la Repubblica, sabato 1º marzo 2003
Niente udienza alla Corte Ue
Il tribunale nega a Sofri il permesso per Strasburgo
L´ex leader di Lc non sarà martedì davanti alla Corte europea Proteste da Forza Italia, Ds e Udc: "Decisione punitiva"
di CLAUDIA FUSANI
ROMA - Adriano Sofri non sarà martedì prossimo a Strasburgo. Né da libero, come aveva richiesto, né in manette, come invece doveva essere, secondo i suoi legali, un suo diritto. Al no del tribunale di Sorveglianza di Firenze si è aggiunto il no del ministero della Giustizia. L´udienza, l´unica prevista davanti all´Alta Corte europea dei diritti dell´uomo, si terrà ugualmente ma Sofri non potrà illustrare personalmente le sue ragioni. Il rifiuto del Tribunale è stato notificato a fine mattinata a Sofri nel carcere Don Bosco di Pisa, dove è detenuto dal gennaio '97 dopo la condanna per l´omicidio del commissario Calabresi. In pratica, i giudici spiegano che, poiché la presenza del ricorrente-condannato non è necessaria e poiché è detenuto in Italia, non può essere in alcun modo concesso un permesso all´estero. Nessun riferimento alla Convenzione del 1996, ratificata dal Parlamento italiano nel 1997, che stabilisce invece «il diritto delle persone a partecipare alle udienze» e «impegna gli Stati contraenti a non ostacolare in alcun modo la circolazione delle persone per assistere alla procedura».
La vicenda, nei suoi aspetti tecnico-giuridici. Sofri, Bompressi e Pietrostefani hanno fatto ricorso alla Corte dei diritti dell´uomo contro lo Stato italiano contestando l´imparzialità del giudice e la lesione dei diritti della difesa. Un paio di mesi fa l´ex leader di Lc chiese di partecipare all´udienza a Strasburgo. «Lo considerava un appuntamento irrinunciabile» racconta Enzo Brogi, sindaco di Cavriglia, che ha incontrato Sofri un paio di settimane fa. Gli avvocati, Alessandro Gamberini e Bruno Nascimbene, gli hanno spiegato che non solo poteva ma che era un suo diritto sancito da un trattato internazionale. Il problema era semmai un altro: a Strasbrugo Sofri sarebbe dovuto andare come detenuto e non libero in permesso. Su questo punto però poteva essere tentata una richiesta al tribunale di sorveglianza.
Ma il giudizio del tribunale è stato diverso. I giudici di Firenze hanno ripreso, confermandolo, un precedente giudizio emesso dai colleghi di Pisa che avevano rilevato come la trasferta dell´ex leader di Lc potesse avvenire unicamente in manette. A questo punto il Dap, il dipartimneto dell´amministrazione penitenziaria, ha interpretato questo giudizio come un no a tutti gli effetti negando la possibilità di essere trasferito a Strasburgo anche nelle condizioni di detenuto ammanettato. Era una prima volta in assoluto - mai un detenuto italiano aveva chiesto di partecipare ad un´udienza a Strasburgo - tanto che in questi giorni ci sono state numerose telefonate tra il Dap, l´ufficio legislativo del ministero della Giustizia e le cancellerie della Corte europea. Tutti alla ricerca di un precedente italiano che però non esiste. In assenza di esempi, è stata scelta l´interpretazione più restrittiva. «La Convenzione europea - spiegano al Dap - non prevede il caso di persona detenuta quindi vuol dire che il detenuto non può andare».
Era l´ora di pranzo quando ha cominciato a circolare la notizia. Unanimi i commenti dei politici. Marco Follini, segretario dell´Udc, parla di decisione che «stupisce, amareggia e lascia l´amaro in bocca». Sandro Bondi, portavoce di Forza Italia, accusa la giustizia italiana di «mancanza di buon senso». Severe anche le reazioni del centrosinistra. Per Gavino Angius, capogruppo ds al Senato, è un provvedimento «punitivo e ingiusto». Ermete Realacci, Margherita, che sabato scorso è andato con Cofferati a incontrare Sofri in carcere, sostiene che è stato «negato un atto di ordinaria civiltà».
La quarta sezione di Strasburgo, presidente sir Nicolas Bratza, vicepresidente il finlandese Matti Pellonpaa, chiamata a esprimere il suo giudizio, avrà modo di leggere fra gli atti anche le ragioni di questo ultimo no. La corte deciderà entro due-quattro mesi. Se darà ragione all´ex leader di Lc, lo Stato italiano sarà condannato a pagare una multa.
il manifesto - 1º marzo 2003
Sofri sequestrato «No a Strasburgo»
Il caso Sofri infila un'altra perla. Adriano Sofri non sarà martedì a Strasburgo, dove la Corte europea dei diritti dell'uomo vaglierà il suo ricorso contro lo Stato italiano che l'ha condannato a 22 anni per il delitto Calabresi. Il Tribunale di sorveglianza dice che non può andarci in permesso premio da uomo libero, ma potrebbe andarci sotto scorta da detenuto. Il ministero della giustizia, attraverso il Dap, sostiene invece che potrebbe andarci da uomo libero in permesso e si rifiuta di condurlo a Strasburgo in manette. Risultato, Sofri martedì sarà nel solito posto, la cella del don Bosco di Pisa, dove sta da oltre 6 anni. Ecco un caso in cui non si sa se prendersela di più con il formalismo esasperato dei giudici di sorveglianza o con la riottosità del ministro Castelli. Pioggia di critiche per il divieto incrociato che nega a Sofri un elementare diritto. Ma non era un detenuto «privilegiato»?
