la scuola. E' una cosa che fa un po' Corea del Nord, se ci pensate, e Mike non ci sta, va a scuola con una maglietta della Pepsi e viene espulso. Un caso da manuale su come rendere privata la scuola pubblica. Un manuale che forse Silvio & Crudelia hanno studiato per bene.

13.3.04

PICCOLA POSTA

di Adriano Sofri (Il Foglio)

Ho senz'altro una ripugnanza per Marco Travaglio, ma anche per troppi altri, e ne cavo la conseguenza di tacerne. Qualche volta preferisco di no, perché mi sembra che la mia esperienza possa illuminare meglio una questione generale. Così, qualche tempo fa, svolgendosi la elegante discussione sulle pezze al culo, pensai di scrivere all'Unità, ma lasciando il direttore libero - sul serio, non per buona educazione - di non pubblicare la mia lettera se solo gli fosse dispiaciuto, perché Travaglio è un suo ingente collaboratore.
Per esempio ieri, nella sua rubrica, Travaglio ha concluso un catalogo di nomi contemporanei (Previti, Berlusconi, Baget Bozzo, Cirami, Ferrara, Tanzi, Cesare Battisti jr, Delfo Zorzi, e Gaetano Pecorella) con la seguente frase: "A questo punto, profittando della confusione generale, Sofri chiede la scarcerazione di Priebke". Bene. Ecco il testo della mia lettera che l'Unità, con il mio sentito consenso, non pubblicò.
«Caro Furio Colombo, il tuo editoriale di lunedì mi induce a descriverti la mia esperienza personale del caso Travaglio, benché sappia che non potrà che procurarti un dispiacere. Però, al di là della mia rivendicata parzialità, conto che la trama abbia una sua vivacità. Andrò a ritroso, così risalendo anche la carriera di quello specialista investigativo. Prendo a pretesto un incidente di pochi giorni fa, quando si è grottescamente perfezionato un quindicennio di dannazione e contraffazione della mia persona: l'Enciclopedia Rizzoli-Larousse (come la chiamerò piuttosto: prestigiosa? Autorevole?) nell'edizione a diffusione straordinaria che accompagna il Corriere della Sera ha pubblicato, come l'Unità ha riferito, alla voce "Brigate Rosse", una fotografia che ritrae me e Renato Curcio, con la didascalia: "Renato Curcio e Adriano Sofri, militanti del cosiddetto 'nucleo storico' delle Brigate Rosse".
Quando me l'hanno mostrato, non mi sono nemmeno stupito, né indignato. Mi è sembrato poco meno che ovvio. Un tocco finale. Il Corriere ha definito l'episodio un errore, e l'errore "imperdonabile": aggettivo appropriato. La circostanza della foto (sul cui fondo figura infatti Bruno Vespa) era la mia partecipazione, con Curcio e con esponenti politici di partiti varii, a una puntata di "Porta a Porta" dedicata alla eventualità di un indulto, già nel giugno del 1996. Sulla prima pagina del quotidiano Il Giorno quella trasmissione fu commentata, col titolo "I cattivi maestrini ci risparmino le loro prediche", dalla firma, a me del tutto sconosciuta, di Marco Travaglio.
Il quale, dopo aver deplorato i "furtivi incontri amorosi fra D'Alema e Fini, Prodi e Berlusconi, repubblichini e partigiani", ospitati dal "paraninfo catodico Bruno Vespa", spendeva la sua retorica squadristica contro "il duo Anni di Piombo", cioè io e Curcio, e concludeva così (ti prego di leggere con attenzione): "Implorino l'indulgenza plenaria da quello Stato borghese che ancora vent'anni fa sognavano di rovesciare. Ma lo facciano alla chetichella, dietro le quinte, con un fil di voce, lasciando perdere le tv e i giornali, che non fanno per loro. E quando usciranno di galera, lo facciano in punta di piedi, strisciando contro i muri magari nottetempo, senza farsi vedere né sentire. Poi, possibilmente, evitino di impartire lezioni, di pubblicare articoli, libri, memoriali, mie prigioni. Meglio che scompaiano dalla circolazione. Perché a qualcuno, sentendoli ancora parlare, potrebbe venire la tentazione di ripensarci e di andarli a cercare. Lievemente incazzato".
Hai letto con attenzione? Sono stato assai addolorato quando la polemica fra il Foglio e l'Unità ha evocato istigazioni all'omicidio o volontà di chiudere la bocca all'avversario. Oltretutto, si rischia di smarrire il senso delle vere istigazioni all'omicidio. Cose scritte su Lotta Continua (non fui mai io a scriverle, ma, per dirla brutalmente, Lotta Continua ero io, e dunque me ne assunsi la responsabilità) contro Calabresi tra il 1969 e il 1972 furono istigazioni all'omicidio. Che cos'era l'articolo del 1996 di quello sconosciuto Travaglio? Allora io telefonai al Giorno, declinai l'offerta del direttore di rispondere sulla prima pagina del giornale, e trasmisi una dettagliata informazione privata sul mio indirizzo, i miei orari e i miei itinerari, da trasmettere a Travaglio, per l'eventualità che volesse intanto venire lui "a cercarmi".
Non vidi comparire sul mio viottolo quel giustiziere. Poi Travaglio si esercitò anche sul Borghese, con due lunghe puntate di illustrazione "investigativa" della mia vicenda giudiziaria, sulle quali la mia opinione non può esser detta con parole vigilate. Sull'Espresso Travaglio avrebbe poi compilato una quantità di testi contro me, raccolto dalla più spregevole mondezza l'insinuazione sui depistaggi degli ex di Lotta Continua per l'assassinio di Mauro Rostagno, protestato contro i miei famosi privilegi carcerari, e in genere contro la rilassatezza dei tribunali e delle galere nei confronti dei delinquenti comuni. Qualche ulteriore riflessione di questa portata Travaglio ha poi trasferito nelle sue rubriche sull'Unità.
Ecco. Immagino di darle un dispiacere. Non ho niente da obiettare alla presenza di chiunque sui giornali o gli schermi di più diverso orientamento politico - io stesso vado dovunque mi invitino - e confido, nella confusione dei tempi, su quello che si dice e si è piuttosto che sull'anagrafe ufficiale. E considero del tutto irrilevante la discussione sull'eventualità che Marco Travaglio sia di destra o di sinistra; e anche, ma con più pena, sulla presa che lo stile di Marco Travaglio (o di Antonio Di Pietro) fa sullo stato d'animo di persone che si sentano di sinistra e moralmente intransigenti. Non entro in dispute come quella sollevata a proposito delle pezze al culo: non hanno bisogno di me, né io di loro. La mia incresciosa situazione mi esenta da ogni solidarietà di schieramento. Ho una cella singola, sono una minoranza di uno: è della mia personale esperienza che ti ho voluto parlare. Buon lavoro".

