27.4.03

AUDIBLOG, LE CONDOGLIANZE


di LUDIK

Sono dispiaciuto dalla chiusura di Audiblog. Era una decisione netta ma inevitabile, che però si lascia dietro qualche domanda inevasa. Sei mesi di indagine sul web, seppure in maniera artigianale, sono comunque un buon risultato. Abbiamo attraversato una delle stagioni più controverse del pericoloso intreccio italiano tra televisione, politica, potere e, in questo ultimo periodo, guerra. Le "armi di distrazione di massa" hano compiuto il loro lavoro anche stavolta. Lo sforzo quotidiano e condiviso con Claudio e Melba di aggiornare i sondaggi, controlare il forum, stimolare la partecipazione, estrarre commenti e considerazioni dai nostri risultati e da quelli dell'Auditel ufficiale, non credo sia stato vano. Innanzitutto perché è ancora lì, negli archivi di blogger, visibile da tutti. "Archeologia web" l'ha chiamata Melba, e il termine mi affascina molto. Audiblog ha rosicchiato i suoi spazi sui giornali (fino al trionfo di Sabelli sul TvSette di gennaio), sui siti e sui weblog, e quasi per una sorta di contrappasso ne sono andato a parlare persino 'dentro' la televisione (Screensaver, il 03/02/ su Rai3). Il nostro è stato un gioco. Un gioco, ad un certo punto, diventa una cosa seria, si trasforma (se se ne hanno volontà e possibilità) in qualcosa d'altro, oppure finisce. Noi per ora abbiamo ritenuto di fermarci. Il nostro obiettivo sotteraneo era di contribuire a scalfire o almeno relativizzare l’idea totalizzante e quasi ossessiva di televisione che in Italia va per la maggiore. Provare a sminuire l’assolutezza di dati che in realtà sono macchinosi e inaffidabili.
Senza troppe illusioni di cambiare il mondo. Eravamo quattro amici al bar, e tali siamo rimasti. Un pugno di volenterosi naviganti della Rete si è prestato al nostro gioco, dimostrando almeno che è possibile trattare la televisione per quello che è: una scatola di offerte da cui scegliere, selezionare per usufruire di quel (tanto o poco) di buono che c'è. E, se si ha di meglio da fare, semplicemente spegnerla.


È veramente deludente come uno strumento di vera democrazia popolare non venga percepito come tale dalla massa di persone che girano in internet che a questo punto per me, non sono nemmeno dello ombre che camminano per strada senza mèta senza senso (barcollano di qua e di la come fronde al mento) ma spermatozoi ed ovuli non sono ancora fecondati e quindi acefali.
(Mario Luigi Albini)


Mi dispiace la chiusura di Audiblog. Mi dispiace pure che si volesse dare una qualche sorta di scientificità ad un sistema basato sulla volontaria partecipazione.
Io che guardo poco la televisione cosa posso fare se non premere sempre il tasto "Non ho guardato la televisione?". Occorre trovare nuove formule e nuovo intenti.
Se se ne ha la voglia.
(Pietro Busalacchi)


(...) Vi invito a tener duro, a cercare di automatizzare la cosa il più possibile, a diffondere l'Audiblog attraverso le associazioni, i movimenti, le newsletter, etc. , in modo da raggiungere un numero di risposte-giorno che assomigli a quello della maggior parte delle indagini che ci vengono giornalmente propinate, ed a considerare e diffondere i risultati tenendo e facendo presente qual'è il campione che si ritiene di avere sotto controllo.
(Camillo Lanzinger)


E' finita come doveva finire. Sono anch'io uno che ha trovato ottima l'idea ed ho votato sistematicamente all'inizio. Poi ho desistito per sottrarmi ai fastidiosi lampeggiamenti che mi proclamavano vincitore di qualcosa che assolutamente non mi interessava e che, insistendo io nel non considerarli, insitevano a loro volta non dando tregua nemmeno per un giorno. La pubblicità può essere anche la tomba del commercio.
(F. Bisson)


Peccato! In famiglia facevamo a gara per dare le nostre preferenze. La TV è così poco interessante che persino i sondaggi che la riguardano falliscono miseramente. Grazie per il vostro lavoro.
(Giovanna)


Sono dispiaciuto di questa vostra scelta. Dal mio punto di vista non ho mai potuto aiutarvi dato che non posseggo la tv, ma ho apprezzato e letto i risultati dei vs. sondaggi
(Graziano Galli)


Sono spiacente, amo e guardo con piacere la pubblicità e, quel ch'è importante, acquisto tutto quel che viene reclamizzato. Ho fatto ad esempio una provvista di ottimi coltelli di fabbricazione cinese ma americani di importazione. Come può notare non posso apprezzare Ballarò. Lo dico con pena perchè non farsi sentire su audiblog è una minorazione di classe. Non si è intellettuali radical chick.
(Avv. Lina Arena)


Quante cose belle e intelligenti si potrebbero fare in rete che invece si spengono e chiudono solo per colpa nostra?
(Massimo Mantellini)

25.4.03

NATALINO CI DICE UN'ALTRA VOLTA ADDIO


lettere di dimisioni dal sito di Natalino Russo, Seminara

Mi ero illuso che un comunista potesse cambiare, ma il Comunismo è peggio della peste, dell'aids, della guerra e ora della Sars ( non a caso cinese ) messi insieme. Cancellami quindi dalla lista e non inviarmi posta. Spero comunque , così come farò io con te, che tu, tenendo ben separati idee e sentimenti e che quindi come avviene di solito coi vostri avversari, l'odio non faccia aggio sulla ragione, non mi cancellerai dalla lista degli amici. Tieniti pure i tuoi compagnucci per una pace da cimitero, tra gente che a furia di darsi vicendevolmente ragione si autoconvince di averla davvero. Contrariamente a te che, su Capital, l'hai fatto proditoriamente nei miei confronti, io che di te, come gestore di questo sito, dirò tutto il male possibile in ogni dove, te lo preannuncio lealmente. Certo io sono un signor nessuno, ma spero di ottenere sufficiente audience, per far sapere quale regime castrista vige laddove si grida al regime berlusconiano. Csf sarà l'acronimo, che spero di diffondere come una Pool...monite atipica di : Claudio Sacelli Fiorenti. Incazzati pure, e magari come hai fatto con Facci, intervistami, chissà, potrebbe venire fuori la più interessate delle tue interviste ( dove ultimamente sembri Minà con Castro, quando l'intervistato è di sinistra, salvo diventare un Beria quando capita una Marini che deve pagare il fio di stimare il Cavaliere. Come ti ho detto in un'altra delle tante ( cassate ) lettere, l'uso che fai del sito sa di regime e, con la storia delle 500 battute, di gioco delle tre carte. E ribadisco , come disse Montanelli, io come umorista, vignettista, polemista, imbrattafogli, poetucolo, non mi sento un gigante, ma in confronto ai Benni, Serra, Vauro, Ellekappa, la Valduga, la Ravera e Giulietto Chiesa ( e tanti altri miracolati della, e dalla, Sinistra lo sono. Spero ,quando conterà più di tutto la bravura e non il buttarsi a sinistra , di dimostrarlo. Ciao, con intatto ed intangibile affetto e con i migliori saluti ed auguri che estendo alla Arena, Paris, Trono e altri destri, ma soprattutto ai sinistri ( ne avete davvero tanto bisogno, affinché guariate dall'Arcoresclerosi). Natalino
P.S. Natalino, per dire bene del Cavaliere e degli Usa, e di tutto quanto sta nel centrodestra, non prende, almeno fino ad oggi, una lira e/o un euro, contrariamente a Giulietto e Armando i quali per dire trasformare in Paradiso l'Inferno comunista prendevano un sacco di rubli. Come Galloway con Saddam. Tanto per voi gli unici che fanno il loro sporco interesse sono i ragazzi di Bu-Be.
Quanto vorrei mettere il naso nei bilanci di Cgil ed Emergency !!!

15.4.03

Bambini di guerra

di Alessandro Robecchi (per Il Manifesto, 13 Aprile 2003)

E così tornano di moda i bambini. Vinta (ma non finita) la guerra, si cercano alla rinfusa tra le macerie le sue ragioni, compiuto il massacro, urge ribadire che era giusto farlo. E a questo servono, per l'appunto, i bambini. Piccoli bimbi iracheni sballottati dalla Storia, prima affamati dal regime, poi ammazzati dall'embargo, poi bombardati dai liberatori, resi orfani o cadaveri, ora aiutati da Il Giornale con apposita sottoscrizione, sparati in copertina dal Foglio. E' un cinismo senza limiti, forse al di là dell'umano: mostrare i bambini spauriti e feriti dell'Iraq sotto le bombe, parlarne, provare infinita tristezza era - fino a qualche giorno fa - segno di debolezza, malafede, intelligenza col nemico, pacifismo cacasotto e calabraghe. Troppo facile mostrare i bambini che soffrono per contestare una guerra, mezzuccio mediatico di bassa lega, roba da comunisti. Così che, specie ai cattolici belligeranti (quelli con Dio dalla loro parte, mica da quella del papa) saltava il tappo spesso e volentieri: dovendo scegliere tra lo schieramento pro-Bush e la propria coscienza non avevano dubbi, data la latitanza delle coscienze. E davano di matto contro la volgare propaganda pacifista. Ora, a missione compiuta, i bambini vengono buoni. Sorridono tutti (forse perché non hanno più il rombo dei bombardieri sulla testa), tranne quelli fucilati ai check-point, che però di colpo non sono bambini, ma «errori». Il passaggio da bimbo ad errore è velocissimo: il tempo di una pistolettata.

Naturalmente parlare genericamente di «bambini» è troppo semplice: i feldmarescialli dell'informazione a guida laser hanno buon gioco a prendersela con le «anime belle» che si commuovono facile. E poi si sa, perché una campagna mediatica funzioni serve un caso singolo ed emblematico, un volto, un nome, una storia che diventi paradigma delle storie.

Ed eccolo, trovato. Ali Ismail Abbas ha perso in un bombardamento due braccia e tutta la famiglia. Dopo aver volteggiato a lungo in cerchio nel cielo di Bagdad Il Giornale scende a terra con un battito d'ali e apre una sottoscrizione per il piccolo Ali. Date, date, date. Se va bene, Ali avrà un futuro (forse in Inghilterra) dove gli attaccheranno due braccia nuove (di plastica) e condurrà un giorno la sua vita da simbolo: bombardato, liberato, ricucito. Non dice, Il Giornale, se la bomba che ha centrato Ali e la sua vita era di quelle all'uranio impoverito. Nel qual caso, dopo quell'aerosol di isotopi, il simbolo sarebbe a scadenza, perché non c'è ancora un modo rimediare al cancro e alla leucemia, nemmeno con la sottoscrizione.

Non è la prima volta e non sarà l'ultima: i generali argentini che buttavano i genitori dissidenti in mare dall'elicottero, che li torturavano e li facevano sparire, usavano adottarne i figli. Cambia qualche dettaglio, ma il metodo è quello: inserire nel bagaglio bellico degli aggressori qualcosa che all'opinione pubblica e alle telecamere possa sembrare pietà. Ali avrà due braccia di plastica: che volete di più. Ma la sua foto compare piccolina, quasi un francobollo, ben meno «sparata» delle immagini dei bambini di Bagdad un po' più fortunati. Perché anche il cinismo ha la sua falsa coscienza e il freno a mano tirato: va bene l'atto di generosità di aiutare chi abbiamo fatto a pezzi cinque minuti prima, ma che non si veda troppo, che non si colgano bene i dettagli, gli occhi, la bocca, i moncherini sopra i gomiti.

Per metafora, ma non tanto, ad Ali Ismail Abbas è stato fatto ciò che è stato fatto al suo Paese. Prima affamato, poi privato delle medicine con l'embargo, poi devastato dalle bombe e dal fuoco, e infine riimmesso sulla retta via dai liberatori.

