27.11.02

AMICI E NEMICI DI RADIO TRE


da http://www.amicidiradio3.com (commenti all’intervista a Sergio Valzania, nuovo direttore di Radio Tre, pubblicata su Sette)



Thierry La Fronde


Complimenti a Sabelli Fioretti, per essere cortigiana, l'intervista a Sergio Valzania pubblicata sullo scorso numero di Sette è quanto di più cortigiano si possa immaginare, non solo nell'Italia di Berlusconi, ma persino nella Francia di Luigi XIV. Passiamo sulle bugie che il neo-direttore racconta sulla nuova programmazione di Radio 3: sono così candide, così puerili, che quasi quasi vien voglia di crederle. Peccato, soltanto, che il Napoleone di Via Asiago cada nella trappola che il perfido Sabelli gli tende, arpeggiando su "Roberta Carlotto, la moglie di Alfredo Reichlini". Prima regola di ogni buon cortigiano: non fidarsi di un altro cortigiano, neanche quando finge di essere il Duca di Saint-Simon. E invece, Valzania, battutaro ingordo, abbocca e, ghignando, ribatte: "Io non sono la moglie di Reichlin", finendo con l'innescare quel procedimento teatrale che consiste nel rivelare ciò che invece si dovrebbe nascondere - il procedimento di Tartufo quando esclama: "Signora, copra quei seni!" Come dimenticare, a questo punto, che Valzania non è - "indubitabilmente" come sottolinea Sabelli - "la moglie Reichlin" per il solo buon motivo che è il marito della figlia dell'ex ministro Restivo? Chi di familismo colpisce, si sa, di familismo perisce - soprattutto in Italia. E nemmeno la versione mite dell'ex avanguardista, lo Stranamore del Selector, regge per molto: prima Valzania tenta di convincere i lettori del Corriere di non aver cambiato nulla - autori e conduttori sono sempre lì, i programmi hanno solo cambiato di nome - poi tenta di attenuare la disumanità di macchina-fine- di- mondo per dimostrare che è solo un innocuo valore aggiunto offerto alla capacità di scelta degli umani. Ma, qualche riga più in là, non riesce a trattenersi e rivela ciò che veramente pensa di tutti coloro che in rai non sono dei cortigiani e/o dei dirigenti. "Quando Dematté è entrato in Rai chi convocò subito per discutere dei programmi. I conduttori. Non quelli che facevano i programmi...Si è comportato come uno che va a dirigere la Walt Disney, si siede alla poltrona del presidente e dice: chiamatemi Topolino." E' chiaro il messaggio? Valzania non aspira a essere un direttore di Rete. Si sente il padrone di Cartoonia...



Claudio Sabelli Fioretti


Ci sono diversi modi per fare un'intervista. Presentarsi con il mitra, per esempio: l'intervistato scappa oppure chiude la bocca. Presentarsi con le domande, più o meno intelligenti, e si ottiene che l'intervistato si senta a suo agio e racconti tutto quello che ha da raccontare. Io uso il secondo sistema e finora mi è andata bene. Mi dispiace essere apparso cortigiano. C'erano domande più intelligenti da fare? Contestazioni? Osservazioni maliziose? Non basta tutto quello che il direttore di Radio Tre ha detto? Preferite la tecnica degli insulti che soprattutto in rete ha il suo successo ma finisce per costituire un network privato? "Sette" entra nelle case degli italiani in poco meno di un milione di copie. Quell'intervista ha diffuso fra la gente che non è appassionata al problema le domande che voi vi ponete. Ha contribuito a far conoscere le idee piuttosto spregiudicate sulla lottizzazione del nuovo direttore. Che cosa c'è di negativo in tutto questo? Preferite continuare a parlarvi addosso? A menarvela fra di voi? A dirvi quant'è cattivo Valzania? A rimpiangere i bei tempi? Avete la forza per cacciarlo? Preferite le lamentele di piccolo cabotaggio mentre i giornali a grande diffusione ignorano perfino che esista il problema. Fatemi un piacere: rileggete senza pregiudizi l'intervista e ditemi se per ottenere che la vostra Radio Tre torni ad essere quella di una volta, come voi volete, può servire piangersi addosso come a volte fateo non sia meglio far sì che il dibattito si apra ed esca dalle catacombe.



Michele


Sarebbe il caso che Sabelli Fioretti rileggesse la sua intervista. Fare domande intellugenti mi pare che sia cosa differente da quello che costui ha fatto su Sette, le domande non so se definirle cortigiane sia esatto. Di fatto forse bastava un minimo di profesionalità piuttosto che il solito giornalismo da lingua pendente. Una delle tante cose che potevano, giusto per fare un esemio, sarebbe stato ricordare che invece che le minime modifiche sui programmi citate da Valzania è stato fatto sparire r3. Oppure, altra cosa che la deontologia avrebbe forse potuto ispirare, sarebbe stato (anche solo per buon gusto, no?) evitare le battutine sul marito della Carlotto (oppure ricordare a Valzania che se comunque lui non ha lo stesso coniuge della Carlotto - anche solo per il motivo che in Italia la bigamia non è consentita - ha una moglie con tanto padre). Altra scorrettezza è il presentare r3 come il fortilizio della sinistra che non è mai stata: forse bastava che Sabelli si informasse su ciò di cui ha parlato.
D'altronde la volgarità del personaggio traspare da quello che ha pensato di scrivere qui su questo forum ("A menarvela fra di voi?", essempio). Su questo forum certamente c'è anche una componente di "elaborazione" del lutto. Ma non si esaurisce con questo, poi credo che qui nessuno sia così esaltato da pensare di riuscire a cacciare Valzania (non vedo perchè poi). Se questo Sabelli, invece che interviste compiacenti, avesse voluto contribuire ad aprire un dibattito avrebbe potuto anche ricordarci nel suo articolo, invece che piantare genericità. D'altronde questo mi pare proprio lo stile in perfetta simbiosi con il Nostro: un corpo al cerchio un colpo alla botte (Valzania si dice di sinistra di ispirazione, poi di destra, e anche democristiano: un bel Depretis del nostro secolo). Sarebbe bastato non dare la falsa immagine di r3 come fortilizio della sinistra, cosa che onestamente mi pare che non sia (dovrebbe mostrarlo, anche solo il fatto che la sinistra non la ha mai difesa). Bastava che Valzania si avvicinasse a r3 con più rispetto e minore superficialità. In fin dei conti aveva la possibilità di rimediare agli innumervoli disastri prodotti dalla Carlotto, ha preferisto invece di investire in qualità di gettare fango su tutto. E Sabelli Fioretti ha dimostrato con il suo linguaggio e il suo pensiero, anche in queste poche righe scritte qui sopra, l'insipienza, l'inadeguatezza e la profonda disonestà culturale di queste nuove persone. Saluti anche a costui!



Thierry La Fronde


chi ha detto che l'intervista era cattiva? chi ha detto che l'intervista non rivelava i meccanismi della lottizzazione? al contrario, li rivelava fino a rappresentarne una commossa apologia: il salotto di Sabelli è quello che è, una camera di compensazione morale dove la sfrontatezza degli uomini di potere (monde e demi-monde) si vende per sincerità, talvolta addirittura per ardimento. Ma nessuno lo accusa di essere un cattivo padrone di casa, di non fare del suo meglio e del suo peggio. Così come nessuno - certo non io - vuole "cacciare" Valzania. L'idea che la critica debba sempre rientrare in un'economia, prefigurare un utile, una costruzione, un'alternativa, è un'idea che viene continuamente e ipocritamente sbandierata da chi impugna il coltello del presente dalla parte del manico. Mentre la critica, come diceva Foucault, è anzitutto l'arte di essere meno governati. Resta il fatto che la battuta sulla Carlotto non era un dettaglio - le questioni di stile non sono mai un dettaglio. Non si tratta di rimpiangere il passato: si tratta solo di rispettarlo.




Michele
Scusate aggiungo una postilla al mio precedente messaggio per sottolineare la malafede di Sabelli. Credo, e credo di poter parlare a nome di tutti (se così non fosse mi scuso), che qui nessuno voglia cacciare Valzania. Presentarci come quelli che vogliono toglierlo dai piedi per sostituirlo con uno di "sinistra" (prescidendo dal fatto che qui sono presenti sia amici di destra come di sinistra, non avendo una connotazione politica - a differenza dell'azione di Valzania invece, come lui candidamente riconosce) è un'altra scorrettezza che si può aggiungere alle infamie (infamie perchè mezze verità) presenti nell'intervista.



Rocco


cari radiaioli: tenendo doverosamente a freno le pur legittime reazioni (ho lasciato passare dei giorni dopo aver letto il resoconto dell'intervista), io direi che non dobbiamo cadere nelle provocazioni. Concordo con Michele. E' chiaro che nel momento stesso in cui accettassimo di trasferire il dibattito sullo scontro politico, ci saremmo rovinati da soli. Diventiamo credibili solo se, con calma, raccogliamo pazientemente dati e impressioni (ma soprattutto dati) che ci aiutino a elaborare, senza alzare i toni (e lo scrive uno che ama Swift ed è capace di rovinarsi la carriera o la vita o tutt'e due per una battuta e anzi medita di scrivere un'inutile lettera a Valzania per fargli capire che è lui di quella sinistra che tanto avversa, e per di più quella gruppettara già schernita da Moretti in Ecce Bombo), i motivi della nostra protesta. Non solo perché, anche materialmente, non ci conviene cadere nella trappola: a me la nuova RAdio3 non piace non perché non è di sinistra o di destra, ma perché non mi coinvolge emotivamente, eticamente, umanamente, e quante altre -menti vi vengono in mente. Ma anche perchè dobbiamo avere il coraggio di chiederci se la nostra è solo una reazione politica, se forse non abbiamo sbagliato sede. Credo che questa bella comunità abbia senso se veramente l'essere di sinistra, centro e destra, alto o basso, su e giù, diventi insignificante. La nostra obiezione sarà più forte se sorretta da fattori che hanno (o dovrebbero avere) a che fare con una radio di cultura (qualità degli ascolti, noia, piacere, servizio pubblico, etc.). In altre parole, qui sarebbe bello avere insieme gente che magari politicamente non condivide un'idea che sia una.
Poi, credo che basti riferire le interviste dei nostri come sono perchè chiunque non sia malato di ideologia se ne faccia un'opportuna idea. Al massimo un ironico premio Senatore McCarthy potrebbe servire altrettanto bene.
Ho detto queste cose, come dire, leggendo a voce alta a mio beneficio, perché certo la prima reazione sarebbe quella di cadere nella provocazione ...
abbracci a tutti

L'INFERNO E' ESOTERMICO O ENDOTERMICO?


da www.bravuomo.it



"Innanzitutto, dobbiamo sapere come cambia nel tempo la massa dell'inferno. E quindi abbiamo bisogno di stabilire i tassi di entrata e uscita dall'inferno delle anime. Credo che possiamo tranquillamente assumere che, quando un'anima entra all'inferno, non è destinata a uscirne. Quindi, nessun'anima esce. Per quanto riguarda il numero di anime che fanno il loro ingresso all'inferno, prendiamo in considerazione le diverse religioni attualmente esistenti al mondo. Un numero significativo di esse sostiene che se non sei un membro di quella stessa religione andrai all'inferno. Siccome di queste religioni ce n'é più di una, e abbracciano una sola fede per volta, possiamo dedurne che tutte le persone e tutte le anime finiscono all'inferno. Dunque, stanti gli attuali tassi di natalità e mortalità della popolazione mondiale, possiamo attenderci una crescita esponenziale del numero di anime presenti all'inferno. Ora rivolgiamo l'attenzione al tasso di espansione dell'inferno, poiché la legge di Boyle afferma che, per mantenere stabile la temperatura e la pressione dentro l'inferno, il volume dello stesso deve crescere proporzionalmente all'ingresso delle anime. Questo ci dà due possibilità:


1) se l'inferno si espande a una velocità minore di quella dell'ingresso delle anime, allora temperature e pressione dell'inferno saranno destinate a crescere, fino a farlo esplodere;


2) naturalmente, se l'inferno si espande più velocemente del tasso d'ingresso delle anime, allora temperatura e pressione scenderanno fino a quando l'inferno non si congelerà.


Dunque, quale delle due é l'ipotesi corretta? Se accettiamo il postulato comunicatomi dalla signorina Teresa Baghini durante il mio primo anno di università, secondo il quale "fará molto freddo all'inferno prima che io te la dia", e considerando che ancora non ho avuto successo nel tentativo di avere una relazione sessuale con lei, allora l'ipotesi 2 non può essere vera.


