27.3.06

BANANAS (FIRPO)

di Marco Travaglio - L'unità

Torino - Un giorno d'estate di metà anni 80 Luigi Firpo se ne stava in poltrona nella sua villa sulla collina torinese con la moglie Laura. Faceva zapping in tv. Su Canale5 una graziosa signorina intervistava il padrone, Silvio Berlusconi. E ne magnificava l'enorme bagaglio culturale: "Lei è anche un grande studioso dei classici…". Il Cavaliere si schermiva: "Ma no, non dica così…". E lei: "Sì, invece, non faccia il modesto. Lei, dottore, ha appena pubblicato un'edizione pregiata dell' Utopia di Tommaso Moro, con una bellissima prefazione e una perfetta traduzione dal latino…". E lui: "Beh, in effetti il latino non lo conosciamo tutti, bisogna tradurlo…".
Firpo, grande intellettuale torinese, polemista della Stampa con i suoi "Cattivi pensieri", ma soprattutto docente universitario di Storia delle dottrine politiche e fra i massimi esperti di cultura rinascimentale, drizzò le antenne. Anche perché aveva da poco tradotto e commentato un'edizione dell'"Utopia" per l'editore Guida di Napoli. L'intervistatrice attaccò a leggere la prefazione del Cavaliere. Dopo le prime due frasi, l'anziano studioso fece un salto sul divano: "Ma quella prefazione è la mia! E' tutta copiata! Ma chi è questo signore? Ma come si permette?".
L'episodio è tornato in mente a Laura Salvetti Firpo, la vedova, qualche giorno fa, quando Silvio Berlusconi in una delle sue tele-esternazioni elettorali si è così descritto in terza persona: "Il presidente del Consiglio si è nutrito di ottime letture e ha un curriculum di studi rilevantissimo...". E' corsa in archivio, ha estratto una cartella intitolata "Berlusconi", ne ha cavato uno strano bigliettino autografo del Cavaliere e ha deciso di raccontarne il retroscena. "Era subito dopo le vacanze estive, credo in settembre. Firpo (lei lo chiama rispettosamente così, ndr), quando scoprì in tv che Berlusconi aveva copiato la sua versione dell'Utopia, si attaccò subito al telefono per avere quel libro. Gli risposero che era un'edizione privata, in pochi esemplari, riservata all'entourage del Cavaliere. Ma lui, tramite l'associazione milanese degli Amici di Thomas More, riuscì a procurarsi una copia in visione. La sfogliò e sbottò: 'Non è un plagio, è peggio!Quello ha copiato interi brani della mia prefazione e la mia traduzione integrale dal latino, mettendoci la sua firma. Non ha cambiato nemmeno le virgole!'. Prese carta e penna e scrisse a Berlusconi, intimando di ritirare subito tutte le copie e annunciando che avrebbe sporto denuncia. Qualche giorno dopo squillò il telefono di casa: era Berlusconi".
A questo punto inizia un irresistibile balletto telefonico, con il Cavaliere che cerca scuse puerili per placare l'ira dell'austero cattedratico, e questi che, sbollita la furia, si diverte a giocare al gatto col topo. Firpo si fa beffe del plagiatore smascherato, minacciando di mettere in piazza tutto e trascinarlo in tribunale. "Berlusconi -ricorda la moglie- incolpò subito una collaboratrice, che a suo dire avrebbe copiato prefazione e traduzione a sua insaputa. E implorò Firpo di soprassedere, pur precisando di non poter ritirare le mille copie già stampate e regalate ad amici e collaboratori. Firpo, capito il personaggio, cominciò a divertirsi alle sue spalle. Lo teneva sulla corda con la causa giudiziaria.E Berlusconi continuava a telefonare un giorno sì e un giorno no, con una fifa nera. Pregava di risparmiarlo, piagnucolava che uno scandalo l'avrebbe rovinato".
Pure Franzo Grande Stevens, famoso avvocato e consigliere di casa Agnelli, che di Firpo era amico anche per via della comune candidatura nel Pri, seguì la faccenda da vicino: "Firpo mi raccontò di quel plagio. Era esterrefatto. Anche perchè Berlusconi, anzichè scusarsi, davo la colpa a una segretaria: 'Eh professore, sapesse, qui non ci si può più fidare di nessuno…'. Poi cercò di rabbonirlo con regali costosi, che il professore rispedì sdegnosamente al mittente".
"Passava - ricorda la moglie Laura - intere mezz'ore al telefono col Cavaliere.E alla fine correva a raccontarmele, fra l'indignato e il divertito: 'Sapessi quante barzellette conosce quel Berlusconi. E' un mercante di tappeti, una faccia di bronzo da non credere, sembra di essere in una televendita". Il tira e molla si trascinò per diversi mesi. Anche con uno scambio di lettere, ancora riservate (saranno pubbliche solo nel 2009, vent'anni dopo la morte dello studioso). Per ora c'è solo quel bigliettino rimasto nei cassetti della signora Laura, visto che era indirizzato anche a lei: "Accompagnava un doppio regalo per Natale, credo del 1986.Nel frattempo Berlusconi aveva pubblicato un'edizione riveduta e corretta dell'Utopia, senza più la prefazione copiata e con la traduzione di Firpo regolarmente citata. Ma Firpo seguitava a fare l'offeso, ripeteva che la cosa era grave e la stava ancora valutando con gli avvocati. Un giorno lo invitarono a Canale5 per parlare del Papa e si ritrovò Berlusconi dietro le quinte che gli porgeva una busta con del denaro, 'per il suo disturbo e l'onore che ci fa'. Naturalmente la rifiutò.Poi a Natale arrivò un corriere da Segrate con un bouquet di orchidee che non entrava neppure dalla porta e un pacco:dentro c'era una valigetta ventiquattr'ore in coccodrillo con le cifre LF in oro". Il biglietto d'accompagnamento è intestato Silvio Berlusconi,datato "Natale 1986" (ma l'ultima cifra è uno scarabocchio) e scritto a penna: "Molti cordiali auguri ed a presto… Spero! Silvio Berlusconi". Poi una frase aggiunta a biro: "Per carità non mi rovini!!!".
Ma Firpo continuò il suo gioco: "Rispedì la borsa a Berlusconi, con un biglietto beffardo: 'Gentile dottore, la ringrazio della sua generosità, ma gli oggetti di lusso non mi si confanno: sono un vecchio professore abituato a girare con una borsa sdrucita a cui sono molto affezionato. Quanto ai fiori, la prego anche a nome di mia moglie Laura di non inviarcene più: per noi, i fiori tagliati sono organi sessuali recisi'…Non lo sentimmo mai più".

26.3.06

Allegria, arriva Macbeth-Silvio!

Satira preventiva di Michele Serra

Nei faccia a faccia Berlusconi intende rispettare scrupolosamente i tempi del dibattito, al quale però si presenterà a cavallo

L'ormai storico intervento di Berlusconi davanti ai confindustriali avrà un remake, come l''Esorcista'? Forse sì, anche se gli sceneggiatori del premier dubitano di poter ripetere la magia di quelle urla strozzate, di quello sguardo allucinato e specialmente la sequenza nella quale Berlusconi roteava la testa scandendo profezie in aramaico, mentre una pioggia di rane e fanghiglia si abbatteva sui convegnisti terrorizzati.

In ogni modo, lo staff del premier concorda su un punto: la tattica delirante non è solo spiazzante, è anche vincente. Incute timore nelle menti più fragili, e sta attirando sul presidente del Consiglio l'inaspettato favore degli ex sessantottini, nostalgici di Basaglia e sempre disposti a parteggiare per i soggetti marginali. Senza contare la tradizionale simpatia che suscita nei ceti popolari la figura del matto delle barzellette. Ecco le prossime tappe della campagna elettorale di Berlusconi, fondata sul potente e oscuro fascino della pazzia.