Gli aggressori sono al lavoro - contratti alla mano - per ridare due braccia all'Iraq, pompargli via il petrolio, cacciare via il cattivo e vendergli una democrazia (di plastica), attaccata come una protesi. Forse, per celebrare la vittoria del Bene contro il Male, Ali meriterebbe una statua in bronzo, un busto celebrativo, un monumento, magari al posto del grottesco statuone di Saddan tirato giù in mondovisione. Un monumento al bambino senza braccia e senza famiglia, a futura memoria della generosità di chi gliele ha strappate.

rapimento moro, secondo per secondo


di Valerio Morucci (per Accattone)
ripreso da Dagospia


Raccontare la città di Roma. E’ la polpa e il nocciolo di un mensile che porta in alto una bella testata di puro pasolinismo: “ACCATTONE – Cronache romane”. Diretto da Lanfranco Caminiti, il n°3 scodella una interessantissima e per certi versi straordinaria cronaca, minuto per minuto, dramma per dramma, del sequestro Moro in via Fani scritta da Valerio Morucci - l'ex capo della colonna romana delle Brigate Rosse, uscito dall'organizzazione nel marzo '79 insieme ad Adriana Faranda.
Il periodico – che è diffuso soprattutto nella capitale – ha concesso gentilmente a Dagospia la possibilità di riproporre il testo di Morucci in versione integrale. (E’ lungo per i termini Web, ma ne vale la pena)

Le avevo tappato naso e bocca per non farla respirare. Per non sentirla. Ne era rimasto solo un embolo ciondolante nel sangue, nascosto in qualche recesso delle vene, ma che prima o poi sarebbe arrivato al cervello. Ora il poi è arrivato e mi sento inconsistente, di pomice. I minuti galleggiano via lenti, scivolando sull’argine della paura. Sento salire il sangue su per il collo: fluido ostile passato per un congelatore. I pensieri ghiacciati non riescono a darsi parola. Forse non sarà per oggi. Forse bisognerà rimandare a domani.
Un sasso fulmineo spacca il guscio dell’immobilità. La macchina ci arriva davanti sbucata da un ricordo inatteso. Frena di colpo allo stop. E subito dopo le due dietro. Lo schianto delle lamiere e l’incalzante movimento rimettono in circolazione il sangue. Una molla mi spinge avanti. Scendo dal marciapiede e sprofondo in un acquario, vischioso come una palude. I movimenti diventano fratti, convulsi per l’incapacità dell’occhio a seguirli. Spezzoni di immagini mi scorrono davanti mentre i rumori vengono assorbiti nell’acquosità che ha riempito le orecchie.
Gli altri sono accanto a me ma non li vedo. So che stanno sparando. So che sto sparando anch’io. Ma non sento i colpi. L’auto davanti a me continua a muoversi. Cerca uno spazio tra le lamiere. Poi succede qualcosa. Non sento più il mitra vibrarmi nelle mani. Pesante, inceppato. Le gambe mi spostano come un sonnambulo arrancando nella palude fino all’incrocio. Con gesti infangati manovro l’arma. Torno indietro.

L’auto sta ancora sbattendo contro le lamiere, avanti e indietro come un animale preso alla tagliola. Si è guadagnata un paio di metri e ora cerca di lato un varco per la salvezza. Ma lì una macchina parcheggiata le blocca la fuga. Vedo l’uomo accanto all’autista girarsi su se stesso verso il sedile posteriore. Protendersi per proteggere l’Uomo. Il dito si contrae sul grilletto. Sparo ancora, e ancora non sento i colpi. Poi, ancora, gli attimi s’impantanano nell’opacità. Ma l’acqua viene di nuovo agitata da movimenti convulsi confondendo le immagini. Vedo l’Uomo tirato fuori dall’auto e caricato su un’altra che sfreccia via. Mi avvicino all’auto e apro lo sportello che, come una lamiera sbarra fuoco, mi precipita in faccia il colore della morte, il suo odore. Palombaro in embolia risalgo la strada su un fondo pieno di detriti. Cappelli da pilota, borse, caricatori, bossoli folti come pinoli. Poi un uomo, steso in terra a braccia aperte. Le falde dell’impermeabile larghe sull’asfalto. Come ha fatto a finire lì? Sembra un grande uccello caduto dal cielo. Tutto è fermo, inerte. E avverto il vuoto che riempie il silenzio dopo lo sconquasso. Mi aggiro stordito sulla strada, senza orientamento. Poi una voce rompe il silenzio e l’apnea. “Vuoi rimanere lì?” Bardo richiude lo sportello e l’auto fila via. Riprendo a respirare, in circolo sangue caldo. Sangue che spinge le gambe e rimette in moto i pensieri. E la paura, che nell’apnea era rimasta rintanata e ora risale maligna fino agli occhi e me li fa alzare verso la salita. L’auto di copertura sparita. E nulla a proteggere lo sguardo che si perde nel fondo della prospettiva. Il tempo è scaduto. Un minuto, forse due. Dilatati e appiccicosi come due ore d’afa.

Le borse. Devo prendere le borse dell’Uomo. Torno indietro, apro lo sportello posteriore. Dall’altro lato, accanto a dove erano le sue gambe, ci sono due gonfie borse di pelle. Mi protendo dentro reggendo il cappello. Afferro i manici e tiro con un attimo di esitazione, come fossero le sicure di bombe a mano. Ora via. Verso la macchina. Senza pensare, senza guardare. Sperando che la parte segreta del cervello metta i passi in fila nella giusta direzione. Valmo e Floriana aspettano con la bocca schiusa e lo sguardo proteso, come seguissero la mia corsa su un campo minato. Dovevamo essere i primi e siamo gli ultimi. Butto dentro le borse e mi siedo al volante. Non parlano, non dicono niente. Dobbiamo raggiungere le altre macchine per non restare tagliati fuori. Valmo è proteso in avanti, una mano appoggiata al cruscotto e la coda dell’occhio rivolta preoccupata verso di me, come temesse che io sia la guida sbagliata per portarci fuori da una palude infestata di coccodrilli. Dietro sento il respiro trattenuto e sgomento di Floriana. Il respiro di chi da troppo sta sul portello al suo primo lancio col paracadute.
Sono in cinque, quelli della scorta. Due sulla 130 e tre sull’Alfetta. L’autista traffica un paio di minuti nel vano motore, poi abbassa il cofano della 130 e si strofina le mani a dita tese mentre lo stridio d’uccelli gli fa alzare lo sguardo. Sta con la testa rivolta al cielo e le mani giunte immobili, come sorprese dalla visione. Un giovane dal lungo impermeabile scende dall’Alfetta e s’avvicina con passo falcato, facendo ondeggiare le falde. Quando gli è a pochi metri l’autista indica le rondini che volteggiano sopra gli alti pini al centro della piazza. “Guarda le rondini” o “E’ arrivata la primavera.” Non so cosa gli dice. Sono troppo lontano. E poi non sono io a notare questa scena. Troppo preso a seguire i movimenti della scorta dell’Uomo. Ma anche il giovane, un’occhiata distratta e una sigaretta accesa, non sembra molto interessato al volteggiare degli uccelli. Solo una donna poteva notarla. E farsene un cruccio segreto per poi raccontarmelo una vita dopo. Quando la fine dell’inverno del nostro scontento aveva disgelato le emozioni represse.

Uno dall’Alfetta e il capo scorta sulla 130, la sua ombra guardinga, entrano nella chiesa con l’Uomo. L’autista della 130 ha sempre qualcosa da armeggiare attorno all’auto, mentre l’altro rimane seduto a leggere il giornale. Uno degli altri è sul marciapiede davanti alla chiesa. Fa avanti e indietro dal giornalaio fino all’angolo opposto. Si muove circospetto, controllando ora la scalinata ora la piazza. Arrivato agli angoli butta un’occhiata alla strada e fa dietro front. Non ci vede. Siamo lontani. Confusi nella gran via vai mattutino della piazza.

Per un mese non si era visto nessuno. Stavamo per buttare alle ortiche il ritaglio di giornale che quelli del Nord si erano portati appresso anni prima come una reliquia. Erano venuti solo per quello. Non si sarebbero azzardati a scendere così a Sud se non per l'Uomo. Quel pezzo di carta gualcita era rimasto tre anni in fondo a un cassetto. Poi era arrivato finalmente il momento di tirarlo fuori. E già sembrava che la troppo lunga attesa lo avesse consumato come un pensiero smarrito.
Ma eravamo tornati. Come chi decide di aspettare oltre il limite dell’attesa.
E dopo altri due giorni l’Uomo era arrivato all’appuntamento. E poi il giorno successivo. E poi l’altro ancora. Ogni giorno. Improvvisamente quel pezzo di giornale che rischiava di polverizzarsi come un vecchio papiro mangiato dal tempo, aveva ripreso vita davanti ai nostri occhi increduli. Era tutto vero. Non era solo inchiostro buttato lì per riempire un buco nella pagina.
Le due macchine sfrecciavano veloci per le lunghe curve che scendevano a valle e arrivavano lì, davanti a quella brutta chiesa pittata di rosa, alle nove. E, ancora agitatamente, come in veloci frammenti di un vecchio film muto, l’Uomo scendeva dall’auto e saliva i gradini con passi rapidi, lui così parco di movimenti, assecondando benevolo l’urgenza dei due guardiani. Poi, per mezz’ora, il tempo rintuzzava davanti alla chiesa rallentando, come rispettoso di una tregua. L’autista si affaccendava solitario attorno all’ammiraglia, il capo scorta incalzava sul marciapiede i suoi passi accorti di guardiano, l’altro autista sfogliava il giornale con pigrizia domenicale.
Poi, finita la Messa, la frenesia del primo mattino, come maroso troppo a lungo respinto, riconquistava anche quell’angolo di piazza. L’Uomo, imponente e curvo nel lungo cappotto scuro, l’espressione assorta a increspare una ruga di remoto smarrimento, ridiscendeva sbrigativo le scale, affiancato dai due uomini che faticavano a trovare i gradini tenendo alto lo sguardo vigile. Gli sportelli si chiudevano di scatto e le due auto ripartivano sollecite.
Alla chiesa la scorta di cinque uomini si divideva. Due soli lo accompagnavano all’interno. Era il punto migliore per agire. Contando sulla sorpresa era possibile bloccarli e prelevare l’Uomo. Ma come uscire?
Il mattino successivo, appena le due auto si sono allontanate, entro nella chiesa. Un emiciclo luminoso con i marmi accesi dai raggi del sole. Percorro la curva parete e vedo davanti a me una porta a vetri, oltre questa un lungo corridoio. Al fondo mi ritrovo nell’androne di una scuola. L’ingresso dà sulla via laterale, a una cinquantina di metri dall’angolo della piazza. Da lì potevamo portare via l’Uomo senza esser visti.
Inaspettatamente ci ritrovavamo sistemato il primo tassello del complesso mosaico. Ora veniva tutto il resto.

Dal giorno dopo mi aggiro per le strade annusando il terreno per trovare la via di sganciamento. Devo scoprire lì intorno, a non troppa distanza dalla piazza, una variante per spezzare la via logica della ritirata. Quella cui avrebbero pensato subito gli uomini di “Doppia Vela”. I vecchi marescialli che dalla Sala Operativa erano in grado di guidare via radio le volanti indicando ogni tombino della città. Un passaggio, una stradina secondaria, un cortile che poteva portarci altrove da dove loro avrebbero pensato che fossimo.
La strada che arriva al lungofiume passa sotto il cavalcavia della Circonvallazione. E proprio lì, intubata tra un muretto e il pilone del cavalcavia, come un progetto abbandonato, c’è una stradina di terra battuta che porta di sopra. Tanto corta, stretta e sassosa che gli uomini di “Doppia Vela” non potevano averla memorizzata. Tanto stretta che occorre misurarne la larghezza per trovare le auto in grado di passarci. Ma ci passano. Di poco ma ci passano, sia le piccole che una più grande a quattro sportelli. Il secondo tassello.

