Prodi e Giudamaccablog
Il Foglio (26/02/2005)
Blogger geniale dice tutto quel che c’è da dire sulla (non) politica di Prodi
Rubiamo il testo dell’editoriale a un blogger talentuoso, Giudamaccablog, che ha parodiato l’articolo di Romano Prodi pubblicato ieri nel Corriere della Sera. E lo ringraziamo.
“Saluti al Direttore, anche se il mio precedente articolo era per Repubblica voglio bene anche a voi. Siete tanto bravi e mi fate riflettere molto. (Mille battute circa). Mi avete fatto due domande, che mi hanno fatto riflettere a lungo – ve l’avevo già detto? – e queste domande sono: perché ho detto a Bush benvenuto, mentre a giugno dell'anno scorso gli avevo mandato a dire vaffanculo brutto cowboy guerrafondaio? E il fatto che dica oggi a Bush benvenuto significa forse che ho cambiato idea? Per rispondere a questa domanda ci vorrebbe una linea di politica estera dell’Unione, ma non c’è, quindi potrei dirvi di rifarmi la domanda quando e se ne avremo concordata una e di non romper l’anima, che sono così impegnato che non riesco nemmeno ad aggiornare il blog. Ma siccome sono stato il capo dell’Europa per cinque anni – ve l’ho mai detto? – e adesso sono il capo dell’Unione, me ne fotto che non ci sia una linea di politica estera e vi dico la mia. (Millesettecento battute).
Non ho cambiato idea, Bush è un puzzone e non doveva fare la guerra, le elezioni sono state carine ma ci vuole l’Onu. Se non mando più Bush a quel paese è solo perché adesso è stato carino con l’Europa. E poi la democrazia non si esporta con le armi, ha visto Bush come siamo stati bravi in Europa a vincere la guerra fredda e far diventare democratico tutto l’est europeo e parte dell’Africa? – dei turchi non parlo che l’ultima volta ho fatto una gaffe – così bisogna fare. (Duemilaquattrocento battute). In Iraq il vuoto di potere ha creato il terrorismo, per sistemare tutto ci vuole l’Onu. (Duemiladuecentocinquanta battute). La politica estera dell’Unione è la pace. La guerra non si fa. La Costituzione dice che non si fa la guerra. La politica estera dell’Unione è l’articolo undici della Costituzione. (Duemilatrecento battute). La guerra la può autorizzare solo l’Onu, in tutti i casi tranne uno. Tranne cioè che non sia fatta da un governo di centrosinistra e da un presidente americano democratico, in questo caso non si chiama guerra ma “intervento armato”. (Duemilaottocento battute). Prima che i riformisti si incazzino, questa non è la linea ufficiale dell’Unione, quella non c’è, questo è solo il contributo del capo, che sarei io. Saluti. (Cinquecentosessanta battute)”.
26.2.05
Sulle orme dell'Anticristo
Satira preventiva di Michele Serra
Il Vaticano rivela: l'Anticristo è un rivenditore di autoricambi di Trani
Chi è dunque l'Anticristo? La questione è stata autorevolmente riaperta da Ali Agca che ha chiesto al Vaticano di rivelarne il nome. Alcuni eminenti demonologhi hanno subito sostenuto che l'Anticristo non può che essere lo stesso Alì Agca, secondo il principio teologico "gallina che canta ha fatto l'uovo". Per sopire sul nascere inutili polemiche, il Vaticano ha rivelato che l'Anticristo è invece Pino Sciumé, un rivenditore di autoricambi di Trani che però sarebbe molto dispiaciuto del suo passato e intenderebbe chiedere perdono a 'Domenica in'. La moglie, invece, nega recisamente e ha presentato ricorso al garante della privacy. Il problema è che Sciumé, come Anticristo, può reggere a malapena la seconda serata, e gli inserzionisti pubblicitari hanno già fatto sapere di non essere disposti a investire un solo euro su una soluzione così mediocre. Perché, piuttosto, non scegliere l'Anticristo attraverso un reality-show da realizzare a Fatima, o a Lourdes, o a Rapallo (tanto chi se ne frega), incoronando il Principe del Male con il televoto? La figura delle pastorelle, tra l'altro, potrebbe finalmente rimpiazzare quella ormai logora delle veline: si segnalano già i primi casi di calciatori che trombano con pastorelle, ulteriore segno del ritorno generalizzato alla spiritualità.
Nel frattempo l'identità dell'Anticristo scuote le coscienze e infiamma le polemiche. Secondo il quotidiano 'Libero' la descrizione tradizionale dell'Anticristo ("Bestia innominabile, infezione della Terra, nato da porco") indicherebbe con precisione assoluta un sindacalista dell'Usigrai. Il quotidiano 'La Padania', escludendo che l'Anticristo possa essere un padano, ritiene di avere identificato l'Anticristo nel cantante napoletano Nino D'Angelo, assicurando di averlo individuato dopo lunghe e inconfutabili ricerche: un sondaggio tra i suoi redattori durante la pausa mensa. Oriana Fallaci propende invece per una figura simbolica, non immediatamente collegabile a una singola persona, della quale si sa solo che "indossa il turbante, va sul cammello e parla in arabo". I no-global vedono la più convincente incarnazione dell'Anticristo nelle multinazionali, e propongono di abolirle tutte entro mercoledì prossimo, trasformando l'economia mondiale in una cooperativa non profit con sede a Salerno.
Don Gianni Baget Bozzo, confermando un generalizzato ritorno alla spiritualità, ha accusato l'opposizione di avere candidato alle elezioni regionali numerosi adepti dell'Anticristo, e ha proposto di abolire il suffragio universale o, in alternativa, di sottoporre gli elettori di sinistra alla prova del fuoco: se a contatto con le fiamme urlano, il loro voto è nullo. Più pacata la posizione di Roberto Formigoni, che invita a ragionare: tra i contratti della Compagnia delle Opere c'è anche l'appalto per la nuova autostrada Lione-Torino-Praga, che collega il triangolo della magia nera ed è stata costruita in un solo mese, asfaltandosi da sola durante la notte. Non si può mandare tutto all'aria per un banale sospetto. Molta impressione ha destato un'infiammata omelia del pope ortodosso Fatùk, che ha descritto l'Anticristo come un fanatico pazzo dalle lunghe vesti maleodoranti, dallo sguardo di brace e con la barba da caprone, finché il suo segretario personale non lo ha interrotto facendogli notare che sembrava un autoritratto.
Sostanziale indifferenza in Cina e in India e in quasi tutta l'Asia, dove la questione dell'Anticristo non è molto sentita anche perché pochissimi conoscono Cristo, e la principale curiosità religiosa sull'Occidente è se Elvis Presley sia o non sia ancora vivo. L'opinione pubblica, qui da noi, è disorientata: secondo i sondaggi solo il 2 per cento credeva nell'esistenza dell'Anticristo fino a un secondo prima che gli venisse posta la domanda 'esiste l'Anticristo?' Dopo la domanda, la percentuale è salita al 76 per cento, con attacchi di panico e immediata stipula di assicurazioni sulla vita e contro gli incidenti domestici, a conferma di un generalizzato ritorno alla spiritualità.
Satira preventiva di Michele Serra
Il Vaticano rivela: l'Anticristo è un rivenditore di autoricambi di Trani
Chi è dunque l'Anticristo? La questione è stata autorevolmente riaperta da Ali Agca che ha chiesto al Vaticano di rivelarne il nome. Alcuni eminenti demonologhi hanno subito sostenuto che l'Anticristo non può che essere lo stesso Alì Agca, secondo il principio teologico "gallina che canta ha fatto l'uovo". Per sopire sul nascere inutili polemiche, il Vaticano ha rivelato che l'Anticristo è invece Pino Sciumé, un rivenditore di autoricambi di Trani che però sarebbe molto dispiaciuto del suo passato e intenderebbe chiedere perdono a 'Domenica in'. La moglie, invece, nega recisamente e ha presentato ricorso al garante della privacy. Il problema è che Sciumé, come Anticristo, può reggere a malapena la seconda serata, e gli inserzionisti pubblicitari hanno già fatto sapere di non essere disposti a investire un solo euro su una soluzione così mediocre. Perché, piuttosto, non scegliere l'Anticristo attraverso un reality-show da realizzare a Fatima, o a Lourdes, o a Rapallo (tanto chi se ne frega), incoronando il Principe del Male con il televoto? La figura delle pastorelle, tra l'altro, potrebbe finalmente rimpiazzare quella ormai logora delle veline: si segnalano già i primi casi di calciatori che trombano con pastorelle, ulteriore segno del ritorno generalizzato alla spiritualità.
Nel frattempo l'identità dell'Anticristo scuote le coscienze e infiamma le polemiche. Secondo il quotidiano 'Libero' la descrizione tradizionale dell'Anticristo ("Bestia innominabile, infezione della Terra, nato da porco") indicherebbe con precisione assoluta un sindacalista dell'Usigrai. Il quotidiano 'La Padania', escludendo che l'Anticristo possa essere un padano, ritiene di avere identificato l'Anticristo nel cantante napoletano Nino D'Angelo, assicurando di averlo individuato dopo lunghe e inconfutabili ricerche: un sondaggio tra i suoi redattori durante la pausa mensa. Oriana Fallaci propende invece per una figura simbolica, non immediatamente collegabile a una singola persona, della quale si sa solo che "indossa il turbante, va sul cammello e parla in arabo". I no-global vedono la più convincente incarnazione dell'Anticristo nelle multinazionali, e propongono di abolirle tutte entro mercoledì prossimo, trasformando l'economia mondiale in una cooperativa non profit con sede a Salerno.
Don Gianni Baget Bozzo, confermando un generalizzato ritorno alla spiritualità, ha accusato l'opposizione di avere candidato alle elezioni regionali numerosi adepti dell'Anticristo, e ha proposto di abolire il suffragio universale o, in alternativa, di sottoporre gli elettori di sinistra alla prova del fuoco: se a contatto con le fiamme urlano, il loro voto è nullo. Più pacata la posizione di Roberto Formigoni, che invita a ragionare: tra i contratti della Compagnia delle Opere c'è anche l'appalto per la nuova autostrada Lione-Torino-Praga, che collega il triangolo della magia nera ed è stata costruita in un solo mese, asfaltandosi da sola durante la notte. Non si può mandare tutto all'aria per un banale sospetto. Molta impressione ha destato un'infiammata omelia del pope ortodosso Fatùk, che ha descritto l'Anticristo come un fanatico pazzo dalle lunghe vesti maleodoranti, dallo sguardo di brace e con la barba da caprone, finché il suo segretario personale non lo ha interrotto facendogli notare che sembrava un autoritratto.
Sostanziale indifferenza in Cina e in India e in quasi tutta l'Asia, dove la questione dell'Anticristo non è molto sentita anche perché pochissimi conoscono Cristo, e la principale curiosità religiosa sull'Occidente è se Elvis Presley sia o non sia ancora vivo. L'opinione pubblica, qui da noi, è disorientata: secondo i sondaggi solo il 2 per cento credeva nell'esistenza dell'Anticristo fino a un secondo prima che gli venisse posta la domanda 'esiste l'Anticristo?' Dopo la domanda, la percentuale è salita al 76 per cento, con attacchi di panico e immediata stipula di assicurazioni sulla vita e contro gli incidenti domestici, a conferma di un generalizzato ritorno alla spiritualità.
24.2.05
"Arrigoni? Sì, era unpazzo ma non l'avevo capito"
Parla l'onorevole Ascierto (An) presidente dell'associazione della quale faceva parte l'ex parà (La Repubblica - Giovedì 24 febbraio 2005)
ROMA -"Basta con le allusioni. E poi non c'e nessun imbarazzo: che c'entriamo io o An se uno che a malapena conosciamo impazzisce e uccide tre persone?" Il funerale dei due agenti dl polizia è concluso da poco. L'onorevole Filippo Ascierto, maresciallo dei carabinieri e una specie di ministro dell'interno ombra in Alleanza Nazionale, lascia Verona e raggiunge Padova. "Non torno subito a Roma, voglio stare vicino alla famiglie, alle mogli, alle madri e ai figli dei poliziotti uccisi. È la cosa più importante in questo momento."
Onorevole, lasciamo perdere le allusioni. Sono un fatto le foto sue e di Arrigoni al convegno sulla droga che lei ha organizzato a Montecitorio, il 17 Febbraio.
"Che c'entra… . Arrigoni era un megalomane che s'era fatto fare qualche foto con me poi esibita sul sito."
Comunque lei lo ha frequentato: convegni alla Camera, audizioni in Commissione Affari costituzionali, messaggi via mail. Che impressione ha avuto?
"L'ho conosciuto ma non sapevo nulla della sua vita privatan nemmeno che era stato un legista guardia-spalla di Bossi. Era un dirigente di questa associazione degli investigatori privati…"
Il Con.Ipi?
"Si, quella, non so bene neppure il nome..."
Onorevole, ne è il presidente.
"Me lo chiese il generale Servolini un anno fa. Ricordo di avergli detto: "Non so dov'è la fregatura, me ne accorgerò strada facendo. "
E Arrigoni?
"L'ho incontrato quattro o cinque volte e mi è sembrato più preparato e equilibrato di molti altri. Non ho mai intravisto la follia dietro di lui."
A Verona è stato un raptus di follia?
"C'è un'inchiesta in corso. Ma sembra la tragedia di un disperato che ha ucciso una prostituta e poi, sorpreso dalla polizia, ha esploso la sua follia contro due poveri poliziotti."
Come ha conosciuto Arrigoni?
"Circa due anni fa viene presentato dal governo e dal ministero dell'interno un disegno di legge sulla sicurezza sussidiaria, quello attualmente in discussione alla Camera, con cui si intende regolarizzare vigilanza privata e investigatori privati con tanto di albo professionale. Fui contattato dall'associazione degli investigatori tramite il generale Servolini. Ci troviamo d'accordo sul fatto che una cosa è la vigilanza, altro gli investigatori. Le due categorie devono essere regolarizzate ma in albi diversi."
Investigatori come poliziotti. Perché questa convinzione?
"Il giusto processo consente alla difesa di fare indagini in proprio. Ecco perché servono investigatori privati validi e specializzati. Su questo punto nasce un feeling con la Confederazione."
Un feeling è una cosa. Altro organizzare convegni con lei e il ministro Gasparri, i referenti delle forze dell'ordine in Alleanza nazionale.
"I1 generale Servolini ha suggerito ad Arrrigoni di starmi sotto perché mi dessi da fare per stralciare gli investigatori dal disegno di legge sui vigilantes ."
Il presidente del Forum sulle droghe Franco Corleone fa notare come lei organizzi consegni sul proibizionismo con gente dal grilletto facile.
"Sono il primo ad essere esterrefatto da questo tragico episodio: è chiaro che ci sono dei pazzi che vanno in giro con le armi. La pistola va data solo a chi ha i requisiti e la testa."
Il sottosegretario all'interno Alfredo Mantovano (An) non ha più la delega per la sicurezza sussidiaria. La tragedia di Verona è stata l'occasione per FI per met tere da parte An e il suo progetto?
"Il Viminale è contrario a dividere vigilanza privata da investigatori. An invece vorrebbe tenerli insieme. Ma la delega è stata rimessa da Mantovano prima che succedesse la tragedia."
Parla l'onorevole Ascierto (An) presidente dell'associazione della quale faceva parte l'ex parà (La Repubblica - Giovedì 24 febbraio 2005)
ROMA -"Basta con le allusioni. E poi non c'e nessun imbarazzo: che c'entriamo io o An se uno che a malapena conosciamo impazzisce e uccide tre persone?" Il funerale dei due agenti dl polizia è concluso da poco. L'onorevole Filippo Ascierto, maresciallo dei carabinieri e una specie di ministro dell'interno ombra in Alleanza Nazionale, lascia Verona e raggiunge Padova. "Non torno subito a Roma, voglio stare vicino alla famiglie, alle mogli, alle madri e ai figli dei poliziotti uccisi. È la cosa più importante in questo momento."
Onorevole, lasciamo perdere le allusioni. Sono un fatto le foto sue e di Arrigoni al convegno sulla droga che lei ha organizzato a Montecitorio, il 17 Febbraio.
"Che c'entra… . Arrigoni era un megalomane che s'era fatto fare qualche foto con me poi esibita sul sito."
Comunque lei lo ha frequentato: convegni alla Camera, audizioni in Commissione Affari costituzionali, messaggi via mail. Che impressione ha avuto?
"L'ho conosciuto ma non sapevo nulla della sua vita privatan nemmeno che era stato un legista guardia-spalla di Bossi. Era un dirigente di questa associazione degli investigatori privati…"
Il Con.Ipi?
"Si, quella, non so bene neppure il nome..."
Onorevole, ne è il presidente.
"Me lo chiese il generale Servolini un anno fa. Ricordo di avergli detto: "Non so dov'è la fregatura, me ne accorgerò strada facendo. "
E Arrigoni?
"L'ho incontrato quattro o cinque volte e mi è sembrato più preparato e equilibrato di molti altri. Non ho mai intravisto la follia dietro di lui."
A Verona è stato un raptus di follia?
"C'è un'inchiesta in corso. Ma sembra la tragedia di un disperato che ha ucciso una prostituta e poi, sorpreso dalla polizia, ha esploso la sua follia contro due poveri poliziotti."
Come ha conosciuto Arrigoni?
"Circa due anni fa viene presentato dal governo e dal ministero dell'interno un disegno di legge sulla sicurezza sussidiaria, quello attualmente in discussione alla Camera, con cui si intende regolarizzare vigilanza privata e investigatori privati con tanto di albo professionale. Fui contattato dall'associazione degli investigatori tramite il generale Servolini. Ci troviamo d'accordo sul fatto che una cosa è la vigilanza, altro gli investigatori. Le due categorie devono essere regolarizzate ma in albi diversi."
Investigatori come poliziotti. Perché questa convinzione?
"Il giusto processo consente alla difesa di fare indagini in proprio. Ecco perché servono investigatori privati validi e specializzati. Su questo punto nasce un feeling con la Confederazione."
Un feeling è una cosa. Altro organizzare convegni con lei e il ministro Gasparri, i referenti delle forze dell'ordine in Alleanza nazionale.
"I1 generale Servolini ha suggerito ad Arrrigoni di starmi sotto perché mi dessi da fare per stralciare gli investigatori dal disegno di legge sui vigilantes ."
Il presidente del Forum sulle droghe Franco Corleone fa notare come lei organizzi consegni sul proibizionismo con gente dal grilletto facile.
"Sono il primo ad essere esterrefatto da questo tragico episodio: è chiaro che ci sono dei pazzi che vanno in giro con le armi. La pistola va data solo a chi ha i requisiti e la testa."
Il sottosegretario all'interno Alfredo Mantovano (An) non ha più la delega per la sicurezza sussidiaria. La tragedia di Verona è stata l'occasione per FI per met tere da parte An e il suo progetto?
"Il Viminale è contrario a dividere vigilanza privata da investigatori. An invece vorrebbe tenerli insieme. Ma la delega è stata rimessa da Mantovano prima che succedesse la tragedia."
23.2.05
LO STRANO CASO DI JEFF GANNON…
da Aldo Vincent (via Dagospia)
Ma chi è Jeff Gannon? Le sue domande, anche riguardo a temi scottanti, non sono mai state critiche, punzecchianti o perlomeno serie. Anzi, il più delle volte hanno avuto l'intento di lodare l'operato del presidente Bush e del suo staff.
Agli innumerevoli briefing nella sala stampa della Casa Bianca il reporter Jeff Gannon, accreditato ufficialmente, ha sempre posto quesiti del tutto frivoli, poco importanti; il più delle volte totalmente assurdi agli occhi dei colleghi. Quando nelle sala stampa della Casa Bianca al podio si trovava poi G.W.Bush a rispondere a questioni troppo "scomode", il presidente americano interrompeva il giornalista di turno dando la parola a "Mr. Gannon" che spesso cambiava poi radicalmente argomento. Si è scoperto che "Mr. Gannon" in realtà non esiste.
La scoperta che Gannon è solo una figura fittizia, mai esistita in quanto essere umano e tantomeno come giornalista, è da attribuire agli anti-Bush-blogger. Il sito dailykos.com ha scoperto che Gannon in realtà è un certo James D. Guckert, uno "pseudo-giornalista", dalla carriera alquanto discutibile che interpretava il ruolo di reporter (pro) Bush ai briefing.
Guckert non è del tutto sconosciuto al mondo dei blog. Il 47enne è un repubblicano convinto e il suo intento è sempre stato quello di "diffondere il pensiero conservativo in America", come lui stesso scrive su diversi siti. Resta la domanda perché ha potuto farlo anche alla Casa Bianca.
Il dubbio rimane. Resta l'ipotesi però che sia coinvolta in modo attivo la stessa Casa Bianca che assieme al reporter hanno inscenato per diversi mesi questi teatrini in sala stampa, il tutto per mettere in buona luce il presidente e disorientare i colleghi dei media. Lo stesso portavoce del presidente Bush, Scott McClellan, ha nel frattempo ammesso di conoscere l'identità del giornalista Guckert - lo ha però sempre chiamato col nome di "Mr. Gannon" durante i vari briefing. Non ha però chiarito il motivo di questi sui "lapsus" nel sbagliare il nome.
Il blogger si chiedono come mai per Guckert è stato così semplice avere il tanto ambito accredito alle conferenze stampa alla Casa Bianca anche durante le situazioni più delicate. Guckert non ha avuto un carriera intensa o brillante. Ha solamente scritto saltuariamente per lo sconosciuto sito d'informazione "Talon News".
Dopo che anche il "New York Times" ed il "Washington Post" sono venuti a conoscenza del "caso Guckert", quest'ultimo ha rassegnato le dimissioni ed è scomparso nel nulla, nessuno sa dove sia "scappato". "L'aria si faceva sempre più pesante", ha scritto sul suo sito.
I democratici però a questo punto pretendono un inchiesta seria. (Elmar Burchia)
da Aldo Vincent (via Dagospia)
Ma chi è Jeff Gannon? Le sue domande, anche riguardo a temi scottanti, non sono mai state critiche, punzecchianti o perlomeno serie. Anzi, il più delle volte hanno avuto l'intento di lodare l'operato del presidente Bush e del suo staff.
Agli innumerevoli briefing nella sala stampa della Casa Bianca il reporter Jeff Gannon, accreditato ufficialmente, ha sempre posto quesiti del tutto frivoli, poco importanti; il più delle volte totalmente assurdi agli occhi dei colleghi. Quando nelle sala stampa della Casa Bianca al podio si trovava poi G.W.Bush a rispondere a questioni troppo "scomode", il presidente americano interrompeva il giornalista di turno dando la parola a "Mr. Gannon" che spesso cambiava poi radicalmente argomento. Si è scoperto che "Mr. Gannon" in realtà non esiste.
La scoperta che Gannon è solo una figura fittizia, mai esistita in quanto essere umano e tantomeno come giornalista, è da attribuire agli anti-Bush-blogger. Il sito dailykos.com ha scoperto che Gannon in realtà è un certo James D. Guckert, uno "pseudo-giornalista", dalla carriera alquanto discutibile che interpretava il ruolo di reporter (pro) Bush ai briefing.
Guckert non è del tutto sconosciuto al mondo dei blog. Il 47enne è un repubblicano convinto e il suo intento è sempre stato quello di "diffondere il pensiero conservativo in America", come lui stesso scrive su diversi siti. Resta la domanda perché ha potuto farlo anche alla Casa Bianca.
Il dubbio rimane. Resta l'ipotesi però che sia coinvolta in modo attivo la stessa Casa Bianca che assieme al reporter hanno inscenato per diversi mesi questi teatrini in sala stampa, il tutto per mettere in buona luce il presidente e disorientare i colleghi dei media. Lo stesso portavoce del presidente Bush, Scott McClellan, ha nel frattempo ammesso di conoscere l'identità del giornalista Guckert - lo ha però sempre chiamato col nome di "Mr. Gannon" durante i vari briefing. Non ha però chiarito il motivo di questi sui "lapsus" nel sbagliare il nome.