Faccia a faccia Nei faccia a faccia Berlusconi intende rispettare scrupolosamente i tempi del dibattito, al quale però si presenterà a cavallo. Il cavallo, secondo le regole, non dovrà essere inquadrato mentre parla Prodi, ma quando è il turno di Berlusconi potrà anche impennarsi, nitrire e accennare brevi sgambate nello studio. Arrivo e partenza del premier saranno accompagnati da musiche di Wagner da lui stesso eseguite con la bocca, e accompagnandosi con una mano sotto l'ascella per riprodurre il suono del bombardino.

Economia Per smentire il clima iettatorio e lagnoso alimentato dalla sinistra, il premier adotterà una strategia molto diretta: si presenterà senza preavviso, per non rovinare la sorpresa, presso alcune famiglie italiane, aprendo il frigorifero e magnificandone la qualità e la quantità del contenuto. Per essere più convincente, divorerà sul posto tutto quello riuscirà a reperire, sottolineando con schiocchi delle dita ed esclamazioni soddisfatte lo stato di evidente benessere nel quale versa il Paese. Durante un'incursione di prova in un caseggiato popolare di Rozzano, dopo avere vuotato il frigorifero, compresi un barattolo di senape e dieci seppie crude, il premier ha inghiottito, tra le risate e gli applausi dei presenti, anche i detersivi, giudicandoli ottimi e suggerendo alle massaie alcune ricette tradizionali. Per la gioia dei bambini, ha anche fatto le bolle di sapone con la bocca.

Liegi-Bastogne-Liegi Il premier vi prenderà parte, mentre ha deciso di disertare la Roubaix e il Giro delle Fiandre, a causa di precedenti impegni. Cercherà di evitare la volata, per non esporsi alle scorrettezze dei velocisti dell'Europa dell'Est, e dunque tenterà la fuga fin dai primi chilometri, che percorrerà in motocicletta a folle velocità, vestito come Louis De Funès nella 'Grande Fuga'.

Convention La classica performance del comizio solitario camminando su e giù per un palco gigantesco ha fatto il suo tempo, e soprattutto, nelle riprese filmate, Berlusconi si è accorto che in una scenografia così imponente sembra un nano fuggito dal circo. Ecco dunque un nuovo tipo di convention, più intima, meno dispersiva. Il premier, chiuso in una stanza piccolissima, riceve uno a uno i convegnisti, per pochi secondi ciascuno, urlandogli nelle orecchie con un megafono una frase di incoraggiamento, fino a che l'adepto cade in trance perdendo sangue dai timpani.

Look Basta con gli abiti di Caraceni, troppo formali. D'ora in poi solo look brillanti e spiritosi, in tono con la verve del premier: tailleur, divise da pompiere o da guardaboschi, tute da palombaro, completino da basket, e per gli appuntamenti pubblici più importanti gli abiti di scena originali di Lawrence Olivier nel 'Macbeth'.

Riassunto Il Berlusconi che concluderà alla grande la campagna elettorale sarà un uomo a cavallo o in motocicletta, vestito come 'Macbeth', che grida in un megafono, partecipa alle classiche del ciclismo e svaligia i frigoriferi.

21.3.06

Il rag. Matteoli laureato dal suo consulente
di Gian Antonio Stella - Corriere della Sera

L'ateneo di Perugia conferisce il titolo ad honorem al ministro Le motivazioni del preside: «Ha aiutato la nostra università»

Il ragionier ministro Matteoli Altero è stato promosso: diventerà ingegnere. Grati per aver ricevuto vari finanziamenti, come candidamente spiegano nella motivazione, i docenti dell'Università di Perugia hanno voluto infatti ricambiare. Così, scartata l'idea di donargli un orologio a cucù, una cravatta o un comò, hanno scelto di regalargli una laurea ad honorem. Un'opzione che non solo ha spaccato il consiglio di facoltà di ingegneria spingendo i soliti criticoni a denunciare un piacerino politico, ma apre un interessante dibattito: da quale quota scattano la lode, l'encomio e l'abbraccio finale? La fissa della laurea, in un Paese come il nostro affetto da importanzite, è come è noto devastante. Basti vedere come in questi anni le università, che nel '99 erano 41, sono raddoppiate in poco più di una legislatura diventando 80. Tra le quali diverse, come dimostrano gli interventi dell'Antitrust, hanno improbabili sedi alle Caymans o nel Siam, benedicono «dottori» taroccati con incredibili «degree» firmati dal «Segretario di Stato Usa» o vengono addirittura intestate, come ha fatto Francesco Ranieri a Villa San Giovanni, al nonno defunto.
Né la fissazione del pezzo di carta ha risparmiato il governo. Umberto Bossi, che nel maggio '93 emise addirittura una strepitosa delibera che diceva «tutti i deputati della Lega Nord sono pregati di iscriversi a un corso di laurea in giurisprudenza», ci ha ormai rinunciato. E dopo aver «organizzato tre feste di laurea senza essersi mai laureato» (parole della sorella Angela) ha smesso d'iscriversi a medicina dov'era stato fuori corso per una quindicina di anni. Ma ad altri è rimasto un chiodo in testa. Claudio Scajola lo risolse laureandosi davvero, Genova, a cinquant'anni passati, per essere all'altezza dei sospiri della mamma e delle pretese di Berlusconi: «Come faccio a darti il Viminale se non sei laureato? ». Mario Baccini, nel suo sito che gronda di onorificenze come un albero di cachi a novembre (da «Goodwill Ambassador» dell'Unido a «Gran Cruz» dell'Orden «Vasco Nunez» di Panama, dal Grado de «Gran Oficial» de la Republica de El Salvador a quello di Gran Oficial de la Republica Orientad del Uruguay) ha infilato ad esempio una laurea Honoris Causa dalla University of Berkley, che succhia notorietà tra i polli giocando sull'assonanza con la celebre università di Berkeley. Per non dire di Gianfranco Micciché che, con in mano la lettera di un amico universitario che lo invitava a «tenere delle lezioni a titolo gratuito» all'ateneo reggino, arrivò a scrivere nella biografia ufficiale, sollevando le ire del rettore: «Docente nel dottorato di ricerca dell'università di Reggio Calabria».
La laurea Honoris Causa in Ingegneria per l'Ambiente e il Territorio donata dall'Università di Perugia ad Altero Matteoli apre però scenari inediti. Che potrebbero dare soddisfazioni ad altri ministri non laureati. Nella sua relazione al Consiglio di Facoltà, il preside Corrado Corradini ha infatti spiegato in modo chiaro i motivi della elargizione accademica. Che sono, ovvio, molteplici. E partono dall'impegno di Matteoli sul fronte dei cambiamenti climatici, della eco-collaborazione coi Paesi emergenti, delle fonti rinnovabili alternative, dell'inquinamento, dei rifiuti (dove gli viene reso merito di avere varato «il Testo Unico che individua nuove e più precise norme per tutti gli impianti di incenerimento»), della mobilità e della difesa del suolo, in particolare per «l'adozione di 14 Piani di assetto idrogeologico». Fin qui, opinioni. Certo, molti ambientalisti (che gli storpiano il nome da «Altero» in «Attila») contestano a Matteoli tutto: dai ritardi nell'approvazione del piano nazionale di assegnazione delle emissioni varato solo a febbraio 2006 dopo vari richiami Ue e fuori tempo massimo di due anni, al silenzio sull'applicazione concreta del Protocollo di Kyoto, dal testo unico che prevede 103 inceneritori «rinunciando di fatto alla raccolta differenziata» all'«inerzia» sulla mobilità urbana. Per chiudere con le accuse più pesanti: avere accettato senza fiatare che il «suo» governo varasse il condono edilizio e non essersi battuto contro la nuova ondata di abusivismo, che avrebbe visto nei cinque anni «matteoliani» nascere 180 mila nuovi edifici fuorilegge. Ma restano, dicevamo, opinioni: su quale sia il modo giusto per tutelare l'ambiente le idee sono diverse. E tutte legittime.
Più interessanti, però, sono altri passaggi della relazione. Secondo i docenti umbri autori dell'iniziativa, il ministro merita la laurea anche perché «l'Ateneo di Perugia e la nostra Facoltà in particolare, hanno individuato nel settore dello sviluppo energetico sostenibile una delle principali linee di intervento in ambito di formazione, di ricerca e di gestione, e va ascritto all'on. Matteoli il merito di aver saputo cogliere le potenzialità in essere» e di «aver contribuito con più interventi dedicati ad assecondarle e incentivarle». Per essere ancora più chiaro, il preside precisa tutta una serie di attività «che hanno riguardato, con una serie di accordi di programma e convenzioni, l'Università degli Studi di Perugia». Dalla Costituzione del Centro di Ricerca sulle Biomasse a quella del Centro di Ricerca per la Meteorologia e Cambiamenti Climatici, dalla Istituzione della Scuola Superiore del Territorio, Ambiente, Management ai «Finanziamenti per progetti di ricerca e formazione». Tutte cose, dice papale papale Corradini, che «interessano direttamente e principalmente il nostro Ateneo» e in particolare la Facoltà di Ingegneria. Non vale dunque la pena di dimostrare riconoscenza al ministro per tanta attenzione? «Ma come: una laurea in cambio di finanziamenti?», son saltati su alcuni contestatori, «il suo curriculum è esclusivamente politico!». Niente da fare. Bocciata anche la proposta di rinviar la cosa a dopo il 9 aprile per rimuover quell'odore fastidiosamente elettorale. E via libera tra le proteste, con 71 voti su 110 aventi diritto, alla laurea. Interessante il nome del professore designato a promotore della cerimonia che incoronerà il ministro dell'Ambiente. Si chiama Franco Cotana e per pura coincidenza è direttore del Centro Ricerca Biomasse voluto dal ministero dell'Ambiente, fa parte della Commissione Via del ministero dell'Ambiente, rappresenta al Master in Ingegneria ed Economia dell'Ambiente e del Territorio di Roma Tre il ministero dell'Ambiente, è consulente del ministero dell'Ambiente... Sarà commovente, trovarsi tra amici.

