L'IPOCRISIA DEI POLITICI INDIGNATI
di Massimo Fini (Il Gazzettino, 24 agosto 2004)
Trovo assolutamente ipocrita l'indignazione della classe politica italiana, di maggioranza e di opposizione, per la fuga di Cesare Battisti, il terrorista pluriomicida, latitante in Francia. Chi se non il governo italiano, solo, o quasi, fra quelli della Ue, si è opposto al mandato di cattura europeo che evita le defatiganti, e spesso inevase, richieste di estradizione? E perché l'ha fatto, se non per il timore che un Garzon, spagnolo o francese o lussemburghese, potesse emetterlo nei confronti di qualche alto e altissimo papavero della politica italiana che ha la coscienza nera come la pece?
Ci si indigna perché Battisti è stato lasciato a piede libero dalle autorità francesi col solo obbligo della firma settimanale, in attesa del giudizio d'appello sull'estradizione.
Ma se Battisti, che non è in buone condizioni di salute e soffre di depressione, si fosse suicidato in carcere, avremmo visto questi stessi indignarsi contro la magistratura francese, gridando che per un uomo che è in attesa di un giudizio - e tale è Battisti, condannato in Italia all'ergastolo in via definitiva, decisione che però deve passare al vaglio della giustizia francese - non si possono usare "manette facili" e che la libertà del cittadino è un bene sacro. E con che diritto, con che faccia, ci si indigna coi francesi quando noi abbiamo fatto scappare Giorgio Pietrostefani, pluricondannato come uno dei mandanti dell'assassinio del commissario Calabresi, lasciato senza nemmeno l'ombra di una sorveglianza con la stupefacente motivazione che «non si può sorvegliare un cittadino» sia pur condannato ma in attesa di giudizio definitivo, quando in Italia la polizia controlla anche gli incensurati?
Il Pubblico ministero Armando Spataro ha definito Battisti un "criminale puro" perché ha alle spalle quattro omicidi. Certo. Ma che altro è Adriano Sofri per il quale in Italia c'è un vastissimo movimento, con alla testa il Capo dello Stato, che vuole concedergli la grazia senza che costui si degni nemmeno di chiederla? E se fra le molte e varie e confusissime ragioni per cui si chiede la liberazione di Sofri ce n'è una che ha qualche ragionevolezza, deriva dal fatto che il suo delitto è ormai molto lontano nel tempo, come lontani nel tempo sono quelli commessi da Battisti.
E come mai proprio nel caso di Battisti dovremmo credere alla giustizia di condanne inflitte da una Magistratura che in questi dieci anni è stata delegittimata in tutti i modi, arrivando persino ad affermare, per bocca nientemeno che del Presidente del Consiglio, che i giudici sono antropologicamente dei pazzi, dei malati, dei deviati? Chi ci assicura che Battisti non sia stato condannato per un qualche "complotto", per un pervertimento politico della Magistratura?
Non possiamo essere d'accordo con Armando Spataro, magistrato che stimiamo moltissimo, come, sia chiaro, stimiamo i Borrelli, le Boccassini, i Davigo, i D'Ambrosio, i Greco, gli Ielo e Antonio Di Pietro quando faceva il loro mestiere, e che invece in questi anni sono stati criminalizzati come se fossero loro i delinquenti e non i tangentisti, i concussori, i corruttori e i corrotti che, a norma di legge, perseguivano, quando afferma: «Mi auguro che nessuno dica che era giusto che Battisti fuggisse visto il sistema delle leggi italiane». Perché mai Cesare Battisti o chiunque altro dovrebbe sottoporsi docilmente alla Magistratura, ai Tribunali, alle leggi del suo Paese quando il Presidente del Consiglio di questo stesso Paese ha fatto di tutto per sottrarvisi e Bettino Craxi, altro premier, pluricondannato, che è fuggito in Tunisia viene chiamato "esule" e non "latitante" ed è considerato addirittura un "martire"? Se questi sono gli esempi che vengono dai primi cittadini del Paese, con il vergognoso appoggio di buona parte dei mass media, tutti noi abbiamo il diritto di fare altrettanto. O almeno di provarci.
Queste sono le conseguenze, che paghiamo ora e che pagheremo ancor più in futuro, di dieci anni di berlusconismo irresponsabile che ha costantemente attaccato la nostra Magistratura, i nostri Tribunali, le nostre leggi. Questo è il vero scandalo. Non il fatto che il premier, per ricevere degli illustri ospiti stranieri, si sia messo una bandana da pirata.
24.8.04
21.8.04
SOFRI SUL CARCERE
stralcio da un'intervista ad Adriano Sofri realizzata e inviata da Daniela Binello
(...)