Strasburgo vietata a Sofri
Adriano Sofri non potrà assistere all'udienza della Corte europea per i diritti dell'uomo cui è ricorso contro la condanna per l'omicidio Calabresi.
E' l'assurdo esito delle ordinanze dei giudici e di quelle del ministero della giustizia
di MANUELA CARTOSIO
Adriano Sofri non andrà a Strasburgo, «né a piede libero né a mani legate». Martedì non potrà essere presente all'udienza della Corte europea dei diritti dell'uomo che discuterà il suo ricorso contro lo Stato italiano. L'aveva presentato nel 1997 con Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani, condannati come lui a 22 anni di carcere per il delitto Calabresi. Il divieto è l'effetto combinato di due decisioni. Quella del Tribunale di sorveglianza di Firenze, che ha negato a Sofri il permesso-premio per andare a Strasburgo da uomo libero. E quella del Dap, il dipartimento per l'amministrazione penitenziaria, che non si sente obbligato «tradurlo» all'estero sotto scorta da detenuto. Un classico scarabarile italico, di cui il «privilegiato» Sofri paga ancora una volta le conseguenze, stretto tra l'iperformalismo e la mancanza di coraggio del tribunale di sorveglianza e l'eccesso di zelo causidico del Dap. Se i giudici rispondono - così si dice - solo alla legge, il Dap «risponde» al ministero della giustizia. Il che autorizza a pensare che nel no del Dap a scortare Sofri a Strasburgo ci sia lo zampino del ministro Castelli. Lo stesso che tiene nel cassetto la seconda domanda di grazia di Bompressi e che si è messo di traverso alla grazia d'ufficio per Sofri. Una coincidenza?
Dal carcere di Pisa Sofri spiega «come stanno le cose» in una lettera al direttore del Foglio Giuliano Ferrara. «Il ministero ha comunicato di non essere tenuto a traduzioni all'estero, e ha aggiunto che il Tribunale di sorveglianza mi ci avrebbe potuto mandare in permesso. Il Tribunale di sorveglianza ha detto che non può mandarmi in permesso all'estero... All'udienza sarei stato superfluo, non dovevo parlare, solo essere presente in una circostantanza meramente simbolica, dunque per me suprema. Conosci il problema, ci sarà un giudice in Europa, eccetera». Sofri aggiunge di non avere «commenti da fare». In effetti, i fatti si commentano da soli: Tribunale di sorveglianza e Dap si sono comportati come due compari che sostengono che tocca all'altro fare una cosa, con il risultato che la cosa non viene fatta.
Gianni Sofri si dichiara «allibito» per «l'incredibile accanimento», per il gioco delle parti che impedirà al fratello di presenziare all'udienza. Pur mantenendo il suo «triste stupore», invita a recuperare la tranquillità: «Noi desideriamo andare a Strasburgo sereni e fiduciosi». Aldilà delle «polemiche interne», la cosa importante è il processo che si celebrerà di fronte a una Corte che si chiama, «e questo è molto bello», Corte europea dei diritti dell'uomo.
Toccherà ad essa valutare se nella lunga vicenda processuale chiamata per brevità «caso Sofri» i giudici non sono stati imparziali ed è stato violato il diritto alla difesa. Se Strasburgo darà ragione ai ricorrenti, allo Stato italiano sarà inflitta una sanzione pecuniara. E, cosa più importante, il nostro paese sarà sollecitato a «porre rimedio» a una condanna ingiusta. Un rimedio che, a questo punto, non può essere che la grazia.
Sandro Gamberini, difensore di Sofri, definisce «ingiusta e ammantata di motivazioni puramente formalistiche» la decisione del Tribunale di Firenza che conferma l'ordinanza del magistrato di sorveglianza di Pisa che aveva negato il permesso perché i tre giorni all'estero non si possono «scomputare» dai 22 di anni di pena.
La sentenza di Pisa affermava, comunque, che Sofri poteva esercitare il suo diritto a presenziare all'udienza chiedendo alle «competenti autorità» d'essere tradotto sotto scorta a Strasburgo. Cosa che, per cautela, la difesa Sofri aveva fatto più di un mese fa. Mai più immaginando che il Dap, pur di non far arrivare Sofri a Strasburgo, avrebbe tirato fuori argomentazioni che l'avvocato considera «più che insultanti, farsesche».
Solo «per ragioni di sicurezza e di ordine pubblico», osserva Gamberini, è possibile derogare all'articolo 4 della Convenzione sottoscritta dai paesi membri della Corte europea dei diritti dell'uomo. L'articolo dice che non può essere imposta alcuna «limitazione» al diritto delle parti di partecipare al processo. «Si vuol sostenere che Sofri a Strasburgo avrebbe costituito una minaccia per la sicurezza dell'Italia e per l'ordine pubblico?», domanda l'avvocato. Sul punto il Dap non ha replicato. Si è limitato a far sapere di non essere obbligato a «tradurre all'estero» il detenuto Sofri.