19.3.06

Black-block prêt-à-porter
Satira preventiva di Michele Serra

Dai Centri Asociali ai New Punkabestia. Ecco la tumultuante galassia della sinistra rivoluzionaria italiana, molto difficile da mappare con precisione

Black-block, anarchici insurrezionalisti, redskins, antagonisti. Sono solo alcuni gruppi della tumultuante galassia della sinistra rivoluzionaria italiana, molto difficile da mappare con precisione. Si tratta di 39 persone in tutto, compresi due svizzeri, ma così rompicoglioni che riescono, nella stessa giornata, a bruciare un cassonetto a Napoli, picchiare Borghezio a Treviso e fare un blocco stradale a Bardonecchia. Impressionante, per esempio, la performance di Maria P. detta Linda Blair, una minorenne del Centro Sociale Moltitudini in lotta (composto da lei e dal fratello). Pur rimanendo a casa sua, a Pisa, a ripassare algebra, riuscì a partecipare attivamente al G8, urlando così forte che il corteo poté udirla distintamente fino a Genova.

In genere l'indice di popolarità degli antagonisti è pari a quello di Hitler a Gerusalemme: giorni fa, a Milano, sono quasi stati linciati dai commessi di McDonald's e da una quinta elementare disturbata mentre ingurgitava hamburger. Ma la fede rivoluzionaria non arretra certo di fronte a dettagli come l'odio popolare, l'isolamento politico, il disprezzo dei vicini di casa, gli sputi in faccia dei parenti, la disistima della fidanzata, le sberle dei genitori, la derisione dei bambini, la fuga del proprio cane che non sopporta più l'odore dei fumogeni. Anzi: essere detestati e schifati da tutti è, per i veri spiriti d'opposizione, la conferma di essere nel giusto.

Sul blog del centro sociale Amahanandanandah (un eroico capo indio che perì nel tentativo di deviare il canale di Panama con la sua pagaia), si può leggere questa sofferta testimonianza che riassume il travaglio del percorso rivoluzionario: "Ho ragione io e gli altri sono tutti delle merde". Ma vediamo le principali novità sul fronte antagonista.

Black-Block La sagoma del giovane black-block vestito di nero che lancia una molotov si staglia sullo sfondo di una città disseminata di roghi fumanti. È l'immagine-simbolo della nuova collezione autunno-inverno dello stilista italo-zurighese Hans Quagliarulo, che veste i black-block da diversi anni. Il gesto estetico, per i black-block, è tutto. Secondo alcuni storici di area black-block Lenin fece la Rivoluzione russa al solo scopo di farsi fotografare con il pizzetto appena rifilato mentre arringa la folla, della quale gli fregava assai poco. Scopo dei black-block è dunque creare le condizioni che consentano alle loro sagome scure, davvero elegantissime, di stagliarsi su uno sfondo fumante mentre il loro amico li fotografa. Nei loro provini al computer, alcuni black-block si ritraggono mentre lanciano una molotov, avendo sullo sfondo Hiroshima o il bombardamento di Dresda, che li eccitano moltissimo.

New Punkabestia A differenza dei punkabestia classici, non vanno più in giro con mute di cani famelici che addentano i passanti. I new punkabestia addentano i passanti in prima persona, senza il tramite del cane che è considerato un cedimento alle mediazioni borghesi. Chiedono l'elemosina con tale insistenza e aggressività che alcuni cittadini, pur di evitare il contatto, non solo cambiano marciapiede, ma si arrampicano sulle facciate delle case come Spiderman, rischiando l'osso del collo.

No-Tram Branca radicale dei No-Tav, per coerenza estendono il loro rifiuto a ogni mezzo di trasporto, tranne quelli a trazione animale. Hanno recentemente presentato, sul loro blog, il progetto 'Annibale', lo scavalcamento delle Alpi a dorso di elefante, in alternativa alla Tav.

Centri Asociali Interessante evoluzione del vecchio concetto di Centro Sociale, giudicato compromissorio e imbelle. Il Centro Asociale considera il quartiere che lo ospita una zona nemica. Nell'impossibilità materiale di raderla al suolo, si tenta, nel tempo, di costringere gli abitanti a evacuare i palazzi rendendo insopportabile la coabitazione. Allo scopo, si suonano i bongos fino alle sei di mattina. Si indicono convegni animalisti con la partecipazione di puma, gufi, cammelli e la liberazione nel quartiere di centinaia di nutrie ed ermellini. Si fumano enormi pipe di oppio sotto le finestre aperte delle scuole materne per vedere i bambini che disegnano improvvisamente come Goya. Si organizzano nel cortile concorsi per gruppi rap evitando le scarpe che piovono da tutto il caseggiato.

15.3.06

Questo pazzo pazzo mondo
La bustina di Minerva di Umberto Eco - L'Espresso

Le cose accadono ma nessuno se ne rende più conto. Siamo attorniati da storie sulle quali ci sarebbe da scrivere fior di 'pochades', eppure tutto passa ormai inosservato, come se fosse normale.