Sofri _ I più agguerriti, brutta parola, i più intelligenti e anche i più frustrati criminologi e studiosi del concetto di pena della nostra società parlano sempre di più della giustizia penale come di un business, come di un grande affare. Del resto ormai questo è arrivato anche alle cronache dei profani: la privatizzazione delle carceri. Gli appalti, la carcerizzazione affidata a società private che raggiunge percentuali inaudite, per esempio negli Stati Uniti dove ci sono due milioni di detenuti: un enorme affare. Nel caso dell’Italia noi siamo ancora a mezza strada fra l’affare moderno e l’arcaismo più gretto, più grossolano. I detenuti di cui ti ho descritto, così inadeguatamente, la terribile indigenza, assoluta spoliazione, sono al tempo stesso persone che costano ufficialmente alla comunità, allo Stato, quindi a tutti quanti, fra le 450 e le 700mila lire al giorno (Sofri è entrato in carcere otto anni fa, per cui continua a esprimersi in valori del vecchio conio; oggi si direbbe da 232 a 362 euro al giorno, ndr), o a volte una cifra superiore. Questo vuol dire che tutta questa macchina ha un costo che viene distribuito per ogni detenuto arrivando a sommare una cifra così alta. E’ facile, e non solo per paradosso, invertire questo ragionamento, cioè non che ogni detenuto costa allo Stato 450mila lire al giorno, ma che lo Stato costa a ogni detenuto, compresa l’ultima zingarella arrivata in galera con due bambini, compreso il ragazzo marocchino arrivato ieri o il tossicodipendente italiano sorpreso a rubare un’autoradio, 450mila lire al giorno (232 euro).
La tariffa tabellare dell’alimentazione quotidiana normale in un carcere, “colazione, pranzo e cena”, è di 2.530 lire (1,31 euro). Per esempio a Rebibbia, il carcere migliore, il più importante, il più vasto. Dunque fai una relazione fra queste cose e naturalmente salterà agli occhi l’assoluta mostruosità e anche l'assurdità. E’ grottesco. E’ grottesco, per esempio, che oggi si discuta _ in buona fede o mala _ del fatto che non si possa fare altro per affrontare la crisi delle carceri che costruire nuove carceri. Intanto, questo è un meccanismo infinito: più persone vorrai arrestare, più carceri dovrai costruire. A un certo punto, praticamente, potrai nominare “carcere” il mondo in cui viviamo, ma la cosa più interessante, più pratica, invece, è che tu non hai soldi nemmeno per riparare un rubinetto che perde o che non dà più acqua. Capisci? Tu non hai i soldi, non dico per mettere una doccia nelle celle o per eliminare l’adiacenza fra il cesso e il tavolino sul quale mangi _ compresa la mia cella per intenderci _, ma non hai il denaro nemmeno per pagare regolarmente gli stipendi degli agenti carcerari o per assumere dei direttori di carceri in molte galere in cui mancano. Dunque, una situazione del genere è o non è grottesca?
(...)
stralcio da un'intervista ad Adriano Sofri realizzata e inviata da Daniela Binello
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Sofri _ I più agguerriti, brutta parola, i più intelligenti e anche i più frustrati criminologi e studiosi del concetto di pena della nostra società parlano sempre di più della giustizia penale come di un business, come di un grande affare. Del resto ormai questo è arrivato anche alle cronache dei profani: la privatizzazione delle carceri. Gli appalti, la carcerizzazione affidata a società private che raggiunge percentuali inaudite, per esempio negli Stati Uniti dove ci sono due milioni di detenuti: un enorme affare. Nel caso dell’Italia noi siamo ancora a mezza strada fra l’affare moderno e l’arcaismo più gretto, più grossolano. I detenuti di cui ti ho descritto, così inadeguatamente, la terribile indigenza, assoluta spoliazione, sono al tempo stesso persone che costano ufficialmente alla comunità, allo Stato, quindi a tutti quanti, fra le 450 e le 700mila lire al giorno (Sofri è entrato in carcere otto anni fa, per cui continua a esprimersi in valori del vecchio conio; oggi si direbbe da 232 a 362 euro al giorno, ndr), o a volte una cifra superiore. Questo vuol dire che tutta questa macchina ha un costo che viene distribuito per ogni detenuto arrivando a sommare una cifra così alta. E’ facile, e non solo per paradosso, invertire questo ragionamento, cioè non che ogni detenuto costa allo Stato 450mila lire al giorno, ma che lo Stato costa a ogni detenuto, compresa l’ultima zingarella arrivata in galera con due bambini, compreso il ragazzo marocchino arrivato ieri o il tossicodipendente italiano sorpreso a rubare un’autoradio, 450mila lire al giorno (232 euro).
La tariffa tabellare dell’alimentazione quotidiana normale in un carcere, “colazione, pranzo e cena”, è di 2.530 lire (1,31 euro). Per esempio a Rebibbia, il carcere migliore, il più importante, il più vasto. Dunque fai una relazione fra queste cose e naturalmente salterà agli occhi l’assoluta mostruosità e anche l'assurdità. E’ grottesco. E’ grottesco, per esempio, che oggi si discuta _ in buona fede o mala _ del fatto che non si possa fare altro per affrontare la crisi delle carceri che costruire nuove carceri. Intanto, questo è un meccanismo infinito: più persone vorrai arrestare, più carceri dovrai costruire. A un certo punto, praticamente, potrai nominare “carcere” il mondo in cui viviamo, ma la cosa più interessante, più pratica, invece, è che tu non hai soldi nemmeno per riparare un rubinetto che perde o che non dà più acqua. Capisci? Tu non hai i soldi, non dico per mettere una doccia nelle celle o per eliminare l’adiacenza fra il cesso e il tavolino sul quale mangi _ compresa la mia cella per intenderci _, ma non hai il denaro nemmeno per pagare regolarmente gli stipendi degli agenti carcerari o per assumere dei direttori di carceri in molte galere in cui mancano. Dunque, una situazione del genere è o non è grottesca?