Tace anche il ministro Castelli, mentre un coro trasversale di critiche si riversa sul combinato disposto che impedirà a Sofri d'andare a Strasburgo. A Sofri è stata negato un atto di «ordinaria civiltà», commenta Ermete Realacci della Margherita, un diniego che «nessuna ottusità burocratica giustica». Per un altro parlamente della Margherita, Willer Bordon, va trovato il modo perché Sofri possa comunque esserci all'udienza di martedì. Marco Follini, segretario dell'Udc, è stupito da una sentenza che «lascia l'amaro in bocca». Il portavoce di Forza Italia Sandro Bondi afferma che la giustizia italiana manca di buon senso e si ricorda dello «spazio giuridico europeo» solo per spiccare mandati di cattura, non per tutalare il diritto alla difesa. Il presidente dei senatori Ds Gavino Angius vuol sapere dal Dap motivi di un provvedimento «francamente ingiusto e umanamente punitivo» per un uomo che pur dichirandosi innocente ha sempre rispettato le sentenze.
l'Unità, 28 febbraio 2003
«No» del Tribunale a Sofri:
non andrà alla Corte europea
per sostenere il suo ricorso
di red
Quando martedì prossimo la Corte Europea di Strasburgo esaminerà il suo caso, Sofri non potrà essere lì. La legislazione in vigore impedisce che un detenuto in Italia, anche se sotto scorta, possa lasciare il paese per recarsi all'estero. Lo ha spiegato il presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, Vincenzo Sapere, che non faceva parte del collegio che ha respinto il ricorso avanzato dall¹ex leader di Lotta continua.
Il Tribunale di Sorveglianza di Firenze ha, quindi, respinto la sua richiesta di ³permesso premio², il primo richiesto dall'ex-leader di Lotta Continua, condannato a 22 anni di carcere per l'uccisione del commissario Calabresi, di cui sei già scontati.
L'ex leader di Lotta Continua, con Bompressi e Pietrostefani, avevano presentato un ricorso contro lo Stato italiano sostenendo che la giustizia italiana ha violato più volte nel corso della loro lunga e controversa vicenda giudiziaria il principio dell' imparzialità del giudice e il diritto di difesa. Il ricorso verrà discusso dalla Corte di Strasburgo martedì prossimo.
Già il 17 febbraio scorso il magistrato di sorveglianza di Pisa gli aveva negato il permesso per recarsi all'udienza. Secondo il tribunale di Firenze la decisione dei colleghi pisani era corretta e adeguatamente motivata. Inizialmente si pensava che Sofri avrebbe partecipato ugualmente all¹udienza di martedì prossimo, anche se in manette. E invece, no.
«Nel caso di Sofri - ha rilevato il magistrato - c' erano probabilmente le condizioni perché gli venisse concesso un permesso premio che gli consentisse, senza scorta, di spostarsi in Italia. Ma non è consentito che un detenuto in carcere possa lasciare, anche momentaneamente, il paese. L' unica possibilità di espatrio temporaneo per un cittadino detenuto in Italia sarebbe un differimento temporaneo dell' esecuzione della pena, che dovrebbe comunque essere motivato da gravi condizioni di salute e dall' esistenza fuori del nostro paese di qualche centro clinico specializzato in cure che in Italia non sarebbe possibile fare».
LE REAZIONI
La difesa: "Farsa più che un insulto"
ROMA - Un no incomprensibile. Gli avvocati di Adriano Sofri, Alessandro Gamberini e Bruno Nascimbene (docente di diritto internazionale) sono stupiti della decisione del Tribunale di sorveglianza: «È un detenuto che si è sempre consegnato al carcere, non ha mai chiesto un permesso pur avendone il diritto. E il suo comportamento, come detenuto e come cittadino, è sotto gli occhi di tutti», commentano i legali. A Sofri avevano detto che non solo poteva andare a Strasburgo, ma che era un suo diritto sancito da una Convenzione del 1996 fatta propria dall´Italia. Il problema era semmai un altro: a Strasburgo sarebbe dovuto andare come prigioniero e non come detenuto in permesso.
Dopo il "no" del Tribunale, immediata anche la reazione del fratello di Sofri, Gianni: «Sono allibito, è un incredibile accanimento».
Sofri dal carcere
"Ci sarà un giudice in Europa..."