10.3.04

Digitale Terrestre
da Fausta Maria Rigo

Caro Sabelli, no, non è un attacco di grafomania. Quelli che seguono sono i pro e contro del DT, molti contro pro... Il digitale terrestre è una modalità di trasmissione con cui si cerca di risolvere l'annosa diatriba sorta delle frequenze radiotelevisive: infatti non verrà più occupata una frequenza da ogni emittente ma tutti potranno trasmettere sulla stessa o su gruppi di frequenza comuni (Esempio: se ora i 7 canali nazionali impegnano 7 frequenze differenti, con il digitale terrestre ne impegneranno solo una, liberando così lo spazio per altri canali, ma questo non sembrerebbe essere il progetto...).

Il segnale unico che arriverà così nelle nostre case verrà decodificato da un apposito dispositivo detto "Decoder" che, in base al canale da noi prescelto, decodificherà solo la parte dei segnali di nostro interesse, il tutto - si dice - senza modificare l'impianto d'antenna esistente. Il Decoder, a detta dei suoi sostenitori, sarà pure interattivo: ciò significa che si potrà sfruttare questa tecnologia per il televoto e per giocare da casa a quiz e giochini televisivi, nonché per disporre di altri servizi semplicemente collegando il decoder ad una presa telefonica. (Ricevo dall'etere e trasmetto sul doppino telefonico!)

Per approntare nei tempi stabiliti (si parla del 2006) la Televisione Digitale Terrestre Italiana lo Stato sborsa dalle proprie casse un contributo di EUR135 per singolo decoder.

Ma allora, vi chiederete, dove sta il problema? Qualche delucidazione.