Per esempio: prima che Bush scatenasse la guerra in Iraq, Berlusconi va da lui e gli dice (affermazione dello stesso Berlusconi riportata da tutti i giornali) che non dovrebbe farlo. Ipso facto, Bush fa partire i marines e inizia a bombardare Baghdad. Berlusconi invita Putin in villa, lo piglia a braccetto e gli dice "ghe pensi mi". Ipso facto, Putin ci taglia il gas. Berlusconi va da Gheddafi e torna dicendo che tutto è a posto, con la Libia siamo proprio così (unisce i due indici), i piccoli incidenti sono tutti superati, ci ha messo lui una parola buona. Ipso facto, Gheddafi minaccia l'Italia di stragi vomitandole addosso parole d'odio. Immagino che prima della faccenda Enel-Francia Berlusconi abbia avuto un abboccamento segreto con Chirac, ottenendone profferte di mutua assistenza, e ora che è andato a parlare al Congresso americano come minimo gli Usa ci tireranno una bomba atomica. Insomma, come il nonno di una barzelletta che lui racconta, bisognerebbe abbatterlo, perché dove va fa danno. Eppure pare normale che continui a scorrazzare per i video e che metà degli italiani (e sarebbe preoccupante anche se fosse la metà meno uno) lo prenda ancora sul serio.

Seconda storia, quella del 'Codice da Vinci'. È noto a chiunque abbia mai messo piede in qualche libreria di scienze occulte che Dan Brown non ha inventato nulla, salvo la vicenda poliziesca di contorno: ovvero, tutte le cose che lui presenta come rivelazioni storiche le ha riprese da una miriade di libri che circolano da decenni sul mistero di Rennes-le-Chateau, sul Priorato di Sion, sul Graal, su Gesù e la Maddalena, eccetera. Non dico affatto che le abbia copiate, così come non si accuserebbe di plagio chi riraccontasse la storia di Cappuccetto Rosso: ha usato un materiale ormai di dominio pubblico, tanto era stato fritto e rifritto in tutte le salse - perché la tendenza dei consumatori d'occulto è sempre stata quella di ritenere vero quello che hanno già udito, e quindi più il materiale che viene loro offerto è ripetitivo più ci godono.

È altrettanto noto, anche a chi non abbia mai visitato librerie di scienze occulte, ma abbia dato un'occhiata alla lista dei best-seller, che nel 1982 era apparso 'The Holy Blood and the Holy Grail' di Baigent, Leigh e Lincoln (tradotto da Mondadori come 'Il santo Graal'). In questo libro si riprendono apertamente tutte le dicerie sul mistero di Rennes-le-Chateau, e si enunciano tutti quei 'segreti' storici che costituiscono l'ossatura del 'Codice da Vinci', che Gesù non è stato crocefisso, che ha sposato la Maddalena, che ha fondato in Francia la dinastia dei Merovingi, che la sua eredità mistica e forse genetica stirpe è stata continuata dal Priorato di Sion, eccetera eccetera. Ora, la prefazione del 'Santo Graal' presenta tutto il contenuto del libro come verità storica, e neppure tenta di dire che questa verità storica è frutto di esclusive scoperte degli autori, perché ammette tutti loro debiti con alcune opere precedenti che (a loro dire) avrebbero già contenuto i germi di quella verità, ma non erano state prese in sufficiente considerazione - affermazione falsa quant'altro mai perché, ripeto, quel tipo di letteratura circolava da decenni, come avrebbe detto Manzoni, su tutti i muriccioli, e presso gli appassionati vendeva come panini.

Se qualcuno stabilisce la verità di un fatto storico (che Napoleone è morto a Sant'Elena, che i Mille si sono imbarcati a Quarto su due navi dell'armatore Rubattino, che Mussolini è stato arrestato da Bill e Pedro), dal momento che la verità storica viene resa pubblica diventa di proprietà collettiva, e io non posso essere accusato di aver copiato una bella invenzione altrui se scrivo un romanzo storico in cui i Mille si imbarcano a Quarto sulle navi di Rubattino. E invece cosa hanno fatto Baigent, Leigh e Lincoln? Stanno dando causa a Brown per plagio. Ovvero stanno ammettendo pubblicamente che tutto quello che hanno raccontato era frutto di fantasia. È vero che per allungare le mani su parte del malloppo miliardario di Brown uno è anche disposto a mettere in carta bollata che non è figlio del proprio padre legittimo bensì di qualcuno delle decine di marinai che frequentavano abitualmente la sua signora Mamma, e Baigent, Leigh e Lincoln hanno tutta la mia sentita comprensione. Ma quello che non cessa di sconvolgermi è che la gente che legge di queste cose (e apprende che Brown ha preso le sue notizie 'storiche' da qualcuno che ammette pubblicamente di aver raccontato fandonie), continui ad andare a visitare chiese e musei di tutto il mondo per cercare le tracce della 'vera' storia di Gesù e della Maddalena.
Ma che votino tutti per Berlusconi?
La Grande Avversione nella sfida a cronometro
di Gian Antonio Stella - Corriere della Sera

Sorrisi forzati di Berlusconi, bonomia con gli artigli di Prodi
Una sola idea in comune per i duellanti: guai ai pessimisti