ROMA - «All´udienza sarei stato superfluo, non dovevo parlare, solo essere presente in una circostanza meramente simbolica, dunque per me suprema... Ci sarà un giudice in Europa...». È quanto scrive dal carcere Adriano Sofri al direttore del Foglio, Giuliano Ferrara. La lettera è pubblicata oggi. «Non andrò a Strasburgo, né a piede libero, né a mani legate. Il Ministero ha comunicato di non essere tenuto a traduzioni all´estero, e ha aggiunto che il Tribunale di Sorveglianza mi ci avrebbe potuto mandare in permesso. Il Tribunale di Sorveglianza ha detto che non può mandarmi in permesso all´estero. Non ho commenti da fare».
la Repubblica, sabato 1º marzo 2003
C´È UNA SENSAZIONE OGGETTIVA DI PERICOLO
Caro Adriano sui diritti l´intransigenza è necessaria
di SERGIO COFFERATI
Caro Adriano vorrei, come avevo cominciato a fare qualche giorno fa, dare una risposta alle tue fondate preoccupazioni sulla singolare situazione che si è progressivamente creata nella politica italiana. Come puoi facilmente immaginare mi riferisco ai problemi che travagliano la sinistra ed ancor di più a quella piccola parte di questioni che forse posso contribuire a chiarire, non penso nemmeno a risolvere. Trovo singolare quel che capita nel campo amico, non sono per nulla sorpreso di ciò che succede in quello avverso, anzi ho la sensazione che ci aspetti un´ulteriore recrudescenza dei loro comportamenti, prodotta dal carattere della coalizione che governa immeritatamente il paese e dalle enormi contraddizioni della stessa.
Le energie nuove si possono però spegnere e in questo caso il riflusso porterebbe al plebiscitarismo
Oggi i movimenti riempiono il vuoto lasciato dai partiti perché in politica il vuoto non esiste
Dal carattere poiché nella miscela pessima di neoliberismo imitativo, populismo d´occasione e improvvisazione mediatica manca il rispetto elementare delle funzioni istituzionali (il caso dalla Rai è solo l´ultimo in ordine di tempo); dalle contraddizioni perché le stesse vengono sempre risolte cementando la coalizione al punto più basso possibile, fino a lasciare esterrefatti noi cittadini («non è possibile, non avrei mai pensato che potessero arrivare a tanto....», queste ed altre esclamazioni di attonito stupore sono entrate nel lessico quotidiano, purtroppo!). Il loro stare insieme si realizza su equilibri sempre più precari, ma distruttivi del tessuto connettivo della democrazia, forse per il momento è solo quella con la d minuscola, quella però che utilizziamo e riproduciamo ogni giorno, quella che ci consente di vivere sereni.
Sono invece preoccupato e coinvolto in quello che succede nel nostro campo. Proverò a rispondere alle tue domande, però ti chiedo ancora un attimo di pazienza; vorrei ripetere per alcuni di coloro che ci leggono, non certo per te, che le ragioni per le quali milioni di persone si sono mosse in questi mesi, come non capitava da tempo per intensità, convinzione, passione, ecco quelle ragioni hanno qualche radice comune, di merito ma direi anche di ambiente, di contesto. Sono in genere ragioni legate a diritti, richiesti o difesi, oppure a grandi valori come la pace, sono esplicitate, anche in funzione mediatica, con tanta veemenza perché quelle persone non le avvertono come adeguatamente vissute e proposte dai soggetti fondamentali della politica, dai partiti. C´è molta radicalità nelle proposte e molta pratica riformista, mi verrebbe da dire, nelle forme utilizzate per renderle visibili. In fondo, il punto massimo di trasgressione è apparso in qualche timido accenno a forme di disobbedienza sulla guerra poi nemmeno praticate. Sono convinto che la radicalità è spesso direttamente proporzionale alla sensazione soggettiva di pericolo ed ancor di più alla percezione dell´abbandono e della conseguente solitudine. Radicalità dunque, ma non estremismo. Il timore e il rischio che mi indichi di esercizio, da parte dei movimenti, della pratica, anche inconsapevole, del veto sul necessario lavoro della politica nelle sue forme e con le sue prassi tradizionali, sono condivisibili e fondati, non mi sfuggono. Sono però convinto che in nessuna parte significativa dei variegati e magmatici movimenti si nasconda una simile intenzione, la scelta consapevole e praticata di esercitare veti, di sbarrare la strada ai partiti, di alzare l´asticella lasciando in ambasce il saltatore che ha preso la rincorsa. Anzi ho più volte notato e fatto notare, che questi movimenti sono mossi da intenti positivi, a differenza di quelli che entrambi abbiamo conosciuto negli Anni '60 e '70. Questi non vogliono diventare partiti e, per fortuna, non sono nemmeno ostili a quelli attuali, che pure vivono una stagione non esaltante per la loro anchilosi e per qualche non breve momento di afasia su temi delicati per tutti noi. Sai che in politica il vuoto non esiste, ed oggi la singolarità della nostra condizione è data dal fatto che gli spazi ampi lasciati dai partiti sono riempiti non da altri partiti nascenti ma da movimenti, associazioni od organizzazioni nelle quali trovano rifugio quasi schizofrenico addirittura molti militanti degli stessi partiti tradizionali, in quella contaminazione da te segnalata. Gli spazi sono ampi e le persone che li riempiono tantissime.