Per la mattina successiva dobbiamo arrischiare un sopralluogo interno alla chiesa. Entro con Floriana e ci mettiamo davanti, mezzi nascosti da una colonna e vicini a un paio delle vecchiette sparpagliate per i banchi. Per non farci notare siamo già lì quando l’Uomo arriva. Lui si mette nel primo banco dall’ingresso. I due guardiani in piedi dietro di lui. E’ Floriana a sbirciare ogni tanto, volgendosi dalla mia parte e stirando la coda dell’occhio. La messa è iniziata. Io blocco la testa fissa davanti a me, e tocca a Floriana sospingermi il braccio ogni volta che dobbiamo alzarci. Poi vedo l’Uomo superare la nostra linea di panche e mettersi in fila per la comunione, sovrastando a testa china le vecchiette zampettate fuori dai banchi. I due guardiani non si sono mossi, seguendolo solo con lo sguardo.

Dopo il sopralluogo vado con Serrano a controllare palmo a palmo la stradina del cavalcavia. La rimisuriamo ogni metro. Bastano pochi centimetri di restringimento e avremmo rischiato di rimanere imbottigliati. Ma i muratori hanno lavorato al meglio. Le due pareti corrono parallele fino in cima. Il problema viene dopo. La stradina finisce in un giardino e da lì, per riguadagnare la strada, bisogna scendere da un marciapiede. Una manovra che può dare nell’occhio, soprattutto per le auto che arrivano in corsa sfiorando il marciapiede. Troppo pericoloso. Può andar bene solo se non si trova un’alternativa.
Riprendo ad annusare il terreno. Uscendo dalla scuola quella era l’unica strada possibile. Di infilarsi nel traffico verso il lungofiume neanche a parlarne. Sto lì a farmi scorrere nella testa la mappa della zona, quando un’auto mi passa davanti, oltrepassa la traversa, e si dirige verso il fondo cieco della strada. La seguo con gli occhi, soprappensiero. L’auto si ferma davanti a una lastra di ferro. La mano che esce dal finestrino infila una chiave in un basso piantone di metallo. Subito dopo, la lastra comincia ad aprirsi e l’auto s’infila dentro. Attraverso e sbircio nel varco prima che si richiuda. Una strada in salita, larga costeggiata da ville. In alto vedo i pini della collina. Forse ci siamo. Forse il caso ha portato la soluzione su quella lastra grigia di metallo. Prendo la macchina e salgo per la collina. A un chilometro dalla piazza vedo sulla sinistra un cancello automatico identico a quello dabbasso. Ora non resta che trovare il modo di aprirlo. Torno giù e mi studio la serratura. E’ piccola. Più piccola delle normali d’appartamento. Sicuramente con pochi pistoncini, consumati dal continuo uso.

Una chiave piccola. Forse da lucchetto. Tengo in una cassetta un’infinità di chiavi. Auto rubate, appartamenti abbandonati, motociclette. Ma nessuna abbastanza piccola. Mi fermo da un ferramenta, mi guardo intorno. Ecco. Prendo un lucchetto da telefono. Di quelli usati dai genitori parsimoniosi per limitare le telefonate dei figli adolescenti, o di qualche parente incomodo. A casa limo i denti della piccola chiave e li arrotondo fino a ridurla quasi un moncone.
La mattina aspetto che cali il via vai degli abitanti del residence. Sbircio da una fessura per vedere che da dentro non arrivi nessuna macchina. Poi vado alla serratura. Infilo la chiave con cautela. La giro a destra e la serratura cede docilmente. Clack. Sento il cancello aprirsi alle mie spalle e mi assale un inatteso spavento. Come di bambino che abbia messo in moto un meccanismo sconosciuto e proibito.
E’ fatta. Passando da lì potevamo arrivare in un batter d’occhio dalla parte opposta a quella da cui saremmo fuggiti. E poi, anche se la sfortuna ci avesse messo dietro le volanti della polizia, sarebbe bastata una manciata di secondi di vantaggio per lasciarle fuori dal cancello chiuso. Ora non resta che scoprire tutte le strade alternative per arrivare all’ultima destinazione, evitando il traffico e i blocchi. Ma da lassù sarebbe stato molto più facile che non partendo dalle strade intasate verso il lungofiume.

Mentre torno in centro il cervello già corre avanti per la preparazione del piano. L’azione ‘perfetta’. Un complesso meccanismo a incastro. Incruenta, invisibile, silenziosa.
La strada della scuola è poco trafficata e le macchine possono essere lasciate lì dal giorno prima. I ladri d’auto diventavano i nostri peggiori nemici. Se ne fosse mancata qualcuna avremmo dovuto sostituirla prima dell’arrivo dell’Uomo e della scorta. Questo ci avrebbe obbligato a portare in zona altre macchine di riserva. Complicato ma si poteva fare. Quanti uomini nella chiesa? Quattro per immobilizzare i guardiani e altri due per portare via l’Uomo. Sei. Un po’ troppi anche mettendoci di mezzo Floriana per non dare troppo nell’occhio. Uno dei quattro poteva sganciarsi una volta immobilizzati i guardiani e andare sull’Uomo. Cinque. Già meglio. Ma come avvicinarsi senza scatenare un putiferio dentro la chiesa? I due della scorta si mettono dietro le ultime panche. Difficile prenderli alle spalle stando già dentro. Un paio dei nostri devono per forza entrare dalla porta principale, cioè passare sotto il naso della scorta all’esterno. Non facile, ma possibile. Dentro la chiesa ci sono colonne tra le panche. Gli altri possono sedersi dietro quelle per non essere notati dai guardiani. I due che entrano dalla porta vanno al primo impatto, subito raggiunti da altri due. Poi, immobilizzati i guardiani, uno deve tornare accanto alla porta e fare il butta dentro. Evitare che qualcuno entrato nel momento sbagliato possa riuscirsene strillando come un ossesso. Per fortuna l’entrata, come in tutte le chiese, ha una doppia porta. Fuori, alle macchine di fuga, un paio d’uomini di copertura. Tanto per essere sicuri. Totale otto. Si può fare. Qualche ritocco, ma si può fare.

* * *

“E se i due nella chiesa reagiscono? Scoppierebbe un putiferio che può arrivare fino a fuori.”
E’ Serrano a sollevare l’obiezione.
“I nostri che gli arrivano da dietro gli danno un colpo in testa.”
Dago, convinto come sempre.
“E credi che vadano giù come al cinema? Non hai idea di quanto sia difficile ridurre alla ragione uno che non ne vuole sapere. Quella volta dell’armatore ho dovuto prenderlo a cazzotti per infilarlo nella macchina. Ed era secco e allampanato. La paura fa brutti scherzi. Raddoppia le forze, non fa sentire i colpi.”
Lo dice con il suo tono piano e autorevole, socchiudendo, come al solito, le ciglia ogni due parole, come rispondesse alle fantasticherie di un ragazzino. Il suo soprannome è ‘il vecchio’.
“Ma noi gli arriviamo davanti con mitra e pistole silenziate. Più di tanto non possono fare.”
Lo dico in tono interlocutorio come chiedendogli di accettare l’evidenza. Il piano è mio, è lui da convincere. Anche se forse sto tentando di convincere anche me.
Tiene a lungo socchiuse le ciglia, come valutando con condiscendenza le mie parole. Poi le riapre e inarca stavolta le sopracciglia. Non è pienamente convinto ma possiamo provare ad andare avanti. Non per molto.
“E se il capo scorta che fa la ronda arriva all’angolo proprio mentre usciamo?”
Altra obiezione. Non lo fa solo perché non è mai contento di quello che dicono gli altri, ma anche perché è un’azione in cui non si può tralasciare la minima eventualità.
“E che può fare da laggiù? Saranno almeno cinquanta metri.”
“Può sempre provare a spararci addosso.”
“Abbiamo lì due uomini di copertura. Mentre si finisce il trasbordo dell’Uomo puntano all’angolo. Se spara, spariamo anche noi.”

L’ho detto. E subito dopo le ultime parole accorgersi del buco e vederlo lì appeso per aria, sotto gli occhi di tutti. Una possibilità incerta. Una a cento. Ma se la ruota del caso fosse girata da quella parte, i colpi potevano finire nella piazza, in mezzo alla gente. Magari una vecchietta uscita dalla chiesa, o una donna in macchina che accompagnava i figli a scuola. Troppo rischioso. Anche uno a cento. Tutto da rifare. Eppure poteva essere perfetta. Ora non restava che saltare. E come per le cose su cui può essere pericoloso fermarsi a riflettere, il salto è non detto, scontato. Ora che quella linea è rotta, sfilati i guanti gialli dell’azione perfetta, ci saremmo sporcate le mani del sangue estremo.


Il corpo mi ha portato fino a qui ma ora sembra restio a muoversi in assenza di comandi espliciti. Vorrei un suo ultimo sforzo, affidandomi alle cellule che hanno memorizzato la sequenza dei movimenti. Nel mio cervello rimbalzano spezzoni di immagini disordinate, sensazioni aggrovigliate impossibili da dipanare. Non è finita, non ancora.
I piedi si muovono fuori sincronia sui pedali. Sgrano le marce. La macchina avanza a sussulti. Ecco le altre auto. Mi fanno passare e le precedo sullo svincolo. Ancora trecento metri allo scoperto poi la brusca variazione della via di fuga. Quella stradina privata che avevo trovato sul contrafforte in cima alla collina. Con l’accesso a stretto tornante, mezza nascosta da folti cespugli e con una sbarra nel mezzo chiusa da una catena. Da “Doppia Vela” non avrebbero mai pensato che saremmo passati lì. Ecco la curva. L’ho già presa decine di volte ma ora mi allargo troppo, finisco davanti al muro e le altre due macchine ripassano avanti. Devo fare manovra. Ancora una volta dietro. Così l’auto con l’Uomo arriva per prima al cancello. Previdenti, avevamo messo una tronchese in ogni auto.
Ora le macchine si separano come i rami di un fuoco d’artificio. Vado a sinistra. Cento metri e scendo per prendere il furgone. Valmo porta via la macchina e Floriana. Quella di Bardo prosegue senza fermarsi. L’auto con l’Uomo va sulla piazza in attesa del furgone. I due del Nord hanno il treno entro un’ora. E tutti gli altri a casa, attaccati alla radio. Tolgo le mostrine da pilota dall’impermeabile e la scritta adesiva dalla borsa. Metto in moto il furgone. Supero due angoli, arrivo alla piazza e mi accosto all’auto, al riparo nel parcheggio del grande slargo deserto. Scendo dal furgone. Serrano apre lo sportello e fa scendere l’Uomo, impalandranato in un plaid e con quegli occhiali neri da saldatore sulla faccia. Lo sostiene come un cieco e gli tiene bassa la testa per salire nel furgone, poi lo fa rannicchiare lungo com’è dentro la cassa. L’auto da cui è sceso l’Uomo scompare subito, portandosi via l’ultima traccia, e il suo posto viene preso da un’utilitaria guidata da Dago. Quella con cui faremo strada al furgone con Serrano.

Salgo accanto a Dago, metto la borsa col mitra tra le gambe e guardo la strada. Per un attimo è tutto fermo. L’apnea sembra diradarsi. Tutte le immagini confuse che avevano continuato a rincorrersi nel fondo della mente si bloccano. Soppiantate da quella dell’Uomo con gli occhiali da saldatore. L’ultima.
Indico a Dago la prima delle tante svolte sul percorso studiato per arrivare a destinazione. Tutte strade secondarie e fuori mano che dovrebbero permetterci di evitare posti di blocco e traffico, impegnando un solo semaforo nel lungo tragitto da Nord a Ovest della città. La riuscita dell’ultima parte del piano è basata solo su questo. Ora siamo solo in tre. Non potremmo reggere a un impatto con la polizia.

