27.11.06

Iraq, un disastro più lungo della Seconda guerra mondiale

da Repubblica.it

POCHE ore prima dell'attacco "shock e terrore" su Bagdad il vicepresidente Dick Cheney scosse la testa con quella sua aria da maestro alle prese con bambini molto ottusi e disse in televisione: "Quanto durerà la guerra in Iraq? Parliamo di settimane al massimo, non di mesi". Rumsfeld, il suo braccio armato al Pentagono, gli fece eco poco dopo: "Sei giorni, sei settimane, dubito sei mesi".

Era il 19 marzo del 2003, quando la banda degli infallibili, quei neo-spartani dell'Amministrazione Bush che non sbagliavano mai fecero queste previsioni e oggi, lunedì 27 novembre, la guerra in Iraq ha raggiunto e superato i 1.348 giorni.

La "guerra dei sei giorni" che Cheney e Rumsfeld avevano promesso all'America, sognando quei rapidi e decisivi trionfi che le armate israeliane avevano saputo conquistare, è diventata più lunga della Seconda Guerra Mondiale, che terminò nella baia di Tokyo con la resa giapponese dopo 1347 giorni dall'aggressione a Pearl Harbor, più lunga della Guerra in Corea, ormai prossima a raggiungere la Guerra Civile, che consumò 1.460 giorni e bene avviata sulla strada del Vietnam se quello che ha detto Bush a Saigon, pochi giorno or sono, non è un'altra fanfaronata: "In Vietnam perdemmo perché abbandonammo la lotta".

Se sono un classico di tutte le guerre l'illusione del soldato di "tornare casa a Natale" e le promesse di una rapida e decisiva vittoria fatta da coloro che li manderanno al macello, questo in Iraq, divenuto ieri ufficialmente il secondo, più lungo conflitto dopo il Vietnam nella storia americana, è una antologia di errori, "miscalculation", proclami a vuoto e aperte menzogne quale anche la casistica della propaganda di guerra raramente a ha visto.

La "guerra delle poche settimane" ha raggiunto le 194 settimane. Il costo, che un altro di coloro che non sbagliavano mai, Paul Wolfowitz, già vice di Rumsfeld e ora spostato a guidare la sventurata Banca Mondiale, aveva indicato davanti al Parlamento in "50 milioni di dollari", largamente autofinanziati dai "100 milioni di dollari del petrolio iracheno", brucia quella cifra ogni settimana, al ritmo di sei milioni di dollari al giorno e questo senza neppure calcolare il prezzo che rimpiazzare i mezzi, i veicoli, le armi, gli aerei logorati in anni di missione tra la sabbia sarà pagato in futuro dai contribuenti americani. Scott Wallsten, ricercatore all'American Enterprise Institute, uno dei circoli di tifosi neo-con dove l'esportazione della democrazia a cannonate era il vangelo, ha calcolato in 500 miliardi di dollari lo spreco di Tesoro publico già avvenuto e in un trilione, mille miliardi, quasi il prodotto interno lordo italiano, il conto finale.

Soltanto il numero ancora limitato dei caduti e dei feriti risparmia a questa lunga guerra, che persino Kissinger ha ormai battezzato come "impossibile da vincere", il prezzo di sangue pagato contro nazisti e giapponesi. Un prezzo che pure aumenta ogni giorno, in un'escalation che soltanto l'assenza della leva, e di figli e figlie di papà in guerra, rende ignorabile per la maggioranza. Gli ormai quasi 3 mila caduti, che sono una media di due morti al giorno, e 30 mila feriti, più di venti al giorno, non sono bollettini paragonabili ai massacri della Guerra Civile, con il suoi 650 mila morti nè al Vietnam, che ne ammazzò 58 mila. Ma i trentamila raggiunti da colpi, esplosioni, schegge nemiche sono l'equivalente di due intere divisioni inghiottite da quella terra che, sempre secondo quelli che non sbagliavano mai, in questo caso Cheney, "ci avrebbe accolto come liberatori", lanciando fiori e baci.

E i veri, sicuri vincitori non sono i ragazzi intrappolati nel fuoco incrociato della guerra civile, sono i chirurghi, i medici, le infermiere, i portaferiti e le società farmaceutiche e produttrici di strumenti medicali che hanno portato il rapporto fra feriti e morti a 10 contro uno e non riescono a salvare o a rappezzare soltanto i casi più disperati. Un rapporto di un caduto ogni dieci feriti è inaudito, in guerra. Persino in Vietnam, dove pure le terapie antibiotiche e le tecniche di rianimazione era già molto avanzate, in rapporto era di cinque feriti e un morto. Nella Guerra Civile, solo i più fortunati scampavano a cancrene, infezioni e setticemie e un ferito aveva più probabilità di soccombere che di sopravvivere in un ospedale da campo.

La guerra per vendicare l'11 settembre ha fatto ormai tanti morti americani quanti ne fecero gli assassini di al Qaeda quel giorno e dei morti iracheni, ora che il cosiddetto governo di Bagdad ha ufficialmente proibito di fornire statistiche, si possono soltanto fare stime a mucchi, come i cadaveri caricati sulla carrette dei monatti: 100 mila, trecento mila, seicentomila, secondo "Lancet" la rivista medica britannica.

"Questa amministrazione di ideologhi incompetenti - ha detto lo storico della Texas University Wynn Brine, quindi di uno stato dove il patriottismo è dogma e Bush è figlio prediletto - si è lasciata ipnotizzare dalla retorica churchilliana, dal complesso di Monaco, della guerra contro il Nazismo e l'imperialismo nipponico, credendo al sogno di un Iraq come la Germania o l'Italia, scambiando la propria ignoranza della storia e della geografia per missione divina". "I caduti in battaglia", ha aggiunto Evans Thomas, storico della guerra nel Pacifico, "hanno purtroppo un peso relativo nella storia, anche se umanamente ognuno di loro ha un valore assoluto. A Okinawa, l'ultima grande battaglia della Seconda Guerra, morirono 250 mila uomini, ma chi moriva sapeva per che cosa dava la vita". E 1347 giorni dopo quel 7 dicembre 1941 a Pear Harbor, quel "giorno che vivrà per sempre nell'infamia", sulla tolda della corazzata Missouri, chi aveva pianto i propri morti vide almeno in giorno, se non della gloria, della fine. Nel 1348esimo giorno della "guerra dei sei giorni", l'infama continua.

24.11.06

Tutti nudi a castello Odescalchi

SATIRA PREVENTIVA di Michele Serra

Le nozze Cruise-Holmes scatenano fenomeni di emulazione tra i Vip. Il re del rap duro Philo Budder pretende un buffet favoloso a base di mucche e maiali macellati sul posto dagli invitati

Il matrimonio a castello Odescalchi tra Tom Cruise e la terza moglie di Tom Cruise ha scatenato una gara di emulazione tra fidanzati famosi, che anelano a superare in magnificenza una cerimonia già entrata nel Guinness dei primati per almeno due aspetti: il numero di ostriche cadute per terra nella ressa, e il numero di inviati dei tg che si sono azzuffati per raccattarle e mangiarle.

A chi andrà la palma per il matrimonio più memorabile? Vediamo i candidati.

Tom Cruise e Tabika Bobelson Per le sue quarte nozze, previste tra una ventina di giorni, Cruise ha scelto la modella Tabika Bobelson, diventata famosissima e miliardaria per la campagna pubblicitaria di una spazzola per cani. I due si sposeranno a Bracciano, sede delle precedenti nozze di Cruise, per finire i resti del buffet. Saranno accompagnati da alcuni figli adottati per l'occasione: una cinesina in leasing e due ghanesi a noleggio, già presenti come figli adottivi in diversi matrimoni hollywoodiani. La torta nuziale, a forma di consulente finanziario, farà il suo ingresso in limousine. La cravatta è di marzapane. Il matrimonio non sarà più secondo i dettami di Scientology (Cruise trova monotono ripetersi) ma secondo il cerimoniale dei neoplutoniani, che prevede il nudo integrale per tutti gli invitati. Sarà presente Walter Veltroni.

