Biagi intervista Benigni
Indovina chi è Pinocchio
Enzo Biagi incontra Roberto Benigni. E il discorso riprende dall'intervista che fece infuriare Silvio Berlusconi. Parlano dell'ultimo film del regista toscano e dei burattini d'Italia
di Enzo Biagi sull'Espresso
Non credo si possa riassumere il carattere di un popolo in una scheda, ma si può provare. I toscani hanno il senso del comico: basta pensare alle beffe narrate dal Boccaccio, o da Benvenuto Cellini, o anche Pieraccioni o Benigni. Vorrei ricordare anche un vecchio amico che ebbe successo perfino alle Folies Bergère: Odoardo Spadaro. Una sua canzone diceva: «La porti un bacione a Firenze, che l’è la mia città».
È bello ed è giusto che Roberto Benigni racconti sullo schermo Pinocchio, perché anche lui sembra inventato da Collodi: certamente è stato compagno di banco di Lucignolo. E di sicuro ha giocato con Pierino Stoppani detto Gian Burrasca. Roberto ha detto che sua madre è analfabeta: ma gli ha insegnato ad affrontare la vita. Per me, lo scrivo senza imbarazzo, è un genio. Dopo Federico Fellini un altro personaggio da esportazione.
Lo è come parla, che fantasia, per come si muove, che burattino, per l’innocenza della sua scurrilità, che è buffonesca e sboccata, ma mai triviale, perché diffonde un senso di libertà e di allegria. Se è eccessivo lo è, caso mai, nelle trovate.
Benigni dice cose bellissime: «Quando cammino per Firenze il duomo non lo guardo neanche, me lo sento tutto addosso, e mi pesa ogni mattone... Per me le cose più belle della Toscana sono i fagioli all’uccelletto e Pinocchio».
Ci sono delle battute di Benigni che sono dei saggi: «L’aspetto più comico della vita italiana è il fatto che siamo il popolo di San Francesco e votiamo per il più ricco». E ancora: «La storia è la cronaca della nostra infelicità». O: «Sempre con quel doppiopetto anni Trenta Berlusconi sembra la parodia di un gangster: Al Cafone».
Su Bossi: «La Lega è sacrosanta, a Catanzaro se ne sentiva il bisogno. E poi è bastato lo slogan: “La Lega ce l’ha duro”. Mi ha fatto subito capire la serietà del partito».
Mi ha detto Benigni quando ci siamo visti qualche giorno fa: «Ti hanno levato dalla televisione, perché abbiamo detto insieme “Noi vi amiamo”». Ed io gli ho risposto: ma pensa Berlusconi ha detto che con questa storia gli abbiamo fatto perdere un milione e 750 mila voti. Ho chiesto a un esperto: «È sicuro del danno?». Ha detto: «Perché me lo chiede?». «Perché io adesso telefono a Roberto e facciamo il bis. Ogni volta che c’è una elezione».
E Benigni aggiunge: «Ne facciamo due, così diventano più di 3 milioni. Alcuni anche dalla destra, ho sentito. E la maggioranza degli incerti, che non votano, si sono tutti buttati dopo l’intervista, e molti anche del centrodestra sono passati proprio di là. Ma noi abbiamo solo detto: “Noi vi amiamo”. Era un finale. E noi riprendiamo là dove ci eravamo lasciati, riprendiamo da là, dal “noi vi amiamo”».
Ricominciamo con quella battuta e con questa domanda: ricordi il primo incontro con Pinocchio? Quando l’hai conosciuto?
«Finisce qui la domanda?».
Sì, e adesso comincia la risposta.
«Oh caro Enzo. Ma questo è un inizio straordinario, perché è bene cominciare dall’incominciamento. Allora oserei parlarne così del mio incontro con Pinocchio che è avvenuto tardi tardi. Io ero già Pinocchio, ma non me ne ero reso conto, così come Collodi non si era reso conto di scrivere Pinocchio. L’ho vissuto alla stessa maniera, tanto è vero che da piccolino non lo potevo leggere, perché la mia mamma non sa leggere né scrivere. Il mio babbo era sempre fuori, o per lavoro o per la guerra. Però, la mia mamma mi raccontava che c’era un burattino, un bambino che gli si allungava il naso quando diceva le bugie - che basterebbe questo per rimanere nella storia - poi dentro al libro ci sono tante altre cose. La mia mamma conosceva solo Pinocchio e alcuni versi strampalati di Dante Alighieri, della Divina Commedia, e univa le due cose».
Tu ricordi?