Quindi l'inferno è esotermico".



Lo studente ha preso l'unico 30.


26.11.02

«Gli Stati uniti attaccheranno a dicembre»


di Stefano Liberti e Tommaso Di Francesco



dal manifesto del 26 novembre




Parla Scott Ritter, ex ispettore Onu per il disarmo in Iraq: «La Risoluzione 1441 è in realtà una dichiarazione di guerra: troppi gli escamotage che permettono agli Usa di gridare alla violazione. La mobilitazione degli eserciti nell'area dimostra che l'attacco è imminente»




Scott Ritter non è proprio un «No-Global»: eroe dei marines, patriota americano che ha votato repubblicano, ha lavorato nell'intelligence durante la guerra del Golfo. Ha poi trascorso sette anni in Iraq come ispettore Onu a scovare e distruggere armi di distruzione di massa. Oggi la sua posizione è altrettanto chiara, come ha scritto nel suo libro-intervista «Guerra all'Iraq» (Fazi ed.): è contro la nuova guerra americana e smentisce, dati alla mano, il presunto armamento iracheno denunciato dalla Casa bianca. In questi giorni è stato invitato a Roma - dove domenica lo abbiamo intervistato - dal Consorzio italiano di Solidarietà (Ics).



Lei ha criticato duramente la risoluzione 1441, definendola una «dichiarazione di guerra». Può spiegare la sua posizione?



La risoluzione presenta uno scadenzario dei tempi artificioso, che appare dettato non tanto dal reale obiettivo di ripristinare le ispezioni e ottenere il disarmo, ma dalle esigenze militari degli Stati uniti. Gli addetti ai lavori lo sanno perfettamente. Ma nessuno ha fatto alcunché per evitarlo. Inoltre, nella risoluzione ci sono almeno due elementi che potranno costituire altrettanti pretesti per l'intervento. Innanzitutto, nel paragrafo 4 si dice che ogni omissione da parte dell'Iraq costituisce una violazione della risoluzione. Ma il testo non specifica chi debba determinare tali omissioni. Nel paragrafo 8 si dice poi che l'Iraq non deve commettere o minacciare atti ostili contro rappresentanti dell'Onu o di qualunque stato membro. Il che fornisce agli Stati uniti l'opportunità di dire che, quando l'Iraq difende il proprio spazio aereo dalle incursioni anglo-americane nelle cosiddette no fly zones, viola la risoluzione.



Ma il segretario dell'Onu Kofi Annan, i francesi e persino i britannici hanno respinto questa posizione...



Agli Stati uniti non importa nulla di quello che dicono i francesi, gli inglesi o chiunque altro. Washington farà riferimento alla risoluzione del Consiglio di sicurezza e si appoggerà a quel documento per lanciare la propria offensiva militare. Il più grande errore commesso da tutti coloro che hanno rifiutato di opporsi agli Usa e hanno permesso l'approvazione di questo testo è stato non capire che alla Casa bianca importa poco o nulla delle loro posizioni. Gli Stati uniti stanno usando il Consiglio di sicurezza come cortina di fumo diplomatica per legittimare la guerra contro l'Iraq. E ormai è troppo tardi per fermarli.



Dunque, la guerra è già decisa?


Basta osservare le attuali manovre dei comandi militari nella regione per capire che l'intervento difficilmente non avverrà. Il grande spostamento di soldati e attrezzature nell'area è l'espressione evidente della volontà di lanciare l'attacco. La confluenza delle forze raggiungerà il suo apice a metà dicembre e, da ex militare, posso assicurarvi che nessuno vuole lasciare le proprie truppe inoperative sul terreno. Ritengo quindi che questa guerra comincerà tra la metà e la fine di dicembre. L'unico elemento che può impedire l'attacco è la presenza degli ispettori. Finché gli ispettori rimarranno in Iraq, gli Usa non potranno attaccare.



Lei ha spesso criticato l'atteggiamento iracheno durante le precedenti ispezioni. Come mai ora sostiene che l'Iraq non costituisce una minaccia?



Nel periodo in cui conducemmo le precedenti ispezioni dovemmo far fronte fin dall'inizio a due azioni di disturbo incrociate: da una parte gli iracheni ci mentivano continuamente, tentavano di ingannarci e sviare le indagini. Dall'altra gli Stati uniti volevano strumentalizzare le ispezioni per ottenere un cambio di regime a Baghdad - come peraltro stanno facendo anche oggi. Eravamo tra due fuochi. Ciò nonostante, abbiamo lavorato duro e posso affermare che tra il 1991 e il 1998 abbiamo praticamente completato il disarmo dell'Iraq. Abbiamo verificato l'eliminazione del 90-95% delle armi di distruzione di massa in possesso di Baghdad. La distruzione del 100% dell'arsenale non è dimostrabile, ma bisogna dire che il restante 5-10% non costituisce necessariamente una minaccia. Anche se non sappiamo che fine abbia fatto quel 5-10%, non vuol dire che l'Iraq ne sia ancora in possesso. Non esiste alcuna prova in questo senso. Né l'amministrazione Bush né il governo di Tony Blair hanno presentato il minimo fatto concreto a supporto delle loro accuse. Ma quello che conta, si sa, è la retorica, non i fatti.



Lei ha accusato Richard Butler, ex capo degli ispettori, di aver provocato a bella posta la crisi del 1998 che ha portato all'operazione Volpe del deserto. Chi è Butler?



Richard Butler è un diplomatico australiano con un passato da politico. Quando ha guidato il team delle ispezioni ha sfacciatamente lavorato su indicazione di autorevoli esponenti del Dipartimento di stato Usa per ottenere un casus belli. D'altronde la sua era una posizione molto particolare. Bisogna infatti sapere che il capo degli ispettori non è pagato dall'Onu, ma dal suo paese d'origine. Quando Kofi Annan ha nominato Butler, il governo australiano ha dato il suo assenso ma ha detto che non avrebbe pagato. Per far fronte all'ostacolo, si è quindi trovato un escamotage: gli Usa avrebbero versato all'Australia il denaro necessario per il salario di Butler. Una manovra torbida, che ha sollevato un vero e proprio scandalo quando è diventata di dominio pubblico.



Cosa pensa invece di Hans Blix?



Non lo conosco di persona, ma a giudicare dalle sue dichiarazioni di intenti - l'idea di condurre lente, accurate e metodiche ispezioni, ossia l'opposto di quello che vorrebbero gli Usa - possiamo ritenere che non sarà tanto malleabile quanto fu Butler.



A settembre lei è andato a Baghdad e ha parlato all'Assemblea irachena. Perché?



Possiamo considerare il mio viaggio a Baghdad una sorta di attacco preventivo contro Bush. Per capire la mia iniziativa, bisogna contestualizzarla: tra la fine di agosto e l'inizio di settembre, la Casa bianca ha avviato una rapida escalation verso l'intervento, culminata nel famoso discorso all'Onu del 12 settembre. Essendo mia convinzione che l'unica cosa che potesse fermare la guerra era il ritorno degli ispettori, ho pensato di chiedere al governo iracheno che accettasse questa eventualità. Sono quindi andato a Baghdad e ho detto ai parlamentari che dovevano permettere il ritorno senza condizioni degli ispettori. Prima che io andassi in Iraq, i media ignoravano la questione. Dopo il mio viaggio, non potevano più far finta di nulla.



Hans von Sponeck, responsabile del programma «Oil for food» si è dimesso, denunciando la tragedia dell'embargo contro i civili. Lei ha visto gli effetti delle sanzioni sul popolo iracheno?



Quando ero in Iraq, ero ispettore per il disarmo. Non lavorando nel settore degli aiuti umanitari, non ero nella posizione adatta per determinare quale fosse la causa della miseria che vedevo nel paese. Ho fiducia in Hans von Sponeck - come ho fiducia in Denis Halliday, che si è dimesso prima di lui - e non ho alcun motivo per mettere in dubbio quello che dicono. Ma sarebbe irresponsabile da parte mia parlare di cose che sono di attinenza di un operatore umanitario. Quello che posso dire è che, da un punto di vista politico, l'unico modo per aiutare gli iracheni è togliere le sanzioni economiche. Le sanzioni non hanno alcun effetto contro Saddam Hussein. E, se quello che afferma von Sponeck è vero, gli Usa sono responsabili di un vero e proprio genocidio.



Lei ha sostenuto che la guerra all'Iraq non è determinata dalla volontà degli Stati uniti di mettere la mani sul petrolio iracheno. Cosa muove allora l'amministrazione Bush?



Credo che la guerra sia determinata fondamentalmente dalla foga ideologica di quegli esponenti della destra neo-conservatrice (il segretario alla difesa Donald Rumsfeld, il suo vice Paul Wolfowitz, il capo del Defence Policy Board Richard Perle) che dominano l'amministrazione Bush. Dall'11 settembre, la Casa bianca sta strumentalizzando le paure degli americani per promuovere questo concetto di guerra perpetua, che ha trovato una sua definizione organica nella nuova dottrina dell'attacco preventivo. Nei documenti strategici si dice ormai apertamente che Washington sfrutterà a suo vantaggio il proprio dominio economico e militare per imporre sue specifiche soluzioni a problemi che verranno definiti «unilateralmente». Si tratta del rifiuto totale di ogni regola del diritto internazionale. Un concetto che può essere definito con un'unica parola: imperialismo. L'amministrazione Bush sta trasformando gli Stati uniti in una potenza imperiale, tradendo i valori di riferimento dei padri fondatori. Lo stesso sta avvenendo sul fronte interno. I neo-conservatori, che sono una risicata minoranza negli Usa, stanno sfruttando la guerra al terrorismo per riorgannizare radicalmente l'apparato burocratico sulla base del concetto di sicurezza nazionale. Basta guardare alla restrizione delle libertà civili determinata da leggi come lo Us Patriot act o il nuovo Homeland security act.



È vero che ha votato per Bush?



Sì, ho votato per Bush. Ma certamente non lo rifarei. Io credo in quell'idea secondo cui in una democrazia chi governa ha una responsabilità. Bush ha tradito il mandato che gli abbiamo dato e sta conducendo nel nome del popolo americano una politica totalmente irresponsabile

BIAGI INTERVISTA BERLUSCONI



Era il 1986, ma Silvio Berlusconi aveva già le idee chiare. A Enzo Biagi, che gli chiese un’intervista per la trasmissione Spot rispose: ok, purché venga lei a intervistarmi nei miei studi televisivi. Biagi andò. Il risultato fu un’intervista di venti minuti che ora RaiSat Album, con mossa sagace, ripropone (alle 22.05, mercoledì 27). L’intervista è clamorosa.



Primo: per i due protagonisti, che oggi sono acerrimi nemici, come tutti sanno. Secondo: per il confronto sull’atteggiamento dei due. Biagi ha il piglio del grande intervistatore alle prese con quello che allora tutti consideravano una sorta di fascinoso pirata, destinato però a chissà quale fine. Berlusconi è sul chi vive, in netta difesa ma non rinuncia alle armi dialettiche che, in futuro, gli varranno alcuni evidenti successi. Biagi è ironico ("Berlusconi ogni tanto parla di sé in terza persona"), insiste sull’amicizia con Craxi e sulle ambizioni dell’intervistato. Si parla di De Mita e di Tommaso Moro, di debiti e del Milan. E su questo, viene fuori il Berlusconi autentico: "E’ vero costa miliardi. Ma anche le belle donne costano". Otto anni dopo entrerà, con grande successo, in politica.







Presentazione Biagi:


Silvio Berlusconi, milanese, 49 anni, classico esempio di uomo che si è fatto da solo. Comincia con l’edilizia negli anni del boom ma diventa un nome con le tv private e l’editoria. Dice di dormire non più di quattro ore per notte, qualche volta parla di sé anche in terza persona. Ha detto per esempio: il 92 per cento degli italiani adorano Berlusconi…è inutile accusarlo di aver creato un monopolio: risponde che le sue sono le dimensioni giuste per una sana economia. Alcuni esperti guardano con diffidenza al moltiplicarsi delle sue iniziative, ma lui annuncia nuovi progetti. I critici hanno qualche obiezione sulla consistenza dei suoi programmi, ma lui risponde che sta facendo cultura, e che la esporterà per far felici francesi, spagnoli e tedeschi. Per il momento però ha importato, soprattutto dalla tv americana…Berlusconi pensa a un Europa di Berlusconi, è la prima volta che va in tv, e la condizione è stata andare nei suoi studi: qualcuno ha scritto che siamo andati a Canossa, va rettificato: siamo stati a Milano2.