Tagliamo per una strada condominiale e arriviamo sopra la valle delle vecchie fornaci. Un’altra strada privata ci porterà giù. Risaliamo tagliando la Circonvallazione, poi la lunga e stretta gimcana che lambisce i bordi della città. Arriviamo al semaforo. L’unico punto del percorso in cui è possibile trovare un posto di blocco. Siamo in fila. Vedo nello specchietto laterale il furgone dietro di noi. Le dita di Dago sono aggrappate al volante come quelle di un trapezista prima del lancio. La mano mi va da sola dentro la borsa a stringere l’impugnatura del mitra. Verde. Due macchine ci coprono girando a destra prima di noi. Nulla. Il grande slargo davanti al benzinaio vuoto. Ci infiliamo nella via dei vecchi casali che arriva all’antica strada del porto fluviale. Ecco ora la stradina sconnessa che scende al vialone sottostante. La percorriamo sussultando. La fine è vicina e il piede di Dago affonda involontario l’acceleratore. Già vediamo il grande supermercato che sovrasta il posteggio coperto. Entriamo nell’ombra del parcheggio diffidenti. Tutto finora è andato troppo liscio. Bardo è già lì con una familiare. Il furgone accosta. Tutto normale. Possiamo andare. E’ solo il trasbordo di una cassa di legno da un furgone a una macchina. Ci penseranno solo Bardo e Serrano. Meglio non dare nell’occhio. Dago adesso avanza lentamente, lo sguardo allo specchietto. Le mani ancora avvinghiate al volante. Usciamo dall’ombra e la luce del sole ci sorprende come un nuovo giorno. Fuori pericolo. E’ fatta. Ha funzionato. Sento allentarsi tutti i muscoli e un conforto drogato sciogliere la pressione nelle vene. Ora possiamo guardarci.
Il conforto durerà poco. Il peggio deve ancora arrivare. Dopo il feroce avvio, la ruota del dolore avanzerà per tutti fino al fondo del rimpianto.

14.4.03

Lettera di Emma Bonino, La Stampa, 14 aprile 2003


CARO Direttore,
Non è una coincidenza che durante la parentesi tra i primi spari contro Saddam Hussein e il rovesciamento della sua statua a Baghdad, il collega del leader iracheno, Fidel Castro, abbia eseguito una lobotomia alla società civile cubana. Traendo vantaggio dal fatto che l'attenzione della comunità internazionale era focalizzata altrove, il dittatore cubano ha organizzato processi stile Mosca nell'isola, che governa come se fosse sua proprietà personale. Delle 74 persone processate finora, 57 hanno già ricevuto le loro sentenze, che vanno dai 10 ai 28 anni. Chi sono le vittime? L'elenco è impressionante: tutti coloro che sono qualcuno nella società civile sono dietro le sbarre. L'élite del giornalismo, coloro che hanno osato dire la verità circa le condizioni nel loro Paese e circa l'opposizione nascente sono stati puniti per aver esercitato quello che in altri Paesi è un diritto fondamentale: la libertà di espressione. Alcuni di loro intenti nel dedicarsi alle loro occupazioni: Raul Rivero, famoso poeta, iscritto al Partito Radicale Transnazionale (la sua sentenza: 20 anni); Oscar Espinosa Chepe, rispettato economista (20 anni); Carmelo Diaz Fernandez, tenace sindacalista (15 anni); Adolfo Fernandez Sainz, traduttore dotato (15 anni); Omar Rodriguez Saludes, fotografo di talento (27 anni). Victor Rolando Arroyo – attivista che nel 2000 ha scontato 6 mesi di prigione per «stoccaggio» di giocattoli per aver iniziato una distribuzione di regali a Pinar del Rio, sua città natale - ha ricevuto una condanna a 26 anni. Fra gli attivisti della società civile che sono stati condannati ci sono molti ex prigionieri politici, organizzatori del progetto Varela che raccolse 11 mila firme nell'ambito di una petizione per la democratizzazione di Cuba, attivisti di partiti politici (non riconosciuti ufficialmente). Un'attivista – Martha Beatriz Roque, iscritta al Partito Radicale Transnazionale (condanna di 20 anni) - in sciopero della fame per richiedere la libertà per un collega precedentemente imprigionato, il dottor Oscar Biscet (l'accusa ha chiesto 25 anni ); un altro ancora – Marcelo Lopez Bañobre – ricercatore indefesso e irreprensibile dei diritti umani, precedentemente capitano di un rimorchiatore, «un remolcador», che ha ricevuto una condanna di 15 anni, mentre il suo amico dottor Marcelo Cano Rodriguez, che fondò il Colegio medico di Cuba, ha ricevuto 18 anni. I loro sforzi suonano familiari a tutti coloro che sono stati coinvolti nel cercare di contribuire alla democratizzazione di società chiuse. Lo ho visto accadere in altri Paesi. Si istituisce un gruppo di «sorveglianti» dei diritti umani, un sindacato libero, un centro di studi sociali, un movimento cattolico laico, una biblioteca indipendente, un gruppo di controllo per brogli elettorali, un gruppo indipendente per i sondaggi d'opinione, un gruppo consultivo legale; questo è il modus operandi classico di persone libere nei Paesi non democratici. Ciò che è insolito è che, in piena luce del giorno, ai Caraibi, il dittatore cubano abbia «dato un giro di vite» e abbia processato queste persone per «atti contro l'indipendenza o l'integrità territoriale dello Stato». Il corpus delicti erano armi di una lotta non violenta per la democrazia e la libertà: macchine da scrivere, fax, segreterie telefoniche, computer, stampanti, macchine fotografiche, articoli, libri. Ciò che i nostri colleghi nel blocco sovietico chiamavano «munizioni di carta». Questo maccarthyismo, versione tropicale, non può essere «licenziato» come un circo, perché le condanne sono reali, e Fidel – come il suo compagno caduto Saddam Hussein - in passato non ha mostrato nessuna pietà per coloro che osavano pensarla diversamente. L'atto d'accusa contro Raul Rivero, uno dei principali scrittori viventi di lingua spagnola, cita: «Per pessima condotta causata dalla frequentazione di soggetti antisociali con i quali è avvenuta mutua influenza negativa, espressa in maniera offensiva nei confronti del processo rivoluzionario, disobbedisce ai moniti ufficiali reiterati, provocatore e irrispettoso delle norme di convivenza sociale». Questa non è l'isola soleggiata nella quale tanti italiani amano soggiornare, questa è la terra d'inquisizione con un Torquemada dei nostri giorni. I politici italiani della Sinistra hanno già espresso la loro opinione. Sia i Ds che il Manifesto hanno condannato i processi. Se il governo italiano non reagisce, sarebbe equivalente alla non assistenza di persone in pericolo, significherebbe permettere che questi crimini vengano commessi. La ragione per la quale sono allarmata è che i segni di tale non assistenza ci sono già. Negli stessi giorni in cui Fidel Castro mandava i suoi squadristi ad arresare i dissidenti, il sottosegretario agli Esteri del governo Berlusconi, l'Udc Mario Baccini, annunciava all'Avana l'intenzione di promuovere, a nome del governo italiano, la costruzione di un nuovo Istituto di Cultura italiano. Questo non è il momento giusto per essere amichevoli con il dittatore dell'Avana, è tempo di dirgli che tale comportamento non sarà tollerato. Forse il primo ministro Berlusconi o il suo sottosegretario Baccini non lo sanno, ma se avessero intenzione di far stare in questo Istituto qualche dissidente, o di far copiare a qualcuno la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo o di far leggere un libro di Ignazio Silone o passare in rassegna una copia di «l'Unità», sarebbero considerati da Fidel Castro come co-mercenari. E questa non è un'accusa che il signor Berlusconi prenderebbe alla leggera, non è vero?

13.4.03

LE ULTIME LETTERE DI RACHEL CORRIE



Rachel Corrie, 23 anni, attivista statunitense, è stata assassinata il 16 marzo 2003, schiacciata da una ruspa israeliana. Rachel tentava di evitare che la ruspa demolisse l'abitazione di un medico palestinese nella Striscia di Gaza.
Nelle sue ultime lettere racconta ai familiari la Palestina che ha conosciuto partecipando alle azioni dell'International Solidarity Movement.

7 febbraio 2003

Ciao amici e famiglia e tutti gli altri,
sono in Palestina da due settimane e un'ora e non ho ancora parole per descrivere ciò che vedo. È difficilissimo per me pensare a cosa sta succedendo qui quando mi siedo per scrivere alle persone care negli Stati Uniti. È come aprire una porta virtuale verso il lusso. Non so se molti bambini qui abbiano mai vissuto senza i buchi dei proiettili dei carri armati sui muri delle case e le torri di un esercito che occupa la città che li sorveglia costantemente da vicino. Penso, sebbene non ne sia del tutto sicura, che anche il più piccolo di questi bambini capisca che la vita non è così in ogni angolo del mondo. Un bambino di otto anni è stato colpito e ucciso da un carro armato israeliano due giorni prima che arrivassi qui e molti bambini mi sussurrano il suo nome - Alì - o indicano i manifesti che lo ritraggono sui muri.
I bambini amano anche farmi esercitare le poche conoscenze che ho di arabo chiedendomi "Kaif Sharon?" "Kaif Bush?" e ridono quando dico, "Bush Majnoon", "Sharon Majnoon" nel poco arabo che conosco. (Come sta Sharon? Come sta Bush? Bush è pazzo. Sharon è pazzo.). Certo, questo non è esattamente quello che credo e alcuni degli adulti che sanno l'inglese mi correggono: "Bush mish Majnoon" ... Bush è un uomo d'affari. Oggi ho tentato di imparare a dire "Bush è uno strumento" (Bush is a tool), ma non penso che si traduca facilmente. In ogni caso qui si trovano dei ragazzi di otto anni molto più consapevoli del funzionamento della struttura globale del potere di quanto lo fossi io solo pochi anni fa.
Tuttavia, nessuna lettura, conferenza, documentario o passaparola avrebbe potuto prepararmi alla realtà della situazione che ho trovato qui. Non si può immaginare a meno di vederlo, e anche allora si è sempre più consapevoli che l'esperienza stessa non corrisponde affatto alla realtà: pensate alle difficoltà che dovrebbe affrontare l'esercito israeliano se sparasse a un cittadino statunitense disarmato, o al fatto che io ho il denaro per acquistare l'acqua mentre l'esercito distrugge i pozzi e naturalmente al fatto che io posso scegliere di andarmene. Nessuno nella mia famiglia è stato colpito, mentre andava in macchina, da un missile sparato da una torre alla fine di una delle strade principali della mia città. Io ho una casa. Posso andare a vedere l'oceano. Quando vado a scuola o al lavoro posso essere relativamente certa che non ci sarà un soldato, pesantemente armato, che aspetta a metà strada tra Mud Bay e il centro di Olympia a un checkpoint, con il potere di decidere se posso andarmene per i fatti miei e se posso tornare a casa quando ho finito.
Dopo tutto questo peregrinare, mi trovo a Rafah: una città di circa 140.000 persone, il 60% di questi sono profughi, molti di loro due o tre volte profughi. Oggi, mentre camminavo sulle macerie, dove una volta sorgevano delle case, alcuni soldati egiziani mi hanno rivolto la parola dall'altro lato del confine. "Vai! Vai!" mi hanno gridato, perché si avvicinava un carro armato. E poi mi hanno salutata e mi hanno chiesto "come ti chiami?". C'è qualcosa di preoccupante in questa curiosità amichevole. Mi ha fatto venire in mente in che misura noi, in qualche modo, siamo tutti bambini curiosi di altri bambini. Bambini egiziani che urlano a donne straniere che si avventurano sul percorso dei carri armati. Bambini palestinesi colpiti dai carri armati quando si sporgono dai muri per vedere cosa sta accadendo. Bambini di tutte le nazioni che stanno in piedi davanti ai carri armati con degli striscioni. Bambini israeliani che stanno in modo anonimo sui carri armati, di tanto in tanto urlano e a volte salutano con la mano, molti di loro costretti a stare qui, molti semplicemente aggressivi, sparano sulle case mentre noi ci allontaniamo.
Ho avuto difficoltà a trovare informazioni sul resto del mondo qui, ma sento dire che un'escalation nella guerra contro l'Iraq è inevitabile. Qui sono molto preoccupati della "rioccupazione di Gaza". Gaza viene rioccupata ogni giorno in vari modi ma credo che la paura sia quella che i carri armati entrino in tutte le strade e rimangano qui invece di entrare in alcune delle strade e ritirarsi dopo alcune ore o dopo qualche giorno a osservare e sparare dai confini delle comunità. Se la gente non sta già pensando alle conseguenze di questa guerra per i popoli dell'intera regione, spero che almeno lo iniziate a fare voi.
Un saluto a tutti. Un saluto alla mia mamma. Un saluto a smooch. Un saluto a fg e a barnhair e a sesamees e alla Lincoln School. Un saluto a Olympia.
Rachel