Solo il cozzo tra il gigantesco iceberg B15A e la calotta polare, nell’Antartide, era stato forse tanto atteso. Eppure lo scontro televisivo tra Silvio Berlusconi e Romano Prodi, così aspettato e temuto e agognato dall’una e dall’altra parte come la disfida risolutiva, ha spesso fatto sospirare: tutto qui? Colpa delle regole, merito delle regole. Che dopo anni di denunce contro le inondazioni nel piccolo schermo della destra e in particolare del Cavaliere, la sinistra aveva preteso concordando un regolamento così rigido nella definizione di ogni dettaglio da somigliare nell’ossequioso richiamo a mille formalismi al Codice d’onore scritto per i duelli cavallereschi dal conte Athos di San Malato. Il che, se ha restituito al dibattito politico la sobrietà di certe tribune condotte da Jader Jacobelli, spoglio di certe caciare, ha però tolto spettacolarità. Ci potevi scommettere: l’avrebbe pagata più cara Berlusconi. Giuliano Ferrara dice con affetto che «non è un uomo ma un’opera pop».
Figuratevi come poteva vivere quel cronometro che gli ricordava che no, anche se è il più bravo del pianeta «inferiore soltanto a Bill Gates», anche se ha «portato l’Italia a un livello di prestigio internazionale che mai aveva avuto», anche se ha fatto «trentasei riforme e dieci codici e cioè più che tutti gli altri governi del passato messi insieme», anche se ha «dato lavoro a 56 mila persone che non hanno mai fatto uno sciopero», ebbene no: non poteva parlare più di quel professore che, secondo lui, rappresenta solo la maschera della sinistra. O meglio, come disse una volta, «un utile idiota».
E per un’ora e mezza si è visto questo: un Cavaliere che schiumava fremente, si imponeva di sorridere, cercava di infilare una parola in più e una promessa in più e una frecciata ai comunisti in più negli spazi di secondi che volta per volta rosicchiava, e allargava le braccia al continuo richiamo di Clemente Mimun come a dire: ecco, vedete, vorrei spiegarmi meglio ma non mi lasciano parlare.
E di là un professore che, per usare una vecchia definizione di Sergio Magliola, ex presidente della Finsider, «grondava bonomia da tutti gli artigli». E non perdeva occasione, quando quello debordava fuori tempo massimo, di farlo notare: quanta pazienza, con chi non riesce a rispettare neanche le regole minime...
E mano a mano che il tempo passava emergeva sempre più chiaro che, al di là delle giacche e delle cravatte che parevano così simili e al di là del più o meno riluttante adeguamento al codice del duello, i due non rappresentano solo due visioni diverse del governo, della gestione amministrativa, dello Stato, dell’economia, dei rapporti con le parti sociali e con le donne, visto che il Cavaliere spiegava di averne candidate poche perché «non è stato facile» trovarne di disponibili a «lasciare per cinque giorni la settimana il marito» e il Professore ribatteva che no, non «c’è niente da fare, ci vogliono le quote che la destra ha bocciato».
Ma due opposte visioni del mondo. E più chiaro ancora emergeva, accecante e insopprimibile, la reciproca antipatia. Se non il reciproco disprezzo.
E uno se la pigliava con l’euro «introdotto troppo in fretta» e a un «cambio sbagliato» e l’altro gli ribatteva che lui aveva lasciato delle «commissioni che avrebbero dovuto vigilare e invece erano state smontate» e che quel cambio lì era stato salutato come una grande vittoria «anche da Tremonti». E quello rilanciava che i conti sono in ordine tanto è vero che «l’Ecofin ha espresso apprezzamento» e l’altro che al contrario «sono conti disastrati». Al che il primo riprendeva che «erano disastrati quelli che aveva trovato lui al momento di insediarsi» e l’altro che ribatteva: «Basta, basta, basta con queste storie: avete avuto cinque anni per governare con una maggioranza enorme e state solo lì a menarla col passato e la sinistra e quasi quasi Garibaldi».
E a mano mano, lo schema si ripeteva fino a diventare imbarazzante. Con Prodi che smontava beffardo ciò che aveva appena detto Berlusconi e Berlusconi che riprendeva: «Che spudoratezza...», «È esattamente il contrario...», «È il rovesciamento della verità...». Mostrandosi via via più stufo, lui, il vincente per antonomasia, davanti a quell’insopportabile «dottor Balanzone» che lo sfidava come avesse già vinto: «Tra venticinque giorni io inviterò lei e il dottor Letta a palazzo Chigi non solo per il passaggio di consegne ma per vedere insieme cosa possiamo fare per il nostro Paese perché io non voglio essere il presidente solo di un pezzo dell’Italia ma di tutta».
Un’idea sì, era chiaro che hanno in comune: guai ai pessimisti. Silvio la teorizza da sempre raccontando la barzelletta sul vecchio indiano saggio che preconizza un inverno durissimo via via che i suoi fedeli pellerosse, seguendo i suoi consigli, accumulano legna. Romano racconta che gliel’ha insegnato suo padre: «Diceva sempre che quando i soldati vanno in guerra, quelli con la faccia triste sono quelli che non tornano mai». E così hanno in comune una vanità che fa dire a Silvio che «il calcio è metafora di vita: dai successi del Milan la gente ha capito che la mia è una filosofia vincente» e a Romano che lui non ha «mai perso: mai. Quando parto poi vinco sempre».
Odiano perdere, tutti e due. Chi non ricorda la comune ganassite sportiva e giovanilista? Col Cavaliere che gongola se i giornali raccontano che i tre seguaci Antonio Tajani («tutta la giornata a riposo in camera»), Guido Viceconte (colpo della strega) e Mario Pepe (rischio d’infarto) «sono finiti tutti k.o.» per aver osato accompagnarlo nello jogging mattutino? E il Professore che, come risposta a chi invocava un candidato più giovane, sfida gajardo i giovanotti nella maratona di Reggio Emilia, sulla quale i nemici non mancheranno di sibilare malignità, per dedicarla a Carlo De Benedetti e a chi denuncia la gerontofilia del sistema italiano? Ogni tanto, nonostante le telecamere fossero ben attente al patto di non inquadrare mai chi non parlava, si coglieva in qualche modo la coda di una risatina, di un sospiro di insofferenza, di un moto di stizza.
Soprattutto là dove venivano toccati i temi più spinosi. Come il conflitto d’interessi. Col Cavaliere a ripetere che agli italiani non importa poi tanto perché sanno che «le televisioni di Mediaset non hanno mai aggredito nessuno» e il professore a ribadire che no, le regole in questo campo «sono essenziali per ogni democrazia» e quindi lui, «senza punire Mediaset», le cambierà.
E poi staffilate sulle cooperative, con l’uno a dire che rappresentano «il più grande conflitto d’interessi che c’è in Italia» e l’altro a ribattere che «rappresentano il 7% della ricchezza che viene prodotta e quindi se io ho rispetto per Mediaset come può lei non aver rispetto per le cooperative»? Non si piacciono, i due. Non si sono piaciuti fin dal primo incontro, avvenuto quando il primo era presidente dell’Iri («lottizzatore dell’Iri», dice l’altro) e cercava di capire se fosse o no perseguibile l’idea di vendere le reti Rai a qualche imprenditore privato. Troppo diversi. Uno fierissimo d’esser nato nella pancia dell’operosa Milano piena di officine e ciminiere, l’altro orgoglioso di venire da una famiglia della campagna emiliana tra un mucchio di fratelli e galline e filari di vite.
Uno cresciuto trafficando in merendine sognando subito i danèe, l’altro venuto su puntando diritto alla cattedra universitaria. Uno appassionato di swing e musica francese, buoni per raggranellare qualche lira nei night e sulle navi con l’amico Fedele Confalonieri, l’altro pronto a intonare con Tiziano Treu quelle canzoni goliardiche che anni dopo recupererà nelle giornate del «ritiro spirituale» di Gargonza: «Gaudeamus igitur / juvenes dum sumus: / post jucundam juventutem / post molestam senectutem...».
E se uno fa trapiantare davanti alla vetrata principale di villa Certosa un immenso carrubo vecchio di cinque secoli, un monumento verde alla sua grandeur vivaistica che abbraccia duemila cactus («uno assomiglia al cervello di Tremonti», spiegò al giornalista Nicholas Farrell, «È tutto contorto, ma pieno di roba») l’altro sviolina le doti dell’Ulivo e proprio un ulivo piantò lui stesso nel ’95 nell’abbazia di Monteveglio dove aveva vissuto Dossetti.
Operazione sventurata. E finita nel marzo 2001, alla vigilia della vittoria berlusconiana, con la morte della povera pianta. Dovuta, disse qualcuno, al terreno argilloso. O forse, chissà, alla lontananza del piantatore, trattenuto a Bruxelles.
Sono anni che vengono accomunati a Gabriel Féraud e Armand d’Hubert, i celebri Duellanti di Joseph Conrad. E sono anni che se le danno. «Chi hanno scelto: Prodi? Be’, contenti loro, contentissimi noi. Non capita tutti i giorni la fortuna di avere un avversario come Prodi», disse il Cavaliere il giorno che gli comunicarono lo sfidante. «Salgo sempre al santuario di San Luca a pregare la Madonna che mi conservi Berlusconi come avversario», replicò l’altro.
Mai come ieri sera, però, si è visto quanto sia profonda, questa avversione. Come se proprio la conduzione «istituzionale» di Clemente Mimun, la rigidità delle clessidre, la morbidezza dei due giornalisti chiamati a fare l’intervista pubblica tra mille veti, facesse risaltare ancora di più la violenza dei sentimenti di scontro anche personale che c’era dietro. Una violenza repressa. Ma pronta a deflagrare. E che peserà, potete scommetterci, anche sul resto della campagna elettorale.