Uno.
Esistono 3 tipi di Decoder:
- il primo si aggira intorno ai EUR 135 (quelli del contributo): permette solo di decodificare il segnale e non offre servizi interattivi (ah, ah!);
- il secondo si aggira intorno ai EUR 250 e sembrerebbe essere completo di quasi tutti i servizi di livello base;
- il top della gamma, infine, si raggiunge con EUR 400 disponendo di tutti i servizi previsti

Due.
I decoder sono stati approntati senza conoscere né le reali esigenze di mercato, né tantomeno i servizi che si intendono offrire (a buon intenditor: qualcuno ricorda il caso dei decoder satellitari proposti per i Clienti italiani qualche anno fa?) mettendo a rischio l'investimento economico fatto per il decoder circa possibili (e probabili) premature modificazioni degli standard tecnologici.

Tre.
Una volta fatto l'acquisto si arriva a casa, si collega il tutto e non funziona! Si scopre così che bisogna chiamare il tecnico antennista per modificare l'impianto... Il tutto per VEDERE GLI STESSI CANALI CHE VEDEVATE PRIMA!

Quattro.
Chiamato l'antennista e sostenuto il piccolo/grande salasso (ormai siete in mezzo al guado e ne va della vostra reputazione), potrete accomodarvi "finalmente" nel salotto di casa vostra e godervi GLI STESSI CANALI CHE VEDEVATE PRIMA!

Cinque.
Qualche istante prima che cominci la partita di calcio sorgerà un altro problema: vostra moglie vorrà andare in camera da letto a guardarsi il film dell'autore preferito e scoprirà amaramente che non potrà farlo perché il decoder decodifica una canale alla volta, cosicché tutti i membri della famiglia saranno costretti a vedere ciò che viene decodificato in quel momento: la partita!

Sei.
Dopo aver sperimentato in più occasioni l'annoso problema della contemporaneità, speso qualche altro Euro in improbabili sistemi di ripartizione, vi accorgerete che l'unica soluzione sarà quella di acquistare un decoder per ogni televisore che avete in casa. Il tutto per VEDERE GLI STESSI CANALI CHE VEDEVATE PRIMA!

Sette.
Vi accorgerete che oltre al cane, tutte le sante volte che andrete a riaprire la vostra bella casetta di campagna/montagna/mare, dovrete preoccuparvi di portare con voi il benedetto decoder, a meno che non vogliate acquistarne altri. Il tutto per VEDERE GLI STESSI CANALI CHE VEDEVATE PRIMA!

Otto.
Dopo qualche mese (o anno) di tribolazione aspettate di sperimentare l'interattività offerta dal sistema televisivo digitale terrestre (che ricordo dovrebbe essere bidirezionale): qualche tentativo più tardi scoprite che il vostro decoder non riesce a condividere la linea telefonica con gli altri dispositivi di casa (telefono voce, allarme, fax, personal computer, telesalvalavita, ecc. ecc.) pertanto dovrete ri-chiamare il tecnico per far installare qualche filtro. Dopo qualche tentativo scoprirete che per impiegare l'interattività offerta, dovrete rinunciare a qualche apparecchio collegato alla linea telefonica e pagare qualche Euro di connessione. Il tutto per VEDERE GLI STESSI CANALI CHE VEDEVATE PRIMA!

Nove.
Mentre vi affannate a convincere voi stessi (e senza successo vostra moglie la quale aveva già previsto tutto) che i costi sostenuti avevano un senso, dopo aver acquistato l'ultima meraviglia, il mega impianto Home-Theatre scoprirete che il segnale, banalmente, è solo stereofonico e che tutti gli effetti audio desiderati non sono disponibili. Il tutto per VEDERE GLI STESSI CANALI CHE VEDEVATE PRIMA!

Dieci.
Nonostante possiate esibire a parenti ed amici l'ultimo acquisto pubblicizzandone pregi e vantaggi, dovrete comunque continuare a pagare:
- la connessione telefonica all'operatore di vostro maggiore gradimento;
- l'abbonamento al digitale satellitare per le partite, le anteprime cinematografiche ed i cartoni animati;
- la tessera del noleggio DVD
- dulcis-in-fundo l'abbonamento RAI
Mentre avrete già dato per l'acquisto del decoder e per le (annose) attività di contorno.
Il tutto per VEDERE GLI STESSI CANALI CHE VEDEVATE PRIMA!
E allora?