20 febbraio 2003

Mamma,
adesso l'esercito israeliano è arrivato al punto di distruggere con le ruspe la strada per Gaza, ed entrambi i checkpoint principali sono chiusi. Significa che se un palestinese vuole andare ad iscriversi all'università per il prossimo quadrimestre non può farlo. La gente non può andare al lavoro, mentre chi è rimasto intrappolato dall'altra parte non può tornare a casa; e gli internazionali, che domani dovrebbero essere ad una riunione delle loro organizzazioni in Cisgiordania, non potranno arrivarci in tempo. Probabilmente ce la faremmo a passare se facessimo davvero pesare il nostro privilegio di internazionali dalla pelle bianca, ma correremmo comunque un certo rischio di essere arrestati e deportati, anche se nessuno di noi ha fatto niente di illegale.
La striscia di Gaza è ora divisa in tre parti. C'è chi parla della "rioccupazione di Gaza", ma dubito seriamente che stia per succedere questo, perché credo che in questo momento sarebbe una mossa geopoliticamente stupida da parte di Israele. Credo che dobbiamo aspettarci piuttosto un aumento delle piccole incursioni al di sotto del livello di attenzione dell'opinione pubblica internazionale, e forse il paventato "trasferimento di popolazione". Per il momento non mi muovo da Rafah, non penso di partire per il nord. Mi sento ancora relativamente al sicuro e nell'eventualità di un'incursione più massiccia credo che, per quanto mi riguarda, il rischio più probabile sia l'arresto. Un'azione militare per rioccupare Gaza scatenerebbe una reazione molto più forte di quanto non facciano le strategie di Sharon basate sugli omicidi che interrompono i negoziati di pace e sull'arraffamento delle terre, strategie che al momento stanno servendo benissimo allo scopo di fondare colonie dappertutto, eliminando lentamente ma inesorabilmente ogni vera possibilità di autodeterminazione palestinese.
Sappi che un mucchio di palestinesi molto simpatici si sta prendendo cura di me. Mi sono presa una lieve influenza e per curarmi mi hanno dato dei beveroni al limone buonissimi. E poi la signora che ha le chiavi del pozzo dove ancora dormiamo mi chiede continuamente di te. Non sa una parola d'inglese ma riesce a chiedermi molto spesso della mia mamma - vuole essere sicura che ti chiami.
Un abbraccio a te, a papà, a Sara, a Chris e a tutti.
Rachel

27 febbraio 2003

(alla madre)
Vi voglio bene. Mi mancate davvero. Ho degli incubi terribili, sogno i carri armati e i bulldozer fuori dalla nostra casa, con me e voi dentro. A volte, l'adrenalina funge da anestetico per settimane di seguito, poi improvvisamente la sera o la notte la cosa mi colpisce di nuovo: un po' della realtà della situazione.
Ho proprio paura per la gente qui. Ieri ho visto un padre che portava fuori i suoi bambini piccoli, tenendoli per mano, alla vista dei carri armati e di una torre di cecchini e di bulldozer e di jeep, perché pensava che stessero per fargli saltare in aria la casa. In realtà, l'esercito israeliano in quel momento faceva detonare un esplosivo nel terreno vicino, un esplosivo piantato, a quanto pare, dalla resistenza palestinese. Questo è nella stessa zona in cui circa 150 uomini furono rastrellati la scorsa domenica e confinati fuori dall'insediamento mentre si sparava sopra le loro teste e attorno a loro, e mentre i carri armati e i bulldozer distruggevano 25 serre, che davano da vivere a 300 persone. L'esplosivo era proprio davanti alle serre, proprio nel punto in cui i carri armati sarebbero entrati, se fossero ritornati. Mi spaventava pensare che per quest'uomo, era meno rischioso camminare in piena vista dei carri armati che restare in casa. Avevo proprio paura che li avrebbero fucilati tutti, e ho cercato di mettermi in mezzo, tra loro e il carro armato. Questo succede tutti i giorni, ma proprio questo papà con i suoi due bambini così tristi, proprio lui ha colto la mia attenzione in quel particolare momento, forse perché pensavo che si fosse allontanato a causa dei nostri problemi di traduzione.
Ho pensato tanto a quello mi avete detto per telefono, di come la violenza dei palestinesi non migliora la situazione. Due anni fa, sessantamila operai di Rafah lavoravano in Israele. Oggi, appena 600 possono entrare in Israele per motivi di lavoro. Di questi 600, molti hanno cambiato casa, perché i tre checkpoint che ci sono tra qui e Ashkelon (la città israeliana più vicina) hanno trasformato quello che una volta era un viaggio di 40 minuti in macchina in un viaggio di almeno 12 ore, quando non impossibile. Inoltre, quelle che nel 1999 erano le potenziali fonti di crescita economica per Rafah sono oggi completamente distrutte: l'aeroporto internazionale di Gaza (le piste demolite, tutto chiuso); il confine per il commercio con l'Egitto (oggi con una gigantesca torre per cecchini israeliani al centro del punto di attraversamento); l'accesso al mare (tagliato completamento durante gli ultimi due anni da un checkpoint e dalla colonia di Gush Katif). Dall'inizio di questa intifada, sono state distrutte circa 600 case a Rafah, in gran parte di persone che non avevano alcun rapporto con la resistenza, ma vivevano lungo il confine.
Credo che Rafah oggi sia ufficialmente il posto più povero del mondo. Esisteva una classe media qui, una volta. Ci dicono anche che le spedizioni dei fiori da Gaza verso l'Europa venivano, a volte, ritardate per due settimane al valico di Erez per ispezioni di sicurezza. Potete immaginarvi quale fosse il valore di fiori tagliati due settimane prima sul mercato europeo, quindi il mercato si è chiuso. E poi sono arrivati i bulldozer, che distruggono gli orti e i giardini della gente. Cosa rimane per la gente da fare? Ditemi se riuscite a pensare a qualcosa. Io non ci riesco. Se la vita e il benessere di qualcuno di noi fossero completamente soffocati, se vivessimo con i nostri bambini in un posto che ogni giorno diventa più piccolo, sapendo, grazie alle nostre esperienze passate, che i soldati e i carri armati e i bulldozer ci possono attaccare in qualunque momento e distruggere tutte le serre che abbiamo coltivato da tanto tempo, e tutto questo mentre alcuni di noi vengono picchiati e tenuti prigionieri assieme a 149 altri per ore: non pensate che forse cercheremmo di usare dei mezzi un po' violenti per proteggere i frammenti che ci restano? Ci penso soprattutto quando vedo distruggere gli orti e le serre e gli alberi da frutta: anni di cure e di coltivazione. Penso a voi, e a quanto tempo ci vuole per far crescere le cose e quanta fatica e quanto amore ci vuole. Penso che in una simile situazione, la maggior parte della gente cercherebbe di difendersi come può. Penso che lo farebbe lo zio Craig. Probabilmente la nonna la farebbe. E penso che lo farei anch'io.
Mi avete chiesto della resistenza non violenta. Quando l'esplosivo è saltato ieri, ha rotto tutte le finestre nella casa della famiglia. Mi stavano servendo del tè, mentre giocavo con i bambini. Adesso è un brutto momento per me. Mi viene la nausea a essere trattata sempre con tanta dolcezza da persone che vanno incontro alla catastrofe. So che visto dagli Stati Uniti, tutto questo sembra iperbole. Sinceramente, la grande gentilezza della gente qui, assieme ai tremendi segni di deliberata distruzione delle loro vite, mi fa sembrare tutto così irreale. Non riesco a credere che qualcosa di questo genere possa succedere nel mondo senza che ci siano più proteste. Mi colpisce davvero, di nuovo, come già mi era successo in passato, vedere come possiamo far diventare così orribile questo mondo. Dopo aver parlato con voi, mi sembrava che forse non riuscivate a credere completamente a quello che vi dicevo. Penso che sia meglio così, perché credo soprattutto all'importanza del pensiero critico e indipendente. E mi rendo anche conto che, quando parlo con voi, tendo a controllare le fonti di tutte le mie affermazioni in maniera molto meno precisa. In gran parte questo è perché so che fate anche le vostre ricerche.
Ma sono preoccupata per il lavoro che svolgo. Tutta la situazione che ho descritto, assieme a tante altre cose, costituisce un'eliminazione, a volte graduale, spesso mascherata, ma comunque massiccia, e una distruzione, delle possibilità di sopravvivenza di un particolare gruppo di persone. Ecco quello che vedo qui. Gli assassini, gli attacchi con i razzi e le fucilazioni dei bambini sono atrocità, ma ho tanta paura che se mi concentro su questi, finirò per perdere il contesto. La grande maggioranza della gente qui, anche se avesse i mezzi per fuggire altrove, anche se veramente volesse smetterla di resistere sulla loro terra e andarsene semplicemente (e questo sembra essere uno degli obiettivi meno nefandi di Sharon), non può andarsene. Perché non possono entrare in Israele per chiedere un visto e perché i paesi di destinazione non li farebbero entrare: parlo sia del nostro paese che di quelli arabi. Quindi penso che quando la gente viene rinchiusa in un ovile - Gaza - da cui non può uscire, e viene privata di tutti i mezzi di sussistenza, ecco, questo credo che si possa qualificare come genocidio. Anche se potessero uscire, credo che si potrebbe sempre qualificare come genocidio. Forse potreste cercare una definizione di genocidio secondo il diritto internazionale. Non me la ricordo in questo momento. Spero di riuscire con il tempo a esprimere meglio questi concetti. Non mi piace usare questi termini così carichi. Credo che mi conoscete sotto questo punto di vista: io do veramente molto valore alle parole. Cerco davvero di illustrare le situazioni e di permettere alle persone di tirare le proprie conclusioni. Comunque, mi sto perdendo in chiacchiere. Voglio solo scrivere alla mamma per dirle che sono testimone di questo genocidio cronico e insidioso, e che ho davvero paura, comincio a mettere in discussione la mia fede fondamentale nella bontà della natura umana.
Credo che sia una buona idea per tutti noi, mollare tutto e dedicare le nostre vite affinché ciò finisca.
Sento altre forti esplosioni fuori, lontane, da qualche parte. Quando tornerò dalla Palestina, probabilmente soffrirò di incubi e mi sentirò in colpa per il fatto di non essere qui, ma posso incanalare tutto questo in altro lavoro. Venire qui è stata una delle cose migliori che io abbia mai fatto. E quindi, se sembro impazzita, o se l'esercito israeliano dovesse porre fine alla loro tradizione razzista di non far male ai bianchi, attribuite il motivo semplicemente al fatto che io mi trovo in mezzo a un genocidio che io anch'io sostengo in maniera indiretta, e del quale il mio governo è in larga misura responsabile.
Voglio bene a te e a papà. Scusatemi il lungo papiro. OK, uno sconosciuto vicino a me mi ha appena dato dei piselli, devo mangiarli e ringraziarli.
Rachel