Il blogger si chiedono come mai per Guckert è stato così semplice avere il tanto ambito accredito alle conferenze stampa alla Casa Bianca anche durante le situazioni più delicate. Guckert non ha avuto un carriera intensa o brillante. Ha solamente scritto saltuariamente per lo sconosciuto sito d'informazione "Talon News".
Dopo che anche il "New York Times" ed il "Washington Post" sono venuti a conoscenza del "caso Guckert", quest'ultimo ha rassegnato le dimissioni ed è scomparso nel nulla, nessuno sa dove sia "scappato". "L'aria si faceva sempre più pesante", ha scritto sul suo sito.
I democratici però a questo punto pretendono un inchiesta seria. (Elmar Burchia)
22.2.05
15 TESI "INATTUALI"
di Valerio Evangelisti
1. Viene detto “di sinistra” chi ponga al centro del proprio discorso e della propria azione i lavoratori e le classi subalterne, con l’obiettivo di ampliarne il peso sociale, la libertà oggettiva, l’incidenza politica e di sottrarli a un mercato che li usa quali merci, indifferente alla loro sfera umana di desideri e bisogni.
2. La “sinistra” è dunque continuatrice degli ideali della rivoluzione francese di libertà, eguaglianza e fraternità, che aggiorna con una visione moderna delle motivazioni anzitutto economiche che ledono quei principi, senza tuttavia rinunciare a nessuno di essi.
3. Chiunque si dica “di sinistra” è contrario alla guerra soprattutto per un motivo: perché in essa i lavoratori e le classi subalterne di ogni parte belligerante divengono ancor di più “oggetti”, sia che siano spinti al reciproco massacro, sia che restino vittime delle distruzioni e degli eccidi che accompagnano un conflitto.
4. Possono esistere eccezioni a questo atteggiamento solo in pochi casi: quando la guerra è ormai scatenata ed è ispirata a motivi di conquista territoriale, tali da “reificare" interi popoli o intere etnie, generando guerre ulteriori; o quando si è in presenza di una guerra civile in cui una parte si batte per i principi elencati sopra, che l’altra le nega.
5. In tutti gli altri casi la guerra, quale negazione dell’ideale di fraternità, è puramente e semplicemente respinta da chiunque voglia dirsi “di sinistra”.
6. La recente guerra all’Iraq, che ha condotto alla distruzione delle strutture portanti di quel paese e ha causato un numero incalcolabile di vittime, per lo più innocenti, è stata scatenata con pretesti menzogneri: possesso di armi di distruzione di massa, lotta al terrorismo, lotta alla minaccia dell’integralismo islamico, ecc. In realtà, come oggi è evidente a tutti, era causata da motivazioni geopolitiche ed economiche.
7. Il motivo non era, e non poteva essere, la liberazione del popolo iracheno dalle sofferenze di una dittatura. Se così fosse stato, chi ha preso l’iniziativa del conflitto, e cioè i governi di Stati Uniti e Gran Bretagna, non avrebbe scelto quella specifica dittatura tra le molte altre a lui gradite o da lui tollerate, né si sarebbe scatenato contro la popolazione civile da “liberare”.
8. Comunque, per chi si voglia di “sinistra”, anche una guerra “per la democrazia” è intollerabile. Sa che le strutture portanti di una guerra, dagli eserciti alle forme di controllo del territorio conquistato, sono per loro natura autoritarie. Generano altre guerre, regimi semicoloniali oppure divisioni difficilmente sanabili, dagli esiti tragici.
9. In linea di massima, è “di sinistra” ciò che unisce gli oppressi, non ciò che li divide. Ciò che diffonde il potere e le forme di autodeterminazione dal basso, non ciò che sostituisce un potere più forte a un altro più debole.
10. In nome dei principi che determinano la sua identità, la sinistra non confiderà nelle Nazioni Unite e in altri organismi sovrannazionali se non nella misura in cui questi assecondano i suoi ideali di fondo. Non sosterrà l’idea di “patria” o “nazione” se non sotto il peso di una minaccia, o quale rivendicazione della propria autonomia. Sostenere tali concetti in senso aggressivo significa disconoscere il principio di fraternità.
11. La sinistra, a differenza del campo liberale, sa che il suffragio universale, per il quale si è storicamente battuta più di ogni altra forza, non può essere esercitato che in condizioni di libertà e di uguaglianza. Esso è privo di valore in un contesto di soggezione militare o di regime coloniale.
12. La sinistra, facendosi qui erede di un pensiero liberale che i liberali tendono a dimenticare, è per l’assoluta laicità degli ordinamenti civili. Pertanto non riconoscerà forze politiche direttamente ispirate a un pensiero religioso, siano esse governative o di opposizione, vedendo in esse un fattore di divisione contrario all’ideale di unione tra gli oppressi che la ispira e la fonda.
13. Se messa a confronto con un’impresa bellica in contrasto con gli ideali cui si richiama, la sinistra risponderà semplicemente “no”, senza ricorrere a tergiversazioni strumentali.
14. Nel caso dell’Iraq, prima preoccupazione della sinistra dovrebbe essere quella di dissociarsi dalla macchina di morte allestita dal governo degli Stati Uniti e dai suoi complici, visto che a due anni dall’invasione seguita a generare sempre maggiori lutti e divisioni. Soluzioni in chiave anticoloniale per restituire l’Iraq agli iracheni, e le ricchezze oggi rubate ai loro proprietari, potranno essere pensate solo dopo che gli Usa avranno manifestato la volontà netta di riparare il “vulnus” inflitto a un popolo, a una regione del mondo, al concetto stesso di democrazia nel senso etimologico del termine.
15. Chi non si riconosce nelle quattordici tesi precedenti non è necessariamente di destra, ma sicuramente non è di sinistra.
Postilla dell'autore. Sono ben consapevole che ciò che ho detto qui sopra può suscitare ironia. "E' roba vecchia", "Siamo nel XXI secolo", "La realtà è cambiata", "Non è più tempo di idealismi". La mia risposta è: "Non mi fottete più, banda di stronzi. Se il vostro programma non somiglia almeno un poco a quello qui sopra, col cazzo che vi voto. Ne ho abbastanza del vostro cinismo, del vostro abbandono di ogni principio etico. Se volete combattere Berlusconi, vedete di non somigliargli. La realpolitik di cui vi compiacete (spinta al punto di rimpiangere Craxi!) non solo è una stronzata capace di logorare il lieve vantaggio di cui godete. E' un insulto a 150 anni di storia del movimento operaio italiano. Pensateci bene. Quanti milioni erano, due anni fa, a manifestare contro la guerra in Iraq? E quante decine sono a leggere Il Riformista? Badate che sono voti!"
di Valerio Evangelisti
1. Viene detto “di sinistra” chi ponga al centro del proprio discorso e della propria azione i lavoratori e le classi subalterne, con l’obiettivo di ampliarne il peso sociale, la libertà oggettiva, l’incidenza politica e di sottrarli a un mercato che li usa quali merci, indifferente alla loro sfera umana di desideri e bisogni.
2. La “sinistra” è dunque continuatrice degli ideali della rivoluzione francese di libertà, eguaglianza e fraternità, che aggiorna con una visione moderna delle motivazioni anzitutto economiche che ledono quei principi, senza tuttavia rinunciare a nessuno di essi.
3. Chiunque si dica “di sinistra” è contrario alla guerra soprattutto per un motivo: perché in essa i lavoratori e le classi subalterne di ogni parte belligerante divengono ancor di più “oggetti”, sia che siano spinti al reciproco massacro, sia che restino vittime delle distruzioni e degli eccidi che accompagnano un conflitto.
4. Possono esistere eccezioni a questo atteggiamento solo in pochi casi: quando la guerra è ormai scatenata ed è ispirata a motivi di conquista territoriale, tali da “reificare" interi popoli o intere etnie, generando guerre ulteriori; o quando si è in presenza di una guerra civile in cui una parte si batte per i principi elencati sopra, che l’altra le nega.
5. In tutti gli altri casi la guerra, quale negazione dell’ideale di fraternità, è puramente e semplicemente respinta da chiunque voglia dirsi “di sinistra”.
6. La recente guerra all’Iraq, che ha condotto alla distruzione delle strutture portanti di quel paese e ha causato un numero incalcolabile di vittime, per lo più innocenti, è stata scatenata con pretesti menzogneri: possesso di armi di distruzione di massa, lotta al terrorismo, lotta alla minaccia dell’integralismo islamico, ecc. In realtà, come oggi è evidente a tutti, era causata da motivazioni geopolitiche ed economiche.
7. Il motivo non era, e non poteva essere, la liberazione del popolo iracheno dalle sofferenze di una dittatura. Se così fosse stato, chi ha preso l’iniziativa del conflitto, e cioè i governi di Stati Uniti e Gran Bretagna, non avrebbe scelto quella specifica dittatura tra le molte altre a lui gradite o da lui tollerate, né si sarebbe scatenato contro la popolazione civile da “liberare”.
8. Comunque, per chi si voglia di “sinistra”, anche una guerra “per la democrazia” è intollerabile. Sa che le strutture portanti di una guerra, dagli eserciti alle forme di controllo del territorio conquistato, sono per loro natura autoritarie. Generano altre guerre, regimi semicoloniali oppure divisioni difficilmente sanabili, dagli esiti tragici.
9. In linea di massima, è “di sinistra” ciò che unisce gli oppressi, non ciò che li divide. Ciò che diffonde il potere e le forme di autodeterminazione dal basso, non ciò che sostituisce un potere più forte a un altro più debole.
10. In nome dei principi che determinano la sua identità, la sinistra non confiderà nelle Nazioni Unite e in altri organismi sovrannazionali se non nella misura in cui questi assecondano i suoi ideali di fondo. Non sosterrà l’idea di “patria” o “nazione” se non sotto il peso di una minaccia, o quale rivendicazione della propria autonomia. Sostenere tali concetti in senso aggressivo significa disconoscere il principio di fraternità.
11. La sinistra, a differenza del campo liberale, sa che il suffragio universale, per il quale si è storicamente battuta più di ogni altra forza, non può essere esercitato che in condizioni di libertà e di uguaglianza. Esso è privo di valore in un contesto di soggezione militare o di regime coloniale.
12. La sinistra, facendosi qui erede di un pensiero liberale che i liberali tendono a dimenticare, è per l’assoluta laicità degli ordinamenti civili. Pertanto non riconoscerà forze politiche direttamente ispirate a un pensiero religioso, siano esse governative o di opposizione, vedendo in esse un fattore di divisione contrario all’ideale di unione tra gli oppressi che la ispira e la fonda.
13. Se messa a confronto con un’impresa bellica in contrasto con gli ideali cui si richiama, la sinistra risponderà semplicemente “no”, senza ricorrere a tergiversazioni strumentali.
14. Nel caso dell’Iraq, prima preoccupazione della sinistra dovrebbe essere quella di dissociarsi dalla macchina di morte allestita dal governo degli Stati Uniti e dai suoi complici, visto che a due anni dall’invasione seguita a generare sempre maggiori lutti e divisioni. Soluzioni in chiave anticoloniale per restituire l’Iraq agli iracheni, e le ricchezze oggi rubate ai loro proprietari, potranno essere pensate solo dopo che gli Usa avranno manifestato la volontà netta di riparare il “vulnus” inflitto a un popolo, a una regione del mondo, al concetto stesso di democrazia nel senso etimologico del termine.
15. Chi non si riconosce nelle quattordici tesi precedenti non è necessariamente di destra, ma sicuramente non è di sinistra.
Postilla dell'autore. Sono ben consapevole che ciò che ho detto qui sopra può suscitare ironia. "E' roba vecchia", "Siamo nel XXI secolo", "La realtà è cambiata", "Non è più tempo di idealismi". La mia risposta è: "Non mi fottete più, banda di stronzi. Se il vostro programma non somiglia almeno un poco a quello qui sopra, col cazzo che vi voto. Ne ho abbastanza del vostro cinismo, del vostro abbandono di ogni principio etico. Se volete combattere Berlusconi, vedete di non somigliargli. La realpolitik di cui vi compiacete (spinta al punto di rimpiangere Craxi!) non solo è una stronzata capace di logorare il lieve vantaggio di cui godete. E' un insulto a 150 anni di storia del movimento operaio italiano. Pensateci bene. Quanti milioni erano, due anni fa, a manifestare contro la guerra in Iraq? E quante decine sono a leggere Il Riformista? Badate che sono voti!"
21.2.05
da Tgcom.it
Una serata benefica per raccogliere fondi per i bambini colpiti dallo tsunami. E' questa l'idea che hanno avuto i giovani rampolli della "Milano bene". Il risultato? Una festa in grande stile. C'erano tutti i rappresentati del neonato comitato Milano Young: Barbara Berlusconi, Giovanni Tronchetti Provera, Nicolò Cardi, Natalie Dompé, Geronimo La Russa, Gilda Moratti, Paolo Ligresti, Micol Sabbadini e Francesca Versace.
Giovani e impegnati. E' questo il messaggio, in risposta alle accuse di mancanza di iniziative, che hanno voluto lanciare questi ragazzi, figli di personaggi famosi, spesso schiacciati dal pesante cognome che portano.
E così in una cornice veramente glamour si è svolta una serata divertente e ricca di avvenimenti. Loro, le giovani promesse del nostro Paese, sono carini e alla mano. Le ragazze sono davvero affascinanti: fresche, sorridenti con gambe chilometriche e avvolte in abiti molto eleganti, da grande soirée. I "maschietti", invece, nonostante gli abiti scuri e le cravatte, non riescono a nascondere la loro giovane età. Visi sbarbati, imbarazzati, meno "sciolti" rispetto alle loro coetanee.
La prima ad arrivare è la piccola di casa Berlusconi, Eleonora. Bionda, avvolta in un abito nero che valorizza le sue grazie. La neo diciottenne, alle sue prime uscite ufficiali, si fa fotografare ma è visibilmente imbarazzata. Poi ecco spuntare la sorella Barbara di appena due anni più grande. In tailleur nero e capelli raccolti appare, rispetto alla sua sorellina, molto più avvezza ai flash.
Poi, uno a uno, compaiono i rampolli della Milano che conta. Sono affabili. Gerolamo La Russa, portavoce del comitato spiega come è partita l'avventura di Milano Young: "Il 26 dicembre, dopo la tragedia nel Sudest asiatico ci siamo sentiti telefonicamente e abbiamo deciso di organizzare una serata benefica per i bambini colpiti dallo tsunami. Questo il risultato". Ma come è nata l'amicizia tra questi nove ragazzi dalle belle speranze? Gerolamo sorride: "Non è soltanto per merito dei nostri genitori. Siamo più o meno tutti coetanei e molti di noi hanno frequentato le stesse scuole. Poi le vacanze. Insomma ci conosciamo da anni", afferma La Russa Jr.
Versione confermata dall'affascinante e solare Mikol Sabbadini, figlia di famosi gioiellieri di Milano: "Sì, è così. Io e Francesca (Versace n.d.r.) siamo cresciute insieme. Invece, tra me e Geronimo c'è una strana storia: lui è venuto alla festa del mio 14mo compleanno, ma non ci conoscevamo. Poi io sono andata alla sua festa di 18 anni e soltanto lì ci siamo presentati, dopo 4 anni che ci si vedeva sempre: è buffo".
Ragazzi in gamba, che vivono tra Milano, New York e Londra e che vogliono dimostrare di valere. "Sì è proprio questo il messaggio che abbiamo cercato di lanciare. Ci siamo detti che dovevamo impegnarci nel sociale. Ne abbiamo la possibilità e dovevamo farlo", ci dice Giovanni Tronchetta Provera che nella vita studia economia alla Bocconi.
Inizia la serata. Sfilano gli abiti stile cow-girl di John Richmond. La passerella si chiude con una fugace apparizione di Elisabetta Canalis, modella d'eccezione. Poi tocca a dj Ringo che aiutato dai nove ragazzi del comitato dà il via alla lotteria. Tanti i premi in palio, ce n'è per tutti i gusti: si parte da casse di vino fino ad arrivare al primo premio, una Fiat Panda. E ancora: borse di Versace, telefonini Telecom, maglioni in cachemire, biglietti per la Scala o per assistere alle partite del Milan.
Ed è proprio in occasione dell'estrazione che l'aplomb dei ragazzi si scioglie. Qualche battuta, piccole e insignificanti parolacce scappano anche a loro. E per finire un piccolo show di Ringo che coglie la palla al balzo per stuzzicare Niccolò Cardi, uno dei galleristi più in voga a Milano, "beccato" qualche tempo fa in compagnia di Paris Hilton. Un'occasione che il biondo dj di Radio 105 non poteva farsi sfuggire: "Te la sei tromb.. eh?" gli dice, ammiccando. Lui diventa rosso, tutti ridono e lo scherniscono: a dimostrazione che vent'anni sono uguali per tutti...
20.2.05
Le cose importanti
di Stefano Benni - Il Manifesto, 18 febbraio 2005
Entro quarant'anni un terzo delle coste del mondo sarà sommerso dalle acque. Non lo dicono i catastrofisti, lo dice la maggioranza degli scienziati mondiali. Il protocollo di Kyoto ha già anni di ritardo, e c'è da credere che non verrà rispettato. Qualcuno dice che ci adatteremo. In fondo, che differenza c'è tra andare al mare a Cattolica o sulla spiaggia di San Marino? E finalmente verrà attuata la soluzione finale nella nostra bella Padania, dove solo i padani Doc potranno abitare sulle palafitte, e gli altri, che nuotino.
Ma il disastro climatico non è importante, appare e scompare come il trailer di un kolossal catastrofico. Perché lo scempio dell'informazione moderna si basa su tre censure.
La prima è quella evidente e brutale delle liste nere che percorre giornali, televisioni e istituti di cultura, il forbicione vecchio stile del Minculpop, in mano a mediocri impauriti da ogni talento.
La seconda è la censura indotta, nel senso che ormai nelle televisioni, nei giornali e persino nel cinema e nei libri quasi tutti si rimpiccoliscono o si censurano da soli. La terza, la più importante è la censura gerarchica, e cioè il diverso peso e visibilità che si dà alle notizie.
Sappiamo che nel nostro paese non possono mancare, nelle trasmissioni di cosiddetta informazione, almeno diecimila ore mensili di dichiarazioni di leader, dibattiti tra ospiti graditi all'azienda e amorazzi di Vip. Tolti gli spot, le sigle e la pubblicità a Vespa e alla Fallaci, non resta molto. Potremmo fare un lungo elenco delle notizie recenti o antiche, sepolte o offuscate da questo tipo di censura. Lo tsunami è quasi scomparso. Lo smog sopra una determinata soglia è un fastidio, sotto la soglia è un piacevole aerosol. Le nostre autostrade sono trappole mortali, ma finito l'ingorgo e il concerto dei clacson, torna il silenzio. Il fatto che la mafia viva il suo trionfo e tutta la Sicilia paghi il pizzo, è argomento quotidiano dei telegiornali (svedesi e inglesi). Ma sono sparite o poco importanti anche le guerre in Africa o Cecenia, i massacri latinoamericani e altre cose più fantasiose come la Sars, la mucca pazza, la Pidue, fate voi l'eccetera.
In compenso restano notizie importantissime la crisi degli arbitri di calcio, il Mibtel, il Nasdaq, le liti sul Pil e i dubbi dell'Udeur.
In questi giorni, ovviamente, la prima notizia è il rifinanziamento della spedizione in Iraq. Una decisione importante. Peccato che non sia mai stato altrettanto importante dire che la maggioranza degli italiani era ed è contraria alla guerra. Perché si impone come importante solo quello che accade in questo parlamento illegale (perché ha slealmente rotto le regole in base alle quali è stato eletto, regole che prevedevano il rispetto dell'opposizione, dell'equilibrio dei poteri e dell'opinione pubblica, quindi illegale perché ha scelto l'illegalità).
Perciò è importante assistere al continuo comizio del Ceausescu col toupè, col suo ultimo trapianto pilifero di ascella d'orango, e ascoltare ore e ore questo ometto che si lamenta perché lo odiano, quando è lui il primo vero seminatore d'odio in questo paese. Queste sono le cose importanti per l'informazione di regime. Ma talvolta succede qualcosa di inatteso.
Il video di Giuliana Sgrena è una di queste cose. Difficile da cancellare, anche se qualcuno ci proverà.
E' certamente una notizia importante, in quanto ogni politico deve occuparsene e ogni italiano deve vedere quelle immagini. Ma questa importanza è fragile. Dei politici che se ne occupano infatti, pochi possono o vogliono davvero salvarla, e molti del pubblico sono pronti a distogliere lo sguardo, una volta convinti con adeguato bombardamento di cospironi, che non si può fare nulla per lei. E' vero, per Giuliana c'è stato molto: il papa, l'unanimismo televisivo e parole bilateral, spesso sincere. Ma chi conosce l'informazione sa che tutte questo può svanire e arretrare, di fronte a una vera scelta che scavi nel dubbio, nell'orrore, nelle bugie di questa guerra. Una grande mobilitazione può aiutarla, la trattativa può procedere, ma resta un nodo: Giuliana testimonia la possibilità vera della pace e dell'autodeterminazione dell'Iraq. Questo è importante in modo pericoloso. Sono già pronti scarichi di responsabilità, retoriche, e operazioni di dimenticanza, come per Baldoni e tanti altri.
Cosa c'è di pericolosamente importante nel video di Giuliana e in video simili? Il calcolo elettorale dei nostri governanti, che peserà in ogni istante di questa vicenda. Il calcolo freddo della banda dei rapitori, dipinta come improvvisata, e che invece non sembra sprovveduta per niente, anzi misteriosamente inafferrabile e attenta a ogni sfumatura politica.
Ma la cosa davvero importante, quella che pesa come un macigno, è la frase che recentemente Condoleeza Rice e poi Rumsfeld, hanno lanciato con fredda nonchalance nei confronti della Siria : «Valuteremo tutte le opzioni in nostro possesso». Fetente ipocrisia per dire: stiamo decidendo nuove possibili guerre. Altre frasi simili sono state lanciate nei confronti dell'Iran, o della Corea del Nord, e la risposta è stata terribile, ma prevedibile: ci difenderemo con le armi nucleari.
Forse non c'è contro Giuliana un'opinione pubblica divisa o becera, siamo convinti che anche Calderoli e i suoi sceriffi sarebbero contenti che lei tornasse, ma contro di lei è in moto una macchina da guerra che non ha mai rallentato i motori. Non ha il tasto trattativa, ma neanche il tasto troppi morti o basta così sulla plancia di comando. E non sono il solo a pensare che la guerra stia per riprendere in nuovi scenari e che gli Usa non se ne andranno dal Medio Oriente, né tra un anno né tra vent'anni. Lì, in quel futuro immediato, forse si gioca la vita di Giuliana e di altri ostaggi.
Certo è difficile scrivere sapendo che da un momento all'altra gli eventi possono portarci via Giuliana, o ridarcela.
Cerchiamo di essere ottimisti: a volte la crudeltà della storia cambia per un volto, per un gesto di umanità, per qualcosa che si inceppa o stride, per un attimo di verità che riesce a travolgere le ipocrisie. E rimaniamo serenamente pessimisti. Sì, abbiamo un'alternativa al morire per il collasso climatico. Morire per una guerra convenzionale o atomica. E questo avendolo scelto freddamente, consapevolmente giorno per giorno. E non sarà responsabilità solo di piccoli Stati Canaglia o di grandi Stati Canaglia che chiamano canaglia gli altri. Sarà colpa della nostra rassegnazione, della resa ai crimini della propaganda. E quel giorno, apparirà evidente cosa è stato importante in questi anni. Quando, come succede agli uomini, la morte rende la vita una biografia, con un senso e una finalità. Così la morte della terra potrebbe diventare una grande biografia per pochi superstiti o la tesi di laurea di qualche perplesso studente venusiano. Ma apocalittici o fiduciosi, tutto questo è un motivo in più per avere fretta, frettissima nel fare il poco o il molto che ci resta per fermare l'orrore. Domani saremo tanti a sfilare per una persona sola che rappresenta le sofferenze dell'Iraq, ma rappresenta anche coraggiosamente e drammaticamente tutti noi. In questo sogno debole, ma irrinunciabile, per noi il più importante.
di Stefano Benni - Il Manifesto, 18 febbraio 2005
Entro quarant'anni un terzo delle coste del mondo sarà sommerso dalle acque. Non lo dicono i catastrofisti, lo dice la maggioranza degli scienziati mondiali. Il protocollo di Kyoto ha già anni di ritardo, e c'è da credere che non verrà rispettato. Qualcuno dice che ci adatteremo. In fondo, che differenza c'è tra andare al mare a Cattolica o sulla spiaggia di San Marino? E finalmente verrà attuata la soluzione finale nella nostra bella Padania, dove solo i padani Doc potranno abitare sulle palafitte, e gli altri, che nuotino.