8.3.04

FIORI FALSI
Restituiteci la bella sagra e liberate il telegiornale

di Michele Serra (Repubblica, 7 marzo 2004)

Ieri, al TG1 delle 13,30, la parole del Capo dello Stato contro la grazia a Priebke sono andate in onda dopo Adriano Pappalardo che cantava "Papaveri e papere" insieme a Fabrizio Del Noce. Il primo quarto d'ora del primo telegiornale italiano, tranne una brevissima apertura sul maltempo, era tutto su Sanremo, anzi su Del Noce a Sanremo: intervista di Mollica a Del Noce, poi il duetto Pappalardo-Del Noce, infine Cattaneo e Del Noce che ricevono una mesta delegazione di abbonati Rai. Infine uno scellerato scorcio di Umberto Bossi e Mino Reitano che cantano, da Vespa, "Italia/Padania".

Anche se forma e sostanza erano da Istituto Luce, l'idea trasmessa da quell'incredibile tigì non era di "regime", bensì di pazzia. Uso il termine con delicatezza, non volendo offendere alcuno, semmai difendere la Rai, il TG1, Sanremo, noi pubblico e perfino Del Noce dal collasso logico, culturale e perfino commerciale che ha condotto, negli anni, a sovraccaricare un'antica sagra popolare di tali e tante aspettative, speranze e vanità da farla piegare su se stessa come certi tralicci dopo certe nevicate.
Siamo tutti qui a discettare sul meno cinque o più cinque per cento, come se il paralizzante, malato narcisismo televisivo dovesse riguardare un intero paese e non solamente i tre o quattro ufficetti competenti. E dimentichiamo di dire la cosa più semplice, meno intellettuale e più vera, e cioè che Sanremo è una vecchia gara di canzoni divenuta, suo malgrado, il teatro di guerra di troppe megalomanie, da quella politica (squallido, anzi super-squallido il dopofestival infarcito di onorevoli imbarazzati e imbarazzanti; orribile l'ipotesi, anche solo ventilata, di un gemellaggio Ariston-Nassiriya) a quella televisivo-pubblicitaria.

Il grottesco overdosaggio di immagini, commenti, commenti sui commenti, deborda da un contenitore troppo piccolo, e soprattutto incongruo: il dibattito sulla mafia non merita di essere riaperto da Tony Renis; quello sul federalismo e l'unità nazionale, affidato ai primi piani di Bossi e Reitano, diventa una insopportabile presa per il culo; Dustin Hoffman che dice "cacca" non può costituire materia di articoli di inviati che sono stati in Afghanistan a rischiare la pelle; e il bipolarismo Rai-Mediaset, con la nevrastenica conta mattutina delle oscillazioni Auditel, è appena una bega aziendale e non può diventare materia di analisi politica per un intero paese.

Si restituisca Sanremo alla casalinga di Voghera, che ne è stata espropriata. Si renda omaggio alla fatica degli artisti (Ventura, i suoi compagni di palco, gli autori, gli orchestrali, i cantanti: non è colpa loro se oggi, in Italia, si è giovani promesse a quarant'anni), che sono riusciti a lavorare perfino in un contesto così nevrotico e arbitrario. Si scrivano, per favore, meno pagine di giornale (questa compresa) su un evento che è ormai un ricatto mediatico in piena regola. Si salvi Sanremo volendogli bene e rispettandone l'adorabile insulsaggine, riportandolo alle tre serate canoniche, due di eliminatorie e una finale, un giovedì venerdì e sabato da paese normale, un paese dove il Capo dello Stato che si pronuncia su un eccidio di italiani passa, al telegiornale, prima e non dopo Pappalardo


MANTOVA-SANREMO
Celentano, un sotterfugio inutile - Il boom di Mantova contro i detrattori