Philo Budder e Johanna Manilovic Continua la bella favola del re del rap duro, cresciuto nel ghetto taglieggiando i disabili e primo in classifica a diciotto anni con il cd 'Sono una merda spaventosa', vincitore del Grammy per il migliore arrangiamento: le urla degli accoltellati sono masterizzate in perfetto sincrono. Il gigantesco afroamericano, 190 chili nonostante una gamba di legno, impalmerà a Los Angeles la modella anoressica Johanna Manilovic, conosciuta in carcere. Per le nozze è stato prenotato il Plaza di New York, che lo sposo provvederà a svuotare personalmente dei clienti stanandoli stanza per stanza. Favoloso il buffet, con mucche, maiali e galline macellati sul posto dagli invitati.

Amos Cobianchi Bianchi e Spiridiana Borromeo Portofino in subbuglio per i preparativi delle nozze tra i due nobili rampolli. La favolosa Villa Lavazza, già Villa Riello e prima ancora Villa Telefunken, residenza estiva dei von Opel poi acquistata da Berlusconi e rivenduta a Ricucci che l'ha ceduta all'Aga Kahn, è ridotta a un cesso perché nessuno dei proprietari ci ha trascorso più di una settimana. Il padre della sposa ha speso due milioni di euro solo per derattizzarla. Il menù per tremila invitati sarà curato dal mago della cucina destrutturata, il cuoco andaluso Miguel Arregui, che miscelerà nei suoi sifoni centinaia di ingredienti scelti a caso, per divertire gli invitati. Si sa solo che la torta di nozze, di consistenza melmosa, sarà servita in piscina, nel senso che la riempirà quasi per intero.

Silvio Berlusconi e Gwenda Pur non essendo divorziato, Berlusconi si sposerà lo stesso, per non cedere alle odiose prepotenze della magistratura. La fortunata è la conturbante sciantosa Gwenda (al secolo Pierina Paoloni), conosciuta a Las Vegas durante l'ultimo G8, anche se si teneva a Ottawa. I festeggiamenti faranno sicuramente impallidire qualunque precedente: Villa Certosa sarà ampliata per l'occasione annettendosi l'aeroporto di Olbia e alcuni quartieri periferici, che saranno rasi al suolo per edificare un fac-simile del Parco di Yellowstone, completo di orsi e di ranger, tutti interpretati da personale sardo per favorire lo sviluppo dell'isola. Il vino sarà Bordeaux del 1923, dieci bottiglie in tutto, più altre 10 mila con l'etichetta contraffatta per non arrendersi alle regole staliniste imposte dall'enologia di sinistra. Clamoroso il regalo per la sposa, un diadema di perle, diamanti, smeraldi, rubini, oro, platino, mosaico ravennate, antiche icone russe e un Van Gogh, il tutto incastonato su un telaio da go-kart, da indossare solo nelle occasioni speciali con l'aiuto di un argano. Le nozze, rigorosamente cattoliche e benedette dal Vaticano, saranno celebrate solennemente da un cardinale che conserverà l'incognita per non essere arrestato.

19.11.06

CORPORATIVISMI

da Nico Valerio

Bravo, condivido tutto: corporativismo editoriale contro corporativismo giornalistico.
Ma è solo un piccolo aspetto.
Bisogna aggiungere che il prodotto giornale si è degradato molto.
E non solo per colpa degli editori, ma soprattutto di cattivi direttori e giornalisti.
Il fatto che siano quasi tutti raccomandati, figli di papà o assunti per amicizia,
e che si frequentino tra loro senza fare la vita dei comuni mortali, si fa sentire.
La corporazione chiusa e snobistica dei giornalisti italiani, unici al mondo,
è legata al Potere e fa la vita del potere. Nei Paesi anglosassoni non è così.
Dai quotidiani (per parlare solo di questi) è sparita la cultura, la scienza,
la critica, la saggistica, e ogni approfondimento (che per forza vuole
articoli lunghi). Una sola cosa bella avevamo inventato, la terza pagina,
e l'abbiamo cancellata. Oggi i quotidiani italiani sono brutti e inutili.
La politica è tanta (per quale motivo gli editori "impuri" italiani
comprerebbero una testata, che è quasi sempre in perdita,
se non per autodifesa, per ingraziarsi qualcuno, o fare do-ut-des
attraverso le pagine politiche o economiche?),
ma presentata come pettegolezzo. Ma le avete sentite le domandine
che fanno i cronisti "politici" ai politici? Sapendo che è questo che vogliono
i giornalisti per fare il pezzo, i politici si adeguano.
Vent'anni fa esisteva ancora la critica musicale, per fare un altro esempio.
Il jazz, per dire, recensito ad ogni concerto o festival. Dopo l'evento,
naturalmente. Oggi è finito. I rari giornali che ne parlano
pretendono un pezzullo pubblicitario "prima" dell'evento. Dopodiché, se il concerto
non si tiene (è accaduto), resta impressa nella carta a imperitura memoria
la recensione preventiva. Tutto è appiattito, banalizzato come in tv.
Nei quotidiani, anche nel Corriere della Sera, ci sono troppo sport e troppa tv.
E' assurdo che il CdS imiti in tutto i tabloid popolari. Il lettore di qualità
comprava il CdS perché di qualità. Se è come gli altri giornali non lo compra più.
I titoli sono spesso sbagliati e evidenziano spesso un aspetto marginale dell'articolo.
Il ridicolo è che oggi gli articoli sono lunghi in media la metà di 20 o 30 anni fa,
quindi brevi o brevissimi, ma "ritornano" spesso, cioè vengono ripubblicati
con poche variazioni. Chi, come me ha un poderoso archivio di ritagli
(su pc e cartacei) se ne accorge subito: gli argomenti sono sempre gli stessi pochi.
Ma ormai solo pochissimi articoli per testata valgono la pena dell'acquisto
del quotidiano. Grafici e direttori senza idee hanno distrutto i giornali
(senza contare i gadgets, ma quello è il meno: potrebbero in teoria
convivere con giornali di qualità). Un esempio personale:
20-30 anni fa ogni numero del Corriere della Sera dava (a me che sono pieno di interessi)
ben 10-20 articoli degni di essere conservati. Oggi, tra grafiche illeggibili e inutili
che non aggiungono ma ripetono particolari dell'articolo, tabelle incomprensibili
in corpo 8, foto rosseggianti inguardabili [ma sant'iddio, se la tecnologia
per le foto sui quotidiani è ancora così arretrata, non mettetele 'ste foto,
grafici e direttori-succubi!], titoli, sottotitoli, colletti, sommari e sommarietti,
tra sport, pettegolezzi vip e televisione, è tanto se riesco a isolare 2-3 articoli belli o importanti.
Questo sull'ex "migliore" quotidiano italiano, divenuto ormai un giornale "popolare".
Vale la pena comprare il quotidiano - si dicono in molti -
se su internet trovi ben altro che quei 2-3 articoli?
Ci vogliono due farmaci urgentissimi: abolizione dell'Ordine dei giornalisti
e abolizione totale di ogni provvidenza di Stato alla stampa, sotto
qualsiasi forma.