Ma il disastro climatico non è importante, appare e scompare come il trailer di un kolossal catastrofico. Perché lo scempio dell'informazione moderna si basa su tre censure.
La prima è quella evidente e brutale delle liste nere che percorre giornali, televisioni e istituti di cultura, il forbicione vecchio stile del Minculpop, in mano a mediocri impauriti da ogni talento.
La seconda è la censura indotta, nel senso che ormai nelle televisioni, nei giornali e persino nel cinema e nei libri quasi tutti si rimpiccoliscono o si censurano da soli. La terza, la più importante è la censura gerarchica, e cioè il diverso peso e visibilità che si dà alle notizie.
Sappiamo che nel nostro paese non possono mancare, nelle trasmissioni di cosiddetta informazione, almeno diecimila ore mensili di dichiarazioni di leader, dibattiti tra ospiti graditi all'azienda e amorazzi di Vip. Tolti gli spot, le sigle e la pubblicità a Vespa e alla Fallaci, non resta molto. Potremmo fare un lungo elenco delle notizie recenti o antiche, sepolte o offuscate da questo tipo di censura. Lo tsunami è quasi scomparso. Lo smog sopra una determinata soglia è un fastidio, sotto la soglia è un piacevole aerosol. Le nostre autostrade sono trappole mortali, ma finito l'ingorgo e il concerto dei clacson, torna il silenzio. Il fatto che la mafia viva il suo trionfo e tutta la Sicilia paghi il pizzo, è argomento quotidiano dei telegiornali (svedesi e inglesi). Ma sono sparite o poco importanti anche le guerre in Africa o Cecenia, i massacri latinoamericani e altre cose più fantasiose come la Sars, la mucca pazza, la Pidue, fate voi l'eccetera.
In compenso restano notizie importantissime la crisi degli arbitri di calcio, il Mibtel, il Nasdaq, le liti sul Pil e i dubbi dell'Udeur.
In questi giorni, ovviamente, la prima notizia è il rifinanziamento della spedizione in Iraq. Una decisione importante. Peccato che non sia mai stato altrettanto importante dire che la maggioranza degli italiani era ed è contraria alla guerra. Perché si impone come importante solo quello che accade in questo parlamento illegale (perché ha slealmente rotto le regole in base alle quali è stato eletto, regole che prevedevano il rispetto dell'opposizione, dell'equilibrio dei poteri e dell'opinione pubblica, quindi illegale perché ha scelto l'illegalità).
Perciò è importante assistere al continuo comizio del Ceausescu col toupè, col suo ultimo trapianto pilifero di ascella d'orango, e ascoltare ore e ore questo ometto che si lamenta perché lo odiano, quando è lui il primo vero seminatore d'odio in questo paese. Queste sono le cose importanti per l'informazione di regime. Ma talvolta succede qualcosa di inatteso.
Il video di Giuliana Sgrena è una di queste cose. Difficile da cancellare, anche se qualcuno ci proverà.
E' certamente una notizia importante, in quanto ogni politico deve occuparsene e ogni italiano deve vedere quelle immagini. Ma questa importanza è fragile. Dei politici che se ne occupano infatti, pochi possono o vogliono davvero salvarla, e molti del pubblico sono pronti a distogliere lo sguardo, una volta convinti con adeguato bombardamento di cospironi, che non si può fare nulla per lei. E' vero, per Giuliana c'è stato molto: il papa, l'unanimismo televisivo e parole bilateral, spesso sincere. Ma chi conosce l'informazione sa che tutte questo può svanire e arretrare, di fronte a una vera scelta che scavi nel dubbio, nell'orrore, nelle bugie di questa guerra. Una grande mobilitazione può aiutarla, la trattativa può procedere, ma resta un nodo: Giuliana testimonia la possibilità vera della pace e dell'autodeterminazione dell'Iraq. Questo è importante in modo pericoloso. Sono già pronti scarichi di responsabilità, retoriche, e operazioni di dimenticanza, come per Baldoni e tanti altri.
Cosa c'è di pericolosamente importante nel video di Giuliana e in video simili? Il calcolo elettorale dei nostri governanti, che peserà in ogni istante di questa vicenda. Il calcolo freddo della banda dei rapitori, dipinta come improvvisata, e che invece non sembra sprovveduta per niente, anzi misteriosamente inafferrabile e attenta a ogni sfumatura politica.
Ma la cosa davvero importante, quella che pesa come un macigno, è la frase che recentemente Condoleeza Rice e poi Rumsfeld, hanno lanciato con fredda nonchalance nei confronti della Siria : «Valuteremo tutte le opzioni in nostro possesso». Fetente ipocrisia per dire: stiamo decidendo nuove possibili guerre. Altre frasi simili sono state lanciate nei confronti dell'Iran, o della Corea del Nord, e la risposta è stata terribile, ma prevedibile: ci difenderemo con le armi nucleari.
Forse non c'è contro Giuliana un'opinione pubblica divisa o becera, siamo convinti che anche Calderoli e i suoi sceriffi sarebbero contenti che lei tornasse, ma contro di lei è in moto una macchina da guerra che non ha mai rallentato i motori. Non ha il tasto trattativa, ma neanche il tasto troppi morti o basta così sulla plancia di comando. E non sono il solo a pensare che la guerra stia per riprendere in nuovi scenari e che gli Usa non se ne andranno dal Medio Oriente, né tra un anno né tra vent'anni. Lì, in quel futuro immediato, forse si gioca la vita di Giuliana e di altri ostaggi.
Certo è difficile scrivere sapendo che da un momento all'altra gli eventi possono portarci via Giuliana, o ridarcela.
Cerchiamo di essere ottimisti: a volte la crudeltà della storia cambia per un volto, per un gesto di umanità, per qualcosa che si inceppa o stride, per un attimo di verità che riesce a travolgere le ipocrisie. E rimaniamo serenamente pessimisti. Sì, abbiamo un'alternativa al morire per il collasso climatico. Morire per una guerra convenzionale o atomica. E questo avendolo scelto freddamente, consapevolmente giorno per giorno. E non sarà responsabilità solo di piccoli Stati Canaglia o di grandi Stati Canaglia che chiamano canaglia gli altri. Sarà colpa della nostra rassegnazione, della resa ai crimini della propaganda. E quel giorno, apparirà evidente cosa è stato importante in questi anni. Quando, come succede agli uomini, la morte rende la vita una biografia, con un senso e una finalità. Così la morte della terra potrebbe diventare una grande biografia per pochi superstiti o la tesi di laurea di qualche perplesso studente venusiano. Ma apocalittici o fiduciosi, tutto questo è un motivo in più per avere fretta, frettissima nel fare il poco o il molto che ci resta per fermare l'orrore. Domani saremo tanti a sfilare per una persona sola che rappresenta le sofferenze dell'Iraq, ma rappresenta anche coraggiosamente e drammaticamente tutti noi. In questo sogno debole, ma irrinunciabile, per noi il più importante.
19.2.05
Un breviario contro lo smog
Satira preventiva di Michele Serra
Polmone espiatorio e targhe esterne per combattere l'inquinamento della Pianura Padana
Nelle foto satellitari la Pianura Padana, per molti mesi all'anno, è una chiazza giallo-grigiastra. Secondo gli ambientalisti è identica alla metastasi del fegato nelle endoscopie, secondo Formigoni è un'immagine poetica ispirata all'ultimo periodo dell'astrattismo lombardo. Secondo la realtà, è una galla mefitica formata dalle polveri inquinanti sospese a mezz'aria. Che fare? La circolazione a targhe alterne è un palliativo. Gli amministratori della Pianura Padana, in queste ore, sono riuniti per studiare misure più drastiche. Ecco le principali.
Sopraelevazione Poiché gli agenti inquinanti tendono a stagnare in basso, si sta pensando alla sopraelevazione dell'intera Padania su palafitte o con altri sistemi. C'è un progetto Renzo Piano (una suggestiva fuga, da Torino a Trieste, di alberi maestri, vele e trinchetti, con la popolazione issata sulle coffe), uno di Gae Aulenti (enormi amache di tulle colorata) e uno del geometra lecchese Gino Perego (costruire un unico immenso montarozzo di terra di riporto simile a quelli delle villette a schiera, ma lungo 300 chilometri). Scartato un progetto collettivo del manicomio criminale di Castiglione dello Stiviere, perché era troppo simile all'idea di Renzo Piano e a quella di Gae Aulenti. In pratica, una sintesi tra le due.
Polmone espiatorio È la proposta della Lega. Vengono individuati alcuni cittadini tra i più improduttivi (tossicomani, disoccupati, musulmani, omosessuali, donne) che hanno l'obbligo di camminare almeno 15 ore al giorno per le vie del centro inspirando profondamente l'aria inquinata. È stato calcolato che un immigrato sotto stress, specie se appena raggiunto dal provvedimento di espulsione e inseguito, lui a piedi, dai vigili urbani in motocicletta, può accelerare la respirazione fino al triplo del normale, ed è in grado di trattenere nei polmoni fino a due etti al giorno di polveri venefiche. Un magrebino in giovane età può sopravvivere anche due mesi e ripulire, da solo, cento metri di marciapiede in corso Buenos Aires. E un nero con capigliatura rasta, passando e ripassando davanti a un McDonald's, può trattenere tra i boccoli fino a 30 grammi di vapori d'olio fritto.
Vento artificiale La scarsa ventilazione naturale consente alle polveri sospese di stagnare troppo a lungo. Si potrebbe dunque ricorrere al vento artificiale, ottenuto impiantando enormi turbine in grado di creare tramontane, scirocchi e grecali a seconda delle necessità. Due le controindicazioni: la prima è che una turbina impiantata alla periferia di Milano, essendo alimentata a carbone, può pulire l'aria frontestante fino a Vimercate, ma emette gas di scarico fino a Napoli. La seconda è che non si trova un accordo sull'orientamento delle turbine: puntate verso Ovest ammassano le sostanze inquinanti contro le Alpi, provocando il caratteristico fenomeno della neve nera e una moria di maestri di sci, puntate verso Est affumicano la costa istriana, riaprendo il doloroso capitolo dell'odio etnico.
Targhe esterne A differenza delle inutili targhe alterne, si può circolare ogni giorno qualunque targa si possieda, però a piedi, tenendo la targa appesa al collo, bene in vista, e facendo 'brum brum' con la bocca. È la proposta degli ambientalisti.
Targhe interne È la seconda proposta degli ambientalisti. Si svita la targa dalla macchina, la si porta in casa e si trascorre la giornata a lume di candela, mangiando gallette di segale e leggendo un buon libro sullo sviluppo sostenibile stampato su carta riciclata con inchiostro vegetale. Per suicidarsi all'imbrunire, solo metodi naturali: ci si può impiccare a una corda di canapa o buttarsi dalla finestra avendo cura di non gridare, per combattere l'inquinamento sonoro.
Novena ecologica Sostenuta da Comunione e Liberazione: la gente continua a inquinare, le ciminiere a puzzare, le macchine a circolare, la Padania a produrre e la Compagnia delle Opere a fare affari, però pregando il buon Dio che mandi a piovere o faccia vento. Ogni sera dopocena raduno di massa in piazza del Duomo con maschera antigas e breviario.
Satira preventiva di Michele Serra
Polmone espiatorio e targhe esterne per combattere l'inquinamento della Pianura Padana
Nelle foto satellitari la Pianura Padana, per molti mesi all'anno, è una chiazza giallo-grigiastra. Secondo gli ambientalisti è identica alla metastasi del fegato nelle endoscopie, secondo Formigoni è un'immagine poetica ispirata all'ultimo periodo dell'astrattismo lombardo. Secondo la realtà, è una galla mefitica formata dalle polveri inquinanti sospese a mezz'aria. Che fare? La circolazione a targhe alterne è un palliativo. Gli amministratori della Pianura Padana, in queste ore, sono riuniti per studiare misure più drastiche. Ecco le principali.
Sopraelevazione Poiché gli agenti inquinanti tendono a stagnare in basso, si sta pensando alla sopraelevazione dell'intera Padania su palafitte o con altri sistemi. C'è un progetto Renzo Piano (una suggestiva fuga, da Torino a Trieste, di alberi maestri, vele e trinchetti, con la popolazione issata sulle coffe), uno di Gae Aulenti (enormi amache di tulle colorata) e uno del geometra lecchese Gino Perego (costruire un unico immenso montarozzo di terra di riporto simile a quelli delle villette a schiera, ma lungo 300 chilometri). Scartato un progetto collettivo del manicomio criminale di Castiglione dello Stiviere, perché era troppo simile all'idea di Renzo Piano e a quella di Gae Aulenti. In pratica, una sintesi tra le due.
Polmone espiatorio È la proposta della Lega. Vengono individuati alcuni cittadini tra i più improduttivi (tossicomani, disoccupati, musulmani, omosessuali, donne) che hanno l'obbligo di camminare almeno 15 ore al giorno per le vie del centro inspirando profondamente l'aria inquinata. È stato calcolato che un immigrato sotto stress, specie se appena raggiunto dal provvedimento di espulsione e inseguito, lui a piedi, dai vigili urbani in motocicletta, può accelerare la respirazione fino al triplo del normale, ed è in grado di trattenere nei polmoni fino a due etti al giorno di polveri venefiche. Un magrebino in giovane età può sopravvivere anche due mesi e ripulire, da solo, cento metri di marciapiede in corso Buenos Aires. E un nero con capigliatura rasta, passando e ripassando davanti a un McDonald's, può trattenere tra i boccoli fino a 30 grammi di vapori d'olio fritto.
Vento artificiale La scarsa ventilazione naturale consente alle polveri sospese di stagnare troppo a lungo. Si potrebbe dunque ricorrere al vento artificiale, ottenuto impiantando enormi turbine in grado di creare tramontane, scirocchi e grecali a seconda delle necessità. Due le controindicazioni: la prima è che una turbina impiantata alla periferia di Milano, essendo alimentata a carbone, può pulire l'aria frontestante fino a Vimercate, ma emette gas di scarico fino a Napoli. La seconda è che non si trova un accordo sull'orientamento delle turbine: puntate verso Ovest ammassano le sostanze inquinanti contro le Alpi, provocando il caratteristico fenomeno della neve nera e una moria di maestri di sci, puntate verso Est affumicano la costa istriana, riaprendo il doloroso capitolo dell'odio etnico.
Targhe esterne A differenza delle inutili targhe alterne, si può circolare ogni giorno qualunque targa si possieda, però a piedi, tenendo la targa appesa al collo, bene in vista, e facendo 'brum brum' con la bocca. È la proposta degli ambientalisti.
Targhe interne È la seconda proposta degli ambientalisti. Si svita la targa dalla macchina, la si porta in casa e si trascorre la giornata a lume di candela, mangiando gallette di segale e leggendo un buon libro sullo sviluppo sostenibile stampato su carta riciclata con inchiostro vegetale. Per suicidarsi all'imbrunire, solo metodi naturali: ci si può impiccare a una corda di canapa o buttarsi dalla finestra avendo cura di non gridare, per combattere l'inquinamento sonoro.
Novena ecologica Sostenuta da Comunione e Liberazione: la gente continua a inquinare, le ciminiere a puzzare, le macchine a circolare, la Padania a produrre e la Compagnia delle Opere a fare affari, però pregando il buon Dio che mandi a piovere o faccia vento. Ogni sera dopocena raduno di massa in piazza del Duomo con maschera antigas e breviario.
18.2.05
NO ALLA GUERRA!
L'obbedienza non è più una virtù, di don Milani e il movimento per la pace e la non violenza (1965-2005) PIEMME
L'11 febbraio 1965 i cappellani militari della Toscana approvarono un'ordine del giorno in cui criticarono duramente l'obiezione di coscienza, definendo gli obiettori vili e estranei alla morale cattolica. Don Lorenzo Milani e i ragazzi di Barbiana risposero con una lettera in difesa della pace, dell'obiezione di coscienza e di un'idea nuova della patria: "Se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri", scrisse don Milani. La lettera, inviata a tutti i giornali, fu pubblicata solo da Rinascita, il settimanale del Pci. Ne scaturì un dibattito molto polemico, soprattutto a destra. Don Milani fu denunciato per apologia di reato. Non potendo partecipare direttamente al processo, perché già gravemente malato di tumore (sarebbe morto il 26 giugno 1967), il priore di Barbiana scrisse una lettera ai giudici del tribunale di Roma, dove si tenne il processo, il 15 febbraio del 1966. "La guerra difensiva non esiste più. Allora non esiste più una guerra giusta né per la Chiesa né per la Costituzione", scrisse don Milani. Dunque, no alla guerra, anche preventiva: è questo l'insegnamento di don Milani. Sì, perché - spiegò il priore di Barbiana- le guerre contemporanee colpiscono soprattutto i civili: "A più riprese gli scienziati ci hanno avvertiti che è in gioco la sopravvivenza della specie umana. E noi stiamo qui a questionare se al soldato sia lecito o no distruggere la specie umana". Don Milani fu assolto in primo grado e condannato in appello. Le sue due lettere 'ai cappellani militari e ai giudici' pubblicate in "L'obbedienza non è più una virtù", divennero un testo cult della contestazione del '68 e hanno fortemente influenzato il movimento per la pace. A quarant'anni dalla vicenda Mario Lancisi in "No alla guerra" ripropone le due lettere di don Milani, precedute da un'ampia ricostruzione storica e seguite da una sezione di interviste a protagonisti di quella vicenda, come gli allievi del priore, Francesco e Michele Gesualdi, Pietro Pinna, il primo obiettore di coscienza, Fabrizio Fabbrini, il primo obiettore cattolico, e mons. Loris Capovilla, ex segretario di papa Giovanni XXIII, che ricostruisce i rapporti tra il Vaticano e il priore di Barbiana. Nel libro sono pubblicate anche interviste a intellettuali e esponenti del movimento della pace come Massimo Cacciari, Franco Cardini, Giancarlo Caselli, don Luigi Ciotti, padre Tonino Dell'Olio, Gad Lerner, Adriano Sofri e padre Alex Zanotelli in cui viene dibattuto il tema dell'influenza di don Milani sul movimento della pace e di come sia possibile costruire, anche alla luce dell'esperienza di don Milani, una convivenza tra gli uomini in cui la guerra diventi un tabù. Anche a distanza di quarant'anni la battaglia di don Milani si connota come una storia di grande attualità perché ripropone il tema della guerra, della non violenza, dell'obiezione di coscienza, del ruolo dei civili nei conflitti armati, del pericolo nucleare e della responsabilità civile di ogni cittadino.
BRANI TRATTE DALLE INTERVISTE
MASSIMO CACCIARI
SE LA PACE NON E' DI QUESTO MONDO
Don Milani afferma che la guerra giusta non esiste più , siamo nel 1965, e quarant'anni dopo la guerra continua ad imperversare come strumento per risolvere i conflitti tra i popoli. Lei condivide il mai più guerra del priore di Barbina?
Quello di don Milani non è né un discorso politico né un utopia . E' piuttosto un imperativo categorico e come tutti gli imperativi categorici sono idee regolative e possono svolgere anche una grande funzione politica, ma è evidente che finché ci sarà mondo, ci saranno guerre e che il regno di Dio non è di questo mondo. Come si fa a definire la guerra giusta? La guerra giusta è qualcosa di assolutamente indefinibile.
Quale è il limite che lei ravvisa nel movimento per la pace?
L'enorme difficoltà ad elaborare proposte vere di organizzazione degli equilibri internazionali. Una debolezza politica, di programma politico, non tanto etica o di testimonianza personale.
MONS. LORIS CAPOVILLA
GIOVANNI XXIII, PAOLO VI E DON MILANI
Ex segretario di Papa Giovanni XXIII e collaboratore di Paolo VI, mons. Loris Capovilla ha tenuto un importante carteggio con il priore di Barbiana e la sua testimonianza è fondamentale per ricostruire i rapporti tra il Vaticano e don Milani. (Vedi "Il carteggio Capovilla", in Giorgio Pecorini, I care ancora, Emi, 2001, pagg.59-77)
Quando don Milani le inviò la Lettera ai giudici e quale fu la sua impressione?
Don Milani mi inviò la Lettera l'8 novembre 1965, prima del processo. "La conservo tra le mie carte come testimonianza del nostro tempo e dei problemi che ha sollevato", gli risposi l'11 novembre.
Il 28 maggio 1962 don Milani le scrisse una lunga lettera per denunciare il duro impatto che , durante una visita con i suoi ragazzi ai musei vaticani, ebbe con la burocrazia e il cerimoniale dello Stato pontificio. Che cosa ne fece della lettera?
La passai a mons. Angelo Dell'Acqua che il 31 maggio mi trasmise una nota in cui, tra l'altro, era scritto: "E' una lettera che va letta e riletta e, se fosse possibile, fatta leggere o almeno conoscere in Vaticano". Aggiungeva di considerare don Milani "un buon parroco" e proponeva di inviargli 500 mila lire per i parrocchiani. Giovanni XIII rimase turbato e commosso dalla lettera. Commosso nel senso che la lettera esprimeva la figura di un prete dotto, zelante, sincero.
Ha mai parlato di don Milani con Paolo VI?
Una sola volta parlai con Paolo VI per ringraziarlo di avermi fatto tramite della sua carità a proposito delle medicine che inviai a don Milani su sua richiesta perché esse si trovavano solo nella farmacia del Vaticano.
FRANCO CARDINI S
E LA PACE NON E' PIU' UNA SPERANZA
Medioevalista di fama internazionale, lo storico fiorentino Franco Cardini è un'intellettuale cattolico che, pur muovendosi da posizioni e radici di destra, esprime posizioni non facilmente riconducibili ad una determinata area culturale e politica. La sua testimonianza riveste perciò una particolare originalità. Alle domande poste ha preferito rispondere con uno scritto che in qualche modo ne segue il filo con un carattere di unitarietà nell'approccio all'esperienza del priore di Barbiana Ecco due passi dell'intervento.
Ho letto "L'obbedienza non è più una virtù" e tutte le altre cose di don Lorenzo Milani credo appena sono state pubblicate, e mano a mano che uscivano dalla sua "fucina": così le sue grandi lettere (ai cappellani, ai giudici, a una professoressa): e, fino dal principio, ne ricevetti un'impressione caratterizzata da un dissenso su alcuni punti forse secondari, da un grande consenso di fondo e da un'impressionante sintesi di entusiastica adesione e di durissima repulsione. Quel che non riesco comunque ad accettare, di don Milani, è il "mai guerra". Continuo a credere che la Chiesa faccia bene a sostenere la possibilità, per il cristiano, di andare in guerra senza per questo commettere peccato, ai patti già stabiliti da sant'Agostino: guerre legittimamente proclamate da un'autorità costituita, guerre di difesa.
GIANCARLO CASELLI
Procuratore generale della Repubblica di Torino
Nella Lettera ai giudici don Milani afferma che il giudice giudica in base a leggi anche ingiuste mentre il maestro deve formare i ragazzi al senso della legalità ma anche della disubbidienza civile come "volontà di leggi migliori". In quale misura oggi la scuola, la politica, la Chiesa, la famiglia, cioè le grandi agenzie educative, insegnano la disubbidienza civile e il primato della coscienza nel senso dilaniano?
Resto convinto del fatto che al giudice è chiesto il dovere di applicare la legge interpretandola in senso conforme ai principi costituzionali. Ma è dovere di tutti ' nessuno escluso ' fare in modo che al giudice venga dato un patrimonio di norme quanto più possibile aderente alla giustizia. Quindi non si tratta di educare alla disobbedienza, ma di formare quel senso civico che rende possibile la critica costruttiva indirizzata a migliorare non solo le leggi, ma anche il senso di legalità dei cittadini. Le leggi devono difendere il debole: è questo il valore profondo di ogni legislazione. Ed è questa la tensione, il filo rosso che deve guidare lo sforzo di tutte le agenzie educative (famiglia, scuola, chiese, associazioni). Solo con questo percorso la legge diventa supporto alla coscienza del cittadino, e non strumento e "peso" ( o alibi) che si sostituisce alla coscienza.