Biagi:
Come gli spettatori vedono, questo non è il solito studio di Spot ma è uno studio di Canale 5, di cui sono ospite per questa intervista e ringrazio. Dottor Berlusconi, sbaglio o è un momento difficile per lei: il Milan ha una situazione incerta, non c’è decreto che si occupi delle televisioni private, in Francia questo Macaroni che è arrivato per dare una televisione nuova non è gradito da tutti, allora vedo il giusto o sbaglio?






Berlusconi:
C’è un poco di vero ma la situazione non è così preoccupante come dice lei. Il Milan è un affare di cuore e lo lasciamo nella sfera dei sentimenti.



Biagi:
Un affare che costa miliardi…



Belrusconi:
Anche le belle donne costano molto. Ma anche il cuore non può spingere nessuno ad entrare in una palude, anche se c’è bisogno di fare un po’ di bucato. Il gruppo si muove in diverse direzioni. Per quanto riguarda i pretori mi pare che hanno confermato quello che la giurisprudenza ha già dato per acquisito. C’è stato solo un pretore che si è pronunciato contro la giurisprudenza, contro il diritto stesso che si è consolidato sull’argomento, contro il governo che ha dichiarato di ritenere vigente il decreto, contro il Parlamento che sta lavorando da un anno ad una nuova legge e contro il buon senso e la gente. Non voglio dare giudizi, la gente sa dare i suoi giudizi. In Francia stiamo facendo una cosa un po’ folle, fare una tv in due mesi. I francesi certamente non possono soffrire che qualcuno vada a casa loro pretendendo di fare meglio di loro.



Biagi:
Sa che durante una trasmissione il conduttore aveva sul tavolo un modellino di tour Eiffel, stava interrogando un giapponese, e gli ha detto: “piuttosto che darla a un italiano la do a lei…”



Berlusconi:
Ma non c’è disprezzo per gli italiani, è che loro si ritengono superiori, e anche questo è un fatto di simpatia. Cambiano anche la storia per questo. I francesi sono convinti che Giulio Cesare prendesse delle batoste sacrosante, non a caso Asterix batte sempre il cattivone, che è Giulio



Biagi:
In questo caso Asterix è lei …





Berlusconi:
Io sono stato dipinto in mille modi, come il cattivone…



Biagi:
L’Evenement ha pubblicato un’inchiesta: titolo “il rapporto che Mitterrand ci nasconde”…



Berlusconi:
Non è proprio così, c’è stato un rapporto dell’ambasciatore di Francia che ha detto delle cose giuste sul nostro gruppo, ma hanno ribattuto che non avevamo un progetto culturale come la Francia si aspetta. Dicevano che facevamo solo la televisione americana. Non è vero, il 54% del nostro budget lo spendiamo in produzioni originali, abbiamo fatto vedere le cose alla stampa, che all’inizio ci ha trattato malissimo e poi ci ha regalato una campagna straordinaria, nessuna iniziativa ha avuto una campagna così continuata insistente e continuata, siamo stati tutti i giorni per due mesi sui giornali. Quando ho presentato agli industriali e poi ai giornalisti il palinsesto della Cinq siamo riusciti addirittura ad occupare la prima pagina su un numero incredibile dei giornali, siamo passati in diretta su tutti i telegiornali della tv di stato, abbiamo occupato tutte le radio, anche i giornali avversi come Liberation, ci ha dedicato 3 pagine.



Biagi:
Lei è un simpatizzante di Craxi, dei socialisti o è un lib-lab? E’ meno compromettente essere lib-lab?



Berlusconi:
Liberal laburista…



Biagi:
O liberal-labile, anche…



Berlusconi:
Liberal laburista: io ne conosco uno solo che è Enzo Bettiza, che per i giorni di pioggia porta uno splendido impermeabile inglese che fa molto lib-lab. Io faccio l’imprendiore, credo nell’Occidente, credo nel libero mercato, e simpatizzo nel senso etimologico del termine con chi ha le mie stesse idee…



Biagi:
Ma lei vede più spesso Craxi o De Mita?







Berlusconi:
Sono amico di Craxi da lunga data anche in tempi non sospetti, e andando in giro per l’Europa vedo e rilevo che è uno dei politici che ha maggiore statura internazionale, il che fa piacere…e sono anche amico di altri politici con cui come editore ho spesso dei contatti



Biagi:
Con De Mita ha contatti?



Berlusconi
Sì, ho avuto anche dei contatti con De Mita…



Biagi:
Cordiali?



Berlusconi
Diciamo che sono stati contatti che non sono sfociati in un amore particolarissimo ma che non stati neppure negativi.



Biagi:
Lei crede che senza un governo Craxi ci sarebbero stati tanti decreti su Berlusconi, almeno un paio?



Berlusconi:
Io credo che assolutamente ci sarebbero stati dei decreti per rimediare ad una situazione che non era una situazione che la gente condivideva. Anzi il fatto di essere amico di Craxi era una remora. Essendo nota la nostra amicizia, la mia per lui e la sua per me, Craxi si è espresso con un atto che ritengo coraggioso, e con lui tutto il governo, perché è stato un decreto votato all’unanimità da tutto il governo, e poi tutte le indagini hanno dimostrato che era legittimo. Il 92 per cento degli italiani ha giudicato in quell’occasione giusto l’operato del governo



Biagi:
Come fa ad avere tante attività che vanno tutte bene?



Berlusconi:
Che vuole che le dica, che siamo bravi?. Lavoro in un gruppo particolarissimo, con collaboratori formidabili, legati da una grande amicizia.



Biagi:
Quante colazioni di lavoro avrà fatte?



Berlusconi:
È un conto delle mie segretarie, più di 150 credo: terribili per la linea ma producenti per il lavoro.




Biagi:
Mi scusi se mi cito, una volta ho scritto che se lei avesse un puntino di tette, farebbe anche l’annunciatrice. Ora mi dice che ha fatto 150 colazioni di lavoro…non le viene mai mal di testa?







Berlusconi:
Mi viene eccome il mal di testa, ed anche l’influenza. Sente, ho una voce molto arrochita, e bassa. Ma si lavora benissimo anche da malati, anzi viva l’influenza, si sta a letto col telefono e si ha tempo per pensare.



Biagi:
Anche le malattie sono un’occasione per lavorare?



Berlusconi:
Se uno ha delle cose da fare non ha tempo di considerarsi malato…



Biagi:
Qual è il segreto del suo successo?



Berlusconi:
Segreti non ce ne sono; lavorare molto, ma anche il successo bisogna vedere, come sa si danno gli esami tutti i giorni. Guardando indietro alle cose che tutti insieme col mio gruppo di collaboratori siamo riusciti a fare, c’è il rischio di sentirsi un po’ stanchi. Sono stati sei anni la prima realizzazione edilizia per quattromila abitanti, dieci anni la seconda, dieci anni Milano 3 per quindicimila abitanti



Biagi:
Ma quante cose fa: edilizia, televisione, editoria, vorrebbe fare anche i biscotti se non sbaglio…



Berlusconi:
Non ho una vocazione per i biscotti. Abbiamo quattro divisioni del gruppo, quando un mercato va meno bene gli altri tengono il gruppo. Questo anno abbiamo fatto un bel traguardo, chiudere con utili cospicui senza più debiti; i risultati ci incoraggiano ad andare avanti.



Biagi:
Qual è il modello umano cui si ispira…lei ha fatto un saggio su Tommaso d’Aquino…



Berlusconi:
No, Tomaso Moro…



Biagi:
Sempre santi sono…







Berlusconi:
Ho fatto un saggio su Tomaso Moro perché all’università ho lavorato sul suo libro dell’Utopia… e poi facendo l’edilizia ho sempre pensato di lavorare ad un mio modello di città. Senza auto, con tanto verde, senza colate di cemento, senza falansteri: e ci sono riuscito…



Biagi:
Lei riesce a tradurre il martirio di Tomaso Moro in azioni…



Berlusconi:
No, non è il martirio, è che lui pensava che tutti dovessero fare il meglio per migliorare il mondo



Biagi:
Lei è un cattolico? Praticante?



Berlusconi:




Biagi:
Le leggo questa frase: la tv di Berlusconi ha contribuito a ridurre l’inflazione, ha incentivato l’economia, promosso la democrazia…ne riconosce l’autore?


v
Berlusconi:
Ma non so, queste parole vengono attribuite a me, i concetti sono concetti che ritengo corretti. E che perciò sostengo. Per quanto riguarda il livello di vita basta accendere la televisione e c’è un offerta di spettacoli enorme, anche la Rai è migliorata molto, la concorrenza ha fatto bene a tutti. Per quanto riguarda l’economia è innegabile che la tv ha sospinto le vendite di molte aziende. Per quanto riguarda il tasso di democrazia del paese la presenza di molte voci è certamente un aumento della democrazia stessa, basta ricordare che nelle ultime amministrative oltre mille candidati sono passati sulle nostre reti. Credo che questo sia veramente un portato positivo della tv commerciale…



Biagi:
Per concludere: io le ho fatto delle domande, ma c’è qualcosa che lei vuole dire e che non le ho chiesto?



Berlusconi:
No. Io sono lieto di averla ospite nei miei studi. C’è una pianta dell’Europa dietro di me, come vede, che è la nostra prossima avventura. Si fanno esami tutti i giorni. Speriamo di andare a fare gli esami in tv, in Spagna, Francia, e una società di programmi europei che possano reggere il confronto americano…



Biagi:
A quando l’America?







Berlusconi:
No, abbiamo ancora moltissimo da fare per la televisione in Europa che dice di volersi dare una unità ma che è ancora molta lontana da questo. Lo sforzo che stiamo facendo in Francia è importantissimo per l’Italia, è l’avvenimento più rilevante sul piano delle esportazioni delle nostre idee, dei nostri talenti, della nostra cultura, del nostro know how: e un reale sostegno alla nostra industria che in Europa non trovano le televisioni commerciali a supportarle. Ma è un fatto importantissimo nella via che porterà verso l’unione dell’Europa. Credo che la tv, come in Italia ha fatto una unificazione del linguaggio, così potrà essere importante per una Europa unita, per i paesi che si possono conoscere meglio; e ci piace essere tra i protagonisti di questa avventura. Speriamo di farcela.

25.11.02

Ma Mino Pecorelli morì d'emicrania?


da Marco Travaglio, sull'Unità



Caro direttore,
mentre due giudici togati e sei giurati popolari iniziano a scrivere le
motivazioni della condanna di Giulio Andreotti e di Gaetano
Badalamenti, il presidente della Repubblica, il presidente del
Consiglio e i presidenti di Camera e Senato telefonano al primo dei due
condannati (a don Tano, invece, niente) in segno di solidarietà. E
tengono pure a farlo sapere. Intanto i leader dei maggiori partiti
della maggioranza e dell'opposizione, costernati, invocano urgenti e
imprescindibili quanto fantomatiche "riforme dell'ordinamento
giudiziario". Il che, a poche ore dalla sentenza di Perugia, lascia
intendere il vero scopo delle riforme: impedire il ripetersi di
sentenze come quella.

A questo punto, dire che bisogna rispettare i
giudici, la loro serenità, il loro diritto-dovere di giudicare «senza
speranze nè timori», ascoltando soltanto la legge e la coscienza,
diventa una barzelletta di pessimo gusto. Il messaggio è fin troppo
chiaro: nessuno si azzardi più a imitare la Corte di Assise di appello
di Perugia, a condannare un imputato famoso e potente. Altrimenti sa a
che cosa va incontro.

Lo spettacolo degli ultimi giorni deve servire da
monito per tutti i giudici: colpirne uno (anzi, otto) per educarne
cento (anzi, 9 mila, quanti sono i magistrati in Italia). E poco
importa se le argomentazioni addotte per attaccare la Corte di Perugia
- di solito da parte di politici e commentatori che non hanno letto un
rigo delle carte del processo - non hanno alcuna cittadinanza nel
diritto, e nemmeno nel buonsenso comune. Sono le classiche
argomentazioni monouso, che valgono per l'eccellentissimo Andreotti e
basta: applicate a qualunque altro imputato, farebbero ridere i polli.
Tenterò di riepilogarle, restituendo la parola ai fatti e alla logica.