di Antonio Dipollina

Pur disponendo di alcune bellissime canzoni recenti, Celentano ha fiutato l'aria che tirava al Festival e ha cantato un rock del 1957. Sul resto, meglio che l'ala dell'oblio scenda giù veloce. Ed è auspicabile che presto si vendano in giro t-shirt con la scritta "Io non ho amici criminali".
***
Gli ascolti dimostrano peraltro che il sotterfugio di chiamare Celentano confidando nel fatto che uno sguardo alla telecamera risolva tutto, è vecchia di almeno dieci anni e non ci casca quasi più nessuno. Per non parlare dell'idea che ancora qualcuno sia interessato a quello che Celentano dice. La sua frase sul Festival di Mantova ("Perché fare un altro festival se il festival è già qui?") la dice lunghissima sulla profondità delle argomentazioni. Il giardiniere Chance, quello del film, quello che diceva: dopo la primavera viene l'estate e poi l'inverno, risale a venticinque anni fa.
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Nel dubbio, comunque, Celentano è stato spinto sul palco un minuto dopo che a Brescia l'arbitro fischiasse la fine della partita della Juve: per spettacolarità e intensità, una vittoria 10-1 del calcio su Sanremo.
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Per mantenere l'effetto sorpresa, la direzione di Raiuno ha impedito che l'arrivo di Celentano venisse annunciato al Tg1. Così molta gente è tranquillamente andata al cinema, o a casa di amici a vedere la partita o si è dedicata ad altro. Mosse geniali.
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Secondo alcune fonti, Celentano si sarebbe esibito gratis. Questa finisce nel prossimo libro di Totti.
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A mezzanotte un signore ha fatto squillare il telefonino di Nando Dalla Chiesa, impegnato nel finale del festival di Mantova. Era il proprietario del teatro Ariston di Sanremo, che si felicitava con lui per la riuscita della manifestazione gli assicurava che in tv aveva guardato molto più Mantova che il baraccone rivierasco. La città dei fiori di zucca molto più che la città dei fiori.
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Alla faccia dei tristissimi denigratori, Mantova è stato - oggettivamente - un successo clamoroso rispetto alle previsioni. L'anno prossimo - passata la simbologia dell'antisanremo - si replica nel mese di maggio, con il sole, per conto proprio e con parecchia credibilità in più da spendere. Basterebbe avere un grosso nome "alternativo" a sera per chiudere le esibizioni degli emergenti, basterebbero tre o quattro tra i vari Battiato e Fossati e così via. E a quel punto chi se ne importerebbe mai più di Sanremo, dovessero anche condurlo Bonolis e Fiorello.
***
Altri momenti orari significativi: alle 23.23 all'Ariston di Sanremo è entrato in scena Andrè, all'Ariston di Mantova è salito sul palco Giorgio Conte. Alle 23.51 a Sanremo hanno fatto irruzione sul palco Mietta e Morris Albert, a Mantova è partita la prima nota del set di Massimo Bubola. Fate voi.
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Siccome Wynona Rider ha bidonato i sanremesi, Gene Gnocchi l'ha gratificata dal palco dicendo che era stata scoperta all'ipercoop di Sanremo mentre usciva con un caciocavallo nascosto nella borsetta. La Rider ha avuto problemi giudiziari di cleptomania negli Usa. I dieci spettatori che hanno capito la gag hanno riso parecchio.
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Non serve un genio per stabilire che Paola Cortellesi è stata la migliore presenza a Sanremo non solo di questa edizione, ma anche degli ultimi anni.


L’INTERVISTA
Guglielmi: meglio del passato, però questo non era Sanremo
«In gara piccoli personaggi che stridevano con la scenografia: al centro c’era solo il vuoto»

di Emilia Costantini (Il Corriere della Sera, 8 marzo 2004)