FABRIZIO FABBRINI
Obiettore cattolico, autore del libro "Tu non ucciderai", si offrì di difendere don Milani in tribunale
IO, OBIETTORE CATTOLICO CHE OSAI CRITICARE PAOLO VI
Lei è stato citato da don Milani anche per una lettera aperta inviata a Paolo VI.
Sì, a quel tempo facevo ancora il servizio militare, ma non facevo mistero delle mie idee nonviolente. Papa Montini aveva tenuto a una delegazione di ufficiali belgi un discorso contro l'obiezione di coscienza, affermando che nel Vangelo la professione del soldato è ritenuta lecita, che anzi Gesù loda il centurione che a lui si rivolge per chiedergli la guarigione del suo servitore. Allora gli scrissi una Lettera aperta in cui, dandogli del Tu, gli facevo osservare l'abbaglio da lui preso nell'interpretare il Vangelo. Gesù infatti non loda il mestiere del centurione, bensì la fede di lui. Allo stesso modo Gesù loda la fede della peccatrice, ciò non significa che lodasse anche il mestiere della peccatrice. E ai soldati Giovanni Battista ammonisce chiaramente: non fare violenza alcuna a nessuno! E tutto il Vangelo è un chiaro invito alla nonviolenza. Inviai la lettera a sette giornali, ricordo che la pubblicò solo Paese Sera. Poiché ero ancora militare fui punito con 15 giorni di carcere.
Paolo VI le rispose?
Personalmente no ma il suo segretario padre Marco chiamò padre Balducci per dirgli che il papa aveva gradito la lettera e che intendeva che io lo sapessi. Il papa fu poi protagonista nei miei confronti di un altro gesto bellissimo, che finora non ho mai rivelato pubblicamente. Durante il mio processo, proprio alla vigilia della sentenza, su suggerimento del papa mons. Capovilla, che abitava ancora in Vaticano, mandò un dignitario papale a casa mia con una lettera di stima, la benedizione del papa e due medaglie d'oro a mio padre a mio fratello e due rosari, a mia madre a mia sorella, aggiungendo che il papa mi era molto vicino. Un gesto che mi commuove ancora oggi.
ADRIANO SOFRI
Don Milani afferma che la guerra giusta non esiste più. Siamo nel 1965. Quarant'anni dopo la guerra continua ad imperversare come strumento per risolvere i conflitti. Condivide il "mai guerra" del priore di Barbiana oppure don Milani ha avuto torto?
Ha avuto piena ragione. In particolare ha contribuito a demolire il militarismo, cioè il cattivo deposito delle cose peggiori: lo spirito di corpo, il maschilismo, il culto della virilità e della forza, il culto dell'abnegazione che aliena la personalità e l'individuo. L'obiezione di coscienza mossa da don Milani è stato un fenomeno decisivo anche dal punto di vista dei diritti umani.
In che misura don Milani ha influenzato il pacifismo?
Non vedo un rapporto di stretta filiazione. Don Milani aveva uno straordinario realismo. Le utopie facili che si tramutano facilmente in slogan gli davano un grande fastidio. Era un uomo che aveva molta attenzione alle cose concrete e che non nutriva alcuna illusione che l'ultimo di oggi potesse diventare il primo di domani. Io credo che questo assolutismo morale e sloganistico di una parte di questo movimento che si chiama pacifista, una parte perché per fortuna si tratta di un reale arcipelago con posizioni molto diverse, è talmente ideologico che non corrisponde alla natura profondamente realista dell'utopia di don Milani. In definitiva quella del priore di Barbiana era un'utopia concreta, quella di una parte del pacifismo è invece molto sloganistica, quando ad esempio esalta principi quali il "senza se e senza ma". Io trovo che poche cose siano così insopportabili sul piano educativo come questo slogan. Bisogna invece fare un monumento ai se e ai ma. Dopodiché verrà il momento di dire "sì" e "no" ma prima uno deve passare anche attraverso i "se" e i "ma".
17.2.05
SOTTO LA CHIOMA, MENTE
di Marco Travaglio (dall'Unità del 16 febbraio 2005)
Debilitato dai postumi della bronchite del Male, ma soprattutto messo alle corde dalle incalzanti domande di Anna La Garofana, l'altra sera il Cavalier Peluria è apparso in leggera difficoltà. Saranno state le vertigini provocate dal cuscino a sei piazze sistemato sulla poltrona per non dover segare le gambe alle telecamere, saranno state le stigmate aperte sulla sacra nuca dal vile cavalletto («ne porto ancora i segni»): fatto sta che il Foltocrinito di Arcore non ha ancora ripreso conoscenza. Dimentica, rimuove, confonde. Prima denuncia la «canea di giornalisti plaudenti», mettendo in allarme Anna La Garofana, che temeva ce l'avesse con lei (poi s'è chiarito che parlava del congresso Ds). Poi cita ancora una volta l'Unità, sempre in cima ai suoi pensieri (e non solo ai suoi): «Mi hanno chiamato mostro bavoso, re dei bari, Peròn di plastica». Eccoli, i danni irreversibili inferti dal maledetto cavalletto: il Foltocrinito confonde l'Unità col Giornale e con la Lega Nord. È stato Paolo Guzzanti a scrivere «mascalzone bavoso». Ma non di Berlusconi: di Prodi. Che ora attende le sue scuse, prima di confrontarsi in tv.
Quanto al «baro» e al «Peròn», è tutta farina del sacco di Bossi: nel '94, prima che Bellachioma gli pagasse i debiti, il Senatur lo chiamava «Peròn della mutua» (23-12-94), «il baro» (5-4-94), «piccolo tiranno dittatore» (20-12-94), «Berluskaiser» (6-4-94), «Berluskaz» (1-9-94), «qualcosa di nazistoide e di mafioso» (13-4-95), «mafioso di Arcore» (8-2-95).
Poi c'è l'opera omnia di Roberto Calderoli, in arte Gianduja. L'8 marzo '95 interroga il governo per sapere «se a Palermo si indaga su Dell'Utri per mafia», essendo «stonata e illogica la definizione di stalliere per Vittorio Mangano». Il 26 maggio '95 Dell'Utri è arrestato a Torino per false fatture: «Gli uomini più vicini a Berlusconi si sono posti fuori dalla politica, dalla morale e dalla legge. Si smentisce la presunta persecuzione contro Berlusconi. Mani pulite non è finita, anzi per Berlusconi è appena iniziata». Inchiesta All Iberian: «È paradossale che Berlusconi fosse all'oscuro del versamento di ben 10 miliardi dalla sua azienda a Craxi. Quesito: Berlusconi è anche uno spergiuro?» (23-11-95). Il Cavaliere si sottrae agli interrogatori. E Calderoli: «A Milano non c'è posto per chi ha come scopo la distruzione del pool Mani pulite. Se Berlusconi pensa di essere milanese, ha un modo per dimostrarlo: vada dai giudici» (29-11-95). Ma Calderoli è anche un luminare dell'odontoiatria: «A Berlusconi i principi della democrazia sono insopportabili, gli provocano uno shock allergico. Sarebbe auspicabile, e lo dico da medico quale sono, che il dottor Berlusconi si facesse visitare da un buon internista. Sono a sua disposizione per consigliargliene qualcuno, anche gratuitamente» (19-2-96). Berlusconi ricandidato nel '96: «Inquietanti ombre si stagliano sulla politica italiana. C'è chi si candida alla guida del Paese nonostante sia imputato di gravi reati. C'è chi ha fondato un partito giudicato appetibile e utile agli interessi dei vertici della mafia. Invece di rinviare i processi, bisognerebbe rinviare le elezioni per accertare, prima, se siamo di fronte a uno statista o a un tangentista» (20-2-96). «Berlusconi accusa Dini di avergli copiato il programma. Strano, mi risultava che fosse Berlusconi ad aver copiato il programma di Licio Gelli» (28-2-96). Berlusconi paragona il pool alla banda della Uno Bianca. Calderoli lo fulmina: «Un'infamia. Berlusconi sappia che “complici” di questo “corpo deviato” dello Stato sono le centinaia di migliaia di milanesi che sostengono da anni i magistrati di Mani Pulite contro gli attacchi del regime di Roma, al quale Berlusconi era legato anche sentimentalmente, dato che Craxi era suo testimone di nozze» (14-3-96). Appello al voto, per una nuova Resistenza: «Fini dice che Mussolini è stato il più grande statista del secolo. Berlusconi è l'unico presidente del Consiglio rinviato a giudizio per corruzione. Gli elettori prima e il presidente della Repubblica sanno cosa fare» (27-3-96). I miliardi di Berlusconi a Craxi diventano 15: può mancare una dichiarazione di Calderoli? Certo che no: «Cos'ha dato Craxi a Berlusconi in cambio di 15 miliardi? Si sgretola la maschera televisiva di Berlusconi e appare l'inconfondibile ghigna dell'uomo di Hammamet» (31-3-96). Bicamerale: «Forza Italia voleva barattare le riforme del Paese con la fedina penale di Berlusconi» (3-6-98). Prima pagina della "Padania": «Berlusconi, rispondi: sei un mafioso?». Forza Italia protesta. Calderoli: «Reazioni un tantino scomposte e ingiustificate. È legittimo porsi certi interrogativi» (19-8-98). «Potremmo tappezzare la Lombardia con la prima pagina della Padania che chiede se Berlusconi è un mafioso» (27-8-98).
Ora, non vorremmo aggravare le già precarie condizioni del Cavalier Bellicapelli. Ma ci corre l'obbligo di informarlo: a questa rubrica collaborano, clandestinamente, l'onorevole Bossi e il ministro Calderoli. Noi ci limitiamo a depurare i loro testi dalle frasi da querela. E a tradurli in italiano.
di Marco Travaglio (dall'Unità del 16 febbraio 2005)
Debilitato dai postumi della bronchite del Male, ma soprattutto messo alle corde dalle incalzanti domande di Anna La Garofana, l'altra sera il Cavalier Peluria è apparso in leggera difficoltà. Saranno state le vertigini provocate dal cuscino a sei piazze sistemato sulla poltrona per non dover segare le gambe alle telecamere, saranno state le stigmate aperte sulla sacra nuca dal vile cavalletto («ne porto ancora i segni»): fatto sta che il Foltocrinito di Arcore non ha ancora ripreso conoscenza. Dimentica, rimuove, confonde. Prima denuncia la «canea di giornalisti plaudenti», mettendo in allarme Anna La Garofana, che temeva ce l'avesse con lei (poi s'è chiarito che parlava del congresso Ds). Poi cita ancora una volta l'Unità, sempre in cima ai suoi pensieri (e non solo ai suoi): «Mi hanno chiamato mostro bavoso, re dei bari, Peròn di plastica». Eccoli, i danni irreversibili inferti dal maledetto cavalletto: il Foltocrinito confonde l'Unità col Giornale e con la Lega Nord. È stato Paolo Guzzanti a scrivere «mascalzone bavoso». Ma non di Berlusconi: di Prodi. Che ora attende le sue scuse, prima di confrontarsi in tv.
Quanto al «baro» e al «Peròn», è tutta farina del sacco di Bossi: nel '94, prima che Bellachioma gli pagasse i debiti, il Senatur lo chiamava «Peròn della mutua» (23-12-94), «il baro» (5-4-94), «piccolo tiranno dittatore» (20-12-94), «Berluskaiser» (6-4-94), «Berluskaz» (1-9-94), «qualcosa di nazistoide e di mafioso» (13-4-95), «mafioso di Arcore» (8-2-95).
Poi c'è l'opera omnia di Roberto Calderoli, in arte Gianduja. L'8 marzo '95 interroga il governo per sapere «se a Palermo si indaga su Dell'Utri per mafia», essendo «stonata e illogica la definizione di stalliere per Vittorio Mangano». Il 26 maggio '95 Dell'Utri è arrestato a Torino per false fatture: «Gli uomini più vicini a Berlusconi si sono posti fuori dalla politica, dalla morale e dalla legge. Si smentisce la presunta persecuzione contro Berlusconi. Mani pulite non è finita, anzi per Berlusconi è appena iniziata». Inchiesta All Iberian: «È paradossale che Berlusconi fosse all'oscuro del versamento di ben 10 miliardi dalla sua azienda a Craxi. Quesito: Berlusconi è anche uno spergiuro?» (23-11-95). Il Cavaliere si sottrae agli interrogatori. E Calderoli: «A Milano non c'è posto per chi ha come scopo la distruzione del pool Mani pulite. Se Berlusconi pensa di essere milanese, ha un modo per dimostrarlo: vada dai giudici» (29-11-95). Ma Calderoli è anche un luminare dell'odontoiatria: «A Berlusconi i principi della democrazia sono insopportabili, gli provocano uno shock allergico. Sarebbe auspicabile, e lo dico da medico quale sono, che il dottor Berlusconi si facesse visitare da un buon internista. Sono a sua disposizione per consigliargliene qualcuno, anche gratuitamente» (19-2-96). Berlusconi ricandidato nel '96: «Inquietanti ombre si stagliano sulla politica italiana. C'è chi si candida alla guida del Paese nonostante sia imputato di gravi reati. C'è chi ha fondato un partito giudicato appetibile e utile agli interessi dei vertici della mafia. Invece di rinviare i processi, bisognerebbe rinviare le elezioni per accertare, prima, se siamo di fronte a uno statista o a un tangentista» (20-2-96). «Berlusconi accusa Dini di avergli copiato il programma. Strano, mi risultava che fosse Berlusconi ad aver copiato il programma di Licio Gelli» (28-2-96). Berlusconi paragona il pool alla banda della Uno Bianca. Calderoli lo fulmina: «Un'infamia. Berlusconi sappia che “complici” di questo “corpo deviato” dello Stato sono le centinaia di migliaia di milanesi che sostengono da anni i magistrati di Mani Pulite contro gli attacchi del regime di Roma, al quale Berlusconi era legato anche sentimentalmente, dato che Craxi era suo testimone di nozze» (14-3-96). Appello al voto, per una nuova Resistenza: «Fini dice che Mussolini è stato il più grande statista del secolo. Berlusconi è l'unico presidente del Consiglio rinviato a giudizio per corruzione. Gli elettori prima e il presidente della Repubblica sanno cosa fare» (27-3-96). I miliardi di Berlusconi a Craxi diventano 15: può mancare una dichiarazione di Calderoli? Certo che no: «Cos'ha dato Craxi a Berlusconi in cambio di 15 miliardi? Si sgretola la maschera televisiva di Berlusconi e appare l'inconfondibile ghigna dell'uomo di Hammamet» (31-3-96). Bicamerale: «Forza Italia voleva barattare le riforme del Paese con la fedina penale di Berlusconi» (3-6-98). Prima pagina della "Padania": «Berlusconi, rispondi: sei un mafioso?». Forza Italia protesta. Calderoli: «Reazioni un tantino scomposte e ingiustificate. È legittimo porsi certi interrogativi» (19-8-98). «Potremmo tappezzare la Lombardia con la prima pagina della Padania che chiede se Berlusconi è un mafioso» (27-8-98).
Ora, non vorremmo aggravare le già precarie condizioni del Cavalier Bellicapelli. Ma ci corre l'obbligo di informarlo: a questa rubrica collaborano, clandestinamente, l'onorevole Bossi e il ministro Calderoli. Noi ci limitiamo a depurare i loro testi dalle frasi da querela. E a tradurli in italiano.
16.2.05
CHE DEMOCRAZIA E' SE TEME I SIMBOLI?
di Massimo Fini (Il Giorno, 15/02/05)
Qualche settimana fa, dopo la goliardata del principino Harry che a una festa in maschera si era presentato vestito da nazista, suscitando grande scandalo, il neocomissario europeo alla Libertà, Giustizia e Sicurezza, Franco Frattini, che evidentemente non ha cose più importanti cui pensare, aveva proposto di "bandire totalmente, per legge, in modo chiaro ed esplicito, ogni simbolo che ricordi la dittatura nazista". Iniziativa accolta dal plauso delle sinistre, europee e italiane che non saranno più comuniste ma che dei comunisti d?antan conservano il vizietto censorio senza averne però l?intelligenza. Quando infatti, nei primi anni Cinquanta, si discuteva in Parlamento la legge che vietava la ricostituzione, in qualsiasi forma, del Partito fascista (la cosiddetta "legge Scelba"), uno degli avversari più ostinati fu proprio Palmiro Togliatti, il segretario del Pci. "Il Migliore" capiva benissimo che si comincia con i fascisti e si va a finire con i comunisti. Allora, con il Pci molto forte e con alle spalle l?Unione Sovietica, non si osò, ma adesso che il vento è cambiato l?iniziativa di Frattini è stata colta al volo da due zelanti eurodeputati, l?ungherese Josef Szaier e il lituano Vytautas Landsbergis, che hanno proposto di estenderla alla falce, al martello e agli altri simboli del comunismo. A questo punto le sinistre hanno gridato al sacrilegio e ne è seguita la solita, stucchevole, diatriba se nazismo e comunismo, in quanto totalitarismi, possano essere messi sullo stesso piano. Ma qui in realtà il problema non riguarda i totalitarismi di ieri, ma la democrazia di oggi. Sembra infatti che man mano che trionfa sui suoi antagonisti (nazismo, comunismo, Islam, culture tradizionali) la democrazia perda coscienza di propri presupposti e diventi, a sua volta, concettualmente totalitaria. Abolire i simboli delle culture antagoniste è infatti una concezione, un metodo e una prassi proprie dei totalitarismi, in diametrale contrasto con i principi della democrazia. Una democrazia infatti è tale solo se accetta che nel suo ambito abbiano libero corso tutte le idee, anche quelle che le paiono più aberranti e ad esse antitetiche. La democrazia è un metodo e in essa ogni opinione ha diritto di esistere e di esprimersi, anche attraverso i propri simboli, si tratti della falce e martello, della svastica o di quant?altro, purché rinunci a farsi valere con la violenza. Questo è il solo, ma decisivo, discrimine. Punto e basta. Dirò di più, liberticide, e quindi antidemocratiche, sono anche le norme che puniscono "l?odio razziale", come, in Italia, la "Legge Mancino" contro la quale in questi giorni sta manifestando la Lega, ministro Calderoli in testa, perché sei suoi esponenti sono stati condannati per istigazione all?odio razziale. Per la verità i leghisti, con l?ottusità che li contraddistingue, non protestano contro la legge ma contro il magistrato, Papalia, che l?ha applicata, coerentemente e correttamente visto che esiste e del resto i leghisti non avevano mosso orecchia quando dalla "Legge Mancino" erano stati colpiti esponenti di Forza Nuova, naziskin e altri stracci della destra estrema. L?odio è un sentimento e, ancor meno che alle idee, non gli si possono mettere le manette. Io ho il diritto di odiare chi mi pare e di manifestare questo mio odio. Ho diritto di essere razzista e di dichiararlo. Nel momento in cui però torco anche un solo capello all?oggetto del mio odio o del mio razzismo, devo essere accompagnato d?urgenza nelle patrie galere e punito con leggi adeguate. Il discrimine, lo ripetiamo, è l?azione, è la violenza, anche la più piccola. Infine la strada delle epurazioni, di ideologie, di simboli, di persone, oltre che grottesca (non potremo più portare, nell?Europa Unita, la camicia nera o rossa o bruna o magari anche verde? Dovremo abbattere la Casa della Cultura all?Eur, la Stazione Centrale e il Palazzo di Giustizia di Milano e quel che resta, mi pare la facciata del Museo della pittura di Hitler a Berlino, perché ricordano il nazifascismo? E anche lo "stile Impero", diciamo la verità, è un po? sospetto. E, come nel "1984" di Orwell, Parodia dell?Unione Sovietica sotto Stalin, espungeremo dalle enciclopedie, dai testi e persino dal linguaggio, i termini indesiderabili e i nomi "maledetti") è scivolosa e pericolosa anche per chi la imbocca. Epurare significa eliminare in nome della "purezza", in questo caso della purezza democratica. E, come diceva il vecchio e saggio Nenni, "alla fine trovi sempre uno più puro di te che ti epura".
di Massimo Fini (Il Giorno, 15/02/05)
Qualche settimana fa, dopo la goliardata del principino Harry che a una festa in maschera si era presentato vestito da nazista, suscitando grande scandalo, il neocomissario europeo alla Libertà, Giustizia e Sicurezza, Franco Frattini, che evidentemente non ha cose più importanti cui pensare, aveva proposto di "bandire totalmente, per legge, in modo chiaro ed esplicito, ogni simbolo che ricordi la dittatura nazista". Iniziativa accolta dal plauso delle sinistre, europee e italiane che non saranno più comuniste ma che dei comunisti d?antan conservano il vizietto censorio senza averne però l?intelligenza. Quando infatti, nei primi anni Cinquanta, si discuteva in Parlamento la legge che vietava la ricostituzione, in qualsiasi forma, del Partito fascista (la cosiddetta "legge Scelba"), uno degli avversari più ostinati fu proprio Palmiro Togliatti, il segretario del Pci. "Il Migliore" capiva benissimo che si comincia con i fascisti e si va a finire con i comunisti. Allora, con il Pci molto forte e con alle spalle l?Unione Sovietica, non si osò, ma adesso che il vento è cambiato l?iniziativa di Frattini è stata colta al volo da due zelanti eurodeputati, l?ungherese Josef Szaier e il lituano Vytautas Landsbergis, che hanno proposto di estenderla alla falce, al martello e agli altri simboli del comunismo. A questo punto le sinistre hanno gridato al sacrilegio e ne è seguita la solita, stucchevole, diatriba se nazismo e comunismo, in quanto totalitarismi, possano essere messi sullo stesso piano. Ma qui in realtà il problema non riguarda i totalitarismi di ieri, ma la democrazia di oggi. Sembra infatti che man mano che trionfa sui suoi antagonisti (nazismo, comunismo, Islam, culture tradizionali) la democrazia perda coscienza di propri presupposti e diventi, a sua volta, concettualmente totalitaria. Abolire i simboli delle culture antagoniste è infatti una concezione, un metodo e una prassi proprie dei totalitarismi, in diametrale contrasto con i principi della democrazia. Una democrazia infatti è tale solo se accetta che nel suo ambito abbiano libero corso tutte le idee, anche quelle che le paiono più aberranti e ad esse antitetiche. La democrazia è un metodo e in essa ogni opinione ha diritto di esistere e di esprimersi, anche attraverso i propri simboli, si tratti della falce e martello, della svastica o di quant?altro, purché rinunci a farsi valere con la violenza. Questo è il solo, ma decisivo, discrimine. Punto e basta. Dirò di più, liberticide, e quindi antidemocratiche, sono anche le norme che puniscono "l?odio razziale", come, in Italia, la "Legge Mancino" contro la quale in questi giorni sta manifestando la Lega, ministro Calderoli in testa, perché sei suoi esponenti sono stati condannati per istigazione all?odio razziale. Per la verità i leghisti, con l?ottusità che li contraddistingue, non protestano contro la legge ma contro il magistrato, Papalia, che l?ha applicata, coerentemente e correttamente visto che esiste e del resto i leghisti non avevano mosso orecchia quando dalla "Legge Mancino" erano stati colpiti esponenti di Forza Nuova, naziskin e altri stracci della destra estrema. L?odio è un sentimento e, ancor meno che alle idee, non gli si possono mettere le manette. Io ho il diritto di odiare chi mi pare e di manifestare questo mio odio. Ho diritto di essere razzista e di dichiararlo. Nel momento in cui però torco anche un solo capello all?oggetto del mio odio o del mio razzismo, devo essere accompagnato d?urgenza nelle patrie galere e punito con leggi adeguate. Il discrimine, lo ripetiamo, è l?azione, è la violenza, anche la più piccola. Infine la strada delle epurazioni, di ideologie, di simboli, di persone, oltre che grottesca (non potremo più portare, nell?Europa Unita, la camicia nera o rossa o bruna o magari anche verde? Dovremo abbattere la Casa della Cultura all?Eur, la Stazione Centrale e il Palazzo di Giustizia di Milano e quel che resta, mi pare la facciata del Museo della pittura di Hitler a Berlino, perché ricordano il nazifascismo? E anche lo "stile Impero", diciamo la verità, è un po? sospetto. E, come nel "1984" di Orwell, Parodia dell?Unione Sovietica sotto Stalin, espungeremo dalle enciclopedie, dai testi e persino dal linguaggio, i termini indesiderabili e i nomi "maledetti") è scivolosa e pericolosa anche per chi la imbocca. Epurare significa eliminare in nome della "purezza", in questo caso della purezza democratica. E, come diceva il vecchio e saggio Nenni, "alla fine trovi sempre uno più puro di te che ti epura".