14.3.06

PAROLE DI VERONICA
di Dario Cresto-Dina, La Repubblica



«Certo, non ho perso un incontro televisivo di mio marito. Si figuri se rinuncio alla sfida più bella». Veronica Lario questa sera sarà davanti alla tv per il primo faccia a faccia con Romano Prodi.
Signora Veronica, mi dia i suoi voti sui duellanti.
«Berlusconi ha una forte leadership generata dalla sua storia personale, che ne fa un po? un personaggio-mito. Con una sensibilità all?immagine quasi femminile, un talento per la dialettica e la chiarezza di espressione, che gli consente di trasmettere enfasi e emozioni. Prodi ha un?immagine politica consolidata nel corso degli anni. La sua capacità di non perdere mai la calma, non si sa se ricercata o reale, dà un messaggio rassicurante di normalità. Ma tra le sue qualità e la parte subliminale della sua immagine aggiungerei la figura della moglie, compagna con la quale ha potuto condividere lo stesso progetto di vita e di valori».
Ora mi racconti i loro limiti.
«I punti di debolezza? Sono più in imbarazzo a parlare dei punti di debolezza, non è simpatico. Preferisco elargire un consiglio. A Prodi di essere meno monocorde e lasciarsi trasportare da un po? più di passionalità. A Berlusconi di non impostare il suo discorso sul monologo dei dati, che alla fine lo fanno apparire prolisso».
Non crede che suo marito abbia sbagliato a abbandonare la trasmissione dell?Annunziata?
«Non è il primo caso di incomunicabilità in una trasmissione, a volte succede per mancanza di contraddittorio, a volte per un eccesso di aggressività e impetuosità. Quando si esprime nella mancanza di contraddittorio se ne vanno i telespettatori, mentre quando si manifesta nell?impetuosità può succedere che d?impulso uno si alzi e se ne vada».
Ma lei il 9 aprile per chi voterà?
«Per mio marito».
È la verità?
«Piuttosto che risponderle con una bugia avrei preferito non risponderle».
Facciamo un gioco. Chi voterebbe del centrosinistra?
«Emma Bonino».
Quando dice vinca il migliore a chi pensa?
«Me lo dica prima lei. Chi vincerà?».
Credo che dopo cinque anni di Berlusconi la maggioranza di questo paese non ne possa più.
«Io, invece, non ne sono sicura».
Che succederà allora il 9 aprile?
«Vede, penso che sarà un voto emotivo. Si deciderà tutto negli ultimi quindici giorni, se non durante l?ultima settimana. La percentuale degli indecisi è alta, sono persone che si orienteranno da una parte o dall?altra a seconda di chi saprà conquistarli con un?idea, una promessa, una suggestione proprio sulla dirittura d?arrivo».
E in questo lei pensa che suo marito sia bravissimo.
«È bravo. E poi la sinistra deve fare ancora un lungo percorso».
Per andare al governo?
«No. Per rappresentare il futuro, per essere una sinistra moderna, riformista, europea. Ma sembra avere anche smarrito la sua missione storica: stare dalla parte dei più deboli. La vedo lontana dagli ideali, dai bisogni e dai desideri della gente che dice di rappresentare. A forza di inseguire la destra per contrastarla su ogni cosa che dice o fa pare essere rimasta vittima di un processo di osmosi».
Signora, lei sta facendo campagna elettorale per suo marito?
«Mi creda, la sola cosa che mi interessa è non essere inopportuna. Sono sua moglie. Confesso che questa volta mi sento più allineata con lui per i motivi che le ho appena spiegato: una sinistra che oggi non è una vera alternativa».
Sulla sinistra lei parla un po? come Bertinotti.
«Bertinotti è simpatico, chiaro, educato e elegante. Ma non la penso ancora come lui...».
E D?Alema?
«Il suo governo aveva la possibilità di risolvere il conflitto d?interesse. Non l?ha fatto».
Romano Prodi?
«È il solo leader che il centrosinistra è riuscito a esprimere dopo cinque anni di opposizione. Lo rispetto. Ma non mi sembra un nome nuovo».
Avrebbe preferito, che so, Veltroni?
«Sì, avrei preferito una sinistra con un?immagine meno impersonale. Veltroni, come sindaco di Roma, ha dato un?immagine di concretezza, che ha cercato di tenere conto anche di un tema di attualità come quello della qualità della vita».
Perché non ha più seguito suo marito?
«Io ho fatto una scelta familiare e non politica. E oggi i miei figli me ne sono grati».
È sempre stata allergica al ruolo di first lady?
«Per me non ha il valore di un ruolo. Personalmente mi crea imbarazzo, ma in questo momento, per esempio, mi dà la possibilità di gratificare la mia vanità facendo un?intervista con lei».
Suo marito continua a giurare sulla testa dei vostri figli quasi tutte le volte che appare in televisione per difendersi dalle critiche. Sostiene che Barbara e Eleonora fanno a gara per dormire con lui e racconta che Luigi si raccoglie a lungo in preghiera. Non la disturba tutto questo?
«Sì, ma lui è fatto così».
Lo rimprovera?
«Certo, e con toni meno pacati di quello che sto usando adesso. Vede, sono contenta dei miei figli. Sono buoni, sono educati, si stanno comportando bene in famiglia, a scuola e nella vita. Non hanno bisogno di essere circondati dall?enfasi, di essere sovraesposti. Sono ragazzi normali, vorrei che continuassero a esserlo».
E suo marito che cosa le risponde?
«Che non vede che cosa ci sia di male. Oppure che non si è reso conto di essere andato oltre. È impossibile fargli cambiare idea. È il suo carattere. Ma guardi che Silvio è un buon padre, adora i suoi ragazzi».
Lei ha amato suo marito?
«Forse lei voleva fare un?altra domanda, ma le rispondo lo stesso. Sì l?ho amato. Mi ha corteggiata come credo una donna desideri. Quando pensi che quelle rose che hai ricevuto sono le uniche che mai siano state mandate a una donna. È successo ventisette anni fa. Mi mandò cento rose rosse.».
E gli vuole bene ancora oggi?
«Sì, gli voglio bene».
Avete mai attraversato una crisi, avete mai rischiato di separarvi?
«Nella storia di un amore ci sono tante componenti. C?è chi crede che l?amore possa durare tutta una vita, chi crede che con il tempo diventi qualcos?altro e chi pensa che l?amore sia un contenitore dentro il quale sono state costruite delle realtà e degli affetti importanti, superiori a quell?incantamento iniziale che il tempo e l?abitudine appannano. Una famiglia, dei figli, un rapporto privilegiato o unico che negli anni si viene a consolidare tra due persone. Lasciare qualcuno è molto doloroso per chi prende la decisione e provoca altri grandi dolori a chi la subisce. Può succedere che sia meglio restare, a meno che non si venga portati via da una nuova forte passione affettiva. Ma da una certa età in avanti siamo meno predisposti a turbamenti amorosi rivoluzionari. La maturità ci consente di riconoscere quanto di importante si è costruito insieme nel corso degli anni, attribuendogli il valore e il rispetto che gli sono dovuti».
Che cosa farà Silvio Berlusconi se il 9 aprile sarà sconfitto: andrà a Tahiti, costruirà ospedali nel mondo o resterà in politica?
«Farà il capo dell?opposizione».

12.3.06

Viva Boldi, abbasso Moretti
Satira preventiva di Michele Serra

Posticipare l'uscita de 'Il caimano', comizi a bassa voce, evitare gli inutili sfoggi di cultura. Ecco la campagna elettorale di una sinistra astuta

Fa riflettere l'invito rivolto a Nanni Moretti da alcuni leader della sinistra: per carità, non presentare il tuo film contro Berlusconi in campagna elettorale, perché potrebbe favorire Berlusconi. Esprime una tendenza a considerare controproducente ogni critica o presa per i fondelli del premier, perché avvalorerebbe l'idea di un'opposizione virulenta e fanatica. Secondo questa teoria la campagna elettorale, da parte di una sinistra tatticamente astuta, dovrebbe svolgersi più o meno così.