Considero questo quadro di grande interesse e, se il termine non ti appare frivolo, addirittura intrigante. So benissimo che la grande energia positiva rappresentata da queste persone deve produrre "politica" nei canali possibili, a partire da quelli tradizionali. Se non accadrà in tempi accettabili gli effetti negativi potrebbero essere ancora più grandi di quelli che tu stesso paventi. Perché le energie si possono spegnere, e in questo caso il riflusso conseguente impoverirebbe la partecipazione e favorirebbe la delega ad altri con quell´atteggiamento che, secondo me, sta poi alla base delle forme di plebiscitarismo già da molti teorizzate. Perché la mancata attenzione alle proprie esigenze, di vita, di senso, di identità possono spingere i giovani alla violenza (non ti sembra straordinariamente bello il carattere pacifico, non violento di questi movimenti anche dopo prove terribili come quelle di Genova?). Perché può nascere l´antipolitica anche nella forma più banale: «ecco i partiti non ci ascoltano, dunque sono inutili». Perché si può creare, a quel punto, il limbo dei puri che giudicano e non si rendono disponibili a confrontarsi con la complessità, i praticanti del veto da te descritti. Sono convinto che gli effetti disastrosi della somma di questi perché non siano inevitabili. Anzi. Queste energie vanno utilizzate, instaurando un rapporto tra la politica organizzata e loro. Per farlo ci sono secondo me cose piccole ed elementari da risolvere in premessa. Ad esempio il riconoscimento reciproco della legittimità ad agire, in ambiti e con funzioni diverse ma non necessariamente confliggenti o alternative. Ancora: la fissazione di discriminanti nella propria attività di diversa rappresentanza, sai benissimo cosa vale la scelta della pratica non violenta per dei movimenti. Oppure: che nessuno chieda all´altro di sparire dalla scena una volta individuato l´obiettivo comune e la strada per raggiungerlo, anzi che si proceda insieme in funzioni distinte. Penso sinceramente che sia molto, molto difficile fare quello che ti sto scrivendo, non c´è memoria storica alla quale fare riferimento, le diversità di compito e funzione sono enormi, ci sono le storie e i timori delle persone. Processi consistenti tolgono certezze a tutti, ti buttano in mare aperto, ti richiedono una generosità che come sai è merce rara nei leader piccoli o grandi di qualsiasi forma associativa, perché la nascita di nuove classi dirigenti (come si sarebbe dette un tempo) non è mai indolore. Sì, è difficile, ma tutt´altro che impossibile ed in ogni caso necessario.
I modi e le forme di questo dialogo per riportare la politica a riempire quei vuoti, senza cancellare chi ha svolto una fondamentale opera di supplenza ma anzi valorizzandolo, sono tutti da sperimentare, rapidamente però. Sono molto contento che anche tu sia convinto, ma non avevo dubbi, che l´ipotesi di dividere ulteriormente la sinistra «per far chiarezza sulla prospettiva futura» sia sbagliata. Al di là della collocazione attuale, le sinistre sono tante anche nell´alveo delle semplicistiche catalogazioni riformismo-antagonismo. Dunque il problema di noi tutti è quello di unire, e io sono convinto che per farlo sia più efficace e giusto partire da una faticosa ricerca di linee per un programma che dalle regole per gestirlo (dovrebbe essere normale, no?), o dalla scelta, per quanto evocativa anche di contenuti, del leader. Ed è in questa ricerca che va coinvolto fin dall´inizio l´arcipelago dei movimenti, senza confondere in alcun modo questo esercizio con quello pur necessario di trovare le migliori pratiche possibili per far funzionare l´opposizione in Parlamento. Il breve periodo e la sua gestione sono sempre importanti e delicati, perché richiedono efficacia nell´agire da parte dell´opposizione ed anche perché dalla selezione che la stessa fa dei temi, tra quelli importanti e quelli no, e dalla convinzione con la quale sostiene le proprie tesi, contrasta quelle degli altri, ne derivano indicazioni importanti per i cittadini sulle concrete intenzioni dei partiti che la compongono.
Ora sai bene che tutto ciò ha per la sinistra un banco di prova terribile: la guerra, che le chiede la capacità di sostenere contemporaneamente in Parlamento e nella società una linea di contrasto al conflitto che incombe, realizzando lo schieramento di forze più ampio che sia possibile. La cultura della pace va costruita contemporaneamente al contrasto della guerra, e passa dalla soluzione paziente di tante contraddizioni, dal recupero di tanti ritardi, dalla rimozione di ignavia e cinica tolleranza. Un nuovo equilibrio nel mondo non può che partire dalla costruzione di una legalità internazionale, come dici tu, bisogna però decidere in premessa se nel compiere questo sforzo si considera la guerra, come alcuni pensano, uno strumento per gestire "le contraddizioni" esistenti o se, come anch´io vorrei, si mette la guerra al bando e si utilizzano sempre e solo gli strumenti della politica. La semplificazione nelle parole utili a promuovere iniziative e manifestazioni è necessaria, ovviamente non supera miracolosamente la complessità spesso sedimentata dei problemi, ma è fondamentale per segnare il discrimine dell´azione politica, per tracciare confini e orizzonti. Per questo spesso affascina anche quando non risolve facilmente. Sono convinto che moltissima energia si è sprigionata perché molte scelte, in questi mesi, sono apparse coerenti e rigorose, non utopiche. Perché molti hanno compreso che ci sono cose per le quali è risolutiva la direzione che si sceglie per cambiarle, ma che poi il loro mutamento è inevitabilmente graduale. E che invece ce ne sono altre, i diritti
fondamentali o la pace ad esempio, per le quali è utile l´intransigenza, per ottenere risultati e per marcare il diverso valore dal resto. Sai che questa è una mia robusta convinzione, ne abbiamo parlato. Credo che sia anche quella di moltissime persone. Non penso di rappresentare le loro istanze, non ho nessuna delega formale a farlo e ritengo anche che sarebbe un errore ipotizzarlo. Mi considero uno di loro, con maggior visibilità e un po´ di credito costruito in questi anni. Non voglio usare l´una e l´altro per condizionare alcuno, ma per aiutare la ricerca di quel difficile percorso. La mia "estraneità" attuale è scelta che ho fatto per rispetto e affetto verso l´organizzazione della quale provengo e verso il suo gruppo dirigente. Ogni mio coinvolgimento diretto e immediato in ruoli di partito o istituzionali sarebbe stato strumentalmente utilizzato per attaccare la Cgil e metterne in dubbio l´autonomia. Mentre cerco di non interrompere il filo che mi lega a molte persone, così non mi considero estraneo alla politica, ma decidere come anche le mie poche energie potranno essere utilizzate dalla stessa è cosaopportuna, ma, converrai, che non compete solo a me.