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9.8.04
Se questi sono uomini
di MICHELE SERRA (Repubblica, 9 agosto 2004)
Per passare da uomo a bestiame, ci vuole pochissimo. Basta imbarcarsi in cento sopra una barca lunga come un camion. E' il passaggio inverso, da bestiame a uomo, l'impresa impossibile. Riavere un'identità, un nome, un'età quando si approda, quando il carico fitto dei corpi infreddoliti, stremati, si scioglie e prova a chiedere aiuto voce per voce, storia per storia, diritto per diritto.
Sull'ennesima carretta arrivata ieri, ennesimo "giorno del grande esodo" secondo la facile iperbole che dedichiamo alle nostre cose, ventotto erano già morti e finiti in mare durante la traversata dalla Libia alla Sicilia. Un quarto del carico.
Pare che, come i sopravvissuti, fossero ivoriani o ghanesi o liberiani, nazionalità africane con le quali ci stiamo impratichendo soprattutto grazie a qualche calciatore di successo.
Un quarto del carico, si diceva: perché quanto all'identità, cioè agli esseri umani che corrispondevano ai tonfi dei corpi nell'acqua nera, è già arduo darne una ai vivi, figuriamoci ai morti.
L'immigrazione dev'essere soprattutto questo spavento, per noi inimmaginabile: non riuscire più a dire di sé, avere un racconto - e che racconto - e non trovare più lingua né orecchie per raccontarlo. Essere all'arrivo, dopo averla scampata, solo uno del mucchio, merce indesiderata.
Intuire che ogni eventuale diritto - o briciola di diritto - si regge sul concetto di persona, di individuo, e annaspare nel numero vago e indistinto di un problema, quello dei "clandestini". Così vago e indistinto, quel numero, che mentre il ministro dell'Interno Pisanu lancia l'allarme sul cataclisma sociale e antropologico imminente, paventando "due milioni di clandestini alle porte", il suo sottosegretario Mantovano annuncia che nei primi sei mesi di quest'anno gli sbarchi sono dimezzati rispetto al 2003, e ridotti a un quarto rispetto al 2002: da dodicimila a ottomila a tremilacinquecento. Forse i milioni diventano migliaia, e viceversa, con speciale disinvoltura, proprio quando i conti non si fanno più con le persone, con gli individui, ma con "la piaga dell'immigrazione clandestina".
Così vago e indistinto, questo numero, e così innominate le storie e le vite di quei vivi e di quei morti, che il neo-ministro delle Riforme Calderoli - uno che ogni volta che parla comunica disagio e imbarazzo - non trova di meglio, commentando quest'ultima tragedia mediterranea, che proporre "nuove regole di ingaggio" per la nostra marineria contro i navigli in arrivo, come se si stesse giocando a battaglia navale, o come fosse una guerra vera, con qualcuno che ci vuole invadere e distruggere.
Le parole di Calderoli cadono, al solito, contro oggetti non identificati.
Ciascuno portatore muto di incredibili storie, mezza Africa attraversata su camion sgangherati, mezzo mare scavalcato a dorso di barche pazzesche, la morte di stenti o di malattia di quello che ti respirava accanto, l'arrivo in una terra della quale non sai niente, non le leggi, non la lingua, non il modo con il quale ti chiederanno chi sei e dove vai.
Tanto difficile è, per gli immigrati clandestini, ritornare uomo e smettere di essere bestiame, che alcuni di loro non sapranno mai di avercela fatta, sia pure virtualmente: per quattordici degli arrivati sulla penultima nave, quella dei finti sudanesi, il Tribunale di Roma (nel disinteresse generale) ha dichiarato illegittima l'espulsione, perfino nei termini di quella strettoia che è la legge Bossi-Fini. Avevano il diritto di restare, quei quattordici, ma non lo sapranno mai perché erano già stati rimpatriati in grande fretta. Persone pazienti, qui in Italia, erano riuscite a dare loro un nome, una nazionalità e un diritto ad personam. Troppa grazia per chi è rassegnato a non contare nulla, a non raccontare nulla e non essere raccontato.
di MICHELE SERRA (Repubblica, 9 agosto 2004)
Per passare da uomo a bestiame, ci vuole pochissimo. Basta imbarcarsi in cento sopra una barca lunga come un camion. E' il passaggio inverso, da bestiame a uomo, l'impresa impossibile. Riavere un'identità, un nome, un'età quando si approda, quando il carico fitto dei corpi infreddoliti, stremati, si scioglie e prova a chiedere aiuto voce per voce, storia per storia, diritto per diritto.