1) «Ho conosciuto Andreotti come politico e non posso immaginarlo come
mandante di omicidi o come amico di mafiosi» (Sergio Romano).È
comprensibile che chi ha conosciuto il dottor Jackyll fatichi a
pensarlo nelle vesti di Mister Hyde. Ma lo stupore può valere per
l'omicidio. Non per le frequentazioni mafiose. Salvo ignorare buona
parte della biografia del senatore vita. Le stesse sentenze di
assoluzione in primo grado a Palermo e Perugia contengono una serie di
fatti provati che tutto possono autorizzare, fuorchè gli le meraviglie
e i turbamenti degli ultimi giorni: secondo i giudici che lo assolsero
- i giudici più buoni e più imparziali del mondo - Andreotti era intimo
amico dei cugini Salvo (boss della famiglia di Salemi, mandanti del
delitto Dalla Chiesa, che lui nega di aver mai conosciuto); nel 1985
incontrò a tu per tu il boss di Mazara, Andrea Manciaracina, in una
saletta riservata di un albergo; è «possibile» che nel 1985 abbia
incontrato il boss dei boss Stefano Bontate; sicuramente incontrò il
già latitante Michele Sindona, in America; certamente capeggiò una
corrente che, in Sicilia, era «una struttura di servizio per Cosa
Nostra», vantando tra le sue file mafiosi doc come Lima, Ciancimino e
Bevilacqua; al maxiprocesso alla Cupola, quello istruito da Falcone e
Borsellino, Andreotti mentì sotto giuramento sui diari di Dalla Chiesa.
E così via. Tutto ciò, ripetiamo, lo scrivono i giudici che l'hanno
assolto: in quale paese un soggetto simile siederebbe in Parlamento
come senatore a vita e, dopo una condanna per omicidio, riceverebbe la
solidarietà delle più alte cariche dello Stato?


2) «L'idea che un presidente del Consiglio si metta a dar ordine di
ammazzare mi sembra poco credibile, tantopiù quando lo si condanna
senza indicare gli esecutori materiali dell'omicidio" (Piero Fassino e
molti altri). Sono centinaia i processi nei quali viene scoperto e
condannato il mandante di un delitto, ma non il killer. Soprattutto
processi di mafia: nelle chiacchiere fa mafiosi, si parla abitualmente
di chi ha commissionato un omicidio o una strage, molto meno di chi -
fra le migliaia di picciotti anonimi - vi ha materialmente provveduto.
È logico che, parlando del delitto Pecorelli con Bontate e Badalamenti,
cioè con i capi dei capi di Cosa Nostra, Buscetta abbia saputo che
c'era dietro Andreotti e non si sia informato sul nome del "soldato"
che aveva premuto il grilletto. Nel primo processo per l'omicidio del
generale Dalla Chiesa e della moglie Emanuela, Falcone e Borsellino
fecero condannare soltanto i boss che l'avevano ordinata. E nessuno si
sognò di contestare la sentenza sol perché mancavano i killer (scoperti
ben 15 anni dopo, e solo grazie al fatto che si erano pentiti e
autoaccusati). Va ad onore della Corte di Perugia l'aver saputo
scindere le accuse contro i presunti killer, lanciate dai pentiti della
banda della Magliana e considerate non sufficientemente provate, da
quelle contro Badalamenti e Andreotti, ritenute dimostrate.


3) «Non si condanna sulla base della parola di un solo pentito,
Buscetta, che riferisce cose sentite dire da Badalamenti» (tutti i
commentatori). Ai tempi di Falcone e Borsellino, in realtà, le condanne
in base alle accuse lanciate da uno o due pentiti fioccavano. Falcone e
degli altri uomini del pool antimafia, che nell'ordinanza di rinvio a
giudizio del maxiprocesso, scrivevano: «Le rivelazioni di Buscetta e di
Contorno si integrano ne si completano a vicenda, provenendo da
personaggi che hanno vissuto esperienze di mafia da diversi punti di
osservazione». E ancora: «Se un uomo d'onore apprende da un altro
consociato che un terzo è un uomo d'onore, quella è la verità. Non
importa conoscere fisicamente l'uomo d'onore». Chi sostenesse oggi le
stesse tesi di Falcone verrebbe linciato come giustizialista fanatico e
bocciato con clamorose assoluzioni. Infatti, nel processo di Perugia,
c'è ben di più della parola di Buscetta. Per farsi un'idea basta
leggere la sentenza di primo grado, che assolveva Andreotti, ma già lo
indicava come sicuro responsabile di comportamenti gravissimi: ad
esempio, l'avvicinamento di un testimone chiave per indurlo a
ritrattare la sua versione e depistare le indagini e le liaisons
dangereuses con due boss mafiosi del calibro dei Salvo. Buscetta
riferisce, in soldoni, che Pecorelli fu assassinato perchè insieme a
Dalla Chiesa aveva trovato la seconda versione, quella integrale, del
memoriale Moro, molto più compromettente per Andreotti della prima.
Nessuno, prima di Buscetta, l'aveva mai sostenuto. I magistrati di
Perugia indagano alla ricerca degli eventuali riscontri, e scoprono che
il capo delle guardie del carcere di Cuneo, il maresciallo Incandela,
aveva confidato circostanze analoghe al direttore del penitenziario nel
1991 (due anni prima delle rivelazioni di don Masino): e cioè che nel
1978, pochi mesi prima del delitto, Dalla Chiesa era venuto a trovarlo
accompagnato da un giornalista che lui, Incandela, aveva riconosciuto
in Pecorelli. E questi non sono che alcuni dei molti riscontri portati
dalla Procura di Perugia alle parole di Buscetta, oltre alla rassegna
stampa di OP, che dimostra l'estrema pericolosità di Pecorelli per gli
interessi di Andreotti, bersaglio fisso delle sue campagne
giornalistiche passate, presenti e soprattutto future. Campagne che il
clan andreottiano voleva a tutti i costi bloccare, fino al punto di
organizzare una cena fra Vitalone e Pecorelli, e di offrirgli denaro
tramite Franco Evangelisti per far sparire un reportage sullo scandalo
degli "assegni del Presidente". Tutti fatti che smentiscono
platealmente la versione minimalista di Andreotti, il quale - riuscendo
a restare serio - si è detto addirittura amico di Pecorelli («Ci
scambiavamo pastiglie contro l'emicrania.»). Per molto meno, a Palermo,
Falcone e Borsellino ottennero la condanna di Vito Ciancimino e di
centinaia di boss e killer di Cosa Nostra. Ma, com'è noto, i pentiti
dicono sempre la verità quando parlano dell'ala militare della mafia,
mentre mentono sempre quando parlano di politici.


4) «Buscetta aveva ritrattato le accuse ad Andreotti» (Il Foglio e
altri quotidiani). Questa è una bugia bella e buona. Buscetta ha sempre
ribadito lo stesso concetto espresso per la prima volta davanti ai pm
di Palermo, il 6 aprile 1993: «In base alla versione di Bontate e
Badalamenti, quello di Pecorelli era stato un delitto politico voluto
dai cugini Salvo, in quanto a loro richiesto da Andreotti». Nei
successivi interrogatori davanti agli inquirenti di Roma e poi di
Perugia: Andreotti si rivolge ai cugini Salvo, i quali commissionano il
delitto a Badalamenti. Nel libro-intervista a Saverio Lodato («La mafia
ha vinto»), considerato da qualcuno una «ritrattazione», don Masino non
ritratta un bel nulla: ripete di non aver mai detto che Andreotti
commissionò il delitto a Badalamenti. Infatti aveva sempre detto che
Andreotti s'era rivolto ai Salvo, suoi referenti per i rapporti con la
mafia.


6) «Ora bisogna separare le carriere di giudici e pm» (Giuseppe
Gargani, Mino Martinazzoli, Antonio Soda e altri). Ma Andreotti è stato
condannato da almeno 3 giurati popolari su 6, in aggiunta ai 2 giudici
togati (se la camera di consiglio finisce in parità, 4 a 4, prevale
l'assoluzione). E poi: dopo averci raccontato per anni che bisognava
separare le carriere per evitare che i magistrati si dessero ragion a
vicenda per motivi corporativi, ora ci raccontano che il problema è che
una corte d'appello ha dato torto a una corte di assise. Che si fa,
allora? Oltrechè fra pm e giudici, si separano anche le carriere fra
gip e tribunali, fra tribunali e corti d'appello, fra corti d'appello e
corte di Cassazione?


7) "Bisogna evitare sentenze contraddittorie sulle stesse carte e
indizi processuali. La giustizia italiana è ormai una lotteria" (Carlo
Giovanardi e altri). Ma i tre gradi di giudizio servono appunto a
questo: a correggere eventuali errori precedenti, ad assicurare la
lettura degli stessi atti da più giudici di uffici diversi. S'era
appena finito di beatificare il giudice Carnevale, che sulla base di
semplici cavilli, addirittura per la mancanza di un timbro, annullava
sentenze per mafia e strage a tutto spiano, e ora si mena scandalo
perché una sentenza di assoluzione viene ribaltata in appello. Ma a che
serve l'appello: a fotocopiare la sentenza di primo grado? Tanto
varrebbe abolirlo. Forse però Bruno Contrada o i parenti di Enzo
Tortora (condanna in primo grado, assoluzione in secondo) non sarebbero
d'accordo. E infatti Giovanardi si supera, proponendo di "abolire
l'appello, soltanto quando un imputato viene assolto in primo grado".
Un bel modo di assicurare parità alle parti processuali. Già è odioso
considerare il processo alla maniera americana, come una gara sportiva
dove vince il più bravo (e spesso il più ricco). Ma qui si va oltre. Se
perde il pm, non c'è rivincita. Se perde l'imputato, invece, si
continua a giocare finchè non riesce a spuntarla. Ma, se lo scopo dei
processi è assicurare sempre e comunque l'assoluzione, perché non
chiudere i tribunali? Già, è vero: ci sono pur sempre gli scippatori e
gli extracomunitari, da processare. E, se la fanno franca in primo
grado, è un errore giudiziario: bisogna rimediare in appello. Come non
detto.


8) «Non bisogna confondere le responsabilità politiche e morali da
quelle penali. Non si riscrive la storia nei tribunali» (Paolo Franchi,
Pierluigi Battista, Emanuele Macaluso e altri). Ma quello di Perugia è
un normale processo per omicidio. E Andreotti, insieme a Badalamenti,
era accusato di esserne il mandante. Chi dovrebbe occuparsi di un
giornalista assassinato a revolverate nella sua auto, se non una Corte
d'assise? Uno storico? Un docente universitario? Un sacerdote esperto
in teologia morale? Una commissione parlamentare? Ma forse Pecorelli
perì in un incidente d'auto. O si suicidò crivellandosi il corpo di
proiettili. O magari morì di emicrania.



“ANDREOTTI: TRAGEDIA E VERGOGNA E’ LA POLITICA IMPAZZITA”


di Vincenzo Passerini



(articolo pubblicato sul quotidiano “L’Adige” giovedì 21 novembre 2002)




“Vi sono in cielo e in terra, Orazio, assai più cose di quante ne sogna la tua filosofia”
(Amleto, atto I, scena V)

***


Siamo tutti pieni di amletici dubbi sulla condanna di Andreotti. Ma poi, alla fine, c’è chi ha più certezze di altri. E la certezza dominante, perfino asfissiante, è che è impossibile che Andreotti sia il mandante dell’omicidio Pecorelli. Non solo. Gli attestati di stima, di simpatia, di fervida solidarietà (come quelli dei vertici politici e dei vertici ecclesiastici) trasformano il senatore a vita in una vittima innocente, lui che è così saggio, così ironico, così religioso, così colto, così distaccato. Così diverso da tutti gli altri. Così superiore. E allora sotto accusa si mette la giustizia, in un coro unanime che ha dell’agghiacciante. Dove risorge lo spirito funesto della Bicamerale, dell’accordo D’Alema-Berlusconi per zittire definitivamente i giudici, sacrificati per consentire ai nuovi vincitori di riscrivere il patto costituzionale. Spirito funesto che ammorba l’aria, la rende irrespirabile, tanto che ti vien da dire che in questo infelice paese la verità non la troveremo mai.
Untorelli da quattro soldi, siamo noi, niente di più. Voci stonate in un coro intonato. Non diciamo che è colpevole: c’è una sentenza da leggere, c

e n’è un’altra da attendere. E comunque non ne abbiamo né l’autorevolezza che derivi da una qualche certezza, né il desiderio. Ma rifiutiamo il coro che grida: è impossibile! è assurdo! è folle!