17.11.06

Merola e le lacrime Napulitane

di MARCELLO VENEZIANI - Libero 15/11/2005

Santo subito, ambress ambress. Eh, Maronna mia do' Carmine, che esagerazzione. Quanta commozione pubblica e istituzionale per la morte di Mario Merola, il re della sceneggiata, e dunque di Napoli. Capisco il lutto della plebe, dei guappi e dei guaglioni, ma le lacrime Napulitane dell'omonimo presidente della Repubblica mi sembrano fuori luogo. Grandi scrittori e illustri gentiluomini, difensori dell'ordine pubblico e testimoni della civiltà sono morti senza neanche il telegramma del Quirinale; invece il Capo dello Stato, il presidente della Camera, il governatore della Regione si mobilitano commossi per il cantore della Napoli camorrista. Erano tre comunisti, una volta, Napolitano, Bertinotti e Bassolino; adesso si sono arresi alla Guapparia. Amavano il marxismo, ora preferiscono la sceneggiata. Capisco il messaggio di dolore del guappasigilli Mastella che come ministro della Giustizia e autore dell'indulto è assai beneamato a Poggioreale e a Forcella; e come portamento potrebbe figurare bene nelle sceneggiate di Mario Merola. Lo propongo con Bassolino e la Russo Jervolino per un remake meroliano di Isso, Essa e o' Malamende. Ma una Repubblica che con le sue massime cariche s'inchina a omaggiare Merola in piena bufera di malavita a Napoli, mi pare davvero una storpiatura demagogica e una caduta di tono. UOMO VERACE Come avrete capito, non sto facendo uno sgarro a Mario Merola, caduto su un'impepata di cozze, che oltre la pietà dovuta ad un defunto, fu anche a suo modo un grande artista e pure un uomo di cuore, verace e appassiunato. Quel che sto criticando è l'ascesa sugli altari di un mito negativo, di ciò che Mario Merola ha rappresentato. Pace all'anima sua, non sto criticando la persona e il popolo accorso ai funerali ma il simbolo e la retorica istituzionale. Io mi ricordo cos'erano le sceneggiate di Merola, che valori veicolavano, che gente attiravano, che effetto producevano. Se andavi a vederlo a teatro, non tanto a Napoli dove almeno c'era una sorta di patriottismo popolano, nutrito di folclore e di sentimenti teneri e sanguigni, ma nel resto del sud, potevi fare un censimento della malavita locale e dell'indice di consenso all'illegalità. Vedevi gente con le borchie e il trippone prospiciente sul cinturone, trofei storici della criminalità, matricolati avanzi di galera, spacciatori e contrabbandieri, qualche puttanona con pappone, vari biscazzieri e mariuoli in via di sviluppo. Un tale che mi rubò l'auto da ragazzo fu beccato, su mia denuncia, dai carabinieri a teatro durante una sceneggiata napoletana. Il pubblico delle sceneggiate non era solo spettatore, ma partecipe, attivo, come un coro in una tragedia greca o come in una retata ai quartieri bassi. Condivideva le passioni del palcoscenico, si identificava nella rappresentazione, piangeva e inveiva. Di solito il personaggio negativo non era il delinquente ma l'infamone, ovvero chi tradiva, magari faceva la spia ai carabinieri o il doppio gioco, era vigliacco e colpiva di spalle. Gli perdonavano di uccidere, ma non "allascordona" dicevano da noi, ovvero all'insaputa, di nascosto. A volte tentavano di salire sul palco per malmenare o' Malamente, per punire l'Infamone o per concupire la Femminona. A volte li aspettavano fuori. Non capivano la differenza tra fiction e realtà. Il pubblico più affezionato conosceva a memoria parole e gesti della sceneg giata, visti non so quante volte. Li recitavano insieme, a volte precedendo gli attori. Ricordo una sceneggiata meroliana dove a un certo punto o' Malamente sparava secondo copione 5 colpi di pistola. Quella volta ne sparò solo tre. Si alzò dalla platea un noto malvivente locale, sguainò la pistola e sparò in aria gli altri due colpi, dicendo: E chiss te li si scurdat? (E questi li hai dimenticati?). Applausi e delirio solidale del gentile pubblico. L'umanità meroliana si divideva in piezz'e core e piezz'e merde , con rare possibilità di mediazione. Merola era il Peron della sceneggiata, il missionario di una ideologia e di un'estetica che potremmo definire il Popolanismo, variante pacchiana del populismo. L'apice della predicazione era quando recitava o' Zappatore e il rozzo padre di campagna ingiungeva al figlio ingrato che lo snobbava davanti alla bella gente e faceva quasi finta di non conoscerlo: Vas' 'sti man' (Bacia queste mani). E lì la gente si commuoveva, all'unanimità: comunisti alla Di Vittorio e nostalgici della civiltà contadina, marpioni, aristocratici terrieri, vecchi zotici o cafune (anzi ca' fune , con la fune, perché un tempo i contadini erano trattati come bestie con la fune al collo). IL TUTTO ESAGERATO Mario Merola celebrava l'etica della camorra, l'ebbrezza del gioco d'azzardo (un mazzo di carte è stato deposto sulla sua bara), l'estetica del malavitoso e la mimica del guappo, il catalogo dei sentimenti dei bassifondi dove tutto è esagerato: piangere, amare, ridere, stroppiare e' mazzate. Il riscatto di Pulcinella. Ora vedo giornali e intellettuali, autorità e partiti, assecondare per un evidente voglia di compiacere il pubblico, un relativismo assoluto della morale, che porta a considerare in positivo chiunque abbia popolarità, a prescindere dall'effetto pubblico che produce e dal modello che rappresenta. Questo merolismo di ritorno mi pare uno schiaffo a una città come Napoli, che sta affondando tra tanti cloni ed epigoni della sceneggiata meroliana. Scetateve uagliune e' malavita era l'inno al risveglio della camorra. Volete farne l'inno nazionale?

15.11.06

TERZISTA PER FORZA

da Vittorio Grondona - Bologna

Non ho votato Prodi alle primarie. Proprio non ci riesco a votare per un democristiano. Ho avuto la delusione di Bertinotti eletto presidente della Camera. L’avrei preferito in prima linea. Ora cerco di difendermi dalle cavolate di questa maggioranza confusionaria e facilona con i soldi degli altri. Sono gli stessi politici che mi hanno fatto perdere nel 2001 con le stesse menate che stanno attuando anche adesso. Tasse e guerra, prima con la NATO ora con l’ONU. Poi la chicca concertata dell’indulto: oltre 29.000 barabba sbaragliati alla rinfusa liberi nella società. Siamo riusciti ad entrare nell’euro perché ne avevamo capito l’importanza e quindi buona parte degli italiani avevano accettato i necessari sacrifici richiesti. Il giorno dopo il varo dell’ipotesi di finanziaria 2007 del 30 settembre, fatta passare subito per un capolavoro da tutte le forze politiche del centro sinistra, dai sindacati ed anche da Scalfari, che nonostante il suo ottimismo in proposito ammiro sempre moltissimo, avevo dichiarato il mio dissenso specificando quali fossero le cose che non potevano incontrare il favore della gente meno abbiente, la quale come al solito era chiamata a sostenere le maggiori rinunce, mascherate ipocritamente da un miserevole ipotetico miraggio di guadagno IRPEF. Anche il più sprovveduto degli italiani avrebbe dovuto immediatamente capire che 35 miliardi di euro non sarebbero saltati fuori dal 10 % della popolazione. I fatti mi stanno dando ragione. Sarei molto grato ai giornalisti di informarmi solo quando Prodi & Co avranno deciso definitivamente come gestire il 2007. Adesso leggo ogni giorno cose che cambiano in continuazione. E’ decisamente tempo perso. Mi incappo anche in argomenti che non condivido affatto, come l’articolo di Francesco Merlo, che le esigenze del blog mi costringono a commentare solo in famiglia. Per tutto questo e per tanto altro ancora mi considero un terzista per forza.