Sull'ennesima carretta arrivata ieri, ennesimo "giorno del grande esodo" secondo la facile iperbole che dedichiamo alle nostre cose, ventotto erano già morti e finiti in mare durante la traversata dalla Libia alla Sicilia. Un quarto del carico.
Pare che, come i sopravvissuti, fossero ivoriani o ghanesi o liberiani, nazionalità africane con le quali ci stiamo impratichendo soprattutto grazie a qualche calciatore di successo.
Un quarto del carico, si diceva: perché quanto all'identità, cioè agli esseri umani che corrispondevano ai tonfi dei corpi nell'acqua nera, è già arduo darne una ai vivi, figuriamoci ai morti.
L'immigrazione dev'essere soprattutto questo spavento, per noi inimmaginabile: non riuscire più a dire di sé, avere un racconto - e che racconto - e non trovare più lingua né orecchie per raccontarlo. Essere all'arrivo, dopo averla scampata, solo uno del mucchio, merce indesiderata.
Intuire che ogni eventuale diritto - o briciola di diritto - si regge sul concetto di persona, di individuo, e annaspare nel numero vago e indistinto di un problema, quello dei "clandestini". Così vago e indistinto, quel numero, che mentre il ministro dell'Interno Pisanu lancia l'allarme sul cataclisma sociale e antropologico imminente, paventando "due milioni di clandestini alle porte", il suo sottosegretario Mantovano annuncia che nei primi sei mesi di quest'anno gli sbarchi sono dimezzati rispetto al 2003, e ridotti a un quarto rispetto al 2002: da dodicimila a ottomila a tremilacinquecento. Forse i milioni diventano migliaia, e viceversa, con speciale disinvoltura, proprio quando i conti non si fanno più con le persone, con gli individui, ma con "la piaga dell'immigrazione clandestina".
Così vago e indistinto, questo numero, e così innominate le storie e le vite di quei vivi e di quei morti, che il neo-ministro delle Riforme Calderoli - uno che ogni volta che parla comunica disagio e imbarazzo - non trova di meglio, commentando quest'ultima tragedia mediterranea, che proporre "nuove regole di ingaggio" per la nostra marineria contro i navigli in arrivo, come se si stesse giocando a battaglia navale, o come fosse una guerra vera, con qualcuno che ci vuole invadere e distruggere.
Le parole di Calderoli cadono, al solito, contro oggetti non identificati.
Ciascuno portatore muto di incredibili storie, mezza Africa attraversata su camion sgangherati, mezzo mare scavalcato a dorso di barche pazzesche, la morte di stenti o di malattia di quello che ti respirava accanto, l'arrivo in una terra della quale non sai niente, non le leggi, non la lingua, non il modo con il quale ti chiederanno chi sei e dove vai.
Tanto difficile è, per gli immigrati clandestini, ritornare uomo e smettere di essere bestiame, che alcuni di loro non sapranno mai di avercela fatta, sia pure virtualmente: per quattordici degli arrivati sulla penultima nave, quella dei finti sudanesi, il Tribunale di Roma (nel disinteresse generale) ha dichiarato illegittima l'espulsione, perfino nei termini di quella strettoia che è la legge Bossi-Fini. Avevano il diritto di restare, quei quattordici, ma non lo sapranno mai perché erano già stati rimpatriati in grande fretta. Persone pazienti, qui in Italia, erano riuscite a dare loro un nome, una nazionalità e un diritto ad personam. Troppa grazia per chi è rassegnato a non contare nulla, a non raccontare nulla e non essere raccontato.