ROMA - Angelo Guglielmi, ha visto il Festival di Sanremo? «Poco, ma oggi non serve vedere la tv per sapere ciò che propone».
Per quello che ha visto, è stata un’edizione innovativa?
«Come semplice spettatore, ho preferito questa edizione a quelle del passato: il gruppo Ventura-Gnocchi-Cortellesi-Crozza è intelligente, vivace, capace di ironia, tutte doti rare in tv. Come esperto, ho assistito a un’edizione non tanto innovativa, quanto a una Sanremo senza Sanremo. Innovativo è stato affidarsi al gruppo della Ventura, al posto dei soliti sacerdoti officianti, ma non andava dimenticata la cerimonia».
Si spieghi.
«Il Festival è un torneo della canzone, grande kermesse popolare di cultura canora. In quanto tale, deve poter contare sui rappresentanti più significativi di questa cultura, che invece sono mancati: se io avessi dovuto organizzare Sanremo, non avrei trascurato la presenza dei cantanti più amati dalla gente, quelli che vendono milioni di dischi. E invece, quest’anno era evidente la povertà delle performance canore: piccoli personaggi squallidi, che stridevano oltretutto con la magniloquente scenografia. Un’orchestrazione misera, musiche mediocri, con testi di cui non si ricorda una parola. Esibizioni che suggerivano solo compassione. Sembrava un piccolo Castrocaro, senza nemmeno il folklore tipico dei festival provinciali. Mi pare proprio che gli organizzatori non abbiano capito cos’è Sanremo. E non è stato un problema di soldi, che mi pare siano stati spesi in abbondanza: c’era il lusso intorno, ma al centro c’era il vuoto, perché mancava la struttura portante, ossia la canzone. La Ventura, dal canto suo, è bravissima: sulle sue spalle sa reggere bauli, ma stavolta aveva sulla schiena una grande balla di cartone che, con la sua vivacità, risuonava nel vuoto. Insomma, un’innovazione forzata: mancando i big, si sono inventati un altro "centro", diverso da quello che Sanremo esige».
Per questo, la puntata di venerdì, con il revival dei vari Al Bano, Marcella Bella, Mino Reitano... ha avuto successo?
«È la conferma di quello che dico . Così come la presenza di Celentano: bravissimo, ma è stato portato all’Ariston come fosse un "di più" e invece è un cantante. In passato, Grillo o Benigni potevano rappresentare il "di più", ma Celentano doveva essere funzionale alla gara, invece è stato presentato come eccezionale».
E Dustin Hoffman?
«Qui c’è da fare un’altra riflessione: questi personaggi, grandi per carità, ci chiedono molti soldi per partecipare. Ma noi cosa chiediamo a loro in cambio? Loro pretendono ricchi cachet e noi ci accontentiamo della loro presenza: certe presenze vanno organizzate, altrimenti sono inutili».
Ha visto il Dopofestival?
«Mi sono divertito solo la prima sera con la Parietti, ma francamente le apparizioni di politicanti mediocri erano tristi. Il Dopofestival, nei tempi migliori, era un luogo di pettegolezzo alto, spregiudicato. E invece hanno voluto inserire l’elemento dell’attualità politica, andando anche in questo caso "fuori centro"».
Ma almeno, le spalline del reggiseno in mostra della Ventura le sono piaciute?
«Una "trovatina" dello stilista di turno. Ma la Ventura si è fatta apprezzare per altro».
Quella svista sull'8 marzo
di Gian Antonio Stella
Negli occhi di tutti, scrisse atterrito il cronista del New York Times , restò l’immagine di una ragazza che, lanciatasi nel vuoto nella speranza di aggrapparsi all’edificio accanto, restò impigliata per alcuni interminabili secondi finché le fiamme le divorarono il vestito lasciandola precipitare. Forse era russa, tedesca, finlandese... Ma non è improbabile che quella poveretta fosse italiana. Come italiane erano almeno 39 (molti corpi erano irriconoscibili) delle 146 donne morte in quello spaventoso incendio in una fabbrica di camicie dimenticato dall’Italia e ricordato invece, per un equivoco storico, come l’atto di origine dell’8 Marzo.

Era il pomeriggio di sabato 25 marzo 1911, quando il fuoco attaccò gli ultimi tre piani di un palazzone di Washington Place, nel cuore della metropoli americana. E ancora non è chiarissimo come la data, col passare dei decenni, sia stata «adattata» alla Festa della Donna. Ci hanno provato in diversi, a cercare di ripercorrere la storia di questa svista che ancora oggi domina gran parte dei siti Internet (prova provata: mai fidarsi della «rete») dedicati alla genesi della ricorrenza odierna. Prime fra tutti Tilde Capomazza e Marisa Ombra, autrici una quindicina d’anni fa di 8 Marzo / Storie, miti e riti della Giornata Internazionale della Donna . Studio ora ripreso dalla tesi di laurea di una giovane veneziana, Marina Senigaglia, che ricostruisce con qualche integrazione un’infinità di versioni diverse.

C’è chi, come le femministe francesi degli anni Cinquanta, dice che la giornata della donna sia stata scelta «per commemorare il 50° anniversario di uno sciopero di lavoratrici tessili, brutalmente represso a New York l’8 marzo del 1857». Chi per ricordare la rivolta pacifista delle operaie di Pietrogrado, l’8 marzo 1917. Chi, come il bollettino del Pci Propaganda nel ’49, per celebrare l’8 marzo 1848, quando le donne di New York scesero in piazza per avere i diritti politici. Chi in memoria dell’incendio del 1911 (con la data sfalsata di due settimane e passa) e chi di un fantomatico incendio a Boston nel 1898. Col risultato che alla fine, a forza di passaparola e di equivoci, ne è uscito un collage, fissato nel 1954 da un fumetto del settimanale della Cgil Il lavoro (che due anni dopo pubblicherà anche una specie di fotoromanzo assai raffazzonato) in cui si è mischiato tutto: date, luogo, episodi, numero dei morti, tutto. Con la probabilità che siano stati confusi più incendi (81 nella sola New York e nel solo 1911 in fabbriche di quel tipo) compreso uno avvenuto effettivamente l’8 marzo (1908) alle scuole di Collingwood in cui erano morti 173 bambini e due insegnanti. Per non dire del caos su chi, come e quando propose per primo la fatidica data oggi legata alle mimose.