Come se la realtà della storia italiana non fosse superiore, nelle cose folli, impossibili, assurde che l’hanno tragicamente segnata, a qualsiasi fantasia. Come se la vicenda Andreotti spuntasse da un prato verde e fiorito, dove ci si scazzotta innocentemente nel gioco del potere. E non, invece, da un campo solcato dalle terrificanti stragi di piazza Fontana a Milano, di piazza della Loggia a Brescia, del treno Italicus, della stazione di Bologna; dal terrorismo che uccise Moro e con lui tanti dei migliori: magistrati, giornalisti, generali, carabinieri e poliziotti, sindacalisti; dal potere occulto e svelato della loggia massonica P2, pericoloso cancro delle istituzioni come lo definì la commissione parlamentare d’inchiesta; dalle stragi di mafia che decapitarono una intera classe dirigente in Sicilia: magistrati, politici, generali; dai servizi segreti che hanno fatto e disfatto tutto a piacimento, e che hanno marcato la loro presenza in ciascuna di queste tragiche vicende; dai disegni finanziari inquietanti dei Calvi e dei Sindona, loro pure infine assassinati; dai grandi scandali che hanno visti coinvolti i vertici della politica, dell’amministrazione pubblica, della guardia di finanza, dei carabinieri. In quale altro paese europeo è capitato tanto? Nemmeno il sanguinolento e immaginoso Shakespeare sarebbe riuscito ad inventare tanti fatti così folli in così poco spazio, di terra e di tempo. Eppure, tutto questo è accaduto nella bella Italia, in questo fazzoletto di terra, in pochi anni. Ma lui lo sapeva che la realtà strapazza ogni immaginazione. Siamo noi che fingiamo di non saperlo, che fingiamo di stupirci.

***


Perché questo è l’ultimo capitolo della tragedia della politica italiana, non della giustizia italiana. Si stanno rovesciando le parti, come se fossimo partecipi di una storia normale su cui agisce una giustizia impazzita. E non, invece, di una storia impazzita su cui cerca di agire una giustizia normale. Ecco il cuore della questione italiana. La giustizia, soprattutto negli ultimi vent’anni, ha cercato di far fronte a questo impazzimento della politica. Qualcuno si è venduto, qualcuno ha fatto finta di non vedere, qualcuno ha peccato di protagonismo, ma nel suo insieme la giustizia ha fatto fronte con grande dignità alle tragedie della politica impazzita. Dal terrorismo alle stragi, dai delitti di mafia alla corruzione, dai poteri occulti ai grandi scandali finanziari la giustizia ha cercato, spesso pagando un altissimo prezzo di sangue, di trovare la verità. E se non c’è riuscita, talvolta, è perché ha trovato di fronte gli innumerevoli ostacoli costruiti dagli innumerevoli poteri, i silenzi, i “non ricordo”, le complicità diffuse, i testimoni ammazzati, le delegittimazioni dall’alto. I muri di gomma. A volte anche le leggi fatte apposte per impedire di arrivare alla verità.


Il delitto Pecorelli, avvenuto il 20 marzo del 1979, è dentro il terribile quinquennio della politica italiana che va dal delitto Moro, nel 1978, al delitto Dalla Chiesa, nel 1982. In mezzo ci sono: l’assassinio dell’avvocato Ambrosoli (luglio 1979) ad opera dei sicari di Sindona; l’ingiusta incriminazione dei vertici della Banca d’Italia architettata dagli amici di Sindona (luglio 1979); gli assassinii, ad opera delle Brigate Rosse, di Guido Rossa, Emilio Alessandrini, Walter Tobagi (1979); l’assassinio di Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, da parte delle Br (gennaio 1980); lo scandalo dei petroli (giugno 1980) che vede implicati i comandanti della guardia di finanza; l’abbattimento dell’aereo DC9 Itavia sul cielo di Ustica, 81 morti (27 giugno 1980); la strage terroristica alla stazione di Bologna (2 agosto 1980) che provoca 83 morti; la scoperta degli elenchi della loggia massonica Propaganda 2 (marzo 1981) ad opera dei magistrati Gherardo Colombo, Giuliano Turone, Guido Viola: 962 affiliati, tra cui ministri, generali, i vertici della guardia di finanza e dei servizi segreti, giornalisti, Silvio Berlusconi; l’assassinio di Calvi a Londra ( giugno 1982); l’assassinio del generale Dalla Chiesa in Sicilia (settembre 1982), che chiude la prima sanguinosa stagione dei grandi delitti di mafia che hanno decapitato le istituzioni siciliane (Mattarella, Terranova, Chinnici, Ciaccio Montalto).


Elenco incompleto ma bastante a ricordarci il quinquennio terribile e folle della politica italiana in cui si inscrive la vicenda Pecorelli- Andreotti. Quale sia stato il ruolo del senatore a vita in alcune di queste vicende è vecchia materia di discussione e di indagine. Ma alcuni fatti, almeno, vanno ricordati.

***



Aldo Moro nel suo memoriale dal carcere brigatista riserva ad Andreotti i giudizi più pesanti, più implacabili. “Accuse brucianti” le definisce Alfredo Carlo Moro, (in “Storia di un delitto annunciato”, 1998), fratello dello statista ucciso, magistrato, già presidente del tribunale dei minorenni di Roma, che assegna al memoriale il valore “non di uno scritto difensivo ma di un testamento politico”.


In secondo luogo. I rapporti di Andreotti con potenti ambienti mafiosi siciliani sono stati considerati certi anche dalla sentenza del tribunale di Palermo che ha assolto Andreotti dall’accusa di associazione mafiosa (le sentenze vano lette anche nei casi di assoluzione perché si scoprono verità meno comode di quelle che si vogliono far credere).


In terzo luogo. Andreotti mentì al maxiprocesso di Palermo nel 1986 a proposito dei suoi rapporti con il generale Dalla Chiesa, e negò quanto il generale aveva scritto nel suo diario a proposito del colloquio con lo stesso Andreotti (“non avrò riguardo per quella parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori” aveva detto Dalla Chiesa ad Andreotti; si veda “Storie di boss, ministri, tribunali, giornali, intellettuali, cittadini” (1990), di Nando Dalla Chiesa, oggi parlamentare della Margherita.


In quarto luogo. Sindona cercò di neutralizzare politicamente le indagini del coraggioso avvocato Giorgio Ambrosoli anche con l’aiuto di Andreotti, suo amico e protettore. Non riuscendoci fece assassinare l’avvocato (si legga il preciso “Un eroe borghese” di Corrado Stajano, 1991).

***



Due osservazioni, infine.


E’ profondamente sbagliato identificare la storia della DC con quella di Andreotti. E’ sbagliato da un punto di vista storico e da un punto di vista morale. La storia della DC è stata fatta da Degasperi, da Fanfani e da Moro, che non avevano nulla da spartire con Andreotti (nemmeno Degasperi, distante anni luce dal suo collaboratore). Andreotti c’è sempre, è potente, si adatta ai tempi che mutano, ma non li prefigura, né li costruisce. Salva sempre se stesso, fino alla fine. Moro muore ucciso, e Craxi e Forlani con i quali gestisce gli anni Ottanta del dopo Moro, finiscono condannati, il primo fugge e muore all’estero, il secondo è mandato ai servizi sociali.


Infine. E’ per me inaccettabile che i vertici della mia Chiesa indichino Andreotti come una sorta di modello di impegno civile e politico. Tra i cattolici impegnati a fare il proprio dovere sarebbe di gran lunga preferibile indicare come esempi, restando nell’ambito di questa tragedia della politica italiana, l’avvocato Giorgio Ambrosoli, o il giudice-ragazzino Livatino, o Paolo Borsellino. Fecero il loro dovere di fronte alle mafie che li stritolavano, in solitudine, senza indietreggiare, contando unicamente sulla loro fede e sulla loro coscienza.

20.11.02

L'IMPOTENZA DELL'OCCIDENTE


di Gianni Minà, dal sito www.giannimina.it



Ci rendiamo conto con sconcerto che siamo in guerra ma lo dobbiamo dire a bassa voce. Una situazione kafkiana con un apparato militare rivolto per ora contro l'Afghanistan, fra i più poderosi mai messi in campo dall'occidente dalla II guerra mondiale ad oggi, un apparato che siamo costretti però a definire "un'operazione di polizia internazionale", pena l'accusa di essere tacciati di antiamericanismo, se non addirittura di essere conniventi con i terroristi.





Siamo obbligati infatti, a snidare ed annientare rapidamente il terrorismo, un tumore maligno frutto per ora di movimenti fondamentalisti islamici e capace di essere più spettacolare e apocalittico di un film con Bruce Willis o di un romanzo di Tom Clancy, ma siamo palesemente incapaci di farlo. Perché per troppo tempo, fino a ieri, noi, l'occidente "indiscutibile" e che vanterebbe un primato ideologico, religioso e morale sulle altre civiltà, ha impudicamente trescato col terrorismo, e non solo quello di radice islamica. Una scelta ambigua e ipocrita: gli Stati Uniti, ma non solo loro, si sono dati da fare in prima persona, cosa che li rende ora, ironia della storia, inadeguati moralmente, strategicamente, tecnologicamente ad affrontare con qualche sicurezza di successo, il drammatico problema.



Chi, in un altro 11 settembre, quello del 1973, ha organizzato direttamente (come hanno confermato i documenti declassificati della Cia) il colpo di stato in Cile contro il governo di Salvador Allende, democraticamente eletto dai cittadini? Chi ha accettato e favorito la politica dell'apartehid in Sudafrica? Chi ha ideato e stimolato "l'operazione Condor" in Argentina , Uruguay, Cile, Paraguay, Brasile, per annichilire l'opposizione progressista in quei paesi senza avvertire alcun scrupolo, se in quella strategia veniva usata per la prima volta la infame pratica di far sparire migliaia di persone? Chi ha accettato che in Indonesia venissero eliminati cinquecentomila presunti fautori del comunismo? Chi, solo due anni fa, è stato indicato da un rapporto dell'Onu come complice del genocidio delle popolazioni maya del Guatemala, avvenuto negli anni Ottanta e fino agli inizi degli anni Novanta? Chi ha sempre impedito all'Onu di condannare il Guatemala per violazione dei diritti umani, anche dopo che i rapporti della Chiesa cattolica e delle Nazioni Unite hanno documentato ogni efferatezza come 30.000 desaparecidos, 627 massacri, 400 villaggi scomparsi dalla carta geografica, 3000 cimiteri clandestini ed hanno segnalato che uno dei generali genocidi, Rios Montt, impudicamente è ora il presidente del parlamento?



Chi ancora recentemente ha varato il "Plan Colombia", una strategia di presunta lotta ai narcotrafficanti colombiani, che la stessa comunità europea ha respinto, perché "chiaramente suggerito da finalità militari"? Chi sta tentando di mettere in pratica un "Plan Africa" che annienterebbe per sempre ogni speranza di ripresa economica e sociale del continente più povero e martoriato del pianeta? Chi non ha avuto la voglia o la forza di aiutare a risolvere il conflitto infinito fra Israele e Palestina, lasciando ultimamente mano libera al generale Sharon, che il tribunale dell'Aja potrebbe presto inquisire per crimini contro l'umanità?



Chi, insomma, negli ultimi trent'anni ha fatto prevalere questa immagine degli Stati Uniti, rispetto a quella generosa, democratica e libertaria, patrimonio della storia moderna del mondo fino alla fine della II guerra mondiale, non sa ora cosa fare, se non come fanno i bambini, buttare all'aria tutto?



Perché purtroppo chi ha trescato e tenuto in piedi i peggiori criminali della politica moderna, in America Latina come in Africa, come in Asia, coinvolgendo anche l'Europa, non ha previsto che la storia un giorno potesse produrre un orrore infinito, ideato proprio da alcuni di coloro che, fino al giorno prima, erano stati creati, istruiti e usati per le strategie più imbarazzanti. Primo fra tutti Saddam Hussein, scelto per annientare l'Iran di Komeini che poteva diventare destabilizzante nel grande mercato del petrolio e dell'energia; e poi Osama bin Laden e i talebani, studenti coranici formati e istruiti in Pakistan, per sloggiare l'Unione Sovietica dall'Afghanistan, terra per sua sfortuna strategica, allora come ora, per il passaggio verso l'Oceano Indiano dei gasdotti e degli oleodotti dalle repubbliche mussulmane ex sovietiche (Turkmenistan, Kazakistan, Tagikistan, Uzbekistan etc.).