ANTONIO SCURATI: LA PROF ESPIATORIA

di Gabriella Jacomella per il “Corriere della Sera”

«Nell'immaginario collettivo, questa prof è il capro espiatorio che ci permette di relegare il legame tra seduzione e insegnamento in una zona di perversione e vergogna. Così possiamo dire che è una schifezza, e rimuovere per l'ennesima volta il problema». Per Antonio Scurati, parlare del caso milanese è come ritornare su pagine già scritte. Nel suo ultimo romanzo, Il sopravvissuto, ha raccontato i misteri di un rapporto docente- allievo dal fascino inquietante. E dall'esito tragico.

Anche in questa vicenda, però, il finale non è certo positivo.
«Non voglio assolvere nessuno, e sul fatto in sé ho poco da dire. Ma la curiosità morbosa che ha generato dimostra come il sesso del maestro sia tra i grandi "rimossi" e tra le ipocrisie di questo tempo. Qui, è chiaro, siamo in presenza di un caso patologico; ma il fatto che sedurre ed educare siano due dimensioni non disgiungibili, questo non vogliamo accettarlo».

Insegnare, dunque, come connubio di fascino e conoscenza?
«Certo. Già nell'antica Grecia l'educazione era seduzione, e negli anni della rivoluzione sessuale il problema era stato fortemente tematizzato. Oggi invece scontiamo un puritanesimo strisciante, importato dagli Stati Uniti; tendiamo a ritenere sconcertante e immorale che il maestro abbia una sessualità e che questa entri nello specifico di ciò che fa, cioè insegnare».

E perché non rinunciare a questa che, in fondo, è un'arma a doppio taglio?
«Perché in Italia c'è stato un crollo dell'istituzione scolastica, che ha perso tutta la sua autorità. E allora, l'unica arma rimasta al docente è la seduzione. Che poi è il grande tema di questa società dello spettacolo: i politici sono seduttivi prima di ogni altra cosa. Agli insegnanti, questo non è concesso».

Forse perché di fronte non hanno elettori, ma ragazzini.
«Ma le nuove generazioni non sono più educate dalla scuola o dalla famiglia; esistono altre "agenzie educative" — tv, pubblicità — profondamente e perversamente seduttive. Il ragazzo, andando a scuola, vede decine di tette e culi ovunque, sembra che sesso e seduzione siano la chiave per capire il mondo; e varcata la porta dell'aula, dovrebbe dimenticare tutto e dedicare ogni attenzione a qualcuno che è asessuato? Noi ipocritamente diamo per scontato che qualora ci sia sesso tra docente e discente, si tratti di plagio; mentre invece è tutta la società che incita a una sessualità disinibita, strumentale, che i preadolescenti replicano in forme eccessive».

E la scuola, che può fare?
«I nostri insegnanti sono reclutati con un sistema perverso, con migliaia di precari catapultati tra i banchi senza selezione né controlli. La scuola italiana va alla deriva. E questo caso ne è il sintomo lampante».

LA SATIRA

di Francesco Merlo per la Repubblica

Nulla è al riparo dalla satira, e forse Dio è la satira per eccellenza perché ha un materiale immenso davanti, e cioè l´infinita finitezza dell´uomo. Tanto più che l´idea del segretario del Papa, Georg Gaenswein, di esorcizzare Crozza, Fiorello e la Littizzetto con l´acqua benedetta più che una minaccia sembra già una gag.
Anche in questo caso dunque sarebbe facile e doveroso schierarsi con la libertà di satira, se essa fosse esercitata laicamente, in tutte le direzioni, anche verso se stessa, con Fiorello che fa la satira di Fiorello, Crozza che satireggia il nostro Papa, e ovviamente anche l´Imam, che è un altro Papa. Noi, per educazione, non satireggiamo né l´uno né l´altro, ma se dobbiamo giocare, allora è necessario giocare in tutto il campo, dando i calci a tutti i palloni. Insomma, secondo noi, non si può prendere in giro un profeta e un altro no, non si può satireggiare Cristo e risparmiare, per paura, Maometto.
E non perché la religione, come del resto l´ateismo, non sia satirizzabile. Anche gli insegnamenti morali sono definibili per via satirica. Il comandamento stesso è un piatto satirico, un piatto "saturo". Si fa infatti satira sull´incontinenza sessuale e su quella verbale, sulla bestemmia, sui ladri e sugli onesti, sull´omicidio, sul peccato, su tutti gli atti proibiti e sulla stessa proibizione. La satira, che sempre si appunta sui difetti, non ha confini: basta un appiglio perché venga fuori. E il mondo è tutto un appiglio per la satira: se sei biondo perché sei biondo, se sei bruno perché sei bruno. Ogni cosa ha il suo contrario, la sua negazione, la sua deformazione, la sua satira.
Qui, poi, c´è l´ingenuità e c´è la goffaggine di un bel sacerdote che giura di non avere mai visto le trasmissioni che non gli piacciono, aggiunge «non le guarderò mai», e ancora: «spero di dimenticarle». Se sta mentendo, padre Georg pecca due volte: contro il divieto di dire bugie e contro il buon senso. Se invece è vero che non guarda la televisione e non ascolta Fiorello alla radio, se davvero non sa chi siano Crozza e la Littizzetto, allora sarebbe da compatire perché non sa cosa si perde, e sarebbe anche da rimproverare cristianamente, come pastore d´anime. Oggi infatti non si può fare catechismo senza la televisione.
Ciascuno di noi può, se vuole, tenere spenta la tv o addirittura non averla. Ma non può farne a meno chi ha per missione di salvare le anime di questo mondo, il quale si racconta e si educa attraverso la tv. La televisione è la scrittura moderna, è il calamo dei nostri tempi. Se un intellettuale non condivide quello che legge, quello che è scritto, non per questo si rifiuta di leggere, né mette al bando la scrittura. Anche il rifiuto della scrittura deve esser servito scrivendolo; anche il rifiuto della televisione ha necessità di un passaggio televisivo, il solo efficace e, saremmo tentati di dire, il solo "reale".
Il Papa sarà pure un raffinatissimo intellettuale, ma è curioso che non abbia spiegato, non tanto ai giornalisti dell´“Avvenire”, quanto, almeno, al suo segretario personale che non si può governare la trasgressione come si fa negli educandati, e che, al contrario, per spuntare gli artigli della satira, bisogna conviverci con saggezza e con leggerezza. Che poi padre Georg non sappia ironizzare su se stesso, che egli pretenda che non si rida neppure di lui, beh, qui il problema si fa patologico e la satira allora si impone non come innocua, ma addirittura come terapeutica. A padre Georg sono necessarie dosi massicce di Fiorello, almeno una volta dopo i pasti principali, come un controveleno, un antidoto, perché non solo la satira non fa male alla testa, ma qualche volta la guarisce.
La satira è lo sfottò. E´, come accennavamo prima, il piatto "saturo" delle critiche e dunque delle deformazioni. Nella “Divina Commedia” ci sono quantità inestimabili di satira aggressiva antipapista, da Bonifacio VIII sino al papé satàn, che – è vero – nessuno sa cosa voglia dire, ma un suono di sberleffo satirico sicuramente ce l´ha. Nella storia della Chiesa sono stati satira i miti di evangelizzazione e i ritorni letterali ai dettami della sacra scrittura. Insomma, la satira antipapista ha avuto sempre come progetto la ricristianizzazione del mondo. E dunque la satira non è anticristiana. E non solo perché il protestantesimo l´ha usata contro gli eccessi papisti. Ma anche perché gli stessi cattolici hanno fatto la satira alla loro chiesa: i francescani, i gesuiti, i giansenisti. Alla fine, la satira è uno dei tanti mezzi attraverso cui l´uomo comunica, si appropria della realtà. Non è l´antagonista della realtà e neppure del buono perché la bontà stessa è anch´essa satira.
Aggiungiamo adesso che c´è una facilità di satira verso questo Papa. Tutti, anche i migliori, anche gli ex infallibili, hanno qualcosa di satirizzabile, un punto debole. Siamo tutti vulnerabili. Persino Achille aveva il suo tallone. Ebbene, non solo il segretario, ma lo stesso Benedetto XVI e la sua chiesa hanno un che di fobico. Persino fisicamente il Papa tedesco sembra nato e cresciuto nelle biblioteche piuttosto che tra la gente. Come resistere dunque e non farne la satira? E tuttavia, visti i tempi, ci sembrerebbe civico fare anche la satira ai versetti, al Corano e ai barbuti, oltre che al Papa e al suo segretario. Certo, comprendiamo la paura fisica che frena i nostri comici, con effetti esilaranti, da immediata autosatira, specie quando dicono che fanno satira su cose che conoscono mentre l´Islam non lo conoscono; o, ancora quando spiegano che dovrebbe essere l´Islam a ridere dell´Islam. La verità è che sono in malafede e – in questo ha ragione l´“Avvenire” – anche un po´ vigliacchi.
Tutti sappiamo che ridere dell´Islam può costare la vita, e che è questa la barbarie che limita e censura, tra le altre cose, anche la nostra libertà d´espressione. Capiamo anche che il coraggio chi non ce l´ha non se lo può dare, e però la satira non appartiene solo all´universo cristiano, è una funzione dell´anima che deve esercitarsi su tutto, dal buddismo all´ateismo, dall´Imam al Papa. E invece succede che i comici sfottono il Papa e sdottoreggiano sull´Islam e sui suoi costumi, sulla poligamia, sui kamikaze e sulle vergini che li attendono, sui veli, con quel drammatico fardello dell´occidentale che deve avere riguardi per gli orientali e diffidenza satirica, sarcastica e morale verso se stesso. No, caro padre Georg, il pericolo viene sempre e solo da chi non sa ridere. Il giorno in cui si potrà ridere dell´Islam, anche l´Islam se la riderà di noi, e persino di lei.