MOLOTOV & CHAMPAGNE
di Massimo Fini (da Il Gazzettino, 16/02/05)
Le confessioni di Achille Lollo non hanno riportato alla memoria solo l'orrendo, e dimenticato, rogo di Primavalle dove morirono due giovani figli di un netturbino colpevole di essere il segretario della locale sezione dell'Msi, in seguito a un attentato incendiario, opera di alcuni militanti di Potere Operaio, ma anche l'intero clima di quegli anni in cui lo stesso Potere Operaio può essere considerato un emblema significativo. Potere Operaio, Potop per gli amici, era un minuscolo gruppuscolo della sinistra extraparlamentare, il più estremista di tutti se si eccettuano le Brigate Rosse che però allora erano ancora agli inizi, formato dai figli dell'aristocrazia e dell'altissima borghesia, prevalentemente romana (oltre a Diana Perrone, figlia dell'allora proprietario del Messaggero e del Secolo XIX, c'era, fra gli altri, Paolo Mieli, attuale direttore del Corriere della Sera) e da qualche sottoproletario raccattato nelle borgate e usato come manovalanza. Per la sua composizione equivoca era stato soprannominato, con un certo disprezzo, dai militanti degli altri gruppi extraparlamentari: "Molotov & Champagne". Ma si può dire che l'intero Sessantotto, e dintorni, fu "Molotov & Champagne". Negli anni Settanta tutta l'"intellighentia" italiana si era spostata all'estrema sinistra. Non c'era intellettuale, scrittore, giornalista (con l'eccezione di Montanelli, Biagi e qualche altro cane sciolto), sociologo da terza pagina del "Corriere", mondana, mignottina da salotto che non si dichiarasse per la rivoluzione. E la borghesia, con i suoi giornali, aveva seguito l'onda. Sia per opportunismo, sia perché in fondo, si trattasse del Movimento studentesco, di Lotta Continua, di Avanguardia operaia o di Potere Operaio, quei rivoluzionari da salotto erano, nella stragrande maggioranza, "figli di famiglia", erano figli suoi e se li coccolava e vezzeggiava. La copertura alle violenze di quegli anni non fu data tanto dal Pci, che anzi mal tollerava di essere scavalcato a sinistra da degli extraparlamentari che predicavano una rivoluzione a cui i comunisti avevano rinunciato da tempo, fin dai primi anni Cinquanta, quando avevano liquidato Pietro Secchia, ma da questo irresponsabile milieu radical chic. Questa contiguità fra classe dirigente, ricchi borghesi e pseudorivoluzionari di sinistra era palpabile, visibile, e fisica. Mi ricordo che in quegli anni capitai ad una festa in un bellissima casa di via del Corso, a Roma, di proprietà di un certo Jimmy. C'era tutta la "Roma bene", c'era anche l'allora ministro della Sanità, il liberale Altissimo, e c'era Franco Piperno leader di quel Potere Operaio che in quei tempi scendeva in piazza, come gli altri gruppi extraparlamentari, al grido di "Fascisti, borghesi ancora pochi mesi". Con Piperno mi fermai a parlare a lungo accovacciati in un angolo del vastissimo salone. Ricordo i suoi occhi gialli, la voce flautata, e un sottofondo di minaccia nelle sue parole. Io infatti allora, per gli ambienti della sinistra extraparlamentare ero un "fascista" o, nella migliore delle ipotesi un "democratico borghese conseguente" da mettere comunque al muro quando la Rivoluzione avesse trionfato.Nel 1971, sull'"Avanti", avevo denunciato, primo giornalista di un giornale di sinistra a farlo, le violenze squadriste del Movimento studentesco di Milano che nel giro di un paio di settimane aveva pestato a sangue uno studente di origine israeliana accusato di essere un "agente della Cia" e un sindacalista della Uil, un certo Conti. Nell'ottobre del 1973 avevo pubblicato per Linus, diretto da Oreste del Buono, una mappa della sinistra extraparlamentare, che Del Buono aveva chiamato, titolando, "L'extramappa" dove catalogavo i gruppi extraparlamentari di sinistra, dal Movimento Studentesco alle Brigate Rosse, secondo la loro ideologia ma anche secondo la loro propensione alla violenza. Alla Statale di Milano fu appeso untatse-bao dove Del Buono ed io venivamo additati come "servi della Cia". Oreste se la fece subito sotto e rinnegò tutto: l'extramappa e il suo autore. Quanto a me ricevetti due lettere minacciose di Giairo Daghini e di Oreste Scalzone, dirigente di Potere Operaio, cui non detti molto peso ma che, rilette col senno di poi, fanno venire i brividi. Non fu tutto. Luca Cafiero, uno dei leader del Movimento Studentesco, insieme a Mario Capanna e a Salvatore Toscano, sguinzagliò un manipolo di picchiatori armati di spranghe e di catene, al cui comando c'era Giorgio Livrini, figlio di un imprenditore di quello che oggi si chiama "il ricco Nord Est", per darmi una lezione. Per fortuna non mi trovarono, né da "Oreste", lo storico bar di piazza Mirabello, né davanti a casa perché quella notte, per caso, dormii da una mia amica. Altrimenti sarei anch'io oggi uno storpio o peggio come quel povero ragazzo di diciassette anni, Sergio Ramelli che, considerato di destra, fu vittima di un agguato sotto casa da parte di militanti di Avanguardia Operaia e morì dopo 48 giorni di agonia, notizia nascosta nelle pagine interne dei grandi giornali della borghesia milanese. A metà degli anni '70 mi trovavo in Calabria per un'inchiesta che l'Europeo mi aveva chiesto di fare sull'università di Arcavacata, una delle tanti cattedrali nel deserto che era stata voluta, a propria maggior gloria, da Giacomo Mancini, segretario del Psi. Fui prelevato quasi di forza dagli uomini di Mancini e, dopo un lungo giro per le montagne cosentine, portato alla presenza del boss nella sua splendida villa. Mancini, col pretesto che ero un iscritto al Partito socialista, voleva sapere che cosa avrei scritto su Arcavacata. Nel bel mezzo di questa simpatica conversazione, molto simile a un'intimidazione mafiosa, si affacciò sulla veranda che dominava le rosse e brulle montagne del cosentino, uno scenario quasi da Far West, Franco Piperno, che era suo ospite. La cosa curiosa, per dir così, è che in quel momento Piperno era latitante e ricercato dalla polizia. La contiguità col mondo dell'eversione, o della semieversione, era fortissima. Qualche anno dopo Giampiero Mughini, che oggi fa ilclown nelle trasmissioni di calcio parlato, si sarebbe vantato pubblicamente, rabbrividendo per il piacere dall'alluce all'ombelico, che un comunicato dei brigatisti Morucci e Faranda era stato scritto a casa sua, nella sua cucina e con la sua "Lettera 32". Ruggero Guarini, in un'intervista alla Stampa, ha raccontato che per la prima assoluzione di Lollo e degli altri due di Potere Operaio accusati per il rogo di Primavalle si tenne una grande festa in una villa di Fregene, cui parteciparono Alberto Moravia, Dario Bellezza, il pittore Mario Schifano e il fior fiore dell'intellighentia romana. Del resto qualche anno dopo, quando il terrorismo brigatista mieteva una vittima al giorno e altre ne "gambizzava" come si diceva allora con un orrendo neologismo, due guru della cultura italiana, Alberto Moravia e Leonardo Sciascia, si dichiararono "Né con lo Stato né con le Br". Non stupisce quindi che, in quel clima, il rogo di Primavalle fosse attribuito dalla stampa di sinistra ma anche dai giornali borghesi, come Panorama, l'Espresso, Il Messaggero, a una "faida interna fascista" e l'inchiesta su Lollo e gli altri bollata come una "montatura di magistratura e polizia", una "provocazione" e, insomma, un complotto di toghe nere in combutta col Potere democristiano. L'editore Giulio Savelli, che allora era trotzkista e poi, negli anni Novanta, dopo una breve parentesi leghista, è diventato deputato di Forza Italia, quindi dell'Udr di Cossiga e oggi si autodefinisce liberale, pubblicò un libro, "Primavalle: incendio a porte chiuse", scritto da alcuni "giornalisti democratici", in cui si sposava la tesi che Primavalle era stata una "faida interna" fra fascisti. Tesi peraltro non nuova, perché era stata già utilizzata un paio di anni prima per il caso Mazzola-Giralucci, due missini assassinati in una sede del partito a Padova (era stata invece una delle prime azioni omicide delle BR, come racconta Sergio Segio, uno che se ne intende, in un libro di prossima pubblicazione). La magistratura non poteva indagare nella galassia dell'estremismo extraparlamentare di sinistra senza essere sommersa dall'unanime coro della "montatura", della "provocazione", del "complotto". Le piste dovevano essere sempre e solo "nere". E ciò era tanto più bizzarro perché, nell'orgia del conformismo di sinistra che aveva preso il Paese, i fascisti erano praticamente spariti o non osavano mettere piede fuori casa (nel 1974 facemmo, per L'Europeo, un'inchiesta intitolata: "Ma dove sono finiti i fascisti?"). Persino per l'omicidio Calabresi si preferì imboccare la strada delle "piste nere" e perdere tempo a inseguire un certo Nardi, figlio di armaioli di San Benedetto del Tronto, e altri stracci del genere, nonostante Lotta Continua, sul suo giornale, si fosse attribuita, almeno moralmente, l'assassinio e fosse del tutto improbabile, almeno allora, che della gente di destra ammazzasse un commissario di polizia, oltretutto accusato da tutto l'ambiente di sinistra di aver fatto volare dal quarto piano della Questura di Milano un anarchico, Giuseppe Pinelli. È anche per questo che bisognerà aspettare alcuni lustri e la confessione di Leonardo Marino per arrivare a Bompressi, a Pietrostefani e a Sofri. Del resto tutti sapevano che Lotta Continua, come peraltro Potere Operaio, aveva un "livello illegale" che si occupava quantomeno di far delle rapine, per finanziare, oltre che con gli "espropri proletari", il gruppo. Lo sapevo persino io. Perché una di quelle rapine fu fatta con la mia macchina, una Simca coupé rossa. Me la chiese in prestito un mio amico di Lc, Ilio Frigerio, poi diventato parlamentare leghista, dicendo che gli serviva per uscirci con una ragazza. In seguito mi confessò che l'aveva data ad altri "amici" di Lc per quello scopo. Uno scherzetto da prete che non ho dimenticato. Ma al processo Sofri, Pietrostefani e Bompressi negarono anche l'esistenza del "livello illegale", anche l'evidenza, e penso che sia anche per queste menzogne puerili che poi non furono creduti dal Tribunale sulle questioni più importanti. Ma il giornale di Lotta Continua faceva anche dell'altro, pubblicava foto, abitazione, percorsi, abitudini di "fascisti", o presunti tali, una sorta diwanted, di incitazione alla sprangata che ne ha lasciati parecchi sul terreno. Questo era il clima dei "formidabili" anni Settanta, dove bastava militare a sinistra per farne di ogni sorte e garantirsi omertà, protezione o, nei casi peggiori, la fuga. E il problema dei ragazzi delmilieu riche eradical chic della contestazione, di questi rivoluzionari da burletta che il giorno scendevano in piazza a gridare slogan truculenti, a spaccare vetrine e crani, a ingaggiare battaglie con la polizia a colpi di molotov, e la sera, tornati a casa dai loro babbi e mamme borghesi, tutti orgogliosi di quei loro figlioli così deliziosamente antiborghesi, si precipitavano a telefonare alle loro amiche ("Pronto Leonetta? Pronto Dadi?") per organizzare feste in qualche bella villa, è che non solo non hanno pagato alcun dazio per le loro imprese, ma sono stati premiati e oggi fanno i deputati, i senatori, i direttori di giornale, di reti televisive, gli opinionisti. Sono degli impuniti. E non ci si può quindi meravigliare se non hanno nessun senso delle proprie responsabilità. Loro hanno sempre ragione. Avevano ragione quando facevano i comunisti e hanno ragione adesso che sono diventati liberali. Oggi questi irresponsabili costituiscono una buona parte della classe dirigente, equamente distribuiti fra destra e sinistra. E questo spiega anche perché, a conti fatti, non è cambiata la mentalità in questo Paese. Anche oggi, come allora, se la magistratura osa imboccare una strada poco gradita agli attuali "padroni del vapore" si alza un coro quasi unanime che grida alla "montatura", alla "provocazione", al "complotto" e si scrivono libri innocentisti e "garantisti" del tipo di "Primavalle: incendio a porte chiuse". Le toghe non sono più "nere" o democristiane, son diventate "rosse". È cambiato il segno, non la protervia.
di Massimo Fini (da Il Gazzettino, 16/02/05)
Le confessioni di Achille Lollo non hanno riportato alla memoria solo l'orrendo, e dimenticato, rogo di Primavalle dove morirono due giovani figli di un netturbino colpevole di essere il segretario della locale sezione dell'Msi, in seguito a un attentato incendiario, opera di alcuni militanti di Potere Operaio, ma anche l'intero clima di quegli anni in cui lo stesso Potere Operaio può essere considerato un emblema significativo. Potere Operaio, Potop per gli amici, era un minuscolo gruppuscolo della sinistra extraparlamentare, il più estremista di tutti se si eccettuano le Brigate Rosse che però allora erano ancora agli inizi, formato dai figli dell'aristocrazia e dell'altissima borghesia, prevalentemente romana (oltre a Diana Perrone, figlia dell'allora proprietario del Messaggero e del Secolo XIX, c'era, fra gli altri, Paolo Mieli, attuale direttore del Corriere della Sera) e da qualche sottoproletario raccattato nelle borgate e usato come manovalanza. Per la sua composizione equivoca era stato soprannominato, con un certo disprezzo, dai militanti degli altri gruppi extraparlamentari: "Molotov & Champagne". Ma si può dire che l'intero Sessantotto, e dintorni, fu "Molotov & Champagne". Negli anni Settanta tutta l'"intellighentia" italiana si era spostata all'estrema sinistra. Non c'era intellettuale, scrittore, giornalista (con l'eccezione di Montanelli, Biagi e qualche altro cane sciolto), sociologo da terza pagina del "Corriere", mondana, mignottina da salotto che non si dichiarasse per la rivoluzione. E la borghesia, con i suoi giornali, aveva seguito l'onda. Sia per opportunismo, sia perché in fondo, si trattasse del Movimento studentesco, di Lotta Continua, di Avanguardia operaia o di Potere Operaio, quei rivoluzionari da salotto erano, nella stragrande maggioranza, "figli di famiglia", erano figli suoi e se li coccolava e vezzeggiava. La copertura alle violenze di quegli anni non fu data tanto dal Pci, che anzi mal tollerava di essere scavalcato a sinistra da degli extraparlamentari che predicavano una rivoluzione a cui i comunisti avevano rinunciato da tempo, fin dai primi anni Cinquanta, quando avevano liquidato Pietro Secchia, ma da questo irresponsabile milieu radical chic. Questa contiguità fra classe dirigente, ricchi borghesi e pseudorivoluzionari di sinistra era palpabile, visibile, e fisica. Mi ricordo che in quegli anni capitai ad una festa in un bellissima casa di via del Corso, a Roma, di proprietà di un certo Jimmy. C'era tutta la "Roma bene", c'era anche l'allora ministro della Sanità, il liberale Altissimo, e c'era Franco Piperno leader di quel Potere Operaio che in quei tempi scendeva in piazza, come gli altri gruppi extraparlamentari, al grido di "Fascisti, borghesi ancora pochi mesi". Con Piperno mi fermai a parlare a lungo accovacciati in un angolo del vastissimo salone. Ricordo i suoi occhi gialli, la voce flautata, e un sottofondo di minaccia nelle sue parole. Io infatti allora, per gli ambienti della sinistra extraparlamentare ero un "fascista" o, nella migliore delle ipotesi un "democratico borghese conseguente" da mettere comunque al muro quando la Rivoluzione avesse trionfato.Nel 1971, sull'"Avanti", avevo denunciato, primo giornalista di un giornale di sinistra a farlo, le violenze squadriste del Movimento studentesco di Milano che nel giro di un paio di settimane aveva pestato a sangue uno studente di origine israeliana accusato di essere un "agente della Cia" e un sindacalista della Uil, un certo Conti. Nell'ottobre del 1973 avevo pubblicato per Linus, diretto da Oreste del Buono, una mappa della sinistra extraparlamentare, che Del Buono aveva chiamato, titolando, "L'extramappa" dove catalogavo i gruppi extraparlamentari di sinistra, dal Movimento Studentesco alle Brigate Rosse, secondo la loro ideologia ma anche secondo la loro propensione alla violenza. Alla Statale di Milano fu appeso untatse-bao dove Del Buono ed io venivamo additati come "servi della Cia". Oreste se la fece subito sotto e rinnegò tutto: l'extramappa e il suo autore. Quanto a me ricevetti due lettere minacciose di Giairo Daghini e di Oreste Scalzone, dirigente di Potere Operaio, cui non detti molto peso ma che, rilette col senno di poi, fanno venire i brividi. Non fu tutto. Luca Cafiero, uno dei leader del Movimento Studentesco, insieme a Mario Capanna e a Salvatore Toscano, sguinzagliò un manipolo di picchiatori armati di spranghe e di catene, al cui comando c'era Giorgio Livrini, figlio di un imprenditore di quello che oggi si chiama "il ricco Nord Est", per darmi una lezione. Per fortuna non mi trovarono, né da "Oreste", lo storico bar di piazza Mirabello, né davanti a casa perché quella notte, per caso, dormii da una mia amica. Altrimenti sarei anch'io oggi uno storpio o peggio come quel povero ragazzo di diciassette anni, Sergio Ramelli che, considerato di destra, fu vittima di un agguato sotto casa da parte di militanti di Avanguardia Operaia e morì dopo 48 giorni di agonia, notizia nascosta nelle pagine interne dei grandi giornali della borghesia milanese. A metà degli anni '70 mi trovavo in Calabria per un'inchiesta che l'Europeo mi aveva chiesto di fare sull'università di Arcavacata, una delle tanti cattedrali nel deserto che era stata voluta, a propria maggior gloria, da Giacomo Mancini, segretario del Psi. Fui prelevato quasi di forza dagli uomini di Mancini e, dopo un lungo giro per le montagne cosentine, portato alla presenza del boss nella sua splendida villa. Mancini, col pretesto che ero un iscritto al Partito socialista, voleva sapere che cosa avrei scritto su Arcavacata. Nel bel mezzo di questa simpatica conversazione, molto simile a un'intimidazione mafiosa, si affacciò sulla veranda che dominava le rosse e brulle montagne del cosentino, uno scenario quasi da Far West, Franco Piperno, che era suo ospite. La cosa curiosa, per dir così, è che in quel momento Piperno era latitante e ricercato dalla polizia. La contiguità col mondo dell'eversione, o della semieversione, era fortissima. Qualche anno dopo Giampiero Mughini, che oggi fa ilclown nelle trasmissioni di calcio parlato, si sarebbe vantato pubblicamente, rabbrividendo per il piacere dall'alluce all'ombelico, che un comunicato dei brigatisti Morucci e Faranda era stato scritto a casa sua, nella sua cucina e con la sua "Lettera 32". Ruggero Guarini, in un'intervista alla Stampa, ha raccontato che per la prima assoluzione di Lollo e degli altri due di Potere Operaio accusati per il rogo di Primavalle si tenne una grande festa in una villa di Fregene, cui parteciparono Alberto Moravia, Dario Bellezza, il pittore Mario Schifano e il fior fiore dell'intellighentia romana. Del resto qualche anno dopo, quando il terrorismo brigatista mieteva una vittima al giorno e altre ne "gambizzava" come si diceva allora con un orrendo neologismo, due guru della cultura italiana, Alberto Moravia e Leonardo Sciascia, si dichiararono "Né con lo Stato né con le Br". Non stupisce quindi che, in quel clima, il rogo di Primavalle fosse attribuito dalla stampa di sinistra ma anche dai giornali borghesi, come Panorama, l'Espresso, Il Messaggero, a una "faida interna fascista" e l'inchiesta su Lollo e gli altri bollata come una "montatura di magistratura e polizia", una "provocazione" e, insomma, un complotto di toghe nere in combutta col Potere democristiano. L'editore Giulio Savelli, che allora era trotzkista e poi, negli anni Novanta, dopo una breve parentesi leghista, è diventato deputato di Forza Italia, quindi dell'Udr di Cossiga e oggi si autodefinisce liberale, pubblicò un libro, "Primavalle: incendio a porte chiuse", scritto da alcuni "giornalisti democratici", in cui si sposava la tesi che Primavalle era stata una "faida interna" fra fascisti. Tesi peraltro non nuova, perché era stata già utilizzata un paio di anni prima per il caso Mazzola-Giralucci, due missini assassinati in una sede del partito a Padova (era stata invece una delle prime azioni omicide delle BR, come racconta Sergio Segio, uno che se ne intende, in un libro di prossima pubblicazione). La magistratura non poteva indagare nella galassia dell'estremismo extraparlamentare di sinistra senza essere sommersa dall'unanime coro della "montatura", della "provocazione", del "complotto". Le piste dovevano essere sempre e solo "nere". E ciò era tanto più bizzarro perché, nell'orgia del conformismo di sinistra che aveva preso il Paese, i fascisti erano praticamente spariti o non osavano mettere piede fuori casa (nel 1974 facemmo, per L'Europeo, un'inchiesta intitolata: "Ma dove sono finiti i fascisti?"). Persino per l'omicidio Calabresi si preferì imboccare la strada delle "piste nere" e perdere tempo a inseguire un certo Nardi, figlio di armaioli di San Benedetto del Tronto, e altri stracci del genere, nonostante Lotta Continua, sul suo giornale, si fosse attribuita, almeno moralmente, l'assassinio e fosse del tutto improbabile, almeno allora, che della gente di destra ammazzasse un commissario di polizia, oltretutto accusato da tutto l'ambiente di sinistra di aver fatto volare dal quarto piano della Questura di Milano un anarchico, Giuseppe Pinelli. È anche per questo che bisognerà aspettare alcuni lustri e la confessione di Leonardo Marino per arrivare a Bompressi, a Pietrostefani e a Sofri. Del resto tutti sapevano che Lotta Continua, come peraltro Potere Operaio, aveva un "livello illegale" che si occupava quantomeno di far delle rapine, per finanziare, oltre che con gli "espropri proletari", il gruppo. Lo sapevo persino io. Perché una di quelle rapine fu fatta con la mia macchina, una Simca coupé rossa. Me la chiese in prestito un mio amico di Lc, Ilio Frigerio, poi diventato parlamentare leghista, dicendo che gli serviva per uscirci con una ragazza. In seguito mi confessò che l'aveva data ad altri "amici" di Lc per quello scopo. Uno scherzetto da prete che non ho dimenticato. Ma al processo Sofri, Pietrostefani e Bompressi negarono anche l'esistenza del "livello illegale", anche l'evidenza, e penso che sia anche per queste menzogne puerili che poi non furono creduti dal Tribunale sulle questioni più importanti. Ma il giornale di Lotta Continua faceva anche dell'altro, pubblicava foto, abitazione, percorsi, abitudini di "fascisti", o presunti tali, una sorta diwanted, di incitazione alla sprangata che ne ha lasciati parecchi sul terreno. Questo era il clima dei "formidabili" anni Settanta, dove bastava militare a sinistra per farne di ogni sorte e garantirsi omertà, protezione o, nei casi peggiori, la fuga. E il problema dei ragazzi delmilieu riche eradical chic della contestazione, di questi rivoluzionari da burletta che il giorno scendevano in piazza a gridare slogan truculenti, a spaccare vetrine e crani, a ingaggiare battaglie con la polizia a colpi di molotov, e la sera, tornati a casa dai loro babbi e mamme borghesi, tutti orgogliosi di quei loro figlioli così deliziosamente antiborghesi, si precipitavano a telefonare alle loro amiche ("Pronto Leonetta? Pronto Dadi?") per organizzare feste in qualche bella villa, è che non solo non hanno pagato alcun dazio per le loro imprese, ma sono stati premiati e oggi fanno i deputati, i senatori, i direttori di giornale, di reti televisive, gli opinionisti. Sono degli impuniti. E non ci si può quindi meravigliare se non hanno nessun senso delle proprie responsabilità. Loro hanno sempre ragione. Avevano ragione quando facevano i comunisti e hanno ragione adesso che sono diventati liberali. Oggi questi irresponsabili costituiscono una buona parte della classe dirigente, equamente distribuiti fra destra e sinistra. E questo spiega anche perché, a conti fatti, non è cambiata la mentalità in questo Paese. Anche oggi, come allora, se la magistratura osa imboccare una strada poco gradita agli attuali "padroni del vapore" si alza un coro quasi unanime che grida alla "montatura", alla "provocazione", al "complotto" e si scrivono libri innocentisti e "garantisti" del tipo di "Primavalle: incendio a porte chiuse". Le toghe non sono più "nere" o democristiane, son diventate "rosse". È cambiato il segno, non la protervia.