Bush padre, ex capo della Cia, sul finire degli anni '70, si precipitò a Parigi su un aereo privato di un fratello di bin Laden, l'antico compagno d'affari Salem, per trattare con una delegazione di mullah iraniani moderati la possibilità di rilasciare alcuni diplomatici nordamericani, ostaggio del regime dell'ayatollah Komeiny. Era una trappola per far perdere le elezioni al democratico Jimmy Carter e farle vincere al repubblicano Ronald Reagan di cui Bush senior sarebbe diventato vicepresidente. Reagan vinse le elezioni, mentre Salem bin Laden come Amiram Nir, agente del Mossad, anch'egli protagonista dell'incontro di Parigi, sarebbero morti in due diversi incidenti aerei, il primo in Texas e il secondo in Mesico.


Evidentemente incominciò in quella stagione un legame indecente fra le multinazionali dell'energia di cui George Bush senior era il portavoce e certi ambienti del mondo del petrolio arabo, in particolare quello saudita, che sicuramente ha avuto la sua influenza successivamente nell'evolversi della politica Usa verso paesi come il Kuwait, Iraq, Iran e Afghanistan. È stato rivelato per esempio che non solo i militari genocidi del Guatemala e di Haiti o i contras in Nicaragua, ma anche l'operazione Iran-Contra e successivamente il sostegno alla guerriglia antisovietica in Afghanistan, furono sovvenzionate dalla Cia attraverso il riciclaggio del denaro del narcotraffico con la connivenza di istituti di credito come la Bank of commerce and credit international (Bcci) nel cui consiglio di amministrazione c'era non solo Salem, fratello di Osama bin Laden, ma anche bin Mafouz, banchiere della famiglia reale saudita, sposato con una sorella di bin Laden.


Un' inchiesta di Time Magazine del 1991 rivelò per esempio che "poiché gli Usa volevano fornire ai ribelli mujaheddin in Afghanistan missili Stringer e altro materiale militare per combattere l'Armata Rossa, c'era bisogno della piena collaborazione del Pakistan. Così dalla metà degli anni '80 il distaccamento della Cia da Islamabad divenne una delle sedi più grandi e operative dei servizi segreti nordamericani. "Se lo scandalo Bcci ha creato un così forte imbarazzo per gli Usa tanto che indagini dirette non sono mai state condotte, è dovuto al fatto che gli Usa avevano dato un tacito via libera ai trafficanti di eroina in Pakistan", dichiarò un agente della Cia. Il "denaro sporco" riciclato attraverso il sistema bancario -magari attraverso una compagnia anonima di copertura- diventava così "denaro nascosto", usato per finanziare movimenti di guerriglia come i Contras del Nicaragua e i mujaheddin afgani.



Un tale scenario, aggravato ben presto dalla guerra del Golfo -una guerra bocciata perfino dal Papa e dichiarata solo per assicurarsi il controllo del petrolio arabo nei prossimi decenni- avrebbe dovuto suggerire una maggiore accortezza in un'area di mondo dove la solidarietà dei paesi arabi moderati era stata ottenuta, allora, a sorpresa, con non poca fatica, per vari motivi: religiosi, strategici, culturali. Invece, non si è dato peso nemmeno a segnali inquietanti che arrivavano da tempo e proprio dai settori integralisti come quello dei talebani, gli studenti coranici allevati in Pakistan e catapultati nella tragedia dell'Afghanistan per contribuire a cacciare i sovietici (…).



L'impressione è che in un mondo dove i consigli di amministrazione delle multinazionali, specie quelle dell'energia e della armi, dettano le linee programmatiche ai governi occidentali (attualmente avari di statistii o anche solo di politici di sicura personalità) gli Stati Uniti e gli alleati si siano improvvisamente trovati di fronte a mostri creati proprio dalla loro politica estera e dalla loro ingordigia economica. Come ha detto Ignacio Ramonet, direttore de Le Monde diplomatique: "Ora, come Frankstein, questi paesi che si credevano poderosi sono aggrediti dalla creatura che hanno generato". Insomma, come sostengono molti intellettuali degli Stati Uniti (Chomsky, Bellow, Miller, Ramsey Clark e Wayne Smith) che non si possono tacciare certo di essere antiamericani, è chiaro che la politica estera di Washington non è stata e non è innocente.



Questo non assolve certo il criminale attentato alle Torre gemelle e al Pentagono, ma per chi vuole capire e non essere ubriacato di propaganda in favore della guerra, spiega perché la storia moderna l'11 settembre del 2001 si è trasformata in un incubo.

lettera di Antonio Di Pietro sul referendum abrogativo della legge Cirami



Cari amici,
l'Italia dei Valori ha depositato ieri il quesito referendario per
l'abrogazione della Legge Cirami. In precedenza abbiamo depositato anche le
richieste di referendum per il falso in bilancio e le rogatorie.

Abbiamo fatto questi passi autonomamente, non per prevaricare qualcuno, ma
per contrastare e per fare da contraltare alle immediate richieste di
legittimo sospetto che in questi giorni vengono avanzate nei Tribunali dai
soliti noti e ignoti. Loro chiedono la ricusazione dei giudici e noi
chiediamo ai cittadini-elettori la "ricusazione" della loro legge.
La legge
Cirami, infatti, è una vera beffa per i principi di uguaglianza dei
cittadini. Una legge voluta dal clan berlusconiano - con l'avallo colpevole
e pilatesco dei parlamentari del centrodestra - prevalentemente e/o
unicamente perché essenziale al disegno di piegare la Giustizia ad interessi
di parte, ad interessi giudiziari cioè di imputati "eccellenti".
Una legge
che, attraverso un allargamento dell'area dell'impunità e non solo, porterà
benefici alle strategie difensive dei grandi corrotti e corruttori e della
criminalità mafiosa e terroristica. Insomma, una legge pensata "a proprio
uso e consumo" da parte di qualcuno
, ma che verrà utilizzata da tanti, smantellando così lo Stato di diritto.
Questa legge è incostituzionale, inutile e dannosa, ed è per questo che
vogliamo cancellarla con il voto popolare; da qui è nata la decisione di
depositare il quesito referendario presso la Corte Suprema di Cassazione il
cui testo è riportato in calce.

Abbiamo letto, che da parte di alcune forze politiche si lamenta la mancanza
di un maggiore e migliore coordinamento delle varie iniziative e che anche
per il referendum in questione dovevamo coordinarci prima.

Sono d'accordo: proprio per questo auspico che al più presto possa formarsi
un tavolo allargato con "tutti coloro che ci stanno".
Non mi pare giusto
accusarci di non consultare la coalizione (come pure ieri ho avuto modo di
leggere sui giornali). Come si fa a consultare qualcuno se prima la "nuova
coalizione" non viene costituita e non si sa nemmeno con chi parlare e chi
ha titolo? E' chiaro che, se non veniamo mai coinvolti, dobbiamo per forza
passare all'azione politica da soli. I nostri elettori ci hanno votato per
questo.

Ciò non di meno, ribadisco qui ancora una volta ed in modo formale - a nome
personale e per conto dell'Italia dei Valori - la totale disponibilità
nostra a collaborare e a fare "squadra comune": sui referendum e più in
generale per la realizzazione di un comune programma politico onde fissare i
"punti" salienti delle ragioni per cui alle prossime elezioni politiche e
amministrative andremo insieme.

Perché insieme dobbiamo andare, voglia o non voglia Boselli e compagnia
bella - se vogliamo sperare di vincere -.
Al riguardo ribadisco anche che la nostra scelta di costruire e partecipare
ad un'alleanza politico-elettorale con l'Ulivo ed il centrosinistra è
esplicita e senza riserve (tanto è vero che - ve lo diciamo da subito ed a
scanso di equivoci - per le prossime elezioni politiche vi chiediamo
esplicitamente sin da ora, di fare "liste comuni").

Auspico pertanto in cuor mio che l'iniziativa sui referendum non venga
sommariamente rapportata ad una logica di prevaricazione, rispetto alla
auspicata unione fra le forze politiche tutte del Centrosinistra, ma
piuttosto ad una immediata risposta alla sfacciataggine con la
quale l'attuale governo alimenta nella propria maggioranza parlamentare
l'idea contorta di una giustizia fatta in casa, per sé e gli amici degli
amici.

Insomma ragionevolmente vi chiedo ed auspico di ritrovarci presto tutti
intorno al medesimo tavolo della concordia, per lavorare immediatamente
sulla programmazione unitaria di questo evento normativo con gli amici dei
girotondi e delle varie Associazioni e movimenti interessati, cui l'Italia
dei Valori non ha mai mancato la propria considerazione (e tra questi gli
amici Cofferati e Moretti a cui va un particolare ringraziamento per la
"scossa e lo scatto di orgoglio" che ci hanno dato).

In attesa di vostro sollecito riscontro chiedo a Voi tutti di ritrovarci
uniti intorno alla programmazione positiva di questo e di altri eventi che
tengano alto il rinnovato spirito dell'unione, ma nel contempo chiedo a
tutti (ed a me per primo) di avere il coraggio e l'umiltà di accantonare
ogni riserva mentale e di incamminarci verso il futuro.



On. Antonio Di Pietro - Presidente Italia dei Valori



Busto Arsizio, 13 novembre 2002



19.11.02

SALVERO' IL MONDO/8: "EROE NO-GLOBAL"


di Martino Pinna





L'altra sera Dario mi spiegava che dovrei odiare di più McDonald's. Mi ha spiegato che oltre all'imperialismo economico, l'abbattimento di foreste, l'invasione coloniale, la pubblicità scassacoglioni e lo
sfruttamento dei dipendenti, c'è un'altra cosa che bisogna considerare
quando si decide di odiare McDonald's: il cibo. Pare sia praticamente
mortale.




"Ma la gente lo sa? Lo sa chi mangia al McDonald's? Lo sanno i bambini che
festeggiano lì il compleanno? Lo sanno le loro madri? Lo sanno quei poveri
dipendenti che hanno ormai il cervello fritto come le patatine?"




"No" rispondo distratto e stordito dalle tante domande, "non credo lo
sappiano. Forse qualcuno dovrebbe provare a dirglielo".




Distratto e stordito, sì, ma non tanto da non notare gli occhi di Dario che
si accendono di tanta, immotivata, allegria e di tanto, preoccupante,
entusiasmo.
Ma ormai è tardi. Ho creato un mostro.




Infatti il giorno dopo Dario decide di andare al McDonald's della nostra
città a sensibilizzare i dipendenti. Non è la prima volta che ci prova. Ci
aveva già provato un anno fa.




Quella volta c'era un compleanno di bambini di cinque anni.
Dario e gli altri si misero ad aspettare la fine del compleanno fuori dal
McDonald, seduti su una panchina.




Qualcuno propose di entrare e scoppiare i palloncini dei bambini, così, per
protestare comunque, in qualche modo. O, in alternativa, di scrivere
qualcosa di volgare sulla statua di Ronald, il pagliaccio mascotte della
multinazionale dei panini presente all'entrata di tutti i McDonald's.




Ma Dario bocciò tutte e due le idee.




Poi, venne la fame.




Cercarono di resistere, ma inutilmente. E dopo cinque minuti - Dario
sostiene quasi dieci - si gettarono dentro al fast-food a divorare humburger
e patatine fritte mortali.
Fine primo tentativo.




Ma questa volta, assicura Dario, niente ci potrà fermare.




Dopo una preparazione spirituale (lettura di "No-Global" di Naomi Klein e
ascolto prolungato di Manu Chao) e un'intelligente preparazione fisica
(banane, panini con tonno e nutella) la spedizione è finalmente partita
verso la Chiesa dei panini.




Questa la formazione: Dario, comandante della spedizione; Marko,
sub-comandante; Paolo e il suo amico, sub-sub-comandanti. E naturalmente io,
in qualità di semplice spettatore, no-global anarchico e dilettante.




Non appena arriviamo, i diligenti dipendenti in camicie a quadretti e
cappellini da coglioni, si barricano dentro.




Dario è orgoglioso: "Hanno paura di noi!", grida trionfante.




I dipendenti osservano i nostri movimenti da dietro le inferriate. Parte una
piccola delegazione - Dario, Marko e Paolo - a spiegare il motivo della
nostra presenza.