14.11.06

IL CLIMA E GLI AFFARI

IL CLIMA E GLI AFFARIda Fabrizio Carbone

Attenzione: il cambiamento climatico sta diventando il big business del secolo

Da un paio di settimane tutte le fonti di informazione che contano e che danno la linea nell'informazione planetaria (CNN, BBC, Time, Newsweek) stanno cominciando a parlare in termini chiari e netti del pericolo che provocheranno a breve i cambiamenti climatici in atto sul nostro Pianeta. Prima non era così. Fino a poche settimane fa non era così certo che i cambiamenti fossero causati dall'uomo tecnologico. Solo le cassandre ambientaliste (in Italia sommariamente e spregevolmente definite verdi da tutto il resto della popolazione capace di intendere e di volere) erano quelle maledette cornacchie che catastrofizzavano ogni cosa. Oggi il vento è cambiato. Vuoi perchè il maggior oppositore a misure concrete per risanare il Pianeta, il presidente Usa, Giorgio Cespuglio (lo chiama, in italiano, così il premio Pulitzer Jarred Diamond), ha perso nettamente le elezioni di medio termine; vuoi perchè tutti gli ultimi rapporti commissionati dai governi americano, inglese, tedesco e altri, concordano nel dire che se non si farà qualcosa per cambiare rotta abbiamo poco, ma molto poco da ridere. Era ora, direbbero i seri e autorevoli catastrofisti che dai primi anni Ottanta avevano fornito al mondo i dati su quello che sarebbe accaduto e sta per accadere. Eppure ora c'è da mettersi le mani nei capelli, cari amici e nemici, perchè il birillo ora, come sempre, resta saldamente in mano esattamente a coloro che per più di mezzo secolo hanno massacrato risorse non rinnovabili e inquinato a man bassa per profitti immensi. Perche? Ma perchè sono loro oggi a premere per iniziare a spendere i soldi per il risanamento; sono pronti a scatenarsi nel big business dei prossimi decenni: miliardi di miliardi di dollari e di euro da spendere ovunque nel mondo, ma tutti "in favore dell'ambiente". Sono pronte le tecnologie, le macchine a idrogeno, a trazione mista, a solare, ad acqua calda. Erano nei cassetti e nei ripostigli insieme a tutto quello (eolico, solare temico, fotovoltaico, geotermico, biodiesel, centrali microelettriche e a biomassa) che dovrebbe farci uscire dal pericolo di rimanere sott'acqua, inondati dallo sciogliemento dei ghiacci dell'Antartide e della Groenlandia (quelli del Polo Nord non fanno danni; quel che resta dei piccoli ghiacciai alpini ne fa pochissimi). Si scatenerà la grande offensiva del megacapitale per prendere in mano tutti i progetti possibili, buoni e cattivi, pessimi e mediocri, che serviranno a far vedere a tutti di cosa sono capaci i grandi magnati della Terra, Banca Mondiale in testa.

Non una parola è uscita dalle labbra dei mostri sacri del capitalismo per scusarsi con il Mondo. "Non avevamo creduto, non avevamo capito, avevamo troppi interessi, abbiamo fatto finta di nulla, siamo stati dei mascalzoncelli. Scusateci. E ora (rivolti agli ambientalisti scientifici, agli Istituti di ricerca più seri) diteci cosa sarà meglio fare per il futuro di tutti noi e soprattutto dei nostri amati figli e nipoti". Non una parola di questo tono. Al contrario ora la parola d'ordine è una sola: "Fuori i verdi dai coglioni, che ci pensiamo noi!"

E' triste per uno come me che ha scritto a difesa della Natura e dell'ambiente dalla metà degli anni Sessanta (che è stato persino premiato dall'Enea per gli articoli sul clima e sui cambiamenti in atto) constatare come siano sempre gli stessi a non cadere mai nella polvere, a fregarsene di tutto e di tutti, a fare il bello e il cattivo tempo, è proprio il caso di dirlo, sempre e comunque per fare profitto. Io che non conto nulla me ne sto lontano a guardare; mi viene, oltre alla tristezza, persino un po da ridere se non fosse una tragedia. Ho il mio cantuccio in Finlandia, lassù dove i cambiamenti climatici si sentono ancor più che a Roma.

Mi ritrovo in mano un libro che Baldini&Castoldi pubblicarono dieci anni fa. Un libro di Ross Gelbspan, americano e premio Pulitzer, intitolato Clima Rovente. Ma non parlava dei cambiamenti climatici e del riscaldamento del Pianeta. Documentava tutto il movimento di denari che le grandi compagnie petrolifere, gli inquinatori, gli speculatori e i massacratori del clima, spendevano ogni anno per foraggiare le campagne di disinformazione ( tutto va bene) e di costante azione distruttiva contro organizzazioni come Greenpeace e il Wwf internazionale, insomma contro chi da decenni forniva i dati su cosa stesse accadendo. Dati, cifre, elaborati, papers, migliaia di pagine di rapporti della comunità scientifica internazionale, Unep e IPCC in testa ( i due enti delle Nazioni Unite preposti allo studio della situazione con ben 2500 climatologi al lavoro 24 ore su 24). Milioni di dollari sono stati spesi (nel ventennio 1980-2000 e oltre) per imbrogliare le carte e fornire dati falsi. Li hanno ricevuto finti enti di ricerca e spericolati personaggi che hanno avuto fondi per mestare nel torbido. Li hanno avuti dai petrolieri e da tutti coloro che, da domattina, saranno pronti a ricevere dai governi del mondo, moltissimi soldi per salvare la Terra.