5.8.04
L'AVVOCATO "TAO", SADDAM E I FUOCHI D'ARTIFICIO
di Matteo Tassinari
"Dopo che avrò detto chi è l'assassino del bimbo di Anna Maria Franzoni, mi occuperò di Saddam". Alt. Un passo indietro e cerchiamo di capire questo avvocato dai modi vulcanici e le parole che ringhiano come Gattuso al 90°. A mestare nei liquami torbidi della paella dell'informazione, solo i politici superano gli avvocati e giornalisti (di cui sono un inutile rappresentante di categoria). Veniamo ai fatti. Due mattine fa. Telefono a Luca. Mi racconta, fresca fresca, che la Adn Kronos ha pubblicato che il futuro avvocato di Saddam Hussein sarà Carlo Taormina: "Mi ha chiamato al telefono dalla Giordania la sorella del dittatore perchè il Rais mi vorrebbe al fianco del suo collegio difensivo". Al che capisco che Luca è di buon umore e gli va di spararle grosse invece di prendersela per le boiate che quel "cazzone" che tutti conoscono attua e dice (qui non mi riferisco a Taormina, ma sapete lo stesso di chi scrivo). E rido, rido, rido quanto e come avessi ascoltato un monologo di Luttazzi. Luca, ridendo pure lui, insiste: "Matteo, guarda che è una notizia vera. L'ha lanciata l'Adn Kronos". Ok! La Kronos non sarà la Reuters, però è pur sempre un'agenzia di stampa. Mi fiondo al computer. L'accendo. Google. Passano circa cinque minuti e il web informatico è pieno dell'ultima cagata dell'avvocato Carlo Taormina, ormai meglio conosciuto come il mostro di Cogne. Anche il sito o blog più buzzurro del web riporta la dichiarazione del Taormina, nome che evoca luoghi assolati e invece è solo un avvocato. In una intervista, "Tao" per gli amici, ha ribadito sul caso Cogne: "Il caso è risolto. Il nome dell'assassino, che stiamo tenendo sotto controllo perchè non scappi, sarà dato alla Procura di Torino". Si riferisca allo psichiatra Paolo Crepet? Al criminologo Bruno? Bruno Vespa? La dichiarazione termina così: "Poi mi ccuperò di Saddam". E un cittadino medio qualunque, a questo punto, è autorizzato a svenire, farsi una pippa, urlare, praticare il cunnilingus con chiunque incontri, guardare "Porta a Porta" e pensare che sia il Processo di Biscardi. Di più. Ci chiediamo come ci sconvolgerà "Tao", che avvocato lo fu anche di Erich Priebke, l'ex ufficiale nazista responsabile dell'eccidio delle Fosse Ardeatine. Dicendo che Tremonti è gay? Oppure che quel rettile di Costantino è figlio illegittimo dell'On. Rosy Bindi? Che Guevara era ipotente? Che diventerà anche l'avvocato del mostro belga di Marcinelle? Oppure dirà che il Papa ha un amante e si chiama Loretta di Bologna? Ma la boutade ha un nodo cruciale, politico: "Qualcuno - ha detto "Tao" - griderà allo scandalo facendo notare che il mio Premier è alleato di Bush, mentre io, deputato di F.I. ed ex sottosegretario all'interno, difendo Saddam. Tutto ciò non influisce affatto sulla mia scelta politica". Per un giorno i media hanno riempito le pagine e le tv e Internet per una falsa dichiarazione sparata fredda. Quando possono, i media, non lasciano nulla in disparte, ti fanno pagare tutto col sangue. E a rate. Non sanno nulla, ma non vedono l'ora di scriverlo.
Ciò che mi lascia più basito è un'apparente "banale" affermazione del "Tao", il quale ha pubblicamente ammesso la propria ammirazione per Muccioli. Testuale la Kronos: "Uno che si metteva nel letto dei drogati in crisi d'astinenza per impedire ricadute". E come faceva, signor avvocato fuochi d'artificio!
di Matteo Tassinari
"Dopo che avrò detto chi è l'assassino del bimbo di Anna Maria Franzoni, mi occuperò di Saddam". Alt. Un passo indietro e cerchiamo di capire questo avvocato dai modi vulcanici e le parole che ringhiano come Gattuso al 90°. A mestare nei liquami torbidi della paella dell'informazione, solo i politici superano gli avvocati e giornalisti (di cui sono un inutile rappresentante di categoria). Veniamo ai fatti. Due mattine fa. Telefono a Luca. Mi racconta, fresca fresca, che la Adn Kronos ha pubblicato che il futuro avvocato di Saddam Hussein sarà Carlo Taormina: "Mi ha chiamato al telefono dalla Giordania la sorella del dittatore perchè il Rais mi vorrebbe al fianco del suo collegio difensivo". Al che capisco che Luca è di buon umore e gli va di spararle grosse invece di prendersela per le boiate che quel "cazzone" che tutti conoscono attua e dice (qui non mi riferisco a Taormina, ma sapete lo stesso di chi scrivo). E rido, rido, rido quanto e come avessi ascoltato un monologo di Luttazzi. Luca, ridendo pure lui, insiste: "Matteo, guarda che è una notizia vera. L'ha lanciata l'Adn Kronos". Ok! La Kronos non sarà la Reuters, però è pur sempre un'agenzia di stampa. Mi fiondo al computer. L'accendo. Google. Passano circa cinque minuti e il web informatico è pieno dell'ultima cagata dell'avvocato Carlo Taormina, ormai meglio conosciuto come il mostro di Cogne. Anche il sito o blog più buzzurro del web riporta la dichiarazione del Taormina, nome che evoca luoghi assolati e invece è solo un avvocato. In una intervista, "Tao" per gli amici, ha ribadito sul caso Cogne: "Il caso è risolto. Il nome dell'assassino, che stiamo tenendo sotto controllo perchè non scappi, sarà dato alla Procura di Torino". Si riferisca allo psichiatra Paolo Crepet? Al criminologo Bruno? Bruno Vespa? La dichiarazione termina così: "Poi mi ccuperò di Saddam". E un cittadino medio qualunque, a questo punto, è autorizzato a svenire, farsi una pippa, urlare, praticare il cunnilingus con chiunque incontri, guardare "Porta a Porta" e pensare che sia il Processo di Biscardi. Di più. Ci chiediamo come ci sconvolgerà "Tao", che avvocato lo fu anche di Erich Priebke, l'ex ufficiale nazista responsabile dell'eccidio delle Fosse Ardeatine. Dicendo che Tremonti è gay? Oppure che quel rettile di Costantino è figlio illegittimo dell'On. Rosy Bindi? Che Guevara era ipotente? Che diventerà anche l'avvocato del mostro belga di Marcinelle? Oppure dirà che il Papa ha un amante e si chiama Loretta di Bologna? Ma la boutade ha un nodo cruciale, politico: "Qualcuno - ha detto "Tao" - griderà allo scandalo facendo notare che il mio Premier è alleato di Bush, mentre io, deputato di F.I. ed ex sottosegretario all'interno, difendo Saddam. Tutto ciò non influisce affatto sulla mia scelta politica". Per un giorno i media hanno riempito le pagine e le tv e Internet per una falsa dichiarazione sparata fredda. Quando possono, i media, non lasciano nulla in disparte, ti fanno pagare tutto col sangue. E a rate. Non sanno nulla, ma non vedono l'ora di scriverlo.