15.2.05
Cavaliere, non esageri
di ALDO GRASSO - Corriere della Sera - 15/02/2005
La febbre fa brutti scherzi, specie davanti alla tv. Deforma le immagini, incupisce la visione, affolla lo schermo di cattivi pensieri; dev'essere per questo che i medici consigliano silenzio, quiete, schermo spento. Ma da quell'orecchio Silvio Berlusconi proprio non ci sente, non sa cosa significhi riprendere fiato, rilassarsi, riposare. Costretto a letto dall'influenza, si è abbrutito come un qualunque critico televisivo: ha guardato tutto, ha annotato ogni sfumatura, si è macerato dalla rabbia per i discorsi sentiti. Alle sei del mattino aveva già il telecomando in mano, alle sette la prima lista di comunisti che bivaccano in tv, alle otto l'elenco delle menzogne che si dicono nei talk show contro il governo e via così, fino a notte fonda: un cahier de doléances pesante come un macigno. Così, appena ristabilito, il nostro premier si è presentato nel roseo salotto di Anna La Rosa, quello zuccherino di giornalista. Per dire che non accetterà mai un confronto televisivo con l'opposizione (nemmeno di fronte alla compiacente padrona di casa), che pretende le scuse di chi lo insulta, offeso per essere stato paragonato a Saddam Hussein, a Peron o a un qualche altro dittatore dello Stato libero di Bananas. Via, presidente, non esageri. La tv la guardiamo anche noi e tutto questo odio contro di lei ci è sfuggito. Sì, su Raitre resiste qualche sacca di dissenso, ma è robetta. L'incontro tra Fabio Fazio e Marco Follini era un idillio.
Serena Dandini punzecchia, infastidisce. Corrado Augias usa il fioretto. Le battute più pesanti contro di lei le abbiamo sentite a «Zelig» ma lì, se non andiamo errati, è casa sua, pensavamo fosse tutto concordato.
È sicuramente colpa della febbre se Berlusconi ha avuto le visioni: «Ho visto e sentito una serie infinita di calunnie. Dicono che le tv sono controllate dalla nostra parte politica. È esattamente vero il contrario, perché, l'85% dei giornalisti, ho visto i nomi della Rai, sono iscritti a sindacati di sinistra». Ha visto e sentito cose che noi umani non riusciamo nemmeno a immaginare (e ha avuto persino tempo di consultare le iscrizioni al sindacato).
«Quindi - ha proseguito imperterrito - noi siamo di fronte esattamente ad un'informazione su tutti i mass media, giornali e tv, che è contro il governo e la sua politica. I signori dell'opposizione osano ribaltare anche in questo caso la realtà. Proprio in queste settimane ho sentito con le mie orecchie dire c'è un problema di democrazia in Italia, perché il sistema informativo è tutto nelle mani di un solo uomo. Non è cosi». No, non è così, dobbiamo esserci sbagliati. Forse anche noi, con questi sbalzi di temperatura, abbiamo la febbre. Meno male che in Italia ci sono solo conduttori all'acqua di La Rosa, onesti faticatori del piccolo schermo, marzulli della ragion di Stato.
Per dire, ci fossero solo un David Letterman o un Jay Leno, con un Berlusconi malato, dalle parole si passerebbe ai fatti. È stato solo un brutto sogno, presidente, scherzi della febbre. L'unico guaio è che oggi, a raccontare i sogni, si va in tv.
di ALDO GRASSO - Corriere della Sera - 15/02/2005
La febbre fa brutti scherzi, specie davanti alla tv. Deforma le immagini, incupisce la visione, affolla lo schermo di cattivi pensieri; dev'essere per questo che i medici consigliano silenzio, quiete, schermo spento. Ma da quell'orecchio Silvio Berlusconi proprio non ci sente, non sa cosa significhi riprendere fiato, rilassarsi, riposare. Costretto a letto dall'influenza, si è abbrutito come un qualunque critico televisivo: ha guardato tutto, ha annotato ogni sfumatura, si è macerato dalla rabbia per i discorsi sentiti. Alle sei del mattino aveva già il telecomando in mano, alle sette la prima lista di comunisti che bivaccano in tv, alle otto l'elenco delle menzogne che si dicono nei talk show contro il governo e via così, fino a notte fonda: un cahier de doléances pesante come un macigno. Così, appena ristabilito, il nostro premier si è presentato nel roseo salotto di Anna La Rosa, quello zuccherino di giornalista. Per dire che non accetterà mai un confronto televisivo con l'opposizione (nemmeno di fronte alla compiacente padrona di casa), che pretende le scuse di chi lo insulta, offeso per essere stato paragonato a Saddam Hussein, a Peron o a un qualche altro dittatore dello Stato libero di Bananas. Via, presidente, non esageri. La tv la guardiamo anche noi e tutto questo odio contro di lei ci è sfuggito. Sì, su Raitre resiste qualche sacca di dissenso, ma è robetta. L'incontro tra Fabio Fazio e Marco Follini era un idillio.
Serena Dandini punzecchia, infastidisce. Corrado Augias usa il fioretto. Le battute più pesanti contro di lei le abbiamo sentite a «Zelig» ma lì, se non andiamo errati, è casa sua, pensavamo fosse tutto concordato.
È sicuramente colpa della febbre se Berlusconi ha avuto le visioni: «Ho visto e sentito una serie infinita di calunnie. Dicono che le tv sono controllate dalla nostra parte politica. È esattamente vero il contrario, perché, l'85% dei giornalisti, ho visto i nomi della Rai, sono iscritti a sindacati di sinistra». Ha visto e sentito cose che noi umani non riusciamo nemmeno a immaginare (e ha avuto persino tempo di consultare le iscrizioni al sindacato).
«Quindi - ha proseguito imperterrito - noi siamo di fronte esattamente ad un'informazione su tutti i mass media, giornali e tv, che è contro il governo e la sua politica. I signori dell'opposizione osano ribaltare anche in questo caso la realtà. Proprio in queste settimane ho sentito con le mie orecchie dire c'è un problema di democrazia in Italia, perché il sistema informativo è tutto nelle mani di un solo uomo. Non è cosi». No, non è così, dobbiamo esserci sbagliati. Forse anche noi, con questi sbalzi di temperatura, abbiamo la febbre. Meno male che in Italia ci sono solo conduttori all'acqua di La Rosa, onesti faticatori del piccolo schermo, marzulli della ragion di Stato.
Per dire, ci fossero solo un David Letterman o un Jay Leno, con un Berlusconi malato, dalle parole si passerebbe ai fatti. È stato solo un brutto sogno, presidente, scherzi della febbre. L'unico guaio è che oggi, a raccontare i sogni, si va in tv.
Il sottosegretario assume la figlia al ministero
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera - 15/02/2005)
«Governerò come un buon padre di famiglia», promise Berlusconi. Elisabetta Casellati, pasionaria azzurra, annuì commossa. Anche lei, giurò a se stessa, avrebbe governato come una buona madre di famiglia. Così, appena nominata sottosegretario, ha assunto come capo della segreteria al ministero della Salute sua figlia Ludovica.
«Grazie, mamma!». «Te lo meriti, amore». I soliti maliziosi, si sa, diranno che non si tratta di una coincidenza. E sputeranno fiele dubitando che la selezione sia stata aspra, che siano stati vagliati migliaia di curriculum, che siano stati consultati i migliori cacciatori di teste o chiamati a colloquio centinaia di giovani... E rinfacceranno a Silvio Berlusconi di avere giurato che lui avrebbe «chiuso coi metodi della vecchia politica» e «sradicato il clientelismo» e risanato lo Stato facendola finita con le spintarelle e le assunzioni facili. E magari arriveranno a tracciare un paragone con il caso di Umberto Bossi, che dopo aver detto che «la natura clientelare dello Stato dopo 150 anni» sarebbe andata in soffitta in nome dell'«assoluta trasparenza contro ogni forma di corruzione e clientelismo», ha visto due deputati leghisti europei assumere a Bruxelles come assistenti accreditati (12.750 euro al mese) suo fratello Franco e suo figlio Riccardo. Ma la bella Ludovica, nella veste di Capo della Segreteria del Sottosegretario di Stato (niente smentite:vedere sito del Ministero) assicura anche a nome della genitrice che non è così.
E spiega, in una deliziosa intervista al Corriere del Veneto, di avere tutte le carte in regola: «Ci ho messo dieci anni perché non mi chiamassero "figlia di" e adesso non vorrei passare per quella aiutata da mammina». Di più: «Può giudicarmi solo chi mi conosce sul lavoro e sa bene qual è la mia professionalità, guadagnata sul campo, dimostrata in ogni incarico che ho avuto». Certo, a incrociare nelle banche dati il suo nome con le voci «salute» o «sanità» o parole simili, si recuperano risultati così scoraggianti (zero carbonella) da far immaginare che sappia della materia quanto sa del Tamarino di Edipo o del delfino di fiume del Punjab. Né si conosce molto delle tappe della carriera manageriale che, sempre nella cocciuta ostinazione di dimostrare che lei è del tutto estranea a ogni raccomandazione della madre parlamentare berlusconiana, ha percorso nella berlusconiana Publitalia, la concessionaria di pubblicità del gruppo Mediaset.
Ludovica Casellati, la figlia (Gobbi)
Dire che sia del tutto sconosciuta, tuttavia, sarebbe ingiusto. Gli appassionati di vita mondana e i frequentatori dei siti di «gossip» veneti, infatti, la conoscono benissimo. Primo: perché passa per una delle più puntuali ospiti di tutte le feste, i cocktail, i galà e rinfreschi che vengono organizzati nei locali pubblici e nelle dimore private dall'Adige al Tagliamento. Secondo: perché da queste sue frequentazioni trae da qualche tempo una rubrica sul Gazzettino dal titolo «Think Pink». Dove c'è grande spazio per la salute e le attività più salutari. Come le battute di caccia in botte in laguna organizzate da ricchi imprenditori col «servidor de valle». O le vacanze all'isola d'Elba di «Gabriella Baggini Morato, meglio nota come Baby dinamicissima imprenditrice padovana» con tutta la famiglia, il marito Orio, la figlia, il gatto Tolomeo e i cani Sofia, Riccardo ed Elton. Per non dire della «incoronazione di Miss Mojito», dei trionfi del «dj Kenny Carpenter consacrato al successo nel gotha della dance newyorkese», delle «serate gastronomiche a tema dedicate al baccalà». Il meglio tuttavia, dicono gli intenditori, è stata la pubblicazione qualche settimana fa di un reportage sulle feste del bel mondo a Cortina: «La palma del divertimento è andata sicuramente al goliardico e pimpante gruppo dei vip padovani ultracinquantenni, che hanno riservato per l'occasione malga Staolin: i Vittadello, gli Stimamiglio, i Brugnolo, i Cristiani, i Facco, gli Agostosi, i Rinaldi, la neo sottosegretaria alla Sanità Elisabetta Casellati Alberti con il marito...».
E chi c'era tra le firme che avevano collaborato al pezzo? Lei, la tenera Ludovica. Conflitto d'interessi amorosi? Ma per carità, lo saprà ben la mamma, cos'è un conflitto. Avvocato, docente universitario, parlamentare di Forza Italia dal 1994, donna combattiva sempre pronta alla pugna e premiata via via con una serie di incarichi istituzionali fino alla presidenza della Commissione Sanità (con soddisfazione di Farmindustria, l'associazione delle imprese farmaceutiche, generosa di versamenti registrati nei suoi confronti) e poi alla vicepresidenza del gruppo azzurro al Senato, la Casellati non ha perso occasione, negli anni, per tirar fuori grinta e fantasia. E un giorno prometteva «entro due settimane» una specie di «angelo custode» per i tiratardi con l'inserimento in ogni discoteca di «una figura istituzionale» (un vigile urbano?) in servizio dalle ore 22 in avanti, un altro sentenziava che «la Rai non è stata mai così pluralista» come in questi anni azzurri, un'altra sbeffeggiava Romano Prodi per la chioma nero-seppia bollandolo come un Pinocchio «pronto a negare l'evidenza anche quando qualcuno avanza sospetti sulla sua capigliatura».
Il massimo, però, l'ha sempre dato sul conflitto d'interessi. E una volta invitava la sinistra a non aver fretta perché la Casa delle Libertà aveva cose più urgenti, un'altra tuonava che «la Cdl ha dimostrato che il conflitto d'interessi può essere risolto», un'altra ancora si compiaceva: «Noi governiamo solo nell'interesse dei cittadini». Va da sé che i suoi avversari, adesso, l'aspettano al varco. Con tre domande. La prima: dopo la nomina a sottosegretario ha chiuso l'attività legale che l'ha vista impegnata fino all'ultimo, per esempio nella difesa di Stefano Bettarini contro Simona Ventura? La seconda: come mai non risulta ancora essersi dimessa dalla carica di amministratore delegato della società finanziaria Esa srl, carica vietata dalla legge sul conflitto d'interessi? La terza: è vero che la giovane Ludovica ha avuto al ministero un contratto da 60 mila euro l'anno, cioè quasi il doppio di quanto guadagna un funzionario ministeriale del 9° livello con quindici anni di anzianità?
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera - 15/02/2005)
«Governerò come un buon padre di famiglia», promise Berlusconi. Elisabetta Casellati, pasionaria azzurra, annuì commossa. Anche lei, giurò a se stessa, avrebbe governato come una buona madre di famiglia. Così, appena nominata sottosegretario, ha assunto come capo della segreteria al ministero della Salute sua figlia Ludovica.
«Grazie, mamma!». «Te lo meriti, amore». I soliti maliziosi, si sa, diranno che non si tratta di una coincidenza. E sputeranno fiele dubitando che la selezione sia stata aspra, che siano stati vagliati migliaia di curriculum, che siano stati consultati i migliori cacciatori di teste o chiamati a colloquio centinaia di giovani... E rinfacceranno a Silvio Berlusconi di avere giurato che lui avrebbe «chiuso coi metodi della vecchia politica» e «sradicato il clientelismo» e risanato lo Stato facendola finita con le spintarelle e le assunzioni facili. E magari arriveranno a tracciare un paragone con il caso di Umberto Bossi, che dopo aver detto che «la natura clientelare dello Stato dopo 150 anni» sarebbe andata in soffitta in nome dell'«assoluta trasparenza contro ogni forma di corruzione e clientelismo», ha visto due deputati leghisti europei assumere a Bruxelles come assistenti accreditati (12.750 euro al mese) suo fratello Franco e suo figlio Riccardo. Ma la bella Ludovica, nella veste di Capo della Segreteria del Sottosegretario di Stato (niente smentite:vedere sito del Ministero) assicura anche a nome della genitrice che non è così.
E spiega, in una deliziosa intervista al Corriere del Veneto, di avere tutte le carte in regola: «Ci ho messo dieci anni perché non mi chiamassero "figlia di" e adesso non vorrei passare per quella aiutata da mammina». Di più: «Può giudicarmi solo chi mi conosce sul lavoro e sa bene qual è la mia professionalità, guadagnata sul campo, dimostrata in ogni incarico che ho avuto». Certo, a incrociare nelle banche dati il suo nome con le voci «salute» o «sanità» o parole simili, si recuperano risultati così scoraggianti (zero carbonella) da far immaginare che sappia della materia quanto sa del Tamarino di Edipo o del delfino di fiume del Punjab. Né si conosce molto delle tappe della carriera manageriale che, sempre nella cocciuta ostinazione di dimostrare che lei è del tutto estranea a ogni raccomandazione della madre parlamentare berlusconiana, ha percorso nella berlusconiana Publitalia, la concessionaria di pubblicità del gruppo Mediaset.
Ludovica Casellati, la figlia (Gobbi)
Dire che sia del tutto sconosciuta, tuttavia, sarebbe ingiusto. Gli appassionati di vita mondana e i frequentatori dei siti di «gossip» veneti, infatti, la conoscono benissimo. Primo: perché passa per una delle più puntuali ospiti di tutte le feste, i cocktail, i galà e rinfreschi che vengono organizzati nei locali pubblici e nelle dimore private dall'Adige al Tagliamento. Secondo: perché da queste sue frequentazioni trae da qualche tempo una rubrica sul Gazzettino dal titolo «Think Pink». Dove c'è grande spazio per la salute e le attività più salutari. Come le battute di caccia in botte in laguna organizzate da ricchi imprenditori col «servidor de valle». O le vacanze all'isola d'Elba di «Gabriella Baggini Morato, meglio nota come Baby dinamicissima imprenditrice padovana» con tutta la famiglia, il marito Orio, la figlia, il gatto Tolomeo e i cani Sofia, Riccardo ed Elton. Per non dire della «incoronazione di Miss Mojito», dei trionfi del «dj Kenny Carpenter consacrato al successo nel gotha della dance newyorkese», delle «serate gastronomiche a tema dedicate al baccalà». Il meglio tuttavia, dicono gli intenditori, è stata la pubblicazione qualche settimana fa di un reportage sulle feste del bel mondo a Cortina: «La palma del divertimento è andata sicuramente al goliardico e pimpante gruppo dei vip padovani ultracinquantenni, che hanno riservato per l'occasione malga Staolin: i Vittadello, gli Stimamiglio, i Brugnolo, i Cristiani, i Facco, gli Agostosi, i Rinaldi, la neo sottosegretaria alla Sanità Elisabetta Casellati Alberti con il marito...».
E chi c'era tra le firme che avevano collaborato al pezzo? Lei, la tenera Ludovica. Conflitto d'interessi amorosi? Ma per carità, lo saprà ben la mamma, cos'è un conflitto. Avvocato, docente universitario, parlamentare di Forza Italia dal 1994, donna combattiva sempre pronta alla pugna e premiata via via con una serie di incarichi istituzionali fino alla presidenza della Commissione Sanità (con soddisfazione di Farmindustria, l'associazione delle imprese farmaceutiche, generosa di versamenti registrati nei suoi confronti) e poi alla vicepresidenza del gruppo azzurro al Senato, la Casellati non ha perso occasione, negli anni, per tirar fuori grinta e fantasia. E un giorno prometteva «entro due settimane» una specie di «angelo custode» per i tiratardi con l'inserimento in ogni discoteca di «una figura istituzionale» (un vigile urbano?) in servizio dalle ore 22 in avanti, un altro sentenziava che «la Rai non è stata mai così pluralista» come in questi anni azzurri, un'altra sbeffeggiava Romano Prodi per la chioma nero-seppia bollandolo come un Pinocchio «pronto a negare l'evidenza anche quando qualcuno avanza sospetti sulla sua capigliatura».
Il massimo, però, l'ha sempre dato sul conflitto d'interessi. E una volta invitava la sinistra a non aver fretta perché la Casa delle Libertà aveva cose più urgenti, un'altra tuonava che «la Cdl ha dimostrato che il conflitto d'interessi può essere risolto», un'altra ancora si compiaceva: «Noi governiamo solo nell'interesse dei cittadini». Va da sé che i suoi avversari, adesso, l'aspettano al varco. Con tre domande. La prima: dopo la nomina a sottosegretario ha chiuso l'attività legale che l'ha vista impegnata fino all'ultimo, per esempio nella difesa di Stefano Bettarini contro Simona Ventura? La seconda: come mai non risulta ancora essersi dimessa dalla carica di amministratore delegato della società finanziaria Esa srl, carica vietata dalla legge sul conflitto d'interessi? La terza: è vero che la giovane Ludovica ha avuto al ministero un contratto da 60 mila euro l'anno, cioè quasi il doppio di quanto guadagna un funzionario ministeriale del 9° livello con quindici anni di anzianità?
14.2.05
Memorie di una camicia verde
CONTRORDINE di ALESSANDRO ROBECCHI
«Giù le mani dai nostri bambini o leggerete il futuro nelle nostre manette». Non vi sfugga il calembour. Mani. Manette. Le zingare che leggono le mani (e rubano i bambini), leggeranno le manette. Ah, ah. Ognuno ha i copy che si merita. Comunque - perdoniamogli lo stile - è questo il nuovo slogan delle camicie verdi per la prossima primavera. Un bel pogrom contro il popolo rom e via, si torna ad «avercelo duro» come ai bei vecchi tempi. Il razzismo è il viagra padano. Alla base della nuova crociata, un episodio di cronaca: a Lecco, due ragazze rom patteggiano otto mesi per tentata sottrazione di minore ed escono subito, in quanto incensurate. Nessuno è sicuro di come siano andate le cose, i racconti sono confusi, le ragazze non parlano italiano, la dinamica non è chiara. Ma è un'occasione d'oro per la Lega, un'occasione di mobilitazione «popolare», accompagnata (la manna dal cielo) dal più antico dei luoghi comuni razzisti: gli zingari rubano i bambini.
Politicamente, due piccioni con una fava. Da un lato si solleticano gli umori più schifosi della base dandole in pasto un «nuovo» pericolosissimo nemico, nientemeno che i ladri di bambini. Dall'altro si assesta una nuova bastonata alla magistratura, perché il messaggio che passa nella maggioranza del pubblico è: rubavano un bambino e le hanno lasciate andare. Cose da pazzi. Dove andremo a finire? Come si vede, è uno schema elementare, sperimentato moltissime volte e che garantisce un certo margine di successo.
Mal che vada si fidelizzano i propri clienti, se va bene si fa un po' di proselitismo tra le menti semplici. Il capro espiatorio di passaggio (questa volta, gli zingari) fa da detonatore, e la bomba è contro i giudici che sono troppo teneri con tutti, zingari, clandestini, baby gang, terroristi, rapinatori in genere. Giudici mollaccioni, marxisti, perdonisti. Se invece si potesse eleggere un muscoloso artigiano padano a fare il giudice, sai che bastonate, e che condanne, per tutte queste merdacce che minano l'alacre operosità padana. Nella suddetta società padana, poi, capita frequentemente che qualche disgraziato resti stritolato nei cassonetti della Caritas in cerca di vestiti usati. O che il dibattito in seno alla maggioranza che governa Milano (Milan, the most glamour city in the world) si concentri su questo: i clandestini possono dormire nei rifugi comunali quando fa molto freddo per strada? Per inciso, l'assessore alla moda è per il no, me ne sfugge il motivo, ma mi accontento della sublime metafora: mondo-fashion versus barboni. Resta il fatto che dalla pancia leghista escono borbottii sinistri che si può anche scambiare per folklore. Ma poi ci si accorge che, salendo ai piani alti del potere (su su fino al ministero della Giustizia), la musica non cambia di molto, anche se le frasi sono più tornite e i copy un po' migliori.