Sergio Cofferati, Presidente della fondazione Giuseppe Di Vittorio
I DIALOGHI
Caro Cofferati che politica è senza se e senza ma?
di ADRIANO SOFRI
CARO Sergio, metto per iscritto un po´ delle cose sulle quali abbiamo cominciato a discutere l´altro giorno. La manifestazione romana l´avevo intravista così da lontano che le mie impressioni valevano poco. Belle impressioni. Tutta quella gente così fiduciosa non poteva essere stata convocata dalla paura: o almeno altrettanto dalla speranza. Avrei tanto voluto che la manifestazione esprimesse vistosamente insieme il no alla guerra e la condanna di Saddam Hussein. L´enormità della partecipazione e quella forza quasi allegra hanno superato la questione, come un´onda troppo alta per lasciar vedere il lavorio che l´aveva aspettata. Il problema tuttavia tornerà fuori dopo la piena.
Caro sergio niente veti alla sinistra
Penso da molti anni che la questione "pacifista" sia tragicamente destinata a lacerarci
Tu puoi essere il leader affidabile dei movimenti capace di investirne la forza nella politica sociale
Non sono un ammiratore del "No senza se e senza ma" sono uomo di congiuntivi, pieno di se e di ma, come un´acne senile - e dunque riconosco tanto più schiettamente che una mobilitazione così imponente è merito di chi ha coniato quella formula. I partiti in questo paio d´anni non avrebbero saputo mobilitare tante persone, la tua Cgil e i movimenti sì: e per giunta arrabbiati o delusi dai partiti maggiori. Dunque c´è almeno una doppia ragione di soggezione psicologica delle persone dei partiti: la sensazione di stare in quelle piazze da scolari riammessi dopo una convocazione in presidenza; e la difficoltà di rivaleggiare, con le proprie opinioni un po´ più complicate, con parole d´ordine drasticamente semplificate, in una folla così numerosa. Il ritorno in scena delle masse fa fuori le belle statuine politiche, ma spalanca anche le porte alla demagogia.
Salvo che si sottolinei la complicazione di questo ancora ribollente fermento nelle sinistre per mero opportunismo, bisogna riconoscere che è essenziale un gusto per la ridiscussione di tutto e fra tutti. Una specie di costituente sregolata delle idee e dei linguaggi. Non sono sicuro che le cose stiano andando in questa direzione. Se prendiamo per buona la diffidenza fra partiti e movimenti in realtà, soprattutto alla "base", anche intrecciati e contaminati - continuiamo ad avere l´impressione che ci sia fra loro una rivalità che dilaziona e aspetta una resa dei conti, in cui vincano gli uni o gli altri. I movimenti anche qui, passo sopra alle importanti differenze - hanno un leader politico-elettorale che sei tu, e badano, sembra, a non fondersi e confondersi con gli ambiti dei partiti, a tenere una distanza di sicurezza, e al tempo stesso però non si candidano a una leadership complessiva, che proponga il ricambio di quella esistente. Lasciano maturare i tempi, ma per far questo, per tenersi in bilico fra dissociazione e istanza di successione, si affidano intanto al calcolo e al piacere dell´esercizio del veto. I movimenti tengono in libertà provvisoria e vigilata la politica partitica e parlamentare, segnandole, con la forza del loro vasto seguito militante, confini invalicabili.
È appena successo ora con l´interdizione emanata da te, Strada, don Ciotti e altri, all´indomani della manifestazione romana, come un giusto conto da saldare nel voto parlamentare. Ma era già successo in modo dichiarato, nei girotondi ecc.: dove la dichiarazione, sincerissima direi, del rifiuto di "entrare in politica", da Nanni Moretti ai professori, si traduceva nella fissazione alla politica di confini da non superare, pena la squalifica da parte del "movimento". In quel caso il piacere del veto corrisponde per così dire a una intenzione permanente: persone che non scendono nel campo della politica professata, e anzi fanno di questa certificata estraneità il fondamento del loro disinteressato controllo-sorveglianza sull´operato dei professionali. Nel tuo caso, il ricorso al veto è invece provvisorio, benché non sia chiaro quanto. Tu, mi pare, non miri a fare l´ispettore generale della sinistra, o di una sinistra sull´altra: miri a una sinistra di maggioranza, e che governi. Era l´impegno cui molto ragionevolmente ti votava a Firenze Moretti.