Io e l'amico di Paolo rimaniamo su quella famosa panchina a cercare di
orecchiare cosa si dicono e a me... non so esattamente come si può dire...
diciamo che, di colpo ho bisogno urgente di un bagno.
No, non sono un igienista che deve assolutamente lavarsi le mani, non sono
una quattordicenne che deve controllarsi le tette allo specchio prima di
parlare con un amico, non sono nemmeno un vecchio che controlla l'aspetto
della sua dentiera.


Sono proprio uno che si sta cagando sotto.




Sarà la combinazione letale nutella-tonno-Manu Chao, sarà che ho mangiato
molto e camminato tanto, sarà la tensione o sarà quello che volete, ma io ho
assolutamente bisogno di un bagno.




Inizio a sudare.


Il bagno più vicino è chiaramente quello del McDonalds.




Non credo che Dario sarebbe contento di sapere che io desidero, con tutte le
mie forze, entrare nel covo del nemico. E per di più, per subire l'enorme
umiliazione di usare il suo bagno.




Ma vi assicuro che certe cose superano l'ideologia. Lo può confermare
chiunque si sia mai trovato nelle mie condizioni.




Di interrompere Dario che discute con il capo del forte McDonalds, non mi
passa nemmeno per l'anticamera, ecc. Quindi, sudatissimo, faccio il giro e
mi arrampico su per una finestra del retro. Entro in bagno e faccio quello
che devo fare.



Fuori sento un casino pazzesco. Dalla finestra vedo scappare la mia
spedizione e sento delle grida provenire dall'interno del Forte.




Nel bagno fa irruzione un poliziotto. In un'altra occasione avrei detto che
mi sono cagato addosso. Diciamo che ho avuto molta paura.




"Fermati black bloc!"


"Black bloc? M-ma che dice?"


"Stai fermo! I tuoi compagni sono scappati ma tu sei nostro!", dice il
poliziotto.

"Ma cos'è questa puzza?"


"Qui... qui cucinano schifezze, non lo sa?", gli dico.






Ma il policeman non coglie il mio disperato umorismo e non trova niente di
meglio che portarmi in questura.




Lì racconto com'è andata veramente e loro, solo dopo un'attenta ispezione
nel bagno del McDonalds, mi credono e mi lasciano andare.
Tornato dagli altri, sono giustamente accolto da eroe.




Fine secondo tentativo.
La legittima lotta contro sosta selvaggia sconfina ormai nell´inquinamento visivo. Dappertutto vasi, vasetti, vasoni. Come quelli immensi apparsi da qualche giorno sulla celebre strada . Surreale perfino per un pittore che ama i surrealisti. Ecco la sua denuncia

Da via Giulia a piazza del Pantheon la messa in scena della città invasata


DI LUIGI SERAFINI



E come diceva Leon Battista Alberti una casa è una piccola città e una città è una grande casa, Roma a questa grande casa ha aggiunto il cortile condominiale, dove, prima delle vacanze, si lasciano alle cure del portiere vasi, vasoni e vasetti e altre schifezze più o meno vegetali.

Insomma diciamocelo: Roma ormai è una città invasata, e forse è la città più invasata del mondo, perlomeno fino a quando non ci sarà un codice vasocostrittore, per cui i commercianti potranno usare i vasi solo portandoli in testa.

A conferma della teoria dell'eterogenesi dei fini, la legittima lotta contro la sosta selvaggia ha provocato la nascita di una speciale Flora Batterica Capitolina (F.B.C.) con un inquinamento visivo superiore a quello di un qualsiasi TIR parcheggiato, che comunque a un certo punto se ne va , mentre loro, i vasi, no: immobili giorno e notte, con quel loro verdurame senza speranza, che vegeta asfittico senza mai incontrare il battito di una farfalla, senza conoscere il solletico di una coccinella o il peso breve di un pettirosso. Pitosfori, begonie, ciclamini, allori, lauri cerasi, tuje e ogni genere di palma e palmetta, finti vivi, finti verdi?.

Eppure sono intoccabili, perché a volere eliminare tutta questa verdeggiante schifezza si passerebbe per collaborazionisti dell'effetto serra. E pensare che le città italiane (Roma inclusa) sono state sempre città di pietra e il verde all'interno della cinta urbana era sempre conclusus, cioè interno a un perimetro architettonico.

L'invasamento della città raggiunge la sua apoteosi in primavera con l'esposizione delle azalee fiorite sulla scalinata della Trinità dei Monti. E' la vittoria finale del Vaso di Fiori sull' Architettura: uno schiamazzo di colori, un cespuglione dal sicuro "effettaccio" nasconde e annichilisce le eleganti, scenografiche e complesse rampe e terrazze del De Sanctis. Ogni volta che assistiamo a questa liturgia dell'inutile pensiamo a quante risorse vengono sottratte a una migliore tutela dell'adiacente Villa Borghese in cui, per esempio, il vandalismo deturpa continuamente le erme e decapita le statue.

Siamo andati da via Giulia a Piazza del Popolo in compagnia di due vecchi amici Tìtiro e Melibèo che si intendono anche di piante. Li ringrazio perché hanno temporaneamente lasciato la loro Egloga e Amarilli, per rendersi conto di persona di cosa stia succedendo nell'urbem quam dicunt Romam .

Via Giulia Le surreali donne-falco del borrominiano Palazzo Falconieri devono avere più di una volta strizzato le palpebre di pietra per lo stupore di fronte all'improvvisa invasione di Via Giulia. Proprio così, un' invasione di vasi?ma di quelle dimensioni non se n'era mai vista una simile.

Infatti sono arrivati in 140 circa, enormi, di plastica/finto cotto, e ognuno contenente circa un metro cubo di terra e una pianta di Arancio Amaro. Via Giulia, who die Zitronen blühen! (là dove fioriscono i limoni!) - esclamerebbe ora Goethe...

Come si sa, Via Giulia è un rettilineo di circa 1 chilometro, voluto da Giulio II e realizzato dal Bramante e sembra (o meglio sembrava) ancora echeggiare la passione per la scoperta rinascimentale della prospettiva geometrica. Ora l'arrivo di questi vasoni compromette ( povero Giulio!) la percezione dell' antico asse per diversi motivi: 1- I 140 vasoni hanno un colore industriale standard e ovviamente omogeneo . L'insieme genera una massa cromatica impazzita che "spara" , producendo un vero e proprio disturbo visivo. Più propriamente questo colore si colloca in primo piano rispetto al resto, creando una nuova prospettiva atmosferica che eclissa la prospettiva lineare , ovvero quella storica. Neanche le peggiori automobili sono capaci di tanto! 2- I 140 vasoni sono, come già detto, di plastica e la plastica è aliena al contesto circostante perché è senza pathos e quindi senza possibile patina. C'è chi dice che hanno fatto la plastica a Via Giulia. 3- I 140 vasoni sono sbilenchi per l'irregolarità del fondo stradale e i fusti degli alberetti, che sono dei segmenti di circa due metri, pendono un po' di qua e un po' di là confondendo ulteriormente le linee verticali dei palazzi. 4- I 140 vasoni sono stati collocati lungo i lati della strada senza un ritmo, una sequenza, e allineati in modo approssimativo in un disordine imbarazzante. 5- I 140 vasoni recano ognuno una pianta di Arancio Amaro(Citrus Aurantium Bigardia), potato a forma di esile alberetto con un tronco inferiore ai 10 cm di diametro e un ciuffo di foglie oltre i due metri e mezzo da terra. Ne risulta un'immagine quanto mai rachitica per via della sproporzione tra pianta e vasone. 6- I 140 vasoni contengono terriccio argilloso, non adatto certo agli agrumi per via del drenaggio lento. Infatti, dopo una pioggia più intensa, i vasoni rimangono a lungo pieni d'acqua con ogni genere di rifiuto a galleggiarci dentro. Difficilmente le piante arriveranno alla prossima estate. In questi casi ci si domanda non quanto sia costato (troppo banale) ma quali siano state, per cotanto progetto, le motivazioni intellettuali di chi lo ha pensato e di chi lo ha approvato.
Contro le auto in sosta non si potevano usare le risorse tradizionali, ovvero sedili e colonnine di travertino, catene e marciapiedi?
Se tutto questo succede non in una strada qualsiasi del centro, ma a Via Giulia dove al n. 79 ha sede nientemeno che il 1° Municipio, figuriamoci altrove! Piazza dei Ricci Nel centro della piazza è stato sistemato un vasone con dentro, ci sembra, una palma da datteri. Non riusciamo a capirne il senso. Secondo i miei amici però dovrebbe produrre i primi datteri nel 2015 Vedremo.
Piazza Farnese C'è un gazebo piuttosto invadente che ci sembra alterare la geometria rinascimentale della piazza. Alcuni passanti però mi dicono che di tanto in tanto serve da acquartieramento ai paladini di Francia che vanno e vengono da Gerusalemme. Via della Dogana Vecchia (Palazzo Madama) Non si sa quando siano atterrate in Via della Dogana Vecchia planando tra vecchi palazzi seicenteschi, ma certamente era notte. Parliamo delle decine di pesantissime fioriere di conglomerato a forma di caciotta (ruzzola?) che circondano Palazzo Madama e Palazzo Giustiniani. Come i crop circles inglesi, sono probabilmente segnali provenienti da intelligenze extraterrestri e sono lì, intorno al nostro Senato , per un contatto del terzo tipo con omologhi Senati extragalattici : il gentile linguaggio dei fiori non ha confini nell'universo!
Altre spiegazioni non ce ne sono. Quando mai un' intelligenza umana avrebbe potuto concepirli? Sembrano fatti e sistemati proprio per diventare collettori di cicche, cartacce, lattine e quant'altro, dato che tutti sanno che l'esplosivo si nasconde bene tra i cespugli o nei cassonetti. Ovviamente questo succede sul pianeta Terra, perché in quei mondi lontani e perfetti non si fuma, non si beve Coke e non c'è neanche il terrorismo? Piazza del Pantheon (e zone limitrofe) Bar e trattorie recingono i loro spazi vitali con vasi, vasoni e vasetti, più le transenne, secondo la tecnica militare dell'agger, che consisteva nell'ammassare terra e altro lungo il confine. Ovunque la confusione è sovrana. Il risultato: micro-boschetti dove evidentemente la gente si imbosca e che in caso di necessità, potrebbero tasformarsi in orti di guerra. Piazza San Lorenzo in Lucina Due ulivi e molti allori sono stati piazzati davanti al bel porticato in colonne di granito e capitelli jonici dell'omonima chiesa: un evidente inquinamento visivo da vaso, generato dalle più nobili intenzioni. Via di Fontanella Borghese, Via Borgognona, Via Bocca di Leone, Via del Babuino ecc Che dire dei cache-pots de fero allineati in modo sgangherato lungo via di Fontanella Borghese, Via Borgognona, Via Bocca di Leone ecc? Blindati come sono, sembrano aggeggi da guerre medievali/stellari. Insomma tra lo chic e il kitsch non c'è che un passo. E soprattutto quale mano immortale ha attaccato sui muri in alto quelle appliques di ferro battuto che sostengono grappoli di vasetti contenenti improbabili vegetali? Lasciamo ogni commento alla Sora Cecioni di Franca Valeri. Finale E' notte. I miei amici sono rientrati nella loro Egloga, esprimendomi un sentito horror vasis. Inoltreranno per mio conto una preghiera (Libera nos a vasibus) al divino Apollo affinchè conceda alle ninfe imprigionate come Dafne nelle varie piante di riprendere l'umano sembiante per una notte e fuggire lontano dai vasi che le imprigionavano : al mattino l'Urbe si risveglierà con tutti i vasi ,vasoni e vasetti vuoti. Finalmente. A via Pavia non si costruirà più una palazzina di 6 piani, ma arriverà un nuovo parco pubblico. Il Comune ha stipulato una permuta con la ditta proprietaria dell'area, la Comedil s.r.l., che cederà l'area al Campidoglio in cambio di un terreno edificabile in un'altra zona della città . Poco più di tre anni fa il Comune aveva venduto i 9.000 metri quadri tra via Pavia e via Como alla Comedil. L'impresa un mese fa aveva presentato il progetto "Parco della Serenità": accanto ai campetti da tennis voleva costruire una palazzina di 6 piani di 9.000 metri cubi che avrebbe ospitato le famiglie dei bambini ricoverati nel reparto di Ematologia del professor Mandelli e 466 posti auto. Il Campidoglio era interessato al progetto di una foresteria per i familiari dei bimbi malato ma gli abitanti della zona, per bloccare la lottizzazione, hanno fondato un comitato cittadino, con cui hanno raccolto 6.143 firme in neanche una settimana. Lunedì mattina hanno portato le firme al presidente del terzo municipio, Orlando Corsetti. che ha chiamato subito il sindaco Veltroni. Il giorno stesso l'assessore al Patrimonio, Claudio Minelli, spediva un fax alla Comedil in cui si spiegava "l'impossibilità di attuare il programma presentato e l'interesse dell'amministrazione ad un utilizzo pubblico dell'area da attualmente di vostra proprietà". Il fax evidenziava come "la dotazione di metri quadri di verde, per singolo abitante, è tra le piu basse tra tutti i Municipi". Lunedì stesso la ditta rispondeva a Minelli dicendosi rammaricata ma disponibile a valutare l'offerta di permuta del Campidoglio. Il presidente del Comitato cittadino, Antonio De Simone, ha ringraziato il sindaco, ammonendolo scherzosamente: "Se le risposte arrivano in tempi così brevi, avanzerò tante altre domande che stanno a cuore al quartiere. Ben vengano volontà e sensibilità".