Tutto rientrerebbe nella norma dell'ordinaria barbarie quotidiana, forse. Ma vuole il caso che la nuova battaglia delle camicie verdi - il pogrom contro gli zingari ladri di bambini - cada a ridosso della giornata della Memoria, di quella del Ricordo, nel sessantesimo della scoperta e liberazione di Auschwitz e insomma in giorni in cui il peso della barbarie passata sembra meno leggero. Chiudere i campi nomadi, tagliare gli aiuti per la comunità rom e le sue favelas, dare la precedenza ai lombardi negli asili nido, sono obiettivi sbandierati come imperativi categorici. Manca ancora - una dimenticanza? - la richiesta di cucire un triangolo marron sui vestiti. Quanto ai ghetti ci sono già, e quanto al linguaggio, che non è un dettaglio, siamo più vicini alla birreria di Monaco che alla famosa Unione europea. Ragazzate? Una delle tante intemperanze leghiste tollerate come marachelle? La parola d'ordine è minimizzare, far finta di niente. Ma se qualche volonterosa scolaresca in cerca di memoria non ha i soldi per viaggiare nel cuore della storia, verso Buchenwald, verso Dachau, sappia che può farsi un giro nel fegato della geografia. Coraggio, una fiaccolata contro gli zingari sarà sempre in programma, è gratis, è vicina a casa, e può rivelarsi molto istruttiva. Dico, non vorrete mica farvi rubare i bambini, no?
CONTRORDINE di ALESSANDRO ROBECCHI
«Giù le mani dai nostri bambini o leggerete il futuro nelle nostre manette». Non vi sfugga il calembour. Mani. Manette. Le zingare che leggono le mani (e rubano i bambini), leggeranno le manette. Ah, ah. Ognuno ha i copy che si merita. Comunque - perdoniamogli lo stile - è questo il nuovo slogan delle camicie verdi per la prossima primavera. Un bel pogrom contro il popolo rom e via, si torna ad «avercelo duro» come ai bei vecchi tempi. Il razzismo è il viagra padano. Alla base della nuova crociata, un episodio di cronaca: a Lecco, due ragazze rom patteggiano otto mesi per tentata sottrazione di minore ed escono subito, in quanto incensurate. Nessuno è sicuro di come siano andate le cose, i racconti sono confusi, le ragazze non parlano italiano, la dinamica non è chiara. Ma è un'occasione d'oro per la Lega, un'occasione di mobilitazione «popolare», accompagnata (la manna dal cielo) dal più antico dei luoghi comuni razzisti: gli zingari rubano i bambini.
Politicamente, due piccioni con una fava. Da un lato si solleticano gli umori più schifosi della base dandole in pasto un «nuovo» pericolosissimo nemico, nientemeno che i ladri di bambini. Dall'altro si assesta una nuova bastonata alla magistratura, perché il messaggio che passa nella maggioranza del pubblico è: rubavano un bambino e le hanno lasciate andare. Cose da pazzi. Dove andremo a finire? Come si vede, è uno schema elementare, sperimentato moltissime volte e che garantisce un certo margine di successo.
Mal che vada si fidelizzano i propri clienti, se va bene si fa un po' di proselitismo tra le menti semplici. Il capro espiatorio di passaggio (questa volta, gli zingari) fa da detonatore, e la bomba è contro i giudici che sono troppo teneri con tutti, zingari, clandestini, baby gang, terroristi, rapinatori in genere. Giudici mollaccioni, marxisti, perdonisti. Se invece si potesse eleggere un muscoloso artigiano padano a fare il giudice, sai che bastonate, e che condanne, per tutte queste merdacce che minano l'alacre operosità padana. Nella suddetta società padana, poi, capita frequentemente che qualche disgraziato resti stritolato nei cassonetti della Caritas in cerca di vestiti usati. O che il dibattito in seno alla maggioranza che governa Milano (Milan, the most glamour city in the world) si concentri su questo: i clandestini possono dormire nei rifugi comunali quando fa molto freddo per strada? Per inciso, l'assessore alla moda è per il no, me ne sfugge il motivo, ma mi accontento della sublime metafora: mondo-fashion versus barboni. Resta il fatto che dalla pancia leghista escono borbottii sinistri che si può anche scambiare per folklore. Ma poi ci si accorge che, salendo ai piani alti del potere (su su fino al ministero della Giustizia), la musica non cambia di molto, anche se le frasi sono più tornite e i copy un po' migliori.
Tutto rientrerebbe nella norma dell'ordinaria barbarie quotidiana, forse. Ma vuole il caso che la nuova battaglia delle camicie verdi - il pogrom contro gli zingari ladri di bambini - cada a ridosso della giornata della Memoria, di quella del Ricordo, nel sessantesimo della scoperta e liberazione di Auschwitz e insomma in giorni in cui il peso della barbarie passata sembra meno leggero. Chiudere i campi nomadi, tagliare gli aiuti per la comunità rom e le sue favelas, dare la precedenza ai lombardi negli asili nido, sono obiettivi sbandierati come imperativi categorici. Manca ancora - una dimenticanza? - la richiesta di cucire un triangolo marron sui vestiti. Quanto ai ghetti ci sono già, e quanto al linguaggio, che non è un dettaglio, siamo più vicini alla birreria di Monaco che alla famosa Unione europea. Ragazzate? Una delle tante intemperanze leghiste tollerate come marachelle? La parola d'ordine è minimizzare, far finta di niente. Ma se qualche volonterosa scolaresca in cerca di memoria non ha i soldi per viaggiare nel cuore della storia, verso Buchenwald, verso Dachau, sappia che può farsi un giro nel fegato della geografia. Coraggio, una fiaccolata contro gli zingari sarà sempre in programma, è gratis, è vicina a casa, e può rivelarsi molto istruttiva. Dico, non vorrete mica farvi rubare i bambini, no?
La pista italiana dell'«Oil for food»
I traffici a Baghdad dell'uomo di Formigoni
di Claudio Gatti - il Sole 24ore del 9 febbraio 2005
L'invito, scritto in inglese e firmato da Tarek Aziz, era stato spedito con due mesi di anticipo, a marzo del 1999. «Dear Mister Roberto Formigoni - recitava - l'aggressione anglo-americana contro l'Irak crea un problema per la Nazione Araba e per tutto il mondo... noi pensiamo che sia ora di condannare quest'aggressione e chiedere la fine dell'embargo... Su questa base La invitiamo alla conferenza che si terrà a Baghdad». La stessa lettera era stata inviata al parlamentare della sinistra laburista inglese George Galloway, al leader ultranazionalista russo Vladimir Zhirinovsky e a decine di altri politici e opinion-maker di tutto il mondo ai quali si offriva viaggio, vitto e alloggio a spese dal governo iracheno.
La conferenza si aprì l'1 maggio 1999 al Mansour Melia Hotel di Baghdad. Per l'occasione, gli iracheni avevano tappezzato l'albergo di striscioni, in inglese, che denunciavano «l'oppressione americana» e chiedevano la fine dell'embargo. La sala si cominciò a popolare a metà mattinata. Ovviamente a riempirsi subito furono le prime file, quelle davanti al palco dove si sarebbe sistemato Tarek Aziz. I posti migliori se li contesero i molti invitati provenienti dall'estero, un gruppetto di dirigenti iracheni e i pochi ambasciatori residenti a Baghdad. Il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni preferì prendersela con calma, soffermandosi a conversare all'ingresso e lasciando che la sala si riempisse quasi completamente. Quando si affacciò Tarek Aziz era però lì pronto a salutarlo. Primo tra tutti gli invitati alla conferenza. Aziz lo prese sottobraccio e lo accompagnò fino a davanti al palco dove chiese a un suo sottoposto in divisa di alzarsi per far accomodare l'ospite italiano. Fu quindi dalla prima fila che, quando venne il suo turno, Formigoni si alzò per raggiungere il microfono sul palco ed esprimere pubblicamente il proprio sdegno per le «ingiuste sanzioni che uccidono i bambini».
Gli invitati a Baghdad. Non è certamente un caso se l'elenco degli invitati a quell'evento, stilato da Saddam Hussein assieme a Tarek Aziz, riporti molti degli stessi nomi di un altro elenco oggi in possesso della speciale commissione d'inchiesta creata da Kofi Annan per indagare sulla vicenda e diretta da Paul Volcker. L'elenco, rinvenuto negli archivi del ministero del Petrolio iracheno, contiene i nomi di decine di personalità straniere a cui, tra il 1997 e il 2003, il regime di Saddam ha dato in omaggio "buoni" per centinaia di milioni di barili di petrolio in cambio del loro supporto alla campagna per l'abolizione delle sanzioni imposte all'Irak dopo la Prima Guerra del Golfo.
In entrambi gli elenchi si legge il nome di Roberto Formigoni. Nel secondo elenco il presidente della Lombardia spicca in quanto maggiore beneficiario di petrolio tra tutti i politici occidentali, con 24 milioni di barili. Solo i russi possono vantarsi di aver fatto meglio di lui.
Che Formigoni fosse oggetto di un trattamento speciale per volontà dello stesso Saddam Hussein è attestato da alcune carte rinvenute negli archivi del ministero del Petrolio di cui «Il Sole-24 Ore» e il «Financial Times» hanno ottenuto copia. In questi fogli le assegnazioni di Formigoni sono spesso registrate con la dicitura "Richieste speciali", ma in due occasioni c'è una nota aggiunta a mano in cui si spiega che i quantitativi di petrolio concessi erano stati approvati dal presidente iracheno in persona.
Nelle stesse carte il nome di Formigoni appare ripetutamente inserito tra parentesi a fianco a quello della Cogep, società di Milano il cui nome completo è Costieri Genovesi Petroliferi. A ottobre dell'anno scorso, contattato dal Sole-24 Ore, il titolare della Cogep, Natalio Catanese, confermò di aver avuto contratti di petrolio dalla società petrolifera irachena Somo, ma negò che fossero in alcun modo collegati al presidente della Regione Lombardia. Questo diniego è stato ribadito anche adesso: «Confermo oggi quello che ho detto mesi fa» ha dichiarato Catanese. Prima di partecipare al programma Oil for Food, la Cogep era una società che non trattava greggio. Tant'è che non aveva alcun trader alle sue dipendenze. Il suo core business veniva dai depositi che aveva a Genova e Alessandria e dalla movimentazione di piccoli volumi di gasolio. Insomma gestiva autobotti, non petroliere. Tra il 1994 e il 1997, i bilanci societari parlano di ricavi che oscillano tra i 30 e i 67 miliardi di vecchie lire. Tutto cambia nel 1998 quando, grazie ai contratti ottenuti in Irak, i ricavi balzano a 167 miliardi, per poi arrivare a 384 nel 1999 e stabilizzarsi tra i 185 e i 220 nei tre anni successivi. Dopodiché, con l'invasione americana del marzo 2003, finisce la pacchia e i ricavi tornano ai livelli di una volta: 47 miliardi. Ma come ha fatto una piccola azienda di prodotti petroliferi raffinati senza alcuna esperienza nel trading di greggio a diventare uno degli interlocutori privilegiati della società petrolifera di Stato irachena Somo? Gli investigatori dell'Onu hanno scoperto che la risposta sta nel nome del suo sponsor: Roberto Formigoni.
Nel gennaio scorso, il presidente della Regione Lombardia disse al Sole-24 Ore di «aver aiutato aziende italiane a fare affari con l'Irak nell'ambito del programma Oil for Food», negando di aver avuto a che fare con i contratti della Cogep. Contattato nuovamente, il presidente non ha voluto accettare l'invito di replica in questo articolo, limitandosi a rinviarci alla dichiarazione di un anno fa.
Il ruolo di Formigoni. Ma c'è un documento rinvenuto a Baghdad, di cui «Il Sole-24 Ore» e il «Financial Times» hanno copia, che lo smentisce. È un fax spedito alle 12,57 del pomeriggio dell'8 giugno 1998. L'intestazione dice «Da: Formigoni. A: Tarek Aziz». «Eccellenza - recita - in seguito al nostro incontro a Roma, del quale le sono grato, poiché so che Somo sta firmando i nuovi contratti, mi lasci ricordarle i nomi delle società petrolifere italiane che le ho segnalato: una è la Cogep e l'altra la Nrg Oil. Molte grazie per quello che sarà in grado di fare. Cordiali saluti, Roberto Formigoni». Sul fax si leggono due note scritte a mano in arabo con cui si trasmette il messaggio al ministro del Petrolio e al direttore esecutivo della Somo e si notano i timbri di accettazione dei loro uffici. Né Catanese né Formigoni possono inoltre smentire di conoscere il personaggio-chiave di questa vicenda: un signore cinquantenne di nome Marco Mazarino De Petro. Ex onorevole democristiano, ex sindaco di Chiavari (fu costretto a dimettersi nel 1987 in seguito a uno scandalo su una faccenda di appalti pubblici), tra i primi iscritti a Comunione e Liberazione e al Movimento Popolare, De Petro è attualmente presidente della Avio Nord, minicompagnia aerea specializzata nel trasporto organi controllata dalla Regione Lombardia. Ma De Petro ha anche un'altra attività. Quando «Il Sole-24 Ore» e il «Financial Times» hanno chiamato il Pirellone, sede della Regione a Milano, chiedendo di lui, si sono sentiti rispondere che è reperibile al numero della segreteria della Presidenza, dove ha a disposizione un ufficio. Stessa cosa a Roma, a piazza del Gesù, nella sede distaccata della Regione Lombardia. Lì «Il Sole-24 Ore» e il «Financial Times» sono stati indirizzati a Gianna Antonini, la segretaria factotum del presidente Formigoni che non esita a spiegare di lavorare con l'ex sindaco di Chiavari «da anni».
Raggiunto telefonicamente da «Il Sole-24 Ore» e dal «Financial Times», De Petro ha ammesso di aver avuto il mandato «da parte della Regione Lombardia di tenere i rapporti internazionali con vari Paesi, incluso l'Irak». Ha anche confermato di esser stato a Baghdad «molte volte per missioni umanitarie e per missioni con imprenditori italiani interessati ad avere rapporti con l'Irak».
Ma per sciogliere questa complessa matassa politico-economica è opportuno fare un salto indietro nel tempo, all'avvio operativo del programma Oil for Food, nel 1997. Pur avendo le seconde maggiori riserve petrolifere al mondo, l'Irak era stato chiuso alle esportazioni sin dai giorni dell'invasione del Kuwait, nel 1990. La riapertura di quel mercato faceva gola a tutti. Eni inclusa.
Nell'aprile di otto anni fa, la compagnia petrolifera italiana decise di invitare nel nostro Paese il ministro del Petrolio iracheno, il generale Amir Rashid. Il 22 aprile, un jet dell'Eni volò ad Amman per prendere il ministro e portarlo a Roma, dove venne sistemato in pompa magna nella suite 105-106 dell'Excelsior, l'albergo di via Veneto a fianco dell'ambasciata americana. Il generale Rashid era un ospite tanto prezioso quanto ambito, e a Roma venne ricevuto da ministri del Governo Prodi, membri del Parlamento e industriali. Lui aveva però una richiesta particolare: voleva portare i saluti di Tarek Aziz al presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni. Ovviamente fu accontentato. Il 25 aprile, alle 9,50 del mattino il jet dell'Eni atterrò all'Ata, lo scalo privato di Linate. Lì, nella saletta Vip ad attendere il ministro Rashid c'era Roberto Formigoni accompagnato da una giovane interprete. Alcuni mesi dopo quell'incontro, nell'autunno del 1997, Marco De Petro cominciò a contattare esperti del settore energetico per discutere della possibilità di piazzare contratti di greggio iracheno. Non era un campo che gli era familiare. Per settimane il consulente di Formigoni annaspò pressoché nel buio contattando persone inadatte, prima di approdare alla Cogep.
De Petro trovò un accordo con i Catanese e a metà gennaio 1998 partì per l'Irak con un esperto di trading di greggio appositamente assoldato dalla Cogep. Dopo due giorni di trattative, il 18 gennaio, arrivò il momento della firma del contratto con il direttore generale della Somo, Saddam Hassan, cugino del leader iracheno. Era domenica e De Petro si presentò come sempre vestito in blazer blu e pantaloni grigi - una sorta di divisa a cui non rinunciava mai. Lo aspettava un contratto lungo dieci pagine. Nella decima erano riportati prima il nome e i dati del venditore - la Somo - e poi quelli dell'acquirente - la Cogep. Sotto c'era lo spazio per le firme. In rappresentanza del venditore firmò per primo Hassan. Poi fu la volta di De Petro, che pose la firma sotto la dicitura «For buyer» - per l'acquirente. Insomma, il primo contratto di acquisto da parte della Cogep di petrolio iracheno - e l'unico ad esser stato siglato a Baghdad (gli altri furono sempre inviati per fax) - non venne firmato da un funzionario della società milanese bensì dal consulente di Roberto Formigoni. Quando l'hanno vista, gli investigatori dell'Onu hanno immediatamente capito che quella firma costituiva una vera e propria svolta nelle indagini. Per la prima volta erano infatti in grado di documentare il legame tra una società petrolifera che aveva firmato un contratto con la Somo e un uomo politico incluso nella lista dei beneficiari dei "buoni" petroliferi stilata dal ministero iracheno.
Da parte sua De Petro non ha problemi ad ammettere di aver accompagnato personale della Cogep negli uffici della Somo, ma nega fermamente di aver mai firmato alcun contratto. «Non ho mai firmato contratti per la Cogep - dice - Non avevo alcun titolo per farlo». Titolo o non titolo, gli investigatori hanno appurato che gli iracheni lo associavano alla Cogep. Tant'è che svariati documenti successivi arrivarono indirizzati a lui. Un esempio è offerto dal fax spedito dal direttore della Somo Saddam Hassan il 13 giugno 1998. È la copia firmata del secondo contratto, indirizzata a «Cogep Srl, Milano, Italy, Attn Mister Marco».
Da parte sua, De Petro non sentiva però obblighi particolari nei confronti della società milanese ed era disposto a "diversificare". «Il Sole-24 Ore» e il «Financial Times» hanno appurato che per questo entrò in contatto con l'ingegner Alberto Olivi, un ex trader petrolifero della Cameli diventato amministratore unico e proprietario della Nrg Oils, la società genovese segnalata da Formigoni nel suo telex a Tarek Aziz assieme alla Cogep.
Documenti trovati negli archivi iracheni confermano che la società di Olivi aveva fatto affari con la Somo. «Ho avuto contratti nel 1996, nel 1999, nel 2001 e nel 2003» spiega a «Il Sole-24 Ore» e al «Financial Times» l'ingegner Olivi, che sostiene di non essere a conoscenza di alcun intervento a suo favore da parte di Roberto Formigoni. Olivi conferma però di aver discusso di petrolio con Marco De Petro: «(De Petro, ndr) poteva forse supportare l'aggiudicazione di contratti, ma non ci fu né il modo, né il tempo, né l'intenzione di approfondire la cosa... I nostri incontri, probabilmente a Baghdad, non hanno prodotto risultati ai fini delle attività della mia società».
Gli affari della Cogep. Il rapporto tra il duo Formigoni-De Petro e la Cogep continuò invece senza interruzioni per tutto il corso del programma Oil for Food. De Petro in particolare fu tutt'altro che distante o passivo. Al contrario, per tutti quegli anni ebbe incontri regolari con la Cogep per discutere su come ottimizzare gli sforzi di commercializzazione del greggio comprato.
Gli investigatori hanno scoperto che i primi incontri si tennero negli stessi uffici della Cogep, al primo piano del numero 45 di via San Vittore. Seduto attorno al bellissimo tavolo ovale inglese della sala riunioni, De Petro si trovò spesso a discutere di petrolio fino a sera inoltrata con due funzionari della Cogep, Natalio Catanese, suo figlio Andrea e suo fratello Saverio, proprietario tra l'altro della società di design Almax e membro della Compagnia delle Opere.
Delle decine di politici dei 52 Paesi che risultano aver avuto "buoni" di petrolio dall'Irak, Roberto Formigoni è l'unico ad aver ottenuto assegnazioni poi convertite in contratti eseguiti dal gennaio1998 fino alla vigilia dell'invasione anglo-americana. Senza mai un'interruzione. E il fatto che le sue assegnazioni siano continuate anche dopo il 2000 è ritenuto particolarmente significativo. Gli investigatori hanno infatti appurato che a partire dal 2000, su ordine di Saddam, la Somo offrì petrolio soltanto a chi era disposto a pagare una tangente del 10% al regime. Le compagnie petrolifere maggiori si rifiutarono di accettare quest'imposizione in aperta violazione delle risoluzioni dell'Onu ritirandosi dal mercato iracheno, ma la Cogep fu tra le società che si prestarono al gioco permettendo così a Saddam di creare fondi neri, riciclare denaro illecito e, tra le altre cose, acquistare armi.
Gli iracheni ovviamente non usarono mai la parola mazzetta (kickback, in inglese) bensì il termine più morbido di sovrattassa (surcharge). Ma la natura illegale di questi pagamenti era evidentemente chiara ai signori della Cogep, perché tutti i versamenti vennero fatti da uno speciale conto aperto presso la Ubs a Lugano, un conto diverso da quello della Paribas a Ginevra da cui venivano aperte le lettere di credito ufficiali per l'acquisto del petrolio iracheno. Gli investigatori hanno trovato tracce documentali di pagamenti fatti dalla Cogep su due conti segreti della Somo, il primo presso la Franzabank di Beirut e il secondo presso la National Jordan Bank di Amman. In totale, la società milanese ha pagato 943mila dollari in tangenti.
Se c'era il margine per pagare tangenti di questo calibro era perché la Cogep ebbe modo di fare profitti non indifferenti sui 24 milioni di barili acquistati in totale dalla Somo. Anche perché quei barili non li ha mai neppure toccati: li ha sempre rivenduti a qualcuno che li andava a caricare in Irak. Nel marzo del 1999, dal carico di una singola petroliera - la Krovinken - riuscì a guadagnare 270mila dollari. Non ci sono prove che Formigoni e De Petro sapessero di queste tangenti, ma gli investigatori hanno appurato che non tutti i profitti sono rimasti nelle casse della Cogep. A dimostrarlo è il contenuto di un faldone verde che, almeno fino a qualche tempo fa, era conservato in via San Vittore. Per la precisione nella stanza di Andrea Catanese, alle spalle della sua scrivania, vicino alla finestra. Sul dorso, con pennarello indelebile blu, c'era scritto un nome: Candonly. Dentro c'erano le fatturazioni di questa società e le rimesse a essa pagate dalla Cogep. A «Il Sole-24 Ore» e al «Financial Times» risulta che, ad eccezione del primo contratto, quello del gennaio 1998, in cui il pagamento fu in percentuale, per tutti gli altri contratti avuti dalla Somo la Candonly sia stata pagata una commissione di tre centesimi per ogni barile di petrolio acquisito dalla Somo.
Giri di prestanome. Ma chi c'è dietro Candonly Limited? La società è stata registrata a Dublino nel 1991 da Jesse Grant Hester, un prestanome di professione - una cosiddetta testa di legno - con sedi legali nelle Channel Islands e a Cipro. È stata poi chiusa il 12 novembre 1999, sei mesi dopo la costituzione di una consorella londinese dallo stesso nome. Amministratore e proprietario della Candonly inglese risulta essere Michael Patrick Dwen, ma in realtà è anch'egli un prestanome di professione con uffici nelle Channel Islands e a Cipro, e che soltanto in Gran Bretagna è nel consiglio di oltre 400 società diverse. Jesse Grant Hester appare con lui nei consigli di amministrazione di numerose società sparse per il mondo. Gli investigatori hanno appurato che oltre a queste "teste di legno" c'è un altro signore associato alla Candonly: Marco Mazarino De Petro. «Il Sole-24 Ore» e il «Financial Times» sono inoltre in possesso di un documento scritto a mano dal consulente di Formigoni, con il suo nome a fianco a quello della Candonly Ltd.
De Petro nega invece di aver mai sentito nominare questa società o di aver mai avuto alcunché a che fare con essa.
«Quelle della Somo non erano certamente elargizioni a perdere» commenta una persona che frequentava Baghdad nel periodo in questione. «Se gli iracheni tenevano il conto preciso di quello che davano a ogni personalità straniera non era certo per caso. Era per poterlo riscuotere».