Temo molto l´inclinazione alla demagogia che l´esercizio del potere di veto rischia, e l´irresponsabilità. La vicenda italiana è da molto tempo segnata da questa duplicazione di poteri diversi, rivali ma non concorrenti. Negli anni detti di Tangentopoli il doppio potere della magistratura milanese versus la politica romana aveva questa differenza rispetto al classico dualismo di poteri: che quello della Procura e del suo Palazzo non si proponeva se non in qualche alzata di gomito e in qualche attore più improvvisato, come Di Pietro - una discesa in campo "politico", una presa del potere per sé o per interposti partiti prediletti, ma l´esercizio metodico di una funzione di ispezione e tutela superiore, giuridica e morale, sulla vita pubblica, di veto sulla legislazione e il governo. Ne siamo usciti in realtà non ne siamo usciti affatto - al prezzo di una rivincita della politica nella forma dello sbancamento elettorale da parte dell´ardimentoso gioco d´azzardo berlusconiano, tutto o niente, la cui vittoria per compiersi deve coincidere con la dissoluzione del veto giudiziario, e ormai con la mortificazione della stessa
normale funzione giudiziaria.
Farò un altro esempio, che non ti paia bislacco. Craxi, grosso animale politico in piccolo partito, non si contentava della rendita proporzionale: voleva il governo e il potere. Per arrivarci (e tenerlo) usava dell´interdizione. Bertinotti sembra aver rinunciato una volta per tutte a maggioranza e governo (forse anche per conservare quella denominazione di "comunista", forse per la dannazione di tenere un congresso, nel 2002, in cui "superare lo stalinismo"...) e contentarsi del potere di veto e di interdizione, dentro la coalizione di governo finché è durata, dentro le sinistre poi. Due idee opposte della politica: in mezzo alle quali sta l´eventualità di conquistare la maggioranza alle proprie buone idee alle proprie idee che si credono buone.
La pace senza se e senza ma suona come un impegno di nettezza, ma anche come una tipica formula di interdizione. Un bando pregiudiziale. Non viene dopo l´esame di tutti i se e di tutti i ma, li inibisce. Segna una riga per terra, per contare chi è dentro e chi è fuori. Non ti pare che questo trascini almeno due guai concreti? Il primo è che i veti fanno la fila, e l´uno resta ostaggio del prossimo: non risponde infatti alla logica del veto il referendum sull´art.18, che in fondo ha per mira di prendere al laccio te? Il secondo è che, mirando a mettere nell´angolo dei concorrenti politici, leader rivali o partiti, il veto finisce per respingere il consenso di persone che sono arrivate grazie ai se e ai ma.
Qui c´è l´altra enorme novità delle mobilitazioni di massa, questa della pace ora, ma già prima, una volta spogliate dalle esuberanze manesche, quelle sulla globalizzazione dei diritti. Esse rovesciano l´amara esperienza storica della sinistra: che la vastità superba delle mobilitazioni di piazza era inversamente proporzionale al consenso passivo, e specialmente al voto. La sinistra (perfino noi, da rivoluzionari) metteva in piazza tanta gente, la Dc (e ora Berlusconi) vinceva le elezioni. Oggi la tanta gente in piazza ha la solida possibilità, e nel caso della guerra la certezza attestata dai sondaggi, di avere dietro di sé e rappresentare la maggioranza: benché il consenso della maggioranza non si traduca direttamente nel voto. Tuttavia le leadership di nuovi temi e mobilitazioni hanno su sé la responsabilità enorme di unire e consolidare questa maggioranza potenziale. I veti fondati sulla purezza sono un vicolo cieco. Non perché per tenere insieme le persone occorra mettere molta acqua nel proprio vino, ma perché quei veti possono essere miopi e sbagliati, la loro limpidezza può essere faciloneria.
Ho apprezzato che tu e altri abbiate controfirmato la posizione del pacifismo cosiddetto assoluto. Diventava ormai imbarazzante una personalizzazione della discussione su Gino Strada. Non solo per la forte avventatezza di certe dichiarazioni di Strada, che devono dipendere più dal suo carattere e dal suo umore che da una convinzione ferma (Bush come Hitler: ci mancherebbe. Oltretutto, nessuno è "come Hitler", salvo ottenere, oltre a uno svarione contemporaneo, il regalo del tutto improvvido d´una banalizzazione di Hitler). C´è una ragione in più: che chi si prodiga nella cura davvero umanitaria delle ferite di guerra e apre ospedali a Kabul o a Bagdad accetta perciò stesso una autolimitazione del proprio giudizio e del proprio impegno contro i regimi dei paesi ospiti. Non è vero, purtroppo, che il maneggio dei corpi squartati da rammendare basti a motivare la condanna di ogni impiego della forza: perché la sepoltura delle vittime e la cura dei feriti è la più nobile delle imprese, ma la più necessaria è quella che si propone di far cessare morte e ferite. Di ripudiare ogni guerra, ma di far cessare le guerre che ci sono e infuriano. Ho in mente l´esperienza amarissima della Croce Rossa di Ginevra nella Seconda Guerra, che riluttò, quando non si oppose, all´idea che le armi alleate intervenissero ad Auschwitz, per paura di vederne ostacolata la propria opera di assistenza.