Comizi Lo stesso concetto di comizio, con tutta quella gente che rumoreggia e si accalca, dà l'impressione di un eccesso di pathos. L'oratore dovrà dunque parlare a bassa voce e senza il plateale ausilio del microfono, confidando nel passa-parola dalle prime alle ultime file, esprimendo una pacata ma amichevole perplessità anche in caso di colpo di Stato o dichiarazione di guerra alla Francia. La mimica dovrà attenersi al canone classico del teatro pirandelliano: leggeri scuotimenti del capo o eleganti sospiri per sottolineare eventuali momenti di spaesamento rispetto allo stato delle cose. Mai, comunque, cedere all'ostentazione volgare di secondi fini, tipo chiedere il voto. La gente potrebbe ricavarne la sgradevole impressione che la sinistra abbia, in queste elezioni, un qualche interesse politico.

Economia Sbagliatissimo, e parecchio maleducato, mettere l'accento sullo stato catastrofico dei conti pubblici. Meglio suggerire concrete migliorie a una situazione non così drammatica: le toppe sul sedere, per esempio, possono essere rivalutate come nuovo accessorio del made in Italy. Consigliabile tenere spiccioli in tasca e farli tintinnare durante i dibattiti tv per dare l'impressione di partecipare alle attività economiche del paese.

Cultura Se c'è una cosa che irrita l'uomo della strada, e contribuisce a rendere odiosa la sinistra, è il continuo sfoggio di cultura degli intellettuali. L'intellettuale di sinistra, dunque, dovrà evitare un lessico troppo fiorito e abolire i periodi troppo lunghi. Frasi come "la sfida della società multietnica" possono agevolmente essere sostituite con "c'è in giro un mucchio di gente gialla e nera". Bene le interiezioni come 'urka!' e 'cacchio!', malissimo i concetti astratti come 'pensiero' e 'politica': meglio, per farsi capire, mostrare durante i discorsi oggetti di uso quotidiano, come stoviglie e piccoli elettrodomestici. Pessima anche l'ostentazione di consumi culturali troppo ostici: mai dire che si è appena stati a vedere Ronconi, piuttosto manifestare entusiasmo per Boldi e De Sica aggiungendo, però, che la trama del film era troppo complicata. Un Cacciari fidanzato con una velina sarebbe, come contributo alla causa, perfetto.

Satira I comici di sinistra continuano ad accanirsi, faziosamente, contro alcune normalissime attitudini del premier, tipo le scarpe col rialzo, il trucco di cera d'api in uso per la mobilia, lo scalpo saldato con la fiamma ossidrica, il mausoleo in giardino e le sette ville in Sardegna. Ma il tipico uomo comune si riconosce perfettamente in queste innocenti debolezze (chi non ha mai sognato un mausoleo in giardino?) e dunque non sopporta che le si prenda di mira. Il bravo comico di sinistra, dunque, dovrà attingere al divertentissimo repertorio della grande tradizione italiana: la serie dei colmi, per esempio, oppure i battibecchi tra Arlecchino e Brighella. Ideale una sfida tra Arlecchino e Brighella su chi dice il colmo più spassoso.

Televisione L'ostilità, durante i dibattiti, rivela negatività e malanimo. Anziché sedersi accigliato sulla propria poltrona, il rappresentante della sinistra dovrà dunque sedersi sul bracciolo della poltrona del rivale, tenendogli una mano sulla spalla mentre sta parlando e sottolineando con risate e pacche rumorose i passaggi più felici del discorso altrui. Quando è il proprio turno, non sempre è indispensabile replicare: si farà un'ottima figura rinunciando a rispondere e comunicando al conduttore che tutto quello che si voleva dire era già stato ottimamente espresso dall'avversario.

Nanni Moretti Deve immediatamente ritirare il suo film e girarne un altro, allegro e spensierato, possibilmente un seguito di 'Ecce bombo' in cui i protagonisti, cresciuti, pur vivendo ancora a Roma sono abbonati del Milan, collezionano cravatte regimental e regalano Rolex alle amanti. Aggiungere molta fica. Sui cartelloni pubblicitari evitare il nome del regista (sarebbe un'inutile provocazione).
La caduta di Epurator
di Gian Antonio Stella - Corriere della Sera

Amante delle frasi a effetto («Il cazzotto aiuta l'idea»), fu bacchettato da una nobile «nera»: caro, sei troppo moderato

Quella che più deve essergli seccata è stata probabilmente la «solidarietà» di Maurizio Gasparri. Il quale si è precipitato a dettare alle agenzie quanto gli dispiacesse delle sue dimissioni e quanto considerasse la sua scelta «responsabile e coraggiosa» e quanto si augurasse che «tutto questo si concluda al più presto perché siamo in campagna elettorale». Lui no: Francesco Storace, a parti rovesciate, dopo aver saputo che l'ex ministro delle Telecomunicazioni era stato defenestrato perché aveva posto l'alternativa «o lui o io», era stato meno diplomatico.

E aveva sibilato: «Sono felice che oggi si sciolga la corrente della Destra sociale, perché sono finalmente libero di poter dire che sono disgustato dal comportamento dell'onorevole Gasparri». Se dopo aver lasciato l'incarico per «sottrarre» la sua «comunità politica e il governo dalle strumentalizzazioni della sinistra» si sia sfogato in un pianto liberatorio, non si sa. Certo non è il tipo che, su questo, si barrichi dietro una maschera. Un giorno l'ha detto: «Sono un uomo che sa piangere, senza vergogna». Piange, ride, si sfoga, si arrabbia, scazzotta. Convinto che la politica sia anche cuore. Un cuore nero, per parafrasare il titolo dell'ultimo libro di Luca Telese. Dove si racconta appunto di come Giuseppe Storace, il padre che anni dopo sarebbe stato investito dall'accusa falsa e vergognosa, raccolta dall'Unità, di essere stato un picchiatore di ebrei, non vedesse di buon occhio che il figlio frequentasse i missini di una sezione bellicosa quale quella di Acca Larentia di cui, dopo l'uccisione di tre militanti, sarebbe diventato segretario. E che lui, il futuro ministro, stava quasi per cedere e avvicinarsi alla più sobria Cl. Scelta che sarebbe andata in porto se, appunto, non ci fosse stato di mezzo il cuore.

Certo, non portava la camicia nera: «Mai messa». Non andava in giro impugnando spranghe («Non c'è una sola denuncia a mio carico: sono immacolato, anzi, vergine») come altri che poi si sarebbero rasserenati come Gianni Alemanno. E l'unica volta che puntò qualcosa addosso a qualcuno fu un fantastico bluff. Tornava a casa quando, incrociata una manifestazione di «rossi», se li vide piombare addosso minacciosi. Al che, racconta la leggenda, estrasse dalla tasca il portaocchiali rigido e lo puntò a due mani addosso gli avversari, che subito fecero dietrofront, divaricando le gambe come in una celeberrima foto di quegli anni: «In quegli anni le ho soprattutto prese. Ho subito tre attentati. Una volta mi hanno sparato, un'altra mi hanno bruciato l'auto, una terza hanno cercato di bruciarmi la casa». Sarebbe potuta finire male, come nel caso dei fratelli Mattei, se il fratellino non si fosse casualmente accorto che avevano versato benzina sotto la porta. Fatto sta che, per il fisico da torello che richiama un po' «Caio Gregorio, er guardiano der Pretorio», il collo incassato nelle spalle, la parlata spiccia e romanesca, le braccia che a Umberto Bossi ricordavano «l'orangutan, il trapezista con le braccia corte», il marchio del fascista manesco gli restò appiccicato a lungo. Tanto da spingere perfino amici di schieramento, come Lucio Colletti, a dire: «Storace? Se apriamo le gabbie e lasciamo che i gorilla circolino liberamente destando il terrore di qua e di là, per noi sarà difficilissimo costruire un governo che abbia prestigio e autorevolezza». Cresciuto al «Secolo d'Italia», dove secondo Giancarlo Perna faceva coppia fissa con l'altro torello Teodoro Buontempo («D'estate si presentavano in redazione come reduci di un campeggio paramilitare. In canottiera, pantaloncini corti grigioverde, scarponi. Con la canottiera e i pantaloncini combattevano il caldo, con gli scarponi scrivevano gli articoli»), confidò d'aver «sognato tutta la vita la mia foto su Prima Comunicazione», il periodico dei giornalisti. Ci arrivò, da capoufficio stampa del Msi, guadagnandosi un titolo indimenticabile, «Lo sparaballe», e due pagine in cui si spiegava come faceva a piazzare ovunque notizie sul suo giovane capo, Gianfranco Fini: «Mi inventavo le cose più strane.