Ciò che mi lascia più basito è un'apparente "banale" affermazione del "Tao", il quale ha pubblicamente ammesso la propria ammirazione per Muccioli. Testuale la Kronos: "Uno che si metteva nel letto dei drogati in crisi d'astinenza per impedire ricadute". E come faceva, signor avvocato fuochi d'artificio!
3.8.04
BANANAS - Riposi in pace
di Marco Travaglio
Premesso che quanto è accaduto ieri alla Camera è roba da squadristi. Premesso che Chiara Moroni è in Parlamento perché l'hanno eletta e ha il diritto di dire ciò che crede senza essere insultata. Premesso che chi ha malmenato Renzo Lusetti in aula non dovrebbe metterci piede mai più. Ecco, premesso tutto ciò, forse il modo migliore per ricordare Sergio Moroni, l'ex tesoriere del Psi lombardo morto suicida il 2 settembre '92 nella sua casa di Brescia dopo un avviso di garanzia per finanziamento illecito, è quello di rileggere la sua lettera di addio al mondo, inviata all'allora presidente della Camera Giorgio Napolitano.
In quella lettera - diversamente da quel che ha detto la figlia Chiara l'altro giorno alla Camera e hanno scritto ieri vari giornali - non compariva mai la parola "innocenza". Perché Moroni non si proclamava affatto innocente, ma partecipe di un sistema illegale, pur sostenendo che così facevan tutti e che le inchieste (com'era inevitabile, del resto) colpivano soltanto alcuni (quelli raggiunti da prove o chiamati in causa dai complici), in una "ruota della fortuna" che "assegna a singoli il compito di vittime sacrificali". Premesso che non aveva "mai approfittato di una lira", Moroni scriveva: "Un grande velo di ipocrisia (condivisa da tutti) ha coperto per lunghi anni i modi di vita dei partiti e i loro sistemi di finanziamento. C'è una cultura tutta italiana nel definire regole e leggi che si sa non possono essere rispettate, muovendo dalla tacita intesa che insieme si definiranno solidarietà nel costruire le procedure e i comportamenti che violano queste stesse regole. Mi rendo conto che spesso non è facile la distinzione tra quanti hanno accettato di adeguarsi a procedure legalmente scorrette in una logica di partito e quanti invece ne hanno fatto strumento di interessi personali. Rimane comunque la necessità di distinguere ancor prima sul piano morale che su quello legale… Ho commesso un errore. Accettando il sistema, ritenendo che ricevere contributi e sostegni per il partito si giustificasse in un contesto dove questa era prassi comune…". E che altro significa "accettare di adeguarsi a procedure legalmente scorrette in una logica di partito", "ricevendo contributi e sostegni per il partito", se non aver commesso il reato di finanziamento illecito dei partiti, istituito dal Parlamento italiano con la famosa legge del 1974?
Non è nemmeno vero che, dopo la sua morte, Moroni sia stato assolto. Anzi. La sua posizione fu stralciata per "morte del reo". Ma nel 1994 la sentenza del Tribunale di Milano a carico dei suoi coimputati, nel processo sulle tangenti per le discariche, appurò quanto segue: "Risulta accertata e pienamente provata la materialità dei fatti" e cioè che Moroni aveva ricevuto "circa 200 milioni in totale nelle sue mani… in una cartellina tipo quelle da ufficio, avvolta in un giornale". Sentenza poi confermata in appello e in Cassazione.