Penso da molti anni che la questione "pacifista" sia tragicamente destinata a lacerare la sinistra: e poiché credo che la divergenza derivi in massima parte da un equivoco di fondo, trovo che a maggior ragione sia insensata su questo terreno la rassegnazione (o addirittura l´entusiasmo) alla rottura fra due sinistre. Sono contrario alla guerra, a tutte le guerre, e all´abuso stesso del loro maledetto nome. Ma la condizione per esserlo è di volere una legalità internazionale, un tribunale internazionale, una forza di polizia internazionale. Una polizia internazionale deve intervenire dove lo esiga (e lo permetta) l´urgenza del soccorso e della legittima difesa, e deve farlo nel modo proporzionato e con la premura per l´incolumità delle persone con cui diamo per ovvio che debba procedere la polizia dentro uno Stato. Non battersi per questo, o limitarsi a dire sì o no al ricorso alla forza, vuol dire lasciare campo libero all´esercizio della forza nella forma unilaterale e ottusa della guerra.
Tu dici ora di aver ripensato alla lezione del Kosovo. Ma per il Kosovo il dilemma non si esauriva nel sì o nel no all´intervento: doveva investire il modo dell´intervento, la scelta a tappeto della diserzione del terreno e dei bombardamenti d´alta quota. La guerra, appunto, e a senso unico, come sono ormai le guerre, quando non siano mutue stragi tribali, o sfide scioviniste e teocratiche, o risse di capibanda. Si chiamava arbitrariamente guerra l´aggressione genocida di Serbia (e Croazia) contro la Bosnia; si chiamò guerra l´intervento aereo pressoché incruento della Nato che liberò in poche ore Sarajevo da un assedio di anni; si sarebbe chiamata guerra l´intervento vilmente omesso che fece macellare fra le 6 e le 7 mila persone nella cittadina "internazionalmente protetta" di Srebrenica. Forse non saresti stato fautore di quel soccorso armato? Non lo saresti stato di fronte al mostruoso genocidio del Ruanda? Non lo saresti stato, nel momento in cui si andava compiendo il massacro di curdi col gas iracheno? Oggi la guerra in Iraq ci sembra una terribile avventura: l´avallo dell´Onu la renderebbe legittima, ma non meno spaventosa.
Concludo. C´è un´opinione che punta sulla chiarezza, e auspica che le due sinistre si separino, e facciano la propria strada. Io previi i ma e i se d´obbligo - penso il contrario. Oltretutto perché le sinistre non sono due, ma parecchie di più: e dunque possono provare a essere una. I fautori della divisione che siano scissionisti amatori, o onesti cultori della separazione consensuale - ti prendono per il titolare ideale della mezza eredità di sinistra. Io, come sai, spero e penso il contrario. Che non ti piaccia dimezzare i patrimoni, anzi. La fiducia che ti sei guadagnato, per tuo merito, per altrui demerito, e per le circostanze, fa sì che la messa in comune delle energie di tutte le sinistre, altrimenti ardua, sia una vera grande occasione. Dicono che tu sia cambiato, eri riformista, sei massimalista. Anzi soreliano, che vuoi uno sciopero generale dietro l´altro... Non ci scommetterei mezzo euro. Sei uno che sa come essere riformatori non significhi affatto mancare di rigore e intransigenza e coraggio personale: che il riformismo (quello dell´apostolato socialista, dei fondatori della Confederazione del Lavoro come Rinaldo Rigola che citi nelle interviste come se qualcuno li avesse sentiti nominare) non è la versione arrendevole e compromissoria del rivoluzionarismo. Che un riformismo rigoroso può far fruttare un rivoluzionarismo a fondo perduto.
Questa radicalità personale, non una fraseologia estremista, può fare di te il leader affidabile dei movimenti, e insieme capace di investirne la forza e le idee nella politica sociale ed elettorale e legislativa, italiana, europea e internazionale. Tu ti guardi dalle sabbie mobili di partito e di parlamento che vogliono inghiottirti, e d´altra parte rischi di diventare ostaggio dei movimenti che ti acclamano. Di stare dove si tocca, nell´acqua bassa del veto, di farlo durare troppo. Di puntare sul programma (fai bene, ma senza troppe illusioni: il mondo complicato non si lascia scrivere in un programma) da anteporre agli uomini, quando è chiaro che gli uomini, tu per primo, hanno già tolto il primato ai programmi. Quando hai proposto di escludere i segretari di partito dal pool di cervelli da mettere a ragionare del programma, hai dato l´impressione di compiacerti di un veto: superfluo, se non altro perché i segretari hanno tante interviste da dare che, dopo la prima riunione, non li avresti visti più. In questa reciproca trasfusione, in questa grande alleanza, dovresti proporti se te la senti - di convocare tutti, o quasi.
C´è gente in gamba. E tutti, o quasi, dovrebbero fare la propria solidale parte. Vanità e risentimenti a parte non li sottovaluto affatto, siamo fatti di risentimenti e vanità per il 95 per cento, il resto è acqua - non c´è nessuna ragione perché non avvenga.
Adriano Sofri