Lo so, sono un utopista e un sognatore, ma vorrei sentire l'urlo furente di chi è stato costantemente oltraggiato, schernito e preso per pazzo. Un urlo immenso che ci liberasse dai più grandi mascalzoni che il mondo abbia mai avuto.

13.11.06

FRANCESCO MERLO SULLA REPUBBLICA

Da un lato c´è la semplicità e dall´altro il barocco. Ci sono loro che in meno di 24 ore adeguano il pensiero politico alla novità del voto e noi che «il Molise è un dettaglio locale». Loro che hanno già sostituito Rumsfeld con Gates, come avevano esplicitamente chiesto i vincitori, e noi che a cinque mesi dal risultato elettorale non siamo neppure d´accordo su chi ha vinto e su chi ha perso. Loro che già ieri a pranzo hanno brindato insieme, da un lato il presidente cow boy e dall´altro la "lady liberal" Nancy Pelosi, e noi che ancora ci diamo reciprocamente del ladro e del bugiardo.
Loro che adeguano la politica alla realtà e noi che surroghiamo la realtà con la politica. Loro che sono veloci nei riti, nello sventolio di bandiere e nei ricambi istituzionali e noi che ci impantaniamo nelle sedute-fiume di Camera e Senato, Bertinotti o D´Alema?, Napolitano o D´Alema?, e poi mille vertici, mille correnti, mille portavoce, mille sottosegretari, e lo scorporo, la delega, la concertazione, l´ossimoro, il manuale Cencelli, l´indulto ma con sofferenza, tax sì e tax no, liberalizzo ma proteggo, il partito democratico e la crisi del gazebo, ministri contro ministri, il governo in piazza contro il governo.
Il pragmatismo e l´efficacia degli americani contro le sottigliezze, le sfumature e le rendite di posizione degli italiani. Da quella parte c´è la velocità e da questa i brogli, la par condicio e ovviamente la verifica. L´America piaceva già a Goethe, che pure non c´era stato, perché «non ha i castelli e non ci sono i basalti»: l´idea dell´America liscia liscia, bella e diretta, olimpicamente classica, senza le contorsioni inverificabili della verifica.
Pensate, Bush non ha chiesto la verifica, non ha dato la colpa al destino cinico e baro, non ha detto «paghiamo un difetto di comunicazione», oppure «non abbiamo saputo far arrivare il nostro messaggio», o ancora «la colpa è dei giornali». Anzi si è messo a rincuorare i giornalisti accreditati alla Casa Bianca che facevano la faccia triste, mentre a Roma quando Francesco Rutelli, alla vigilia del cambio di governo, andò spudoratamente a passeggiare alla Rai fu tutto un correre, uno stringer di mani, un tradire: «Liberateci, liberateci».
E cosa diventerebbe in Italia il governo bipartisan della politica estera inventato da Bush in 24 ore? Un inciucio, naturalmente. E come si comporterebbe la politica italiana dinanzi al dimezzamento del potere tra destra e sinistra, alla coabitazione forzata, al risico dei 51 seggi contro 49? Con il solito trasformismo, con il mercato parlamentare, ovviamente: il senatore della Virginia James Webb, per esempio, sarebbe già stato discretamente avvicinato, come il paffuto Di Gregorio. E quale governo italiano ammetterebbe la sconfitta, come ha fatto Bush, mentre i risultati del Senato erano ancora in bilico? Quale premier italiano si congratulerebbe con l´avversario prima ancora della conclusione dello spoglio?
Come si vede siamo davanti all´ennesima lezione americana, non solo di democrazia, ma di verità. Non è infatti un insulto alla logica notare che, bambinoni come Clinton, cow boy rozzi come Reagan e come i due Bush, o agricoltori babbioni come Carter, i presidenti americani raccontati da molti giornali e da molti intellettuali italiani, semplicemente non esistono. Così Bush non è uno Stranamore, non è il generale pazzo che gioca follemente con la guerra, ma è un autentico prodotto della democrazia americana, testardo sì ma non davanti alla sconfitta, e anzi intelligente nell´apertura agli avversari che hanno vinto. Non solo infatti si congratula, ma capisce che c´è una nuova maggioranza che è contraria alla sua politica, che ci sono nuovi e legittimi umori che chiedono rappresentanza istituzionale e che la democrazia, di cui egli è pedina, gli impone di riconoscerli e di adattarsi.
E poco importa che la campagna elettorale sia stata dura, al punto che Bush era Thief invece che Chief, ladro invece che capo. Un giornalista gli ha chiesto: «Signor presidente, Nancy Pelosi le ha dato dell´incompetente, del bugiardo e ancora ieri ha detto che lei è pericoloso. Come potete cooperare?» Ecco la risposta di Bush: «Faccio politica da abbastanza tempo per capire quando finisce una campagna elettorale e quando comincia il governo».
La verità e che li dipingiamo imperialisti e guerrafondai, superficiali e sostanzialmente stupidi, perché i presidenti americani ci fanno l´effetto che alla volpe fa l´uva quando è troppo in alto. E dimentichiamo che attorno a loro si raccolgono le migliori intelligenze accademiche, quelle stesse presso le quali noi facciamo accattonaggio intellettuale, perché in Italia non c´è titolo più esibito, anche da parte dei più accesi antiamericani, dell´essere stato in una università americana, allievo dei consiglieri della Casa Bianca.
Ci piace prendere in giro l´America delle americanate, ricorrendo sempre al vecchissimo, consunto cliché di superiorità del Vecchio Continente, della vecchia signora sul pavernu. Perciò ripetiamo stancamente che gli americani non conoscono la raffinatezza della civiltà cortese, non hanno avuto il Rinascimento, che agli americani manca il passato dove sono state forgiate le buone maniere, mancano il Medioevo, le cattedrali gotiche, i templi greco-romani. Se volete un elenco dei pregiudizi europei che sono all´origine dell´attuale antiamericanismo rileggetevi nella riedizione adelphiana lo splendido libro (1955) di Antonello Gerbi "La disputa del Nuovo Mondo".
Si va da Humboldt che li considerava «una stirpe degenerata» a Schopenhauer che li definiva «mongoli modificati dal clima» a Hegel secondo il quale non valeva la pena occuparsene né da parte della storia né da parte della filosofia. Attualizzati e rimodernati quei pregiudizi d´autore sono ancora oggi gli ordigni difensivi che costruiscono l´ideologia antiamericana, sono la pappa, dozzinale e cafona, di una storia raccontata ad "usum revolutionis" dai nostri ostinatissimi cattivi maestri e che ci fa malpensare, legittima i rancori, le riserve da camerieri, da provinciali. Perciò arriviamo a dubitare che siano davvero stati sulla Luna, qualcuno giura che le due Torri se le sono distrutte da soli, vediamo dappertutto complotti della Cia, che sarebbe la kappa dell´Amerika, il suo sottosuolo dostoevskiano.
Insomma neghiamo quella democrazia che perciò ad ogni elezione ci stupisce. E restiamo a bocca aperta vedendo che anche Bush, come tutti gli altri, ci impartisce lezioni, nonostante la stanchezza di una nazione in guerra. L´America di Bush è ancora l´America di Tocqueville, e rimane il nostro modello di riferimento. La sola differenza è che oggi siamo noi quegli incredibili americani che furono scoperti e deformati dai pregiudizi. Con una lingua politica che è una babele, con le procedure istituzionali ridotte ad apparati cerimoniali, con una inaderenza cadaverica alla realtà che velocissima ribolle, siamo noi «i decaduti» raccontati nel libro di Gerbi. I selvaggi, l´umanità sguaiata, siamo diventati noi.