28 febbraio 2003

(alla madre)
Grazie, mamma, per la tua risposta alla mia e-mail. Mi aiuta davvero ricevere le tue parole, e quelle di altri che mi vogliono bene.
Dopo averti scritto ho perso i contatti con il mio gruppo per circa dieci ore: le ho passate in compagnia di una famiglia che vive in prima linea a Hi Salam. Mi hanno offerto la cena, e hanno pure la televisione via cavo. Nella loro casa le due stanze che danno sulla facciata sono inutilizzabili perché i muri sono crivellati da colpi di arma da fuoco, perciò tutta la famiglia - padre, madre e tre bambini-dorme nella stanza dei genitori. Io ho dormito sul pavimento, accanto a Iman, la bimba più piccola, e tutti eravamo sotto le stesse coperte. Ho aiutato un po' il figlio maschio con i compiti d'inglese e abbiamo guardato tutti insieme Pet Semetery, che è un film davvero terrificante. Penso che per loro sia stato un gran divertimento vedere come quasi non riuscivo a guardarlo. Da queste parti il giorno festivo è venerdì, e quando mi sono svegliata stavano guardando i Gummy Bears doppiati in arabo. Così ho fatto colazione con loro, e sono rimasta un po' lì seduta così, a godermi la sensazione di stare in mezzo a quel groviglio di coperte, insieme alla famiglia che guardava quello che a me faceva l'effetto dei cartoni della domenica mattina.
Poi ho fatto un pezzo di strada a piedi fino a B'razil, che è dove vivono Nidal, Mansur, la Nonna, Rafat e tutto il resto della grande famiglia che mi ha letteralmente adottata a cuore aperto. (A proposito, l'altro giorno, la Nonna mi ha fatto una predica mimata in arabo: era tutto un gran soffiare e additare lo scialle nero. Sono riuscita a farle dire da Nidal che mia madre sarebbe stata contentissima di sapere che qui c'è qualcuno che mi fa le prediche sul fumo che annerisce i polmoni). Ho conosciuto una loro cognata, che è venuta a trovarli dal campo profughi di Nusserat, e ho giocato con il suo bebè.
L'inglese di Nidal migliora di giorno in giorno. È lui a chiamarmi "sorella". Ha anche cominciato ad insegnare alla Nonna a dire "Hello. How are you?" in inglese. Si sente costantemente il rumore dei carri armati e dei bulldozer che passano, eppure tutte queste persone riescono a mantenere un sincero buon umore, sia tra loro che nei rapporti con me. Quando sono in compagnia di amici palestinesi mi sento un po' meno orripilata di quando cerco di impersonare il ruolo di osservatrice sui diritti umani o di raccoglitrice di testimonianze, o di quando partecipo ad azioni di resistenza diretta. Danno un ottimo esempio del modo giusto di vivere in mezzo a tutto questo nel lungo periodo. So che la situazione in realtà li colpisce - e potrebbe alla fine schiacciarli - in un'infinità di modi, e tuttavia mi lascia stupefatta la forza che dimostrano riuscendo a difendere in così grande misura la loro umanità - le risate, la generosità, il tempo per la famiglia - contro l'incredibile orrore che irrompe nelle loro vite e contro la presenza costante della morte. Dopo stamattina mi sono sentita molto meglio.
In passato ho scritto tanto sulla delusione di scoprire, in qualche misura direttamente, di quanta malignità siamo ancora capaci. Ma è giusto aggiungere, almeno di sfuggita, che sto anche scoprendo una forza straordinaria e una straordinaria capacità elementare dell'essere umano di mantenersi umano anche nelle circostanze più terribili - anche di questo non avevo mai fatto esperienza in modo così forte. Credo che la parola giusta sia dignità. Come vorrei che tu potessi incontrare questa gente. Chissà, forse un giorno succederà, speriamo.
Rachel

Traduzioni di Miguel Martinez, Lucia De Rocco, Silvia Lanfranchini, Nora Tigges Mazzone, Andrea Spila
(Traduttori per la Pace)

10.4.03

I VINCITORI


da Gianni Guasto

Siamo circondati da vincitori. Dappertutto si vedono facce distese, sorridenti, il sollievo per lo scampato pericolo ha riaggiustato i foulards attorno al collo delle inviate delle reti televisive, che fino a ieri sera erano spettinate e senza trucco, mentre i rottweiler della carta stampata, guidati dallo stracomandante Ferrara, sembrano voler piantare i denti sui microfoni dei talk show del tempo di guerra. E le immagini degli irakeni che saltano e ballano (uno mostra eccitato un cerchione di macchina, un altro ha rubato un mazzo di fiori, a ricordarci che ai poveri basta il pensiero) si alternano a quelle dei leopardi di Washington, che centellinano con glaciale compostezza, l'annuncio di pazienze future, per gli stati che non ci vorranno provare.

Ma quello che impressiona di più è qui: sacerdoti del l'avevo previsto, giustizieri della sinistra che ha perso la guerra, agit-prop dell'abbiamo abbattuto Saddam, si crogiolano nei lustrini della vittoria, impettiti sulle sedie di Vespa, come se fossero le torrette dei tanks che sfilano su piazza Paradiso.

In queste ore in cui tutti hanno vinto, l'unico che ha la faccia del cane bastonato è Blair: forse per lui la vittoria non sarà così piena, a lui la Storia non potrà riservare il ruolo di aver rimesso l'Inghilterra alla testa di un impero, e neppure quello di aver guidato la compagine europea verso un'identità nuova, avendo tuttavia fatto il possibile perché gli USA avessero di nuovo il loro impero, senza che una nuova identità europea potesse impensierirli.



A guardar bene le televisioni, ci sarebbe da aspettarsi un po' più di mestizia, visto che la maggior parte di quelli che parlano sono europei, e visto che questa vittoria getta una pesante ipoteca sul futuro della UE. Chissà che cosa ci guadagneranno da questa sconfitta. Chissà se davvero ora si sentono al sicuro dal terrorismo. Chissà se davvero ora non avranno più nulla da temere dal Medio Oriente.



O forse hanno paura, forse è gente cui il sangue, le urla, le bombe e la morte fanno impressione. Pecore matte che si siedono sulla torretta del tank per l'ossessione che il cannone possa girarsi contro di loro.

Vittime mancate, che, dopo anni di esercizio, hanno vinto la battaglia contro loro stessi:



"... ogni cosa era al suo posto, ora, tutto era definitivamente sistemato, la lotta era finita. Egli era riuscito vincitore su se medesimo. Amava il Grande Fratello". (G.O.)

Americani per fifa

di Alessandro Robecchi, Il Manifesto 6 Aprile 2003

E' una continua esortazione, anzi un appello, anzi una preghiera, o forse addirittura un ordine: state attenti a non diventare anti-americani. E' il ritornello del momento. Lo ripetono ossessivamente tutti, da destra a sinistra, pensatori (?) di area fassiniana, ex radicali imbolsiti, commentatori democratici, intellettuali mitteleuropei, politici di prima, seconda e terza fila, salottieri televisivi, leader ulivisti, giocatori di tele-risiko e riformisti coi baffetti. Pare che davanti alle bombe (americane) che cadono, il problema più impellente sia mettere in guardia gli italiani dall'anti-americanismo, morbo più diffuso della polmonite atipica e più rischioso della mucca pazza. Per carità! Mi raccomando! Con divertenti corollari e argomentazioni parallele: diventare anti-americani è controproducente. Non è fine. E' antistorico. Eccetera, eccetera. Sorprendentemente, i più accesi anti-anti-americani albergano nelle fila di chi, prima della guerra, era moderatamente contrario alla guerra. Ma ora - strabiliante testacoda - la guerra c'è e quindi facciamo il tifo per l'aggressore: l'incendio non piace, certo, ma mi raccomando, non diventate anti-piromani, che non è elegante. Purtroppo, facendo la guerra, l'America si mette in mostra. Usa armi di sterminio di massa, le stesse che voleva spolettare a Baghdad e pure peggio. E in più si disvela nei dettagli, nei particolari. Enormi hurrà e peana patriottici hanno accolto la liberazione della soldatessa Jessica.

E la sua storia è stata sbandierata dalla propaganda filo-americana come un vessillo: guardate qui l'America, poverina, è andata in guerra per pagarsi gli studi e diventare maestra. Propaganda ad alto rischio di autogol: in quale schifo di paese si deve andare ad ammazzare la gente per pagarsi gli studi? Qui da noi, dopotutto, basta fare le magistrali. Ma il ritornello non si ferma: l'importante è che il popolo italiano non diventi anti-americano, da qui la massiccia profilassi di parole per evitare il contagio. E a ben vedere l'epidemia sarebbe devastante: negli ultimi decenni chi si è ammalato di anti-americanismo è quasi sempre morto. Vietnamiti, boliviani, cileni, palestinesi, irakeni, panamensi, abitanti dell'isola di Grenada, afghani, nicaraguensi, somali, haitiani: tutti quelli che hanno contratto il morbo sono stati curati con pillole al piombo di diverso calibro, quasi mai salvando la pelle.

Ora, letti e compulsati i documenti programmatici della banda Bush, che teorizzano il «nuovo secolo americano» da instaurare a bastonate sulla capoccia del mondo, si capisce il timore dei nostri intellettuali a frammentazione. L'equazione è semplice: se per la presidenza Bush (scritto nero su bianco) «la guerra non è un rischio, ma un'opportunità», allora è meglio stare allineati e coperti, prima di trovarci un domani nella lista dei paesi-canaglia. Di tutte le argute riflessioni che implorano il paese di non diventare anti-americano, ce n'è una che è la più semplice, efficace e incontestabile: la fifa.

La stessa ferrea motivazione che alle elementari ci faceva subdolamente stringere amicizia con il più aggressivo e muscoloso dei compagni: meglio amico di quello che mena che essere menati. Certo la lista è lunga (anche quella è nero su bianco nel programmino del Nuovo Secolo Americano): Iran, Siria, Corea del Nord per antipasto. Ma intanto i discoli (Russia, Cina, Francia, Germania) vengono messi in castigo, spediti a nanna senza la cena degli appalti. Per ora. Poi, se si ostineranno a intralciare il programma, ci saranno schiaffoni anche per loro e non a caso nei documenti della banda Bush la Francia è già definita, senza giri di parole come «nemica».

Dunque l'accorato appello al popolo italiano che gira a ciclo continuo e che mette in guardia dalla balzana idea di diventare anti-americani ha una sua nobile giustificazione: amici, salvate la pelle. E' una realpolitik di rara efficacia che somiglia in modo impressionante a un consiglio del medico curante dispensato a tutta l'Europa. Cari pazienti: diventare filo-americani, non essere ostili, sorridere comprensivi è oggi il miglior vaccino contro future ferite da cluster bombs. Pensateci. Prevenire oggi è meglio che essere curati domani con l'uranio impoverito.