«Univa queste due cose e mi diceva: “Se dici le bugie ti si allunga il naso e poi Dante Alighieri ti mette all’inferno”. Io avevo unito Pinocchio e Dante Alighieri, tanto è vero che nel Convivio ho trovato una frase in cui Dante Alighieri si descrive come Pinocchio identico. Dice della sua vita, l’ultima frase in cui parla di sé, poveraccio, di tutto quello che ha patito: “Io altro non fui che legno sanza governo portato dalla divina povertade”. Più Pinocchio di così. E allora vedi che la mia mamma aveva ragione, Pinocchio e Dante sono la stessa persona. E più con quel naso che si ritrova Dante, un pochino insomma...».
I monelli della letteratura italiana, dal burattino a Giamburrasca sono quasi sempre toscani. In Italia si fanno degli scherzi, ma da voi si fanno delle beffe. Come mai?
«Lei deve sapere che in Toscana, signor Biagi, è vero che c’è il gusto della beffa, ed è vero perché c’è una mancanza di teatro fondamentalmente, perché dopo Machiavelli non abbiamo avuto più nessuno. Mi permette, signor Biagi, dopo mi dirà, ma Benigni ha perso la testa, c’è un pochino di mancanza di conflitto con il sacro, con Dio proprio. E allora c’è il gusto della beffa, che chiunque vedano, da Buddha al Presidente della Repubblica dicono: “Bellino, bellino”. Hanno questo, che è una meraviglia e un tormento nello stesso tempo. Per esempio, il Brunelleschi, che ha fatto il più grande miracolo di tutti i tempi, dal quale è scaturita anche la scoperta dell’America. Lo sa che nella cupola del Brunelleschi un certo Toscanelli, fece una mappa con una meridiana di tutto il globo terrestre, dalla misura miracolosa. Questa carta andò a finire nelle mani di Cristoforo Colombo che poi decise di partire... Insomma, in Toscana c'è sempre stato il gusto della beffa. Questo è il versante del toscanismo che mi piace meno».
Chi è per te il bugiardo?
«Il bugiardo è un essere maraviglioso, proprio con la “a”. Per esempio, Federico Fellini era un gran bugiardo, lei lo conosce meglio di me, nel senso che lui le bugie le amava. Chi dice bugie, dipende naturalmente dalla maniera con la quale si dicono - dirò delle banalità, mi perdoni se oggi non sono in una forma entusiastica su delle cose straordinarie che nessuno ha mai detto - però se uno riesce a dire una bugia, deve inventare una storia, c’è un senso di generosità verso l’altro.
«Poi deve continuare il racconto, perché sia credibile, deve inserire delle cose plausibili e fantastiche, che lasciano di stucco, così come fa Pinocchio. Insomma, insistere sulla bugia è creare una storia e, diventa una montagna di neve che va protetta. È un regalo, insomma. Sono bugie le sue, non menzogne. Perché Pinocchio dice delle bugie innocenti, come tanti altri personaggi nel libro le dicono; solo lui però ha una dannazione, quel naso non gli permette di rimanere protetto dalla balla, mentre gli altri dicono le frottole. L’unica menzogna che dice Pinocchio è quando non è più lui, alla fine del libro, quando pronuncia la famosa battuta: “Come ero buffo quando ero un burattino, e come ora sono contento di essere un ragazzo perbene”. È la grande frottola del libro, l’unica panzana di Pinocchio. L’unica vera fandonia è quella finale. Non è contento di essere un ragazzo per bene, tutti amiamo il burattino. Mentre gli altri personaggi dicono le menzogne, le dice la Fata, le dice Geppetto, le dicono il Gatto e la Volpe, ovviamente. Ma quelle sono vere menzogne. Invece, Pinocchio dice bugie meravigliose, che tutti noi vorremmo dire».
Ne vedi in giro dei Gatti e delle Volpi?
«Oh mamma mia! È tutto un gattaio e un volpaio. Se gli Inglesi venissero qua, hanno fatto pure lo sciopero per la caccia alla volpe, potrebbero cacciare bene bene».
C’è chi distingue tra bugie buone, a fin di bene, e bugie cattive. Ci sono delle verità, al contrario, che fanno male?
«Oh certamente! Le verità fanno sempre male. Solo i bambini e i folli dicono la verità».
Perché quando la bugia la dice un politico è strategia e, se la diciamo noi due invece diventa menzogna?
«È vero. Lei, signor Biagi, si ricorda che Cavour disse: “Ho trovato un sistema per dire sempre le bugie, non le dico mai, sono sempre sincero, così non mi credono e faccio quello che mi pare”».
E inventò il doppio gioco. In un classico della nostra letteratura c’è un burattino che diventa uomo. Ma nella realtà non ci sono uomini che si comportano da burattini?