Certo è che, fosse anche falso il collegamento storico, non c’è episodio nella storia delle donne più adatto a segnare un punto di svolta quanto la catastrofe alla Triangle Waist Company . Le cinquecento ragazze tra i 15 e i 25 anni che lavoravano con un centinaio di uomini e rare colleghe più anziane, negli ultimi tre piani del palazzo, alle dipendenze di Isaac Harris e Max Blanck, facevano infatti una vita infame. Una sessantina di ore di lavoro la settimana (l’anno prima un grande sciopero durato mesi aveva strappato un orario di 52 ore, ma lì non era applicato), straordinari sottopagati, spazi ridotti, sorveglianza feroce. Come accade con certi contratti anomali di oggi (della serie: nessuno inventa mai niente) i padroni avevano infatti affidato tutto, con una specie di subappalto interno, a una rete di caporali ciascuno dei quali gestiva e pagava sette operaie, che faceva marciare a ritmi elevatissimi. Incidenti sul lavoro a catena. Tutele sindacali zero. Porte sbarrate dall’esterno perché le ragazze non si allontanassero. Il posto giusto per gli ultimi degli ultimi: gli ebrei e gli immigrati italiani.

Mancavano venti minuti alle cinque del pomeriggio. Altri cinque e tutte le lavoratrici della camiceria si sarebbero alzate per tornare a casa, a Brooklyn. Gli impiegati degli altri uffici del palazzo se n’erano andati a mezzogiorno. Come fosse partita la prima fiammata, avrebbe ricostruito il giorno dopo il Daily Telegraph ripreso dal Corriere della Sera , non si sa. Ma in pochi istanti il fuoco attaccò i mucchi di stoffa dilagando per l’ottavo piano e avventandosi sul nono e sul decimo. Fu l’inferno. Le poverette cercarono di scendere per la scala anti-incendio ma era troppo leggera e cedette di colpo, mentre le fuggitive piombavano. Alcune riuscirono a raggiungere l’ascensore, che per un po’ andò su e giù portando in salvo alcune decine di ragazze, poi cedette di schianto: nella tromba, a fiamme domate, sarebbero stati trovati una trentina di corpi.

Fu allora che New York assistette, col cuore in gola, a decine di scene che avrebbe rivisto l’11 settembre del 2001 alle Twin Towers. «La folla da sotto urlava: "Non saltare!"», scrisse il New York Times . «Ma le alternative erano solo due: saltare o morire bruciati. E hanno cominciato a cadere i corpi». Tanti che «i pompieri non potevano avvicinarsi con i mezzi perché nella strada c’erano mucchi di cadaveri». «Qualcuno pensò di tendere delle reti per raccogliere i corpi che cadevano dall’alto», scrisse il Daily , «ma queste furono subito strappate dalla violenza di questa macabra grandinata. In pochi istanti sul pavimento caddero in piramide orrenda cadaveri di trenta o quaranta impiegate alla confezione delle bleuses». «A una finestra del nono piano vedemmo apparire un uomo e una donna. Ella baciò l’uomo che poi la lanciò nel vuoto e la seguì immediatamente». «Due bambine, due sorelle, precipitarono prese per la mano; vennero separate durante il volo ma raggiunsero il pavimento nello stesso istante, entrambe morte». Forse erano Rosaria e Lucia Maltese, forse Bettina e Francesca Miale, forse Serafina e Sara Saracino...

Erano centinaia, le ragazze e le bambine italiane che lavoravano lì, sfruttate da quei carnefici. Centinaia. E almeno 39 identificate («da un anello, da un frammento di scarpa») più dieci ufficialmente disperse, videro finire così il loro sogno americano. I loro assassini, al processo, vennero assolti. L’8 marzo, dopo tante rimozioni, ricordiamoci anche di loro.