9.4.03

IRAQ: La bomba al panzanio


di STEFANO BENNI (DAL MANIFESTO)

I mortiferi B 52 , le testate chimiche, le bombe a grappolo, la minibomba nucleare a gittata federalista, la superbomba tagliamargherite. Ma fra tutte le armi impiegate in questa sporca guerra la più letale è senz'altro la bomba P, ovvero bomba al panzanio arricchito, quella che esplodendo sparge intorno a sé decine di panzane, bugie e omissioni, notizie false e sfilate di tank al posto dei corpi massacrati. E' molto più potente della vecchia Bomba Propaganda, usata da ogni esercito e regime. E' centuplicata dai caporalmaggiori dell'informazione, ed è pianificata nei computer della Cia, il cervello paranoico della più grande ex-democrazia del mondo. Ecco alcune delle bombe al panzanio già scoppiate o pronte a esplodere. I marines hanno occupato l'aeroporto di Baghdad senza incontrare resistenza. Purtroppo durante la scaramuccia un colpo di bazooka ha centrato il nastro dei bagagli. Un gruppo di passeggeri di ritorno dalla Maldive, esasperato dal ritardo, ha attaccato le forze angloamericane con inaspettata violenza, facendo uso di armi chimiche quali spray antizanzare. La battaglia in corso è dura, ma l'aeroporto sarà conquistato entro poche ore o qualche mese.

Le truppe inglesi hanno il completo controllo di Bassora.

L `esercito americano è entrato a Baghdad tra due ali di folla festante. Non un solo colpo è stato sparato. I bambini festanti e superstiti mostravano ritratti di Bush e Topolino. Un uomo è andato incontro al marines ed è letteralmente esploso per la gioia.

Una donna, bombardata in ospedale, ha dichiarato che lo choc l'ha liberata da una forma d'asma di cui soffriva da anni. Il Pentagono ha accertato che i missili caduti sul mercato di Baghdad non sono americani, ma sono stati lanciati da un'associazione di consumatori iracheni esasperati dal rincaro delle verdure.

Le truppe inglesi sono entrate a Bassora malgrado la strenua resistenza opposta dal fuoco amico. Ora Bassora è tutta controllata a eccezione delle case con numeri dispari.

Sono state trovate nelle città irachene numerose bombe atomiche di fabbricazione cinese, oltre a dodici campi d'addestramento per terroristi travestiti da campi di calcio. L'operazione antiamericana era stata chiamata in codice «campionato di serie A».

I marines hanno sotto controllo la sala Vip e metà delle piste dell'aeroporto di Bagdad, ma per uno sciopero dei controllori di volo non possono ancora far atterrare i B 52.

Nessuno screzio tra Rumsfeld, Powell e i generali americani. In un cordiale incontro svoltosi al Pentagono tutti sono stati d'accordo sulla bontà della strategia usata e sulle tattiche future. Lo stesso Rumsfeld è uscito dalla sala per incontrare i giornalisti. Alla domanda: come mai è venuto qui lanciato dalla finestra, Rumsfeld ha riposto: avevo fretta di parlarvi.

Non ci ha mai interessato il petrolio, ha detto Bush in conferenza stampa, non sapevo neanche che in Iraq ci fosse il petrolio. Quando ero socio con Bin Laden lui me lo diceva sempre, ma pensavo che scherzasse. Non è vero che sono pagato dai petrolieri e dai mercanti d'armi. E' come dal benzinaio. Mi danno un bollino-premio ogni dieci nemici eliminati. Ho già vinto la giacca militare e lo stereo, con altri mille punti prendo il telefonino.

Nessun lite tra Tony Blairforce e George Wermachtbush sul futuro dell'Iraq. Secondo Blair il governo dell'Iraq dovrà essere retto da iracheni, mentre per Bush il parlamento sarà locale ma il presidente del consiglio potrebbe essere un tecnico o un bipartisan. I candidati sono: Arnold Schwarzenegger, Laura Bush e il presidente della Esso.

Gli inglesi sono entrati a Bassora, sono usciti di slancio, hanno passato due volte il Tigri e l'Eufrate, poi hanno fatto un'inversione a U e sono stati visti dirigersi verso la periferia di Istanbul. Si ignora dove siano adesso.

Bush ha detto che la vittoria è vicina. Saddam gli ha riposto in televisione che vincerà lui. Bush ha detto che la risposta di Saddam era una videocassetta registrata e sullo sfondo si vedeva un albero di Natale. Saddam ha replicato che Bagdad ha viveri per sette mesi. Bush ha chiesto altri duecentomila soldati. Saddam ha detto che ha usato solo un terzo delle forze. Bush ha detto che ce l'ha più lungo. Saddam ha tirato giù le braghe a un sosia. Questi sono uomini.

Non si hanno notizie sulla sorte di Bin Laden ma pare che stia per ricomparire con un video molto costoso diretto da Spielberg.

I marines hanno conquistato l'aeroporto di Bassora dopo aver piegato la resistenza delle truppe inglesi, o viceversa, attendiamo notizie più precise.

Il Pentagono ha precisato che Peter Arnett è stato licenziato non perché aveva parlato male dell'America, ma perché aveva parlato al telefono con Luttazzi.

Notizie dalla più grande base militare Usa del mondo, Camp Italy. Il presidente Ciampi ha dichiarato che non manderemo soldati italiani in Iraq per una decisione autonoma e sovrana, ovvero perché non ce li hanno chiesti. Il premier Silvio W. Berlusconi, borsanerista e approfittatore anche in tempo di pace, approfitta naturalmente della guerra per fare affari, per impossessarsi di Mediobanca e del Corsera, per tentare di salvare il soldato Previti e per far passare la legge Gasparri che secondo il premier prevede entro il 2005 la sostituzione della Pay Tv con la My Tv. Il balilla Casini, tanto imparziale da essere ormai definito il Moreno della Camera, ha difeso il privilegio che guida ogni giorno e ogni atto dell'illegalità democratica italiana, cioè la prepotenza di comportarsi da maggioranza anche quando non lo si è più. Il ministro Pisanu ha detto che i pacifisti devono isolare i provocatori e i violenti, e i pacifisti hanno risposto che loro Fini non lo vedono da mesi. Il ministro dei Rapporti con il parlamento americano, Cipollino Frattini, ha detto che i parà usciti dalla caserma di Vicenza non sono andati in guerra. Metà sono a puttane e metà galleggiano in aria per un gioco di correnti ascensionali. Dopodiché Berlusconi, proprietario del novanta per cento dell'informazione e della pubblicità, ha detto che sui giornali i pacifisti antigovernativi hanno anche troppo spazio, e che le bandiere rosse sono un simbolo sanguinario e lo spaventano, perché i fascisti come lui se le sono trovate troppo spesso contro durante la resistenza. Per finire, ha ribadito che la ricostruzione dell'Iraq non gli interessa. Il depliant degli oleodotti Fininvest era già stato stampato prima della guerra.

Questa ultima bomba P è sembrata troppo grossa anche agli americani per sganciarla.

Bassora è stata conquistata dai turchi.

Le truppe americane controllano finalmente l'aeroporto di Damasco. E' un errore scusabile, ha detto Powell, non capiamo la segnaletica araba .

E anche quella cinese, ha aggiunto Rumsfeld.

Il ruolo dell'Onu nella ricostruzione nell'Iraq è ancora da definire, ha detto Powell. Ma potrebbero aiutarci a caricare le taniche.

Nell'ultima conferenza stampa prima di partire per il week -end, Bush ha dichiarato: non abbiamo mai confuso il terrorismo di Geronimo con il popolo pellerossa, e la riprova è che gli Apache hanno mantenuto la propria nazione e un parlamento autonomo. Inoltre sono già pronti gli aiuti umanitari per i bambini siriani e coreani. Chi vuol capire, capisca.

3.4.03

ESPOSTO DENUNCIA DI FAUSTO CERULLI, AVVOCATO, CONTRO SILVIO BERLUSCONI, PREMIER


Il sottoscritto Fausto Cerulli, nato a ------- il---------, di professione avvocato, dom.to in -------------,

espone:


in occasione dell’intervento militare delle forze angloamericane in Iraq, il governo italiano, formalmente non coinvolto nelle operazioni belliche, dichiarava comunque di comprenderne le motivazioni, augurandosi che il governo legittimo dell’Iraq fosse defenestrato attraverso le suddette operazioni belliche. Il tutto mentre i rapporti diplomatici tra Italia ed Iraq vengono mantenuti, con la permanenza di regolare rappresentanza diplomatica dell’ Iraq nel nostro Paese. Successivamente, essendosi diffusa la notizia che aerei statunitensi erano decollati da una base americana situata in territorio italiano, trasportando truppe che sarebbero state paracadutate in territorio irakeno, il Presidente del Consiglio on. Silvio Berlusconi chiariva che l’autorizzazione alla missione U.S.A era stata concessa in quanto le truppe aviotrasportate risultavano destinate a missioni umanitarie. La dichiarazione del Presidente del Consiglio veniva immediatamente smentita dal comandante delle operazioni angloamericane in Iraq, che affermava che le truppe in questione erano destinate ad azioni belliche: il che risulta confermato da recenti informazioni diffuse dalla stampa internazionale, secondo le quali le truppe trasportate dagli aerei USA decollati dal territorio italiano stanno invadendo in armi il fronte occidentale dell’Iraq in appoggio a forze paramilitari curde.

D’altra parte il Presidente del Consiglio dei Ministri on. Berlusconi ha mostrato di essere al corrente delle possibili conseguenze dell’atteggiamento assunto dal Governo da lui presieduto, proclamando lo stato di emergenza nel territorio italiano.

Da quanto sopra esposto emerge che il Presidente del Consiglio si è reso responsabile del reato p.e p, dall’art. 244 cpv del codice penale. Sotto il profilo oggettivo in quanto l’atteggiamento assunto dal Governo non può non inquadrarsi nella fattispecie prevista dall’articolo sopra citato, avendo il Governo stesso posto in essere atti ostili allo Stato estero Iraq; sia con l’autorizzazione al decollo dal territorio italiano di aerei destinati ad operazioni militari contro l’Iraq, sia con i ridicoli tentativi di coprire con inesistenti finalità umanitarie la destinazione ad operazioni belliche delle truppe trasportate da quegli aerei: sia con un complesso di pubbliche dichiarazioni tese a delegittimare il governo irakeno.

Il tutto in una situazione di conclamata assenza di stato di belligeranza nei confronti dell’ Iraq.

E’ evidente che un tale comportamento ha posto e pone il territorio italiano in situazione tale da essere oggetto di eventuali ritorsioni o rappresaglie da parte dello Stato estero in questione. Il che conferma la sussistenza del reato p.e p. dall’art. 244 cpv c,p.

Per quanto attiene all’elemento soggettivo, dal quale si potrebbe comunque prescindere in sede di configurazione della ipotesi criminosa in questione, si fa rilevare che il Presidente del Consiglio, nel dichiarare lo stato di emergenza sul territorio italiano, ha dimostrato di essere perfettamente consapevole della fattispecie criminosa posta in essere: al punto da predisporre le misure opportune a prevenire le preventivabili conseguenze della fattispecie criminis.

Per quanto esposto, il sottoscritto sporge formale

DENUNCIA


nei confronti dell’on. Silvio Berlusconi, attuale Presidente del Consiglio dei Ministri, chiedendo l’apertura di un procedimento nei suoi confronti per violazione dell’art.244 c.p o per qualsiasi altra fattispecie criminosa da ravvisare nel sopradescritto comportamento del Governo presieduto dal suddetto Silvio Berlusconi.

Chiede la condanna dello stesso alle pene di legge.

Porano, Orvieto.