Ai funerali, Bettino Craxi tentò di scagliare il cadavere di Moroni contro il pool Mani Pulite, tuonando: "Hanno creato un clima infame". Gli rispose il procuratore aggiunto Gerardo D'Ambrosio: "Il clima infame l'hanno creato loro. Noi ci siamo limitati a scoprire e perseguire fatti previsti dalla legge come reati". E fu proprio un dirigente socialista arrestato per mesi con l'accusa di varie mazzette, Loris Zaffra, a indicare i colpevoli di quel clima infame. Che non erano i magistrati. E nemmeno i giornalisti. Erano i partiti di Tangentopoli, che scaricavano ignobilmente i loro uomini che via via venivano presi con le mani nel sacco, trattandoli da "mariuoli" isolati e fingendo di non conoscerli. Per questo - spiegò Zaffra - Moroni si tolse la vita. La sua intervista a Marcella Andreoli, su Panorama del 24 gennaio '93, merita di esser letta dai tanti smemorati di oggi: "Venivo guardato - racconta Zaffra, appena scarcerato senza aver parlato - come un essere strano, miracolato, proprio perché ero stato anche a San Vittore… Avevo l'impressione di essere fuori dal mondo, di essere l'unico rimasto a presidiare un palazzo deserto. Mi sono sentito in una trincea vuota, e dopo tanti giorni di carcere ho capito che stavo combattendo una battaglia persa in partenza. La reazione del sistema era assolutamente ipocrita. Aveva ragione il povero Sergio Moroni, quando nella sua lettera scritta prima del suicidio aveva parlato di 'ruota della fortuna': se sei stato preso, peggio per te. Con Moroni ne avevamo discusso la scorsa estate. Aveva molto sofferto per il cordone sanitario che gli era stato fatto attorno. Tangentopoli ha messo a nudo, oltre al giro delle tangenti, la slealtà dei rapporti politici. Sei stato arrestato? Peccato per te, entri nel cerchio delle mele marce. Gli altri, che con te hanno diviso errori e responsabilità, si girano dall'altra parte. Inaccettabile". Complotti della magistratura? Macchè: "Ero in carcere quando Craxi scrisse quei tre corsivi contro il pool Mani Pulite e il giudice Di Pietro. Ma Craxi sbaglia… I magistrati non estorcono false confessioni: alla fine l'imputato racconta la verità. Sarà amaro ammetterlo, ma è così". Oggi Zaffra è un dirigente di Forza Italia. Vogliamo credere almeno a lui?
Possibile che l'altro giorno, alla Camera, nessuno abbia sentito il bisogno di alzarsi per ricordare cos'era Tangentopoli e chi erano le sue vittime (non i ladri, ma i derubati)? Possibile che nessuno rammenti i costi della corruzione, stimati dal Centro Einaudi di Torino in 15-20 mila miliardi di lire all'anno, per non parlare del boom del debito pubblico? Possibile che nessuno si ribelli all'ultimo colpo di spugna su Tangentopoli, il più insidioso, quello del revisionismo storico? Possibile che, a 20 anni dalla morte di Berlinguer e a 24 dalla sua intervista a Scalfari sulla "questione morale", destra e sinistra regalino a un pugno di squadristi in camicia verde la bandiera della denuncia e della lotta alla corruzione? Se proprio non trovano le parole, si rileggano la lettera di Moroni. O magari, visto che tanto lo rimpiangono, il discorso di Craxi alla Camera il 3 luglio '92: "All'ombra di un finanziamento irregolare e illegale ai partiti e al sistema politico fioriscono e s'intrecciano casi di corruzione e concussione… Si è diffusa nel Paese, nella vita delle istituzioni e delle pubbliche amministrazioni, una rete di corruttele grandi e piccole che segnalano uno stato di crescente degrado della vita pubblica… I casi sono della più diversa natura e spesso sconfinano con il racket malavitoso". Questo, cari signori, non è Di Pietro. E' Craxi. Vogliamo credere almeno a lui?
di Marco Travaglio
Premesso che quanto è accaduto ieri alla Camera è roba da squadristi. Premesso che Chiara Moroni è in Parlamento perché l'hanno eletta e ha il diritto di dire ciò che crede senza essere insultata. Premesso che chi ha malmenato Renzo Lusetti in aula non dovrebbe metterci piede mai più. Ecco, premesso tutto ciò, forse il modo migliore per ricordare Sergio Moroni, l'ex tesoriere del Psi lombardo morto suicida il 2 settembre '92 nella sua casa di Brescia dopo un avviso di garanzia per finanziamento illecito, è quello di rileggere la sua lettera di addio al mondo, inviata all'allora presidente della Camera Giorgio Napolitano.
In quella lettera - diversamente da quel che ha detto la figlia Chiara l'altro giorno alla Camera e hanno scritto ieri vari giornali - non compariva mai la parola "innocenza". Perché Moroni non si proclamava affatto innocente, ma partecipe di un sistema illegale, pur sostenendo che così facevan tutti e che le inchieste (com'era inevitabile, del resto) colpivano soltanto alcuni (quelli raggiunti da prove o chiamati in causa dai complici), in una "ruota della fortuna" che "assegna a singoli il compito di vittime sacrificali". Premesso che non aveva "mai approfittato di una lira", Moroni scriveva: "Un grande velo di ipocrisia (condivisa da tutti) ha coperto per lunghi anni i modi di vita dei partiti e i loro sistemi di finanziamento. C'è una cultura tutta italiana nel definire regole e leggi che si sa non possono essere rispettate, muovendo dalla tacita intesa che insieme si definiranno solidarietà nel costruire le procedure e i comportamenti che violano queste stesse regole. Mi rendo conto che spesso non è facile la distinzione tra quanti hanno accettato di adeguarsi a procedure legalmente scorrette in una logica di partito e quanti invece ne hanno fatto strumento di interessi personali. Rimane comunque la necessità di distinguere ancor prima sul piano morale che su quello legale… Ho commesso un errore. Accettando il sistema, ritenendo che ricevere contributi e sostegni per il partito si giustificasse in un contesto dove questa era prassi comune…". E che altro significa "accettare di adeguarsi a procedure legalmente scorrette in una logica di partito", "ricevendo contributi e sostegni per il partito", se non aver commesso il reato di finanziamento illecito dei partiti, istituito dal Parlamento italiano con la famosa legge del 1974?