7.11.06

Al bar dello sport trent'anni dopo addio Luisona, arriva l'happy hour

di STEFANO BENNI

Mi chiedono se dopo trent'anni il bar Sport esiste ancora. Quel vecchio ritrovo che non era solo luogo di consumo, ma teatro di racconti e ironia. Credo che i bar sport della mia giovinezza siano una razza in estinzione, come le balene e le macchine da scrivere. Ne sopravvivono alcuni nelle periferie delle città e soprattutto nei piccoli paesi. I sociobarologi sanno dove trovarli, ma conservano gelosamente il segreto. Comunque sia, il microcosmo del bar è cambiato, e ne faccio qualche esempio.

Il nome
Una volta sull'insegna del bar c'era scritto Bar, e basta. Al massimo si poteva aggiungere il nome del proprietario, Bar Gino, o dello sponsor, Bar Moka, o della fede calcistica, Bar Rossoblu, o un appunto logistico, Bar Mercato. Una preposizione come "da" o "al" era già uno spreco di neon, e un'inquietante segno di mollezza grammaticale: Bar da Gino, Bar al Porto, Bar dello Sport. Adesso, per essere preso in considerazione, un bar deve avere un'insegna che contenga definizioni plurime e poliglotte. Ossia: Caffèteria panineria wine-bar enoteca degustazione snacks internet point. Oppure: Lounge bar pasticceria pub croissants bistrot long drinks happy hour. Potete dire: mio marito va tutte le sere al lounge torna a casa pieno di drinks, mi vomita gli snacks sulla moquette, si addormenta no-sex e io trombo col boy del pizza express.


Paste
Chiunque può notare l'anemia saccarifera che ha dimezzato e miniaturizzato il peso di paste e brioche. Paste come la Luisona non esistono quasi più, o vengono vendute come panettoni. Una volta, per portare a casa dodici paste, serviva un ben sagomato vassoio di cartone da esibire penzolante al mignolo. Adesso dodici bignè stanno sopra un biglietto da visita.
Diversa anche la gamma dei caffè. Da alto, basso e corretto, siamo passati a centododici tipi diversi con nomi come Orzino, Mokaccino, Cremino, Estivo, Americano, Noisette. Anche nei gelati, siamo passati dai dieci gusti ai centocinquanta. Che sono poi i dieci gusti di una volta ognuno con quindici coloranti diversi.

Rumori
Il rumore del bar Sport era una inconfondibile risacca umana, un sobbollire di stomaci e trippe, un tinnire di bicchieri e biliardi. Vi si distinguevano rutti possenti, scatarrate introflesse ed estroflesse e bestemmie non ancora moviolate dalla televisione. C'era lo sbattere ritmato delle carte da gioco sul tavolo, il tinnire dei flipper, il rullare del calcetto, il cozzare delle palle da biliardo, il sibilo della macchina espresso che fumava come una locomotiva del west. Ora tutto il rumore viene da un grande schermo televisivo al centro, che spara videoclip e telegiornali a tutto volume. Quasi nessuno guarda o ascolta, ma ci si sente a casa.

Bancone
Molti vecchi banconi di legno sono stati sostituiti da monoliti e moloch di alabastro, vetroresina e tantalio. Da banconi, sono diventati barricate. Ma è cambiato soprattutto quello che c'è sopra. Nel vecchio bar Sport c'erano a malapena la zuccheriera e le schedine. Ora sul bancone si affollano cinquanta tipi di zucchero, compreso lo zucchero amaricante e lo zucchero per mancini e un intero buffet di stuzzichini, dal tarallo all'oliva, dall'uovo di edredone alla mini-frittata. Con un aperitivo, si può fare un pasto completo. Ma il barista non ci rimette mai. Infatti l'aperitivo costa come tre pasti completi.

Vino e liquori
Una volta il vino era bianco o rosso o tutt'al più novello. Ora un cartello annuncia a tutti che è arrivato il Beaujolais nouveau, o che c'è un'ampia scelta di vini sudafricani. Ma soprattutto c'è l'happy hour, che vuole dire che in quell'ora si beve a prezzo ridotto. Ma non è una novità: una volta c'era la John sleepy hour. Quando il barista Giovanni si addormentava ubriaco, e tutti ne approfittavano per vuotare le bottiglie degli amari.

Calcio e conversazione
Un grande richiamo del bar Sport era il tabellone del totocalcio, su cui il barista-mosaicista intarsiava le letterine di plastica coi risultati del campionato. Sotto questa lapide del destino si sostava in febbrile consultazione, controllando le schedine. Dato che le letterine di plastica si staccavano e si perdevano facilmente, i risultati erano in una lingua criptica e monca. Ad esempio: Jueus - Itr 1-0, oppure Mln. - Fiorna 1 - b. Bisognava decifrare o chiedere spiegazioni. Adesso tutti entrano al bar conoscendo risultati e classifiche, e spesso hanno già i gol registrati nel telefonino. È aumentata (in quantità ma non in qualità) anche la competenza. A un esperto degli anni 60 bastava sapere a memoria le formazioni di serie A. Nel duemila un tecnico di media competenza deve conoscere nome e misure delle fidanzate dei calciatori famosi, e le formazioni di Mali, Corea del Sud ed Estonia. Ora come allora, non sa dov'è il Mali né la Corea né l'Estonia. Ultimo particolare, nella conversazione del bar, l'esempio della televisione ha abolito due frasi "non me ne intendo" e "forse ho sbagliato".

Toilette
Nel vecchio bar Sport c'erano spesso i bagni esterni per raggiungere i quali dovevi uscire ad affrontare intemperie, labirinti e lunghi viaggi. Ma soprattutto c'era il bagno con la terribile turca magnetica. Una trappola viscida e subdola che, per quanta attenzione tu facessi, possedeva un malefico potere di attrazione gravitazionale, che ti faceva scivolare e finire col culo incastrato. Ora, anche in bar modesti, ci sono grandi toilettes con water igienizzati, maniglie antiscivolo, sistemi di allarme e rotoli di carta igienica grandi come rotative, Ma sopra questo bagno c'è sempre il cartello "Bagno fuori servizio. Si prega di usare il bagno di fronte". E nel bagno di fronte ci aspetta la subdola turca magnetica.

Fuori e dentro
Una volta fuori dal bar si stava seduti al tavolo e se pioveva, appoggiati al muro con l'ombrello. Adesso ci sono i gazebi, enormi serre di vetro dentro le quali in estate si fa la sauna e in inverno ci si arrostisce al calore rovente di stufe - fungo. Dai vetri del gazebo si possono vedere a pochi centimetri, i volti terrei degli automobilisti bloccati nell'ingorgo. A volte un Tir entra col muso, per chiedere informazioni. Ma ci sarà sempre qualcuno che dirà: dai, non andiamo dentro al bar, stiamo fuori che respiriamo, e vi rinchiuderà nella prigione di cristallo.

Animali
Gli animali del bar Sport erano molti e accettati. Lo scarafaggio dello zucchero, la mosca della birra, che sapeva nuotare anche a dorso, il topo del magazzino e Polpetta, il gatto mimetico, dello stesso colore della sedia, su cui tutti si sedevano schiacciandolo, e naturalmente il cane Poldo che dormiva dietro il bancone. Ora fuori dal bar ci sono cartelli come "Io non posso entrare", "locale igienizzato" e "locale derattizzato". Ma la fauna non è scomparsa. Nello zucchero dietetico ci sono degli scarafaggi magrissimi, le mosche entrano dal condizionatore, e le signore entrano portando infilati nella pelliccia e sommersi nelle tette, dei cagnolini tremanti con gli occhi terrorizzati. Fuori, altri cani in triste attesa, legati a segnali stradali, piangono per ore. Il topo spia dal cassonetto, e sa che tornerà il suo momento.