Agli investigatori dell'Onu risulta che ciò che più interessava agli iracheni era il sostegno internazionale alla battaglia di Saddam contro le sanzioni. E non c'è dubbio che su questo fronte Formigoni si sia dato molto da fare. Fu lui stesso a vantarsene in una lettera scritta nel 1996 a Tarek Aziz, in possesso de «Il Sole-24 Ore» e del «Financial Times». «Eccellenza - si legge - innanzitutto vorrei confermare con questa lettera la mia solidarietà nei confronti del popolo iracheno... Io ho dimostrato formalmente la mia solidarietà sia davanti al mio Governo che davanti all'opinione pubblica attraverso dichiarazioni e interviste. Credo di poter affermare di aver contribuito a riequilibrare la posizione del Governo italiano». Oltre a partecipare alla conferenza tenuta a Baghdad nel maggio 1999 e ad altre successive, Formigoni si impegnò in prima linea nella campagna a favore della fine dell'embargo. L'11 novembre 2000 fu per esempio lui alla testa della delegazione che partì dall'aeroporto di Linate a bordo di un volo umanitario. Era il primo volo ufficiale italiano su Baghdad dopo quello che nel 1991 era servito allo stesso Formigoni per riportare in patria i nostri connazionali tenuti in ostaggio come "scudi umani" da Saddam. A organizzare il viaggio del novembre 2000 fu la Regione Lombardia. «Questa missione - dichiarò il governatore in una conferenza stampa tenuta in una sala dell'aeroporto - è un segnale di solidarietà a un popolo che soffre, ed esprime la nostra volontà che le sanzioni contro l'Irak abbiano fine».
Nei mesi precedenti all'invasione anglo-americana del 2003, Formigoni si schierò apertamente contro la guerra. Nel febbraio 2003 non esitò a incontrare a pranzo lo stesso Tarek Aziz in occasione del suo viaggio dal Papa, vano tentativo in extremis di fermare la macchina da guerra americana. Nel suo piccolo anche De Petro si diede da fare: a novembre 2002 fu uno dei firmatari di una mozione al consiglio comunale di Genova che criticava l'ipotesi di un intervento militare americano. Non c'è ovviamente nulla di eccepibile in queste iniziative, peraltro condivise da buona parte degli italiani. Gli investigatori dell'Onu stanno ora cercando di stabilire se la campagna pubblica, del tutto legittima, sia stata almeno in parte finanziata da pagamenti privati e non dichiarati. Nell'aprile 2004 in una mozione presentata dall'opposizione nel consiglio della Giunta regionale fu chiesto al presidente Formigoni di rassicurare i cittadini lombardi di non aver fatto «opera di intermediazione petrolifera. Perché ogni opera di intermediazione politica porta con sé vantaggi economici». Il presidente Formigoni non ha mai risposto, ma a volergli ripetere la domanda sarà presto anche la commissione dell'Onu.
I traffici a Baghdad dell'uomo di Formigoni
di Claudio Gatti - il Sole 24ore del 9 febbraio 2005
L'invito, scritto in inglese e firmato da Tarek Aziz, era stato spedito con due mesi di anticipo, a marzo del 1999. «Dear Mister Roberto Formigoni - recitava - l'aggressione anglo-americana contro l'Irak crea un problema per la Nazione Araba e per tutto il mondo... noi pensiamo che sia ora di condannare quest'aggressione e chiedere la fine dell'embargo... Su questa base La invitiamo alla conferenza che si terrà a Baghdad». La stessa lettera era stata inviata al parlamentare della sinistra laburista inglese George Galloway, al leader ultranazionalista russo Vladimir Zhirinovsky e a decine di altri politici e opinion-maker di tutto il mondo ai quali si offriva viaggio, vitto e alloggio a spese dal governo iracheno.
La conferenza si aprì l'1 maggio 1999 al Mansour Melia Hotel di Baghdad. Per l'occasione, gli iracheni avevano tappezzato l'albergo di striscioni, in inglese, che denunciavano «l'oppressione americana» e chiedevano la fine dell'embargo. La sala si cominciò a popolare a metà mattinata. Ovviamente a riempirsi subito furono le prime file, quelle davanti al palco dove si sarebbe sistemato Tarek Aziz. I posti migliori se li contesero i molti invitati provenienti dall'estero, un gruppetto di dirigenti iracheni e i pochi ambasciatori residenti a Baghdad. Il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni preferì prendersela con calma, soffermandosi a conversare all'ingresso e lasciando che la sala si riempisse quasi completamente. Quando si affacciò Tarek Aziz era però lì pronto a salutarlo. Primo tra tutti gli invitati alla conferenza. Aziz lo prese sottobraccio e lo accompagnò fino a davanti al palco dove chiese a un suo sottoposto in divisa di alzarsi per far accomodare l'ospite italiano. Fu quindi dalla prima fila che, quando venne il suo turno, Formigoni si alzò per raggiungere il microfono sul palco ed esprimere pubblicamente il proprio sdegno per le «ingiuste sanzioni che uccidono i bambini».
Gli invitati a Baghdad. Non è certamente un caso se l'elenco degli invitati a quell'evento, stilato da Saddam Hussein assieme a Tarek Aziz, riporti molti degli stessi nomi di un altro elenco oggi in possesso della speciale commissione d'inchiesta creata da Kofi Annan per indagare sulla vicenda e diretta da Paul Volcker. L'elenco, rinvenuto negli archivi del ministero del Petrolio iracheno, contiene i nomi di decine di personalità straniere a cui, tra il 1997 e il 2003, il regime di Saddam ha dato in omaggio "buoni" per centinaia di milioni di barili di petrolio in cambio del loro supporto alla campagna per l'abolizione delle sanzioni imposte all'Irak dopo la Prima Guerra del Golfo.
In entrambi gli elenchi si legge il nome di Roberto Formigoni. Nel secondo elenco il presidente della Lombardia spicca in quanto maggiore beneficiario di petrolio tra tutti i politici occidentali, con 24 milioni di barili. Solo i russi possono vantarsi di aver fatto meglio di lui.
Che Formigoni fosse oggetto di un trattamento speciale per volontà dello stesso Saddam Hussein è attestato da alcune carte rinvenute negli archivi del ministero del Petrolio di cui «Il Sole-24 Ore» e il «Financial Times» hanno ottenuto copia. In questi fogli le assegnazioni di Formigoni sono spesso registrate con la dicitura "Richieste speciali", ma in due occasioni c'è una nota aggiunta a mano in cui si spiega che i quantitativi di petrolio concessi erano stati approvati dal presidente iracheno in persona.
Nelle stesse carte il nome di Formigoni appare ripetutamente inserito tra parentesi a fianco a quello della Cogep, società di Milano il cui nome completo è Costieri Genovesi Petroliferi. A ottobre dell'anno scorso, contattato dal Sole-24 Ore, il titolare della Cogep, Natalio Catanese, confermò di aver avuto contratti di petrolio dalla società petrolifera irachena Somo, ma negò che fossero in alcun modo collegati al presidente della Regione Lombardia. Questo diniego è stato ribadito anche adesso: «Confermo oggi quello che ho detto mesi fa» ha dichiarato Catanese. Prima di partecipare al programma Oil for Food, la Cogep era una società che non trattava greggio. Tant'è che non aveva alcun trader alle sue dipendenze. Il suo core business veniva dai depositi che aveva a Genova e Alessandria e dalla movimentazione di piccoli volumi di gasolio. Insomma gestiva autobotti, non petroliere. Tra il 1994 e il 1997, i bilanci societari parlano di ricavi che oscillano tra i 30 e i 67 miliardi di vecchie lire. Tutto cambia nel 1998 quando, grazie ai contratti ottenuti in Irak, i ricavi balzano a 167 miliardi, per poi arrivare a 384 nel 1999 e stabilizzarsi tra i 185 e i 220 nei tre anni successivi. Dopodiché, con l'invasione americana del marzo 2003, finisce la pacchia e i ricavi tornano ai livelli di una volta: 47 miliardi. Ma come ha fatto una piccola azienda di prodotti petroliferi raffinati senza alcuna esperienza nel trading di greggio a diventare uno degli interlocutori privilegiati della società petrolifera di Stato irachena Somo? Gli investigatori dell'Onu hanno scoperto che la risposta sta nel nome del suo sponsor: Roberto Formigoni.
Nel gennaio scorso, il presidente della Regione Lombardia disse al Sole-24 Ore di «aver aiutato aziende italiane a fare affari con l'Irak nell'ambito del programma Oil for Food», negando di aver avuto a che fare con i contratti della Cogep. Contattato nuovamente, il presidente non ha voluto accettare l'invito di replica in questo articolo, limitandosi a rinviarci alla dichiarazione di un anno fa.
Il ruolo di Formigoni. Ma c'è un documento rinvenuto a Baghdad, di cui «Il Sole-24 Ore» e il «Financial Times» hanno copia, che lo smentisce. È un fax spedito alle 12,57 del pomeriggio dell'8 giugno 1998. L'intestazione dice «Da: Formigoni. A: Tarek Aziz». «Eccellenza - recita - in seguito al nostro incontro a Roma, del quale le sono grato, poiché so che Somo sta firmando i nuovi contratti, mi lasci ricordarle i nomi delle società petrolifere italiane che le ho segnalato: una è la Cogep e l'altra la Nrg Oil. Molte grazie per quello che sarà in grado di fare. Cordiali saluti, Roberto Formigoni». Sul fax si leggono due note scritte a mano in arabo con cui si trasmette il messaggio al ministro del Petrolio e al direttore esecutivo della Somo e si notano i timbri di accettazione dei loro uffici. Né Catanese né Formigoni possono inoltre smentire di conoscere il personaggio-chiave di questa vicenda: un signore cinquantenne di nome Marco Mazarino De Petro. Ex onorevole democristiano, ex sindaco di Chiavari (fu costretto a dimettersi nel 1987 in seguito a uno scandalo su una faccenda di appalti pubblici), tra i primi iscritti a Comunione e Liberazione e al Movimento Popolare, De Petro è attualmente presidente della Avio Nord, minicompagnia aerea specializzata nel trasporto organi controllata dalla Regione Lombardia. Ma De Petro ha anche un'altra attività. Quando «Il Sole-24 Ore» e il «Financial Times» hanno chiamato il Pirellone, sede della Regione a Milano, chiedendo di lui, si sono sentiti rispondere che è reperibile al numero della segreteria della Presidenza, dove ha a disposizione un ufficio. Stessa cosa a Roma, a piazza del Gesù, nella sede distaccata della Regione Lombardia. Lì «Il Sole-24 Ore» e il «Financial Times» sono stati indirizzati a Gianna Antonini, la segretaria factotum del presidente Formigoni che non esita a spiegare di lavorare con l'ex sindaco di Chiavari «da anni».
Raggiunto telefonicamente da «Il Sole-24 Ore» e dal «Financial Times», De Petro ha ammesso di aver avuto il mandato «da parte della Regione Lombardia di tenere i rapporti internazionali con vari Paesi, incluso l'Irak». Ha anche confermato di esser stato a Baghdad «molte volte per missioni umanitarie e per missioni con imprenditori italiani interessati ad avere rapporti con l'Irak».
Ma per sciogliere questa complessa matassa politico-economica è opportuno fare un salto indietro nel tempo, all'avvio operativo del programma Oil for Food, nel 1997. Pur avendo le seconde maggiori riserve petrolifere al mondo, l'Irak era stato chiuso alle esportazioni sin dai giorni dell'invasione del Kuwait, nel 1990. La riapertura di quel mercato faceva gola a tutti. Eni inclusa.
Nell'aprile di otto anni fa, la compagnia petrolifera italiana decise di invitare nel nostro Paese il ministro del Petrolio iracheno, il generale Amir Rashid. Il 22 aprile, un jet dell'Eni volò ad Amman per prendere il ministro e portarlo a Roma, dove venne sistemato in pompa magna nella suite 105-106 dell'Excelsior, l'albergo di via Veneto a fianco dell'ambasciata americana. Il generale Rashid era un ospite tanto prezioso quanto ambito, e a Roma venne ricevuto da ministri del Governo Prodi, membri del Parlamento e industriali. Lui aveva però una richiesta particolare: voleva portare i saluti di Tarek Aziz al presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni. Ovviamente fu accontentato. Il 25 aprile, alle 9,50 del mattino il jet dell'Eni atterrò all'Ata, lo scalo privato di Linate. Lì, nella saletta Vip ad attendere il ministro Rashid c'era Roberto Formigoni accompagnato da una giovane interprete. Alcuni mesi dopo quell'incontro, nell'autunno del 1997, Marco De Petro cominciò a contattare esperti del settore energetico per discutere della possibilità di piazzare contratti di greggio iracheno. Non era un campo che gli era familiare. Per settimane il consulente di Formigoni annaspò pressoché nel buio contattando persone inadatte, prima di approdare alla Cogep.
De Petro trovò un accordo con i Catanese e a metà gennaio 1998 partì per l'Irak con un esperto di trading di greggio appositamente assoldato dalla Cogep. Dopo due giorni di trattative, il 18 gennaio, arrivò il momento della firma del contratto con il direttore generale della Somo, Saddam Hassan, cugino del leader iracheno. Era domenica e De Petro si presentò come sempre vestito in blazer blu e pantaloni grigi - una sorta di divisa a cui non rinunciava mai. Lo aspettava un contratto lungo dieci pagine. Nella decima erano riportati prima il nome e i dati del venditore - la Somo - e poi quelli dell'acquirente - la Cogep. Sotto c'era lo spazio per le firme. In rappresentanza del venditore firmò per primo Hassan. Poi fu la volta di De Petro, che pose la firma sotto la dicitura «For buyer» - per l'acquirente. Insomma, il primo contratto di acquisto da parte della Cogep di petrolio iracheno - e l'unico ad esser stato siglato a Baghdad (gli altri furono sempre inviati per fax) - non venne firmato da un funzionario della società milanese bensì dal consulente di Roberto Formigoni. Quando l'hanno vista, gli investigatori dell'Onu hanno immediatamente capito che quella firma costituiva una vera e propria svolta nelle indagini. Per la prima volta erano infatti in grado di documentare il legame tra una società petrolifera che aveva firmato un contratto con la Somo e un uomo politico incluso nella lista dei beneficiari dei "buoni" petroliferi stilata dal ministero iracheno.
Da parte sua De Petro non ha problemi ad ammettere di aver accompagnato personale della Cogep negli uffici della Somo, ma nega fermamente di aver mai firmato alcun contratto. «Non ho mai firmato contratti per la Cogep - dice - Non avevo alcun titolo per farlo». Titolo o non titolo, gli investigatori hanno appurato che gli iracheni lo associavano alla Cogep. Tant'è che svariati documenti successivi arrivarono indirizzati a lui. Un esempio è offerto dal fax spedito dal direttore della Somo Saddam Hassan il 13 giugno 1998. È la copia firmata del secondo contratto, indirizzata a «Cogep Srl, Milano, Italy, Attn Mister Marco».
Da parte sua, De Petro non sentiva però obblighi particolari nei confronti della società milanese ed era disposto a "diversificare". «Il Sole-24 Ore» e il «Financial Times» hanno appurato che per questo entrò in contatto con l'ingegner Alberto Olivi, un ex trader petrolifero della Cameli diventato amministratore unico e proprietario della Nrg Oils, la società genovese segnalata da Formigoni nel suo telex a Tarek Aziz assieme alla Cogep.
Documenti trovati negli archivi iracheni confermano che la società di Olivi aveva fatto affari con la Somo. «Ho avuto contratti nel 1996, nel 1999, nel 2001 e nel 2003» spiega a «Il Sole-24 Ore» e al «Financial Times» l'ingegner Olivi, che sostiene di non essere a conoscenza di alcun intervento a suo favore da parte di Roberto Formigoni. Olivi conferma però di aver discusso di petrolio con Marco De Petro: «(De Petro, ndr) poteva forse supportare l'aggiudicazione di contratti, ma non ci fu né il modo, né il tempo, né l'intenzione di approfondire la cosa... I nostri incontri, probabilmente a Baghdad, non hanno prodotto risultati ai fini delle attività della mia società».
Gli affari della Cogep. Il rapporto tra il duo Formigoni-De Petro e la Cogep continuò invece senza interruzioni per tutto il corso del programma Oil for Food. De Petro in particolare fu tutt'altro che distante o passivo. Al contrario, per tutti quegli anni ebbe incontri regolari con la Cogep per discutere su come ottimizzare gli sforzi di commercializzazione del greggio comprato.
Gli investigatori hanno scoperto che i primi incontri si tennero negli stessi uffici della Cogep, al primo piano del numero 45 di via San Vittore. Seduto attorno al bellissimo tavolo ovale inglese della sala riunioni, De Petro si trovò spesso a discutere di petrolio fino a sera inoltrata con due funzionari della Cogep, Natalio Catanese, suo figlio Andrea e suo fratello Saverio, proprietario tra l'altro della società di design Almax e membro della Compagnia delle Opere.
Delle decine di politici dei 52 Paesi che risultano aver avuto "buoni" di petrolio dall'Irak, Roberto Formigoni è l'unico ad aver ottenuto assegnazioni poi convertite in contratti eseguiti dal gennaio1998 fino alla vigilia dell'invasione anglo-americana. Senza mai un'interruzione. E il fatto che le sue assegnazioni siano continuate anche dopo il 2000 è ritenuto particolarmente significativo. Gli investigatori hanno infatti appurato che a partire dal 2000, su ordine di Saddam, la Somo offrì petrolio soltanto a chi era disposto a pagare una tangente del 10% al regime. Le compagnie petrolifere maggiori si rifiutarono di accettare quest'imposizione in aperta violazione delle risoluzioni dell'Onu ritirandosi dal mercato iracheno, ma la Cogep fu tra le società che si prestarono al gioco permettendo così a Saddam di creare fondi neri, riciclare denaro illecito e, tra le altre cose, acquistare armi.
Gli iracheni ovviamente non usarono mai la parola mazzetta (kickback, in inglese) bensì il termine più morbido di sovrattassa (surcharge). Ma la natura illegale di questi pagamenti era evidentemente chiara ai signori della Cogep, perché tutti i versamenti vennero fatti da uno speciale conto aperto presso la Ubs a Lugano, un conto diverso da quello della Paribas a Ginevra da cui venivano aperte le lettere di credito ufficiali per l'acquisto del petrolio iracheno. Gli investigatori hanno trovato tracce documentali di pagamenti fatti dalla Cogep su due conti segreti della Somo, il primo presso la Franzabank di Beirut e il secondo presso la National Jordan Bank di Amman. In totale, la società milanese ha pagato 943mila dollari in tangenti.
Se c'era il margine per pagare tangenti di questo calibro era perché la Cogep ebbe modo di fare profitti non indifferenti sui 24 milioni di barili acquistati in totale dalla Somo. Anche perché quei barili non li ha mai neppure toccati: li ha sempre rivenduti a qualcuno che li andava a caricare in Irak. Nel marzo del 1999, dal carico di una singola petroliera - la Krovinken - riuscì a guadagnare 270mila dollari. Non ci sono prove che Formigoni e De Petro sapessero di queste tangenti, ma gli investigatori hanno appurato che non tutti i profitti sono rimasti nelle casse della Cogep. A dimostrarlo è il contenuto di un faldone verde che, almeno fino a qualche tempo fa, era conservato in via San Vittore. Per la precisione nella stanza di Andrea Catanese, alle spalle della sua scrivania, vicino alla finestra. Sul dorso, con pennarello indelebile blu, c'era scritto un nome: Candonly. Dentro c'erano le fatturazioni di questa società e le rimesse a essa pagate dalla Cogep. A «Il Sole-24 Ore» e al «Financial Times» risulta che, ad eccezione del primo contratto, quello del gennaio 1998, in cui il pagamento fu in percentuale, per tutti gli altri contratti avuti dalla Somo la Candonly sia stata pagata una commissione di tre centesimi per ogni barile di petrolio acquisito dalla Somo.
Giri di prestanome. Ma chi c'è dietro Candonly Limited? La società è stata registrata a Dublino nel 1991 da Jesse Grant Hester, un prestanome di professione - una cosiddetta testa di legno - con sedi legali nelle Channel Islands e a Cipro. È stata poi chiusa il 12 novembre 1999, sei mesi dopo la costituzione di una consorella londinese dallo stesso nome. Amministratore e proprietario della Candonly inglese risulta essere Michael Patrick Dwen, ma in realtà è anch'egli un prestanome di professione con uffici nelle Channel Islands e a Cipro, e che soltanto in Gran Bretagna è nel consiglio di oltre 400 società diverse. Jesse Grant Hester appare con lui nei consigli di amministrazione di numerose società sparse per il mondo. Gli investigatori hanno appurato che oltre a queste "teste di legno" c'è un altro signore associato alla Candonly: Marco Mazarino De Petro. «Il Sole-24 Ore» e il «Financial Times» sono inoltre in possesso di un documento scritto a mano dal consulente di Formigoni, con il suo nome a fianco a quello della Candonly Ltd.
De Petro nega invece di aver mai sentito nominare questa società o di aver mai avuto alcunché a che fare con essa.
«Quelle della Somo non erano certamente elargizioni a perdere» commenta una persona che frequentava Baghdad nel periodo in questione. «Se gli iracheni tenevano il conto preciso di quello che davano a ogni personalità straniera non era certo per caso. Era per poterlo riscuotere».
Agli investigatori dell'Onu risulta che ciò che più interessava agli iracheni era il sostegno internazionale alla battaglia di Saddam contro le sanzioni. E non c'è dubbio che su questo fronte Formigoni si sia dato molto da fare. Fu lui stesso a vantarsene in una lettera scritta nel 1996 a Tarek Aziz, in possesso de «Il Sole-24 Ore» e del «Financial Times». «Eccellenza - si legge - innanzitutto vorrei confermare con questa lettera la mia solidarietà nei confronti del popolo iracheno... Io ho dimostrato formalmente la mia solidarietà sia davanti al mio Governo che davanti all'opinione pubblica attraverso dichiarazioni e interviste. Credo di poter affermare di aver contribuito a riequilibrare la posizione del Governo italiano». Oltre a partecipare alla conferenza tenuta a Baghdad nel maggio 1999 e ad altre successive, Formigoni si impegnò in prima linea nella campagna a favore della fine dell'embargo. L'11 novembre 2000 fu per esempio lui alla testa della delegazione che partì dall'aeroporto di Linate a bordo di un volo umanitario. Era il primo volo ufficiale italiano su Baghdad dopo quello che nel 1991 era servito allo stesso Formigoni per riportare in patria i nostri connazionali tenuti in ostaggio come "scudi umani" da Saddam. A organizzare il viaggio del novembre 2000 fu la Regione Lombardia. «Questa missione - dichiarò il governatore in una conferenza stampa tenuta in una sala dell'aeroporto - è un segnale di solidarietà a un popolo che soffre, ed esprime la nostra volontà che le sanzioni contro l'Irak abbiano fine».
Nei mesi precedenti all'invasione anglo-americana del 2003, Formigoni si schierò apertamente contro la guerra. Nel febbraio 2003 non esitò a incontrare a pranzo lo stesso Tarek Aziz in occasione del suo viaggio dal Papa, vano tentativo in extremis di fermare la macchina da guerra americana. Nel suo piccolo anche De Petro si diede da fare: a novembre 2002 fu uno dei firmatari di una mozione al consiglio comunale di Genova che criticava l'ipotesi di un intervento militare americano. Non c'è ovviamente nulla di eccepibile in queste iniziative, peraltro condivise da buona parte degli italiani. Gli investigatori dell'Onu stanno ora cercando di stabilire se la campagna pubblica, del tutto legittima, sia stata almeno in parte finanziata da pagamenti privati e non dichiarati. Nell'aprile 2004 in una mozione presentata dall'opposizione nel consiglio della Giunta regionale fu chiesto al presidente Formigoni di rassicurare i cittadini lombardi di non aver fatto «opera di intermediazione petrolifera. Perché ogni opera di intermediazione politica porta con sé vantaggi economici». Il presidente Formigoni non ha mai risposto, ma a volergli ripetere la domanda sarà presto anche la commissione dell'Onu.