«Che bella domanda. Lei mi fa andare al manicomio, perché è vero che nella realtà ci sono tanti uomini che si comportano da burattini, però normalmente usiamo il termine burattino un po’ in maniera spregiativa».
Domanda intenzionale: chi è per te la fata turchina?
«Ma lei signor Biagi mi ha fatto una domanda trabocchetto, perché io le dirò che della Fata Turchina Gadda diceva che era il più grande mito femminile del XIX secolo. È effettivamente l’unico personaggio femminile di tutto il capolavoro di Collodi. Questa Fata Turchina è una delle figure più enigmatiche. Dentro a questo personaggio ci sono delle passioni umane, è proprio una pentola, e quando si scoperchia si rimane affascinati da tutto il calore, i sentimenti, la poesia, l’ambiguità, l’enigmaticità».
Io ho fatto questa domanda con l’intenzione di rendere un saluto affettuoso alla signora Benigni, alla signora Braschi.
«Io la ringrazio. Anche se devo dire che oramai non posso più immaginare Pinocchio senza lo sguardo di Nicoletta Braschi, per me è la Fata Turchina eterna. E devo dire che come ha interpretato questo ruolo, è davvero una cosa che si rimane incantati».
Ma perché Collodi al bugiardo fa allungare il naso?
«Lui ne dice tante di bugie senza che gli succede: con Mangiafuoco, ne dice tante. Gli si allunga il nasino con la Fata perché lei vuole che lui cresca. Però lo ama così com’è. E lo vorrebbe per sempre così. Desidera che lui cresca, perché quello che deve fare un artista, se una cosa che viene al mondo non ci rende la vita più gradita, tanto valeva che non nascesse affatto: questo è l’assunto. E la Fata sente che il mondo ha bisogno di questa leggerezza, di questa meraviglia, ma sa che le cose belle durano poco, vorrebbe che durasse eternamente ma non può. Tanto è vero che cerca di fargli comprendere cos’è la morte - proprio questo è il messaggio - una brutta parola ma, lei sa che a volte ce le permettiamo. Tra l’altro, è così nascosta, misteriosa, che è una cosa bella. Io ricordo una bella frase di Proust che diceva: gli artisti devono regalare tutto, è un regalo l’arte. Quando il messaggio è troppo forte o troppo evidente, è come fare un regalo con il biglietto del prezzo attaccato».
Qual è il peccato più grave per te?
«Il peccato più grave è non desiderare di essere felici, non cercare di essere felici. Io ricordo una poesia di Jorge Luis Borges. Diceva: ho commesso il peccato più grave, non sono stato felice. Mi ha molto colpito questa frase. Abbiamo il dovere di essere felici, non perché la felicità, come dimostra Pinocchio, non si riesce a raggiungerla; quando siamo vicini si allontana sempre. Però abbiamo il dovere di cercare di essere felici e il dono degli artisti è entusiasmare alla vita. Questo è quello che deve fare un artista, entusiasmare alla vita nella consapevolezza che c’è la morte, c’è il nulla, e noi siamo nulla. Deve essere consapevole l’artista, se no sarebbe un bischero».
C’è una bugia che ricordi e di cui in seguito ti sei pentito?
«Delle bugie non sono mai pentito. Ogni volta che le ho dette, quando mi vengono bene, sono così contento. Ma io è da quando ero un bambinello che mi identificano con Pinocchio. Anche il Maestro Federico Fellini mi chiamava sempre Pinocchietto. Come mia mamma, anche da piccolino; quando mi perdevo: Pinocchiooo..., mi faceva, quando c’era la pioggia, mi ricordo le urla, Pinocchino...
«E in più quando sono diventato, tra virgolette, conosciuto, diciamo in Italia nei primi tempi, sono stato identificato con Pinocchio. Perché Pinocchio era l’immagine della Toscana allegra, vispa, comica, con la voglia di ridere. Ecco, quello spirito pinocchiesco ce l’ho sempre avuto. Mi identificavano con Pinocchio, perché era l’unico riferimento, parlo la lingua di Pinocchio anche, se si vuole, oltre quella di Dante. Però soprattutto quella di Pinocchio. Non abbiamo potuto mantenerlo nel film quel maraviglioso italiano, perché era difficile per tutti i personaggi, però è un italiano di una bellezza quello di Collodi!»
Il nostro Geppetto che si mette a costruire una marionetta, che cos’è: un sognatore o dà inizio a una scuola?