Prezzi
Nel vecchio bar Sport se qualcuno chiedeva un bicchiere di acqua di rubinetto, il barista gli chiedeva: mi faccia vedere la pastiglia da ingoiare. Nel senso che in quel bar si serviva solo vino, a meno che non ci fossero gravi ragioni mediche. Anche il sangue al naso dei ragazzini veniva pulito col sangiovese. Ora l'acqua di rubinetto è stata sostituita dall'acqua minerale. E l'acqua minerale è il solo prodotto che nel nostro paese è rincarato più del petrolio. Cosa sarebbe accaduto se trent'anni fa, in un bar, qualcuno avesse chiesto un bicchiere d'acqua e gli avessero detto, sono tremila lire, signore?

Storie
Non ho nostalgia del bar Sport, ma delle storie che ci sentivo. Inventate, raccontate, esagerate, e soprattutto create personalmente. Cominciavano così: "Sentite amici cosa mi è successo ieri". Adesso entro in un bar e sento: "Sentite amici cos'è successo ieri a Briatore".

Sarà anche una bella storia, ma io esco.

1.11.06

Le grida contro chi viene dal Nord e «non capisce» la città

di Gian Antonio Stella - Corriere della Sera

C’è ’o sole, ’o mare, ’o babà, ’a sfogliatella, ’a granatina, ’o presepe e se volete possiamo andare avanti a scrivere di quanto è bella e colta e gentile Napoli e quanto è migliorata con Bassolino rispetto ai tempi di Pomicino e con Pomicino rispetto ai tempi di Lauro e con Lauro rispetto ai tempi di Liborio Romano e giù giù ai tempi di Franceschiello... Ma servirebbe?
Ieri sera è arrivato il 72°morto ammazzato del 2006 e i dati sono questi: con un ventesimo della popolazione italiana, il capoluogo campano e la sua provincia ospitano un nono di tutti gli omicidi. Certo, sarebbe ingeneroso non riconoscere al Governatore diessino e a Rosa Russo Iervolino qualche buona ragione, quando si lagnano di chi della loro città non vede le cose positive fatte negli anni.
Chi conosce un po’ Napoli sa che non esiste in Europa una città più complicata da amministrare. E sa che non c’è niente di più facile che intingere il pennino negli aspetti più insopportabili. La camorra, il racket, gli scippi, la truffa alle assicurazioni, il mercato nero di griffe false... Provateci voi, dicono. Provateci voi a governare una città dove lo Stato ne ha sbagliate troppe e già Montesquieu scriveva che «non c’è palazzo di giustizia in cui il chiasso dei litiganti e loro accoliti superi quello dei tribunali di Napoli» giacché «lì si vede la Lite calzata e vestita». A risolvere il dramma della spazzatura che si trascina da quando i commissari dell’inchiesta parlamentare di Stefano Jacini inorridivano per la «nauseabonda sozzura che si riscontra nei contadini del Napoletano».
A trascinare fuori la città e il suo hinterland sgarruppato dall’incubo di una disoccupazione atavica, dove già nel 1863 i carabinieri che volevano smascherare dei pompieri abusivi (tutti i pompieri, volevano fare) furono presi a fucilate. Tutto vero. Tutto giusto. La realtà, però, è sotto gli occhi di tutti. Sono sicuri, Antonio Bassolino e Rosa Russo Iervolino, di fare davvero un buon servizio a Napoli e ai napoletani, levandosi ogni volta a difendere il decoro della loro città contro chi «non capisce »? Perché, diciamolo, sempre così finisce: Giorgio Bocca scrive «Napoli siamo noi» dove denuncia la delusione per la drammatica sfioritura della «primavera napoletana »? Non capisce. Roberto Saviano scrive quel formidabile atto di accusa che è il libro «Gomorra»? Non capisce. L’Espresso fa una copertina titolandola «Napoli addio »? Non capisce.
Michele Santoro dedica una puntata di «Anno Zero» al cancro che pare divorare questa città amatissima che è nel cuore di tutti? Non capisce. Anni fa, dopo l’ennesima denuncia, lo scrittore Domenico Rea si sfogò: «Ho scritto venti libri su Napoli, migliaia di articoli, sono napoletano da cinquemila anni: resto sempre molto sorpreso quando arriva un giornalista dal Nord che in pochi giorni, o in pochi mesi, pretende di scoprire quel che io non ho visto in 72 anni». Ma è davvero così? C’è «un’altra Napoli» che viene quotidianamente sfigurata e stravolta e stuprata solo dal pressappochismo, magari un po’ razzista, dei polentoni? Aleggere il Corriere del Mezzogiorno, il suo «Osservatorio sulla camorra e sull’illegalità», i commenti dei suoi editorialisti, nella stragrande maggioranza meridionali, non è così.
I primi a porre il problema della mancanza d’ossigeno civico, oggi, a Napoli, sono i napoletani. Capitale di una regione che ha un decimo della popolazione italiana ma produce solo un quindicesimo della ricchezza nazionale, che ha gli stessi abitanti ma esporta meno di un settimo del Nordest, che ha un ottavo di tutte le pensioni d’invalidità, che piazza quattro centri (Casalnuovo, Lettere, Crispano e Melito) agli ultimi quattro posti per reddito pro capite dei comuni italiani, che ha visto negli ultimi anni sciogliere per rapporti con la criminalità ben 71 Comuni (più che tutto il resto d’Italia messo insieme) Napoli appare sempre di più, perfino al di là dei meriti e degli errori di chi l’amministra, come la grande emergenza nazionale.
Il 33% dei ragazzi intervistati attraverso il «Questionario» dell’Associazione Studenti Napoletani contro la camorra ha dichiarato di aver subito almeno una aggressione. I Comuni sciolti per camorra in provincia sono 39, sette dei quali sciolti due volte. Carabinieri, polizia e finanza nel solo 2005 hanno sequestrato 90 chili di eroina, 294 chili di cocaina, 2.104 chili di marijuana... Per non dire del racket che strangola le attività economiche. Il dossier «SoS impresa » della Confesercenti di Napoli denuncia «un "prelievo" che costa complessivamente alle imprese 77 miliardi di euro di cui quasi 30 miliardi escono dalle tasche dei commercianti per finire in quelle dei mafiosi». Le «assicurazioni» offerte dal racket in cambio di protezione sono «aumentate in media del 30% ed in alcuni casi, con l’introduzione dell’euro, addirittura raddoppiate. Un salasso che negli ultimi cinque anni ha provocato la chiusura di 357 mila imprese».
Un negozio del centro paga alla camorra da cinquecento a mille euro al mese, un supermarket tremila, un cantiere edile dal 5 al 7% del lavoro. Ottantamila negozianti hanno «posizioni debitorie, di cui almeno 8.000 con associazioni per delinquere di tipo mafioso finalizzate all’usura». Antonio Bassolino, disperatamente deciso a difendere non solo l’immagine della città ma anche quella del suo lavoro in questi anni, dice che sì, certo, i napoletani «sono seduti su un vulcano», ma l’esercito no, l’esercito non lo vuole. E con lui, salvo dissensi, sembrano schierate anche le altre autorità locali. Può darsi abbiano ragione. Ma certo l’emergenza c’è. È sotto gli occhi di tutti. E non serve a niente esorcizzarla con qualche grido di dolore contro chi «non capisce ».