18.11.02

se leggi questa mail sei sovversivo




Questo è il manuale che la procura di Cosenza ritiene essere una guida agli scontri di piazza



(dal sito www.noglobal.org)





Auto difesa


Con questo manuale si vogliono dare informazioni e suggerimenti per la mobilitazione del marzo napoletano contro il globalforum.
Crediamo sia utile che ognuno abbia le adeguate informazioni che gli permettano di scegliere la sua forma di partecipazione. Queste indicazioni sono presentate in maniera tale che anche i meno "esperti" in materia di manifestazioni possano avere una "guida introduttiva" il più possibile dettagliata.



Sono state create delle linee mobili che assisiteranno i manifestanti durante i giorni della mobilitazione , al laboratorio occupato Ska a partire da Lunedì 12 Marzo sarà disponibile la versione su carta del vademecum legale provvista di tutti i numeri ai quali rivolgersi in caso di bisogno.




IN CASO DI FERMO PER STRADA, SUI MEZZI PUBBLICI DI LOCOMOZIONE, IN AUTO, IN TRENO,ETC…

Può accadere di essere fermati dalle forze dell'ordine. In tal caso, qualora lo richiedano, bisogna esibire un documento di identità. Se vi è bisogno, confermate le generalità.
Qualunque ulteriore "trattenimento" (ad es. hanno già trascritto i vostri dati personali ma non vi restituiscono il documento, oppure perdono tempo e non forniscono spiegazioni) non è legittimo.
Chiedete espressamente a che titolo vi trattengono e le eventuali contestazioni che vi muovono.
Se dopo queste osservazioni ancora non vi lasciano andare chiedete immediatamente l'intervento di un avvocato di vostra fiducia e cercate di mettervi in contatto col numero anti-repressione.
E' molto importante, e questo vale per tutte le situazioni nelle quali potrete trovarvi, cercare di richiamare l'attenzione del maggior numero di compagni o, comunque, di persone al fine di garantire un controllo sull'operato della polizia(nonché eventuali testimonianze).




IN CASO DI PERQUISIZIONE, ISPEZIONE E SEQUESTRI.



La legge italiana consente alle forze dell'ordine di perquisire, ispezionare e sequestrare adducendo motivazioni molto difficili da ribattere visto l'esistenza in Italia di leggi speciali (ad esempio vi fermano e vi perquisiscono per la legge "armi" o alla ricerca di droga o per motivi di ordine pubblico)
Ricordate che prima della perquisizione vi deve essere data la possibilità di essere assistiti da un avvocato.
Come donna possiedi il diritto di farti perquisire da una poliziotta, nel caso ignorassero questo diritto minacciali di denunciarli: menziona il nome dell'avvocato a volte li impressiona.
Alla fine vi sarà dato un verbale da firmare: a meno che il vostro legale, presente materialmente all'atto(non si danno consigli al telefono, insomma), non vi dica di firmare non dovete mai firmare nulla per nessun motivo.




DURANTE LA MANIFESTAZIONE


Se cercano di prenderti, devi valutare se la resistenza serve a qualcosa. Difenditi solo se intorno a te ci sono persone di cui ti fidi. Solo in gruppo è possibile liberare qualcuno dalle grinfie dei poliziotti. In altri casi la resistenza fisica è inutile e in certe situazioni può addirittura peggiorare la situazione.
Cerca in ogni caso di restare calmo/a e lucido/a.
Se le persone intorno a te non ti conoscono, grida il tuo nome, in modo tale che possano dare comunicazione del tuo arresto al telefono anti-repressione.




SE VIENI FERMATO O ARRESTATO


Due sono gli obblighi della polizia in caso di fermo o di arresto:
-L'obbligo di informare immediatamente l'avvocato. Nel caso in cui hai smarrito i nostri numeri , sappi che è tuo diritto avere un'avvocato nominato d'ufficio
immediatamente.
-L'obbligo di dare senza ritardo notizia ai familiari (sempre con il tuo consenso)

In caso tu sia straniero hai diritto a richiedere gratuitamente la presenza di un interprete.




IDENTIFICAZIONE


SEI OBBLIGATO A DIRE ALLA POLIZIA:


NOME, COGNOME, DATA DI NASCITA, NAZIONALITA' INDIRIZZO


Puoi semplicemente confermare i dati sulla tua carta d'identità. Ti risparmia parole…
Questi dati servono loro per identificarti chiaramente, ma non è automatico l'arresto.




INTERROGATORIO


HAI SEMPRE DIRITTO DI NON RISPONDERE all'interrogatorio e l'esercizio di tale diritto non peggiora la tua situazione (non ti possono per questo portare in carcere )
Devi quindi dire "Mi avvalgo della facoltà di non rispondere"


RIFIUTATI IN MANIERA COERENTE DI RILASCIARE QULASIASI ALTRA DICHIARAZIONE, ANCHE DI FRONTE A DOMANDE APPARENTEMENTE INNOCUE.
Attenzione:"si", "no", oppure "io non so niente" etc. sono già delle dichiarazioni che la polizia può riutilizzare in seguito.
La polizia cercherà in ogni modo di farti parlare. Hanno diversi metodi: spesso minacciano si prolungare il tempo del fermo o di trasformarlo in arresto: raccontano che qualcuno ha già parlato contro di te o si è auto accusato; possono anche assumere un atteggiamento gentile e paternalistico, oppure cercare di rompere il giaccio parlando del più e del meno (tempo, lavoro, cibo); se siete lasciati insieme ad uno o più manifestanti in una stanza evitate di parlare di cose relative alle manifestazioni o di fare il nome di altri.


Non fidarti mai di un poliziotto. Il loro obbiettivo è sempre qualcosa che va a tuo svantaggio!
Non fatti mettere sotto pressione.


In ogni caso la dichiarazioni rese in assenza dell'avvocato non possono essere né utilizzate né tantomeno documentate.
Alla fine ti daranno un verbale da firmare NON FIRMARE NIENTE IN ASSENZA DEL TUO AVVOCATO!!


RILASCIO


Sia il fermo che l'arresto possono avere DURATA MASSIMA DI 96 ore(4 giorni).
Più precisamente se non ti rimettono immediatamente in libertà, dopo che sei stato fermato o arrestato, la polizia deve entro 24 ore avvisare il pubblico ministero che seguirà l'eventuale indagine.
Sappi che nelle successive 48 ore dall'arresto o dal fermo il pubblico ministero deve chiederne la convalida al giudice, che deve provvedervi nelle successive 48 ore.
DOPO MASSIMO 4 GIORNI DEVI ESSERE MESSO IN LIBERTA'.



PER QUALSIASI TIPO DI INFORMAZIONE:
INFO@NOGLOBAL.ORG

NO GLOBAL E ANDREOTTI


da Barbara Melotti



Secondo me Claudio, ti confondi. I giudici sono tutti buoni fino a prova contraria e a loro è dovuto il riconoscimento della buona fede. Criticarli e contestarli nel merito e a volte, come questa, anche nel metodo, è però un nostro diritto. Nello specifico è l'accusa contestata che ha, sempre Claudio non oggi, destato i più ampi dubbi, perchè si tratta di retaggio antico di un regime autoritario, con ben poche similitudini in qualsiasi paese democratico. Se poi si leggono gli stralci pubblicati delle motivazioni e si scopre che nello specifico il reato è contestato in totale e dichiarata assenza di efficace organizzazione e concreta progettazione degli accusati, il metodo, l'arresto, risulta davvero incomprensibile. Perchè, Claudio, nessuno ha contestato il diritto dei Ros ad indagare o quello dei magistrari ad aprire il fascicolo. Ho cercato per tutto il giorno di ricordare se negli anni 70, in quel clima assai più teso e pericoloso di oggi, quei movimenti extraparlamentari che dichiaratamente parlavano di rivoluzione, ed erano tanti, siano mai stati sottoposti ad arresti così motivati. A me non vengono in mente: a te? Eppure il clima di quegli anni era ben più pericoloso, e i governi non meno repressivi.
Questa critica non significa accusare i giudici di fini politici, almeno non loro, per il Ros dei carabinieri che ha svolto l'indagine il discorso cambia.
E già che ci siamo, parliamo anche di Andreotti: anche in questo caso, secondo me, la decisione dei giudici è sconcertante, non foss'altro perchè hanno assolto i presunti esecutori materiali. Che un'indagine possa portare ad individuare con sicurezza i mandanti e non gli esecutori è evento singolare. Ma c'è bisogno di decidere su due piedi che i giudici perseguono il fine politico? Basterebbe ripercorrere la storia dei grandi processi per delitti comuni degli ultimi 30 anni e più per scoprire che la schizofrenia delle sentenze è una costante, purtroppo.

17.11.02

RISPOSTA A LUCA SOFRI


da Alessandro Ceratti



Anche a me Luca Sofri sembra una persona per bene, per questo mi prendo la briga di rispondergli. E' facile avere ragione se si parte da premesse scelte da sé stessi, squalificando chi non le condivide come disinformato. Io disinformato lo sono per davvero, ma proprio per questo tra un giudice della repubblica e un famigliare di un condannato decido di credere al primo e non al secondo e pertanto ritengo che le prove per condannare Adriano Sofri ci sono, tanto che egli è stato condannato. Mi sorprende un po' l'alterigia con cui Luca Sofri afferma surrettiziamente che le prove non ci sono. Proprio questo è il punto, incominciare qualsiasi ragionamento partendo dalla premessa che le prove non ci siano, (come Luca Sofri dà per scontato di voler fare) vuol dire aver già predeterminata la conclusione. Non è vero che nessuno è mai stato capace di muovere obiezioni. Anzi a farlo sono state proprio le persone più competenti in materia, le uniche, tra l'altro, istituzionalmente autorizzate e le uniche la cui opinione contasse qualcosa. Chi? I giudici che hanno condannato Adriano Sofri. I quali, giustamente, non hanno parlato d'altro.




Sentenze: che senso ha mettersi a contare le sentenze favorevoli rispetto a quelle sfavorevoli? L'unica conta sensata è già stata fatta, e ha condotto Adriano Sofri in prigione. Val la pena ricordare che ci sono state 8 sentenze solo per capire che alla conclusione cui si è arrivati si è giunti attraverso un percorso laborioso, non con faciloneria come accade talvolta in processi di minore importanza, che coinvolgono imputati che non possono beneficiare di avvocati difensori competenti.



Privilegio - Non so se Adriano Sofri gode di molti privilegi, di certo gode di molti sostegni. Certo, se Adriano Sofri è innocente ha diritto di essere tirato fuori quanto il più derelitto dei condannati innocenti. Il punto è che, se Adriano Sofri uscirà dal carcere, non sarà probabilmente perché è innocente ma perché può godere (lui, e non il condannato derelitto) di molti sostegni.



Grazia - Mi spiace, non ho capito l'argomento.



Similitudini - Cfr. parte iniziale della mia lettera. In questo caso Sofri non prende neppure in considerazione la possibilità che suo padre sia colpevole. E' chiaro che, ammesso questo, il suo ragionamento non fa una grinza.



Claudio - Appunto, io so che Adriano Sofri è stato condannato. E questo è tutto.



Omertà - Non ho titolo per dire alcunché. Non frequento nessuno ex-LC



Commento alla risposta di CSF. Hai ragione su praticamente tutto, in particolare sulle chiacchere da bar. Salvo che sul fatto che io mi senta una merda. Sofri poi faccia un po' come vuole, continui a fare "il puro" se crede. Non mi riguarda, non mi sento di invitarlo a far nulla.