«Dà inizio a una scuola di sognatori. È vero che è un sognatore, però Geppetto non lo definirei un sognatore, è un bel babbo. All’inizio tenta di fargli fare il figlio di Mastro Ciliegia, quando parla; ma poi improvvisamente al creatore gli è venuto in mente che forse non era il giusto padre quello, allora fa arrivare questo Geppetto. Però poteva essere Mastro Ciliegia, si poteva fermare lì, è strano che sia arrivato un altro, è come se si fosse accorto: questo non mi piace. E arriva questo padre, che è il babbo, ma il babbo quello etico, quando si ritrovano dentro al pescecane. Nella pancia del mostro c’è proprio la agnizione più bella che ci sia, “sono io Pinocchio, il burattino, il tuo unico figliolo”, “Pinocchio figlio mio, babbo”. Geppetto, appena lo crea, dice ai carabinieri: “Ho penato tanto a farne un burattino perbene”. Ma l’ha fatto da venti secondi, ci doveva pensare prima. Dice delle frasi, perché lui è il babbo, viene da lontano, è il primo babbo del mondo, è quello che lo sarà sempre, e anche un po’ ricattatorio, perché lui Pinocchio vuole solo che sia solo il bastone della sua vecchiaia.
«Mentre la figura della madre e della Fata Turchina è più complessa, è antichissima, è modernissima, è una cosa che è una invenzione straordinaria. Quello della fata turchina veramente è un personaggio gotico, attualissimo, potrebbe essere una figura che sta in qualsiasi corpo d’azione, è proprio meraviglioso. È come quella del naso lungo, l’invenzione della Fata Turchina. Poi, è la regina delle metamorfosi, la regina degli animali, e in più è proprio una mamma campagnola, ma così vera, che uno gli vuole proprio alzare la gonna. Come si fa da bambini, quando ci si va a nascondere sotto le gonne... Io me la ricordo la mia nonna aveva una gonna grande così, quante volte mi nascondevo sotto io, quando non mi volevo far pigliare, è una cosa di una bellezza! E questo personaggio è proprio così».
C’è ancora il rischio di finire dentro la balena oggi?
«C’è, e come se c’è».
Che cos’è che ti ha dato più gioia nella vita di uomo e di artista. Hai avuto riconoscimenti mondiali, ti vedo ancora che scavalchi delle file di poltrone, in America...
«Ad essere sincero, il momento che lei ha ricordato, quando saltellavo sopra le sedie, come Pinocchio burattino... Ecco, quel momento lì non è stata la più grande emozione della mia vita. È stato uno dei momenti più belli, perché le emozioni, quelle grandi grandi, ricordo altre cose, in cui il cuore batte forte forte».
Buster Keaton, Charlie Chaplin o magari Totò. Se pensi a un attore comico, ad un uomo che sa far sorridere una persona in un mondo di lacrime, che possiede uno dei più grandi doni che si possono fare alla gente. Di questi chi ti piace? A chi ti senti più vicino?
«L’ho manifestatamente ripetuto: tutto il mio amore è per Chaplin: il divino vagabondo, il divino fanciullo, il comico, il clown. Lei, signor Biagi, ha fatto dei nomi che sono tutte cattedrali gotiche. Ma dentro quella di Chaplin, diciamo la luce che si riflette dalle finestre colorate, ha bagliori più potenti ecco. In quella di Totò riconosco proprio tutte le mie generazioni, vedo proprio tutti i passati giorni: ecco, vedo dietro i morti di fame, vedo proprio la dolcezza e la ricchezza della povertà».
È la poesia dello straccione...
«Ma in Totò c’è proprio la povertà, che è la madre di tutte le ricchezze. Anche se c’è anche in Chaplin... E poi Buster Keaton è come un personaggio zen, è forse il più grande. E grande e generoso fu Chaplin a recuperare Keaton in “Luci della Ribalta”: quel momento in cui stanno insieme, quel piccolo gioco che fanno al piano e lui al violino, è come vedere Michelangelo e Leonardo insieme».
Ultima domanda: chi è Benigni?
«Io, se lei mi dice che Benigni è un buffone, un burattino, un comico, un clown, mi fa un complimento. Io vorrei tanto che mi si chiamasse così, e più si ride di me e più vengo trattato male, e non masochisticamente, ma poeticamente, credo che sia il nostro destino. Da lì veniamo, dal dolore nascono i comici, non per essere troppo poetici».
Io credo che sia così. Credo che se un uomo asciuga una lacrima fa una grandissima cosa. Ma se un uomo regala un sorriso ne fa ancora una più grande.
«Non c’è niente di più vero. Aggiungo solo che, ricordo che la mia più grande emozione da piccolo è stata quella, quando ho visto qualcuno sorridere su una cosa che avevo accennato. E allora mi è rimasto impresso quel sorriso, avrei voluto ripetere per tutta la vita quel momento».
Il momento continua.
«Grazie».