Avv. Fausto Cerulli

2.4.03

CESARE PREVITI INVITA A CENA FERRUCCIO DE BORTOLI
FERRUCCIO DE BORTOLI RISPONDE: NO, GRAZIE



Lettera di Cesare Previti al Corriere della Sera


Gentile direttore, sì, lo ammetto, confesso tutto: sono stato a cena con il dottor Nordio. Io, malfattore impresentabile e infrequentabile, ancorché innocente e incensurato, ho osato dividere il desco con persona tanto degna, mettendone a rischio carriera e rettezza morale. Anzi, Egli, ex procuratore di Venezia (zona geografica tanto cara all’estensore dell’articolo) e autorevolissimo presidente della commissione che sta scrivendo il nuovo codice penale, si è macchiato della più grave delle colpe: sedersi al tavolo con me, mostro, oggetto di una rinnovata caccia all’uomo, divora-magistrati. Non contento, ha scelto come altro commensale, una «primula rossa» del giornalismo: latitante, e non esule, perché a rischio-carcere per aver osato scrivere contro quella magistratura che ha mandato a morte Enzo Tortora. Addirittura, il dottor Nordio si è fatto pizzicare a frequentare lo stesso ristorante di un senatore a vita-omicida, condannato a 24 anni di carcere, anche se tutti - a partire da me - lo considerano innocente. Grave, gravissimo, imperdonabile.
Non sapeva, il dottor Nordio che io solitamente ceno con le tasche piene di buste gonfie di denaro per la corruzione dei suoi colleghi? Non sapeva, Egli, che io cercavo di estorcergli una modifica al codice in gestazione per l’eliminazione del reato di corruzione (ancor meglio di corruzione in atti giudiziari)? Già, perché l’articolo pubblicato dal suo giornale, talmente velenoso da meritare un corsivo, non puntava a Cesare Previti, puntava a colpire Carlo Nordio. Perché Cesare Previti non è più l’obiettivo da colpire, è diventato lo strumento per infangare e sputtanare chiunque. Chi si accompagna alla mia persona è infamato per sempre, distrutto, polverizzato. A questo livello si è ormai giunti: sono stato talmente demolito nella mia immagine, sono stato tanto compromesso dai media-megafoni della magistratura militante, che rappresento il colpo di grazia per decretare la fine della carriera di chi mi frequenta.
Quindi confesso tutto. Confesso che ieri ero soddisfatto, perché per la prima volta la Corte d’Appello ha giudicato ammissibile una mia richiesta di ricusazione nei confronti del giudice che mi sta processando a senso unico (in tre anni di processo non ha accolto una sola - lo ripeto, una sola e se vuole le esibisco la documentazione - delle mie istanze: possibile che io e i miei avvocati si sia tanto sprovveduti?). Ero soddisfatto fino a quando non ho letto la «verità» sul suo giornale. Ma quale parziale vittoria: l’ammissibilità è solo la pala che serve per scavare ancor più profonda la fossa del deputato-imputato (così scrive di me un altro suo giornalista) Previti. Neanche per un istante è balenato nella mente e nella penna di chi scrive le cronache del processo dalle pagine del Corriere della Sera - non del Corriere dei Piccoli , con il più profondo rispetto per il famoso «giornalino» - che la mia questione sulla competenza possa essere più che fondata.
La soddisfazione, dicevo, ha lasciato il posto alla sorpresa: ancora una volta avevo capito male, pensavo che a Milano ci fosse un giudice desideroso di fare il suo dovere, mentre invece, a leggervi, c’è l’ennesimo giudice che sta studiando come un pazzo sui codici solo per trovare l’ennesimo modo per fregarmi. E per fregarmi sul serio, in modo che io non possa più nuocere.
Confesso: ormai sono consapevole che anche il suo giornale si è unito definitivamente alla schiera di quelli che implorano «condannate l’imputato Previti» e, all’occorrenza, svuotate di ogni autorevolezza tutta quell’accozzaglia di suoi amici e collaboratori - docenti universitari, avvocati, giuristi, certamente non del livello di quanti hanno l’onore di comparire sul suo giornale e con sudore cercano mille cavilli e pertugi per demolire ogni mia mossa processuale. È vero, c’è stato un tempo in cui si poteva leggere qualche «firma» che aveva almeno il tarlo del dubbio sulla conduzione scriteriata e omicida dei processi milanesi (omicida nel senso che quei dibattimenti sono degli zombie, dei morti che camminano).
Finalmente ho vuotato il sacco, ho confessato quanto avevo da confessare: sono perfettamente consapevole di essere la macchia sulla cravatta di quanti incrociano la mia persona sul loro cammino. Questo avevo da confessare. Come? E la corruzione di magistrati? Quei quattrini senza un’apparente - per voi - giustificazione? Questa è un’altra storia. Chiara, facilmente spiegata e dimostrata, con un finale già scritto: assoluzione perché il fatto non sussiste. Un finale che io, fiducioso, sono convinto sarà scritto - non so quando - davanti a un giudice, il mio giudice, il giudice naturale di Perugia.
P.s. A quando una cena insieme io e lei?

Cesare Previti

Ferruccio De Bortoli rispoende: No grazie.



Ma quanto e' malvagio Saddam Hussein?



di Dario Fo, Franca Rame e Jacopo Fo

La guerra si fa sempre piu' vicina e apparentemente inarrestabile. Stati Uniti e Impero Britannico continuano a ripetere che Saddam e' troppo malvagio e pericoloso per essere lasciato al suo posto. L'infuriare del dibattito sulla guerra ha pero' oscurato l'esatta valutazione delle colpe di Saddam Hussein. Incredibilmente sono usciti pochissimi articoli dedicati alla ricostruzione della storia criminale di questo dittatore.
E puo' apparire molto strano che cio' accada. Ma come? I potenti devono dimostrare che Saddam e' l'incarnazione del male eppure i media accennano solo vagamente al non rispetto dei diritti umani, alle violenze, alle barbarie, ai crimini contro l'umanita', compiuti da questo serial killer?
Strano perche' generalmente la societa' dello spettacolo non e' avara di informazioni quando si tratta di demolire un nemico pubblico numero uno. Ma con Saddam Hussein questa regola non vale. Ci siamo chiesti a lungo come mai ci sia questa incomprensibile lacuna e alla fine siamo riusciti a decifrare il mistero. Per una serie di casualita' fortunate siamo entrati in possesso della registrazione del dialogo tra un giornalista e il direttore di una rete televisiva (che per ovvie ragioni di riservatezza non possiamo nominare), un dialogo che riguarda proprio la trasmissione di un documentario sui crimini di Saddam Hussein.
Eccolo:


DIRETTORE: "Allora e' pronta la scaletta di questo servizio?"
GIORNALISTA: Si certo. Partiamo con un pezzo sulla tortura in Irak. Scosse elettriche, frustate, stupri. La particolarita' dell'uso della tortura in Irak e' la vastita'. Migliaia di persone vengono torturate non per conoscere da loro informazioni ma solo per ottenere uno stato di terrore diffuso. Si tratta di una tortura preventiva praticata a livello industriale. Una manifestazione della forza del potere.
DIRETTORE: "Bene, ottimo, e poi?"
GIORNALISTA: Poi parlerei della corruzione del potere, della soppressione delle liberta' elementari, di intrusione insopportabile nella vita economica. Solo chi e' amico di Saddam Hussein puo' fare affari in Iraq. Anche a livello internazionale l'economia irachena e' basata sulle amicizie del dittatore. Non a caso la Francia e' contraria alla guerra. Sono i principali alleati economici dell'Irak. Se gli Usa vincono la guerra sono fuori dal gioco."
DIRETTORE: "Bene ma sorvoliamo sul fatto che se gli Usa vincessero la guerra si troverebbero a controllare l'economia irachena...Non vorrei dar corda ai piagnistei
GIORNALISTA: "Va bene. Poi affronterei il capitolo di Hussein criminale contro l'umanita'."
DIRETTORE: "Bello su cosa e' incentrato?"
GIORNALISTA: "Hussein e' l'unico dittatore vivente ad aver infranto le convenzioni di Ginevra utilizzando gas contro popolazioni civili e soldati. Si tratto' di un vero e proprio massacro. Hussein e' un pessimo stratega e nel 1980 attacco' l'Iran dei fondamentalisti islamici convinto di conquistarlo rapidamente. Invece si trovo' a mal partito e quando l'esercito iraniano varco' il confine entrando in Iraq lui uso' vari tipi di gas letali contro le truppe."
DIRETTORE: "Bello, ci metta anche un pezzo di repertorio che dimostri che fin da allora gli Stati Uniti denunciarono questo crimine tremendo.
GIORNALISTA: "Non e' possibile."
DIRETTORE: "E perche'?"
GIORNALISTA: "Gli americani in quel periodo appoggiavano Saddam con tutte le loro forze. C'e' chi mormora che furono addirittura loro a procurare armi all'esercito iracheno. Erano terrorizzati all'idea che l'Iran potesse vincere la guerra."
DIRETTORE: "Ma cosa mi dice...Parrebbe quasi che siano stati gli Stati Uniti a sostenere questo criminale...Non diciamo sciocchezze e saltiamo questo pezzo, e' troppo ambiguo..."
GIORNALISTA: "Va bene. Possiamo allora occuparci del genocidio del popolo curdo. Un vero martirio. Bombardamenti, uso di gas, massacri di interi villaggi, deportazioni e ancora una volta l'uso della tortura e dell'omicidio come sfoggio di potere. Si parla di centinaia di migliaia di morti in gran parte donne e bambini."
DIRETTORE: "Questo si. E qui abbiamo qualche presa di posizione degli Stati Uniti?"
GIORNALISTA: "No, perche' gli Usa erano preoccupati della presenza dei comunisti nel movimento di indipendenza curdo. Tra l'altro i curdi vivono in gran parte anche in Turchia che e' alleata degli Usa e che si e' adoperata con notevole ferocia per massacrare la parte dei curdi di sua competenza."
DIRETTORE: "Ma mi sta diventando comunista anche lei? Come si puo' dare in pasto ai telespettatori una storia cosi'...Potrebbero credere che noi si voglia delegittimare il presidente Bush...Lasciamo perdere."
GIORNALISTA: "Non sono comunista. Comunque va bene. Ci resta di parlare dello sterminio dell'opposizione politica interna. Saddam Hussein ha ucciso tutti quelli che non erano d'accordo con lui. E' arrivato ad ammazzare suoi intimi collaboratori, perfino i due mariti delle sue figlie. Un vero killer a tempo pieno."
DIRETTORE: "E adesso non mi dica che anche in questo caso non
abbiamo una qualche protesta statunitense, un'interpellanza all'Onu, qualcosa."
GIORNALISTA: "Lei mi accusa di essere troppo di sinistra ma non e' cosi'. Gli Stati Uniti a quei tempi dovevano difendere l'Occidente dalla minaccia comunista. I piu' grandi massacri avvennero alla fine degli anni settanta. Non potevano attaccare Saddam mentre il suo potere era minacciato dal potente partito comunista iracheno. C'era una ragione di stato da difendere. Cosa avrebbero dovuto fare: regalare alla dittatura sovietica il medio oriente? Si figuri che la forza dei comunisti era tale che Hussein dovette ammazzarne decine di migliaia prima di ridurli alla ragione."
DIRETTORE: "Si stiamo freschi. Adesso viene fuori che solo i comunisti si opponevano a questo criminale nazista. Ha trovato qualche cosa di piu' potabile?
GIORNALISTA:"Beh! potremmo raccontare del massacro di 500 mila bambini morti per mancanza di cibo e di cure negli ultimi dieci anni. Saddam ha continuato a spendere miliardi in armi e lussi sfrenati, facendosi costruire palazzi sotterranei e statue mentre il suo popolo moriva di stenti."
DIRETTORE: "No per carita', qui cadiamo nella questione dell'embargo, con i pacifisti che gridano che sono alla fin fine gli Usa gli ultimi responsabili di questo genocidio."
GIORNALISTA:"Allora ci resta solo il massacro dei ribelli: durante la guerra del 1991, ci furono decine di migliaia di morti, interi villaggi rasi al suolo...Ma
anche di questo non possiamo parlare perche' fu Bush padre a autorizzare Saddam all'uso degli elicotteri per bombardare le popolazioni che erano insorte sperando che la vittoria usa determinasse un cambio di regime..."
DIRETTORE: "Va beh! ho capito, lei e' un pessimo giornalista politico. La trasferisco allo spettacolo. Mi faccia un servizio sugli amori della Gerini. Dieci minuti non di piu'".

Dario Fo, Franca Rame, Jacopo Fo