Il meglio fu la storia, accreditata, secondo cui Fini era il megafono di Cossiga. Invece ero io che scrivevo dichiarazioni appositamente studiate in cossighese». Sbarcato in Parlamento e piazzato alla presidenza della Commissione di vigilanza Rai, si guadagnò con le sue invettive la fama di «Epurator». Fama meritata. Che lui coltivò cercando, al tempo stesso, di cambiare personaggio con l'invio di decine e decine di lettere (153 in tutto) al presidente Rai Enzo Siciliano, così affettate da esser rococò: «Gentile e illustre presidente, ove Ella non abbia difficoltà in proposito, vuole spiegare perché...». Un linguaggio del tutto in contrasto con quello più naturale, che come dimostrò una rissa alla Camera con Mauro Paissan, sa essere vernacolare: «Quella checca di Paissan mi ha graffiato con le sue unghie laccate di rosso, io non l'ho toccato: sfido chiunque a trovare le sue impronte sul mio culo». Deciso sostenitore della svolta di Fiuggi, sia pure contraddetta da sporadici richiami al Duce e ai bei tempi andati e dal rifiuto di sottoscrivere le censure postume di Fini al fascismo «male assoluto», mostrò alle Regionali del 2000 di aver messo da parte definitivamente, in nome delle regole della politica e del potere, certe sue antiche battute. Tipo «il cazzotto sottolinea l'idea». Abbandonati i toni e i giacconi di un tempo, riuscì anzi a farsi addirittura bacchettare dalla principessa nera Elvina Pallavicini: «Ma caaaro: troppo moderato!». Come abbia governato il Lazio, e con quali metodi abbia tentato di restar al comando, lo diranno la storia e l'inchiesta giudiziaria. Certo è che, prima di essere battuto da Marrazzo, assicurò che mai avrebbe abbandonato la Regione dove sarebbe rimasto, lui, a fare opposizione. Un proclama presto smentito. A riprova di come ormai, dopo aver offerto per anni ai camerati la battuta di essere, lui, «l'idea che si fa corpo», si sia convinto che far politica è restare lì, nel cuore nel potere. Disse una volta, fiero di essere un battutista: «Alla politica non so se sono adatto, al cabaret sì». Ieri aveva meno voglia di sorridere.

8.3.06

Duello in tv, buonanotte Romano
Satira preventiva di Michele Serra

Gli staff di di Prodi e Berlusconi si sono incontrati per stabilire le modalità dell'attesissimo faccia a faccia televisivo sulla Rai

In una riunione congiunta a Roma, gli staff di Prodi e Berlusconi si sono incontrati per stabilire le modalità dell'attesissimo faccia a faccia televisivo sulla Rai, a reti unificate. Lo staff di Prodi era composto da due persone, una delle quali è rimasta chiusa in ascensore e non ha potuto partecipare alla riunione. Quello di Berlusconi era formato da circa un centinaio tra pubblicitari, registi, consulenti, portaborse, body-guards, esperti militari, truccatrici, artificieri, cartomanti, ipnotizzatori e assaggiatori di veleni, che si sono presentati al summit percorrendo il centro della capitale a piedi, nella spettacolare formazione a testuggine, protetta sui lati dagli arcieri.
La bozza presentata da Berlusconi, secondo indiscrezioni, proponeva le seguenti modalità. Berlusconi seduto in uno studio azzurro, su un trono maya recentemente avuto in dono dal presidente del Guatemala, sotto una pioggia di petali di rosa. Prodi collegato telefonicamente dalla sua casa di Bologna: il suo volto apparirà in un angolino del video, in basso a sinistra, rappresentato dalla fototessera del suo passaporto. Indignata la reazione dei prodiani: la fototessera del passaporto di Prodi, purtroppo, è difettosa perché la macchinetta automatica scattò nel momento in cui Prodi si era voltato per leggere le scritte oscene tracciate col pennarello alle sue spalle. Nell'immagine si vede Prodi di nuca, con il colletto della giacca scompigliato, e sulla parete dietro di lui la scritta 'Nunzia lo succhia'. Per giunta, la fotografia è quasi interamente cancellata da un timbro della dogana belga, e sulla guancia sinistra di Prodi, l'unica porzione della faccia vagamente visibile, c'è una scritta bilingue, in francese e in fiammingo.
Nel nome della par condicio, i prodiani hanno dunque chiesto a Berlusconi di sostituire la fototessera del passaporto con quella della patente, molto piccola ma ben riuscita: lo sguardo appare molto spaventato dal flash, ma lui è ben pettinato e sorride. La richiesta è stata considerata ragionevole.
Trovato l'accordo sulla posizione dei due candidati in studio, si è dunque passati alla delicatissima questione dei tempi a disposizione. I berlusconiani, per evitare interruzioni che renderebbero incomprensibili le rispettive posizioni, hanno proposto un'ora a testa: la prima ora, dalle 21 alle 22, per Berlusconi, la seconda, dopo le interruzioni pubblicitarie, il telegiornale, il meteo, l'oroscopo e un film sulla guerra di Corea, a disposizione di Prodi, dalle 2 alle 3 del mattino, garantendo così al leader del centrosinistra di non essere interrotto perché Berlusconi, a quell'ora, è già andato a dormire.
Secondo questa proposta, il match avrebbe dunque questa scansione: alle 21 sigla (l'inno di Mameli eseguito in studio dallo stesso premier, che si accompagna al pianoforte). Poi il premier, seduto sul trono maya, parla per un'ora mentre vicino alla sua scarpa sinistra appare la fototessera di Prodi. Alle 22 un'ovazione registrata segna l'uscita dallo studio del premier, sottolineata da una suggestiva coreografia del Cirque su Soleil: dieci trapeziste nude sollevano verso il cielo il premier sulle note di 'Je t'aime, moi non plus'.
Il tempo di risistemare lo studio, che apparirà completamente vuoto, e con i riflettori spenti, circa due ore dopo la mezzanotte, è il turno della fototessera di Prodi, in basso a sinistra sul teleschermo buio, che rimarrà in fermo immagine per un'ora esatta mentre il discorso del capo ulivista passa in sovrimpressione. Lo staff di Prodi, pur ammettendo la sostanziale parità del tempo concesso a ciascuno dei due contendenti, ha però preteso, con fermezza, i seguenti ritocchi: la fototessera di Prodi non deve essere coperta dal logo 'Raiuno', come proposto dal pool di registi di Berlusconi. Il discorso in sovrimpressione di Prodi dovrà essere trascritto da un uomo di fiducia dell'Ulivo e non, come proposto da Forza Italia, da un immigrato cinese. Infine, quando alle tre di notte sarà finito anche l'intervento di Prodi, la sigla di chiusura non dovrà assolutamente essere quella indicata da Berlusconi (che aveva scelto l'inno nazionale cambogiano), ma un brano a scelta degli esperti dell'Ulivo, che dovrà tenere conto dei gusti musicali delle varie componenti del centrosinistra.