Non è nemmeno vero che, dopo la sua morte, Moroni sia stato assolto. Anzi. La sua posizione fu stralciata per "morte del reo". Ma nel 1994 la sentenza del Tribunale di Milano a carico dei suoi coimputati, nel processo sulle tangenti per le discariche, appurò quanto segue: "Risulta accertata e pienamente provata la materialità dei fatti" e cioè che Moroni aveva ricevuto "circa 200 milioni in totale nelle sue mani… in una cartellina tipo quelle da ufficio, avvolta in un giornale". Sentenza poi confermata in appello e in Cassazione.
Ai funerali, Bettino Craxi tentò di scagliare il cadavere di Moroni contro il pool Mani Pulite, tuonando: "Hanno creato un clima infame". Gli rispose il procuratore aggiunto Gerardo D'Ambrosio: "Il clima infame l'hanno creato loro. Noi ci siamo limitati a scoprire e perseguire fatti previsti dalla legge come reati". E fu proprio un dirigente socialista arrestato per mesi con l'accusa di varie mazzette, Loris Zaffra, a indicare i colpevoli di quel clima infame. Che non erano i magistrati. E nemmeno i giornalisti. Erano i partiti di Tangentopoli, che scaricavano ignobilmente i loro uomini che via via venivano presi con le mani nel sacco, trattandoli da "mariuoli" isolati e fingendo di non conoscerli. Per questo - spiegò Zaffra - Moroni si tolse la vita. La sua intervista a Marcella Andreoli, su Panorama del 24 gennaio '93, merita di esser letta dai tanti smemorati di oggi: "Venivo guardato - racconta Zaffra, appena scarcerato senza aver parlato - come un essere strano, miracolato, proprio perché ero stato anche a San Vittore… Avevo l'impressione di essere fuori dal mondo, di essere l'unico rimasto a presidiare un palazzo deserto. Mi sono sentito in una trincea vuota, e dopo tanti giorni di carcere ho capito che stavo combattendo una battaglia persa in partenza. La reazione del sistema era assolutamente ipocrita. Aveva ragione il povero Sergio Moroni, quando nella sua lettera scritta prima del suicidio aveva parlato di 'ruota della fortuna': se sei stato preso, peggio per te. Con Moroni ne avevamo discusso la scorsa estate. Aveva molto sofferto per il cordone sanitario che gli era stato fatto attorno. Tangentopoli ha messo a nudo, oltre al giro delle tangenti, la slealtà dei rapporti politici. Sei stato arrestato? Peccato per te, entri nel cerchio delle mele marce. Gli altri, che con te hanno diviso errori e responsabilità, si girano dall'altra parte. Inaccettabile". Complotti della magistratura? Macchè: "Ero in carcere quando Craxi scrisse quei tre corsivi contro il pool Mani Pulite e il giudice Di Pietro. Ma Craxi sbaglia… I magistrati non estorcono false confessioni: alla fine l'imputato racconta la verità. Sarà amaro ammetterlo, ma è così". Oggi Zaffra è un dirigente di Forza Italia. Vogliamo credere almeno a lui?
Possibile che l'altro giorno, alla Camera, nessuno abbia sentito il bisogno di alzarsi per ricordare cos'era Tangentopoli e chi erano le sue vittime (non i ladri, ma i derubati)? Possibile che nessuno rammenti i costi della corruzione, stimati dal Centro Einaudi di Torino in 15-20 mila miliardi di lire all'anno, per non parlare del boom del debito pubblico? Possibile che nessuno si ribelli all'ultimo colpo di spugna su Tangentopoli, il più insidioso, quello del revisionismo storico? Possibile che, a 20 anni dalla morte di Berlinguer e a 24 dalla sua intervista a Scalfari sulla "questione morale", destra e sinistra regalino a un pugno di squadristi in camicia verde la bandiera della denuncia e della lotta alla corruzione? Se proprio non trovano le parole, si rileggano la lettera di Moroni. O magari, visto che tanto lo rimpiangono, il discorso di Craxi alla Camera il 3 luglio '92: "All'ombra di un finanziamento irregolare e illegale ai partiti e al sistema politico fioriscono e s'intrecciano casi di corruzione e concussione… Si è diffusa nel Paese, nella vita delle istituzioni e delle pubbliche amministrazioni, una rete di corruttele grandi e piccole che segnalano uno stato di crescente degrado della vita pubblica… I casi sono della più diversa natura e spesso sconfinano con il racket malavitoso". Questo, cari signori, non è Di Pietro. E' Craxi. Vogliamo credere almeno a lui?