Le Poste portano a casa i testi. Fornitore unico: una società della Mondadori di Berlusconi
I libri scolastici in conflitto d'interessi
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera- 28 luglio 2005)
Non è solo Berlusconi, il quale pattuglia appena può antiquari e gioiellerie, a fare regalini agli amici, come il prezioso orologio Longines impacchettato per tutti i deputati l'ultimo Natale. Càpita a volte che siano gli amici a fare regalini a lui. Letizia Moratti e le Poste Italiane, ad esempio, per il prossimo compleanno che il Cavaliere festeggia in coincidenza con l'apertura delle scuole, hanno deciso di donargli la possibilità di sbaragliare anche il mercato dei libri scolastici. Uno dei pochi settori, col commercio dei coleotteri o la produzione di mostarda mantovana, nel quale non si era ancora cimentato.
Cosa rappresentino i libri scolastici è presto detto: con 400 milioni di euro l'anno di fatturato, sono una fetta di un terzo circa dell'intero mercato del libro. Ma, ciò che più conta, sono la boccata di ossigeno che una volta l'anno permette alle piccole librerie sparse per la provincia italiana, dove si vende il 28% scarso di tutti i volumi, di tirare il fiato e non abbassare le saracinesche vinte dalla sciatta indifferenza di un paese che legge poco come il nostro. Tanto per capirci: in molti casi, nelle cittadine del Nord come del Mezzogiorno, l'incasso per i testi adottati dalle elementari alle medie superiori può superare il 60% degli introiti annuali.
Il costo di questi libri imposti agli studenti, del resto, è spesso elevato se non, in certi casi, stratosferico. Basti dire che la «dote» di un ragazzino di prima media può costare oltre 300 euro, quella di un ragazzo delle commerciali intorno ai 350, di un liceale anche 500. Un peso che in questi anni di vacche magre può essere, per molte famiglie, esorbitante. Al punto di incidere, nei casi più gravosi, perfino sulla scelta di molti studenti di abbandonare la scuola. Per non dire delle code interminabili che ogni genitore si deve sobbarcare ogni anno per rastrellare tutto il bagaglio editoriale necessario ai figli.
Va da sé che ogni iniziativa per alleviare questa soma sulle spalle delle famiglie, magari tenendo conto anche delle esigenze delle piccole librerie locali che sono un patrimonio preziosissimo (si pensi alla Calabria, alla Basilicata o al Molise dove sono meno di una ogni 100 mila abitanti) è la benvenuta. E così è andata, infatti, con l'iniziativa delle Poste Italiane che, tra cori di consensi, hanno distribuito 5 milioni di locandine e avvisi vari per segnalare agli istituti scolastici e alle famiglie italiane la possibilità di ordinare i testi, via internet o via telefono, per poi comodamente riceverli a casa portati dal postino.
Con l'optional di poter rateizzare il pagamento in 12 mesi al tasso del 7.5%. Che non sarà basso, visto che il tetto massimo sarebbe il 7,77%, ma potrebbe aiutare molte famiglie a sopportare meglio l'impatto della spesa supplementare autunnale. Fin qui, tutto ok.
Ma il bello deve ancora arrivare. A chi hanno deciso di affidare l'operazione, infatti, il ministero della Pubblica Istruzione e le Poste Italiane? Voi direte: avranno fatto una gara d'appalto. Macché.
Avranno sentito gli editori? No, tranne uno: indovinate quale. Avranno consultato i librai? Neppure: «Manco una telefonata», spiega furente Rodrigo Diaz, presidente dell'Ali, l'Associazione librai italiani, «abbiamo saputo tutto a cose fatte e tutti i telegrammi mandati alla Moratti o a Letta non hanno avuto risposta. E' stata una cosa sporca». Avranno sondato il mercato per vedere chi è il più forte nel commercio di libri on-line? «Assolutamente no», risponde Mauro Zerbini, amministratore delegato di Ibs, gruppo Longanesi, «il nostro è il sito di questo tipo più visitato d'Italia, a giugno abbiamo avuto 991 mila contatti e nel 2004 abbiamo fatturato 13,2 milioni di euro. Ma non abbiamo avuto dal ministero o dalle poste neppure una telefonata. Neppure una. Abbiamo saputo tutto a cose fatte».
Ma allora, come è stato scelto il fornitore di tutto quel bendidio di libri? E' quello che chiede in una interrogazione, tra gli altri, il senatore Stefano Passigli. Il quale, oltre ad accusare la Moratti poiché «il suddetto servizio postula che Poste Italiane abbiano ottenuto dal ministero la lista delle adozioni dei testi con largo anticipo su tutte le librerie», ha anche presentato un esposto ad Antonio Catricalà, l'ex segretario generale di Palazzo Chigi nominato presidente dell'Autorità per la concorrenza e il mercato. Il fortunato fornitore prescelto per il businness è infatti «Bol». Una società di vendita di libri on-line che fattura meno della metà di Ibs (5,5 milioni contro 13,2), ha meno della metà dei contatti internet (a giugno 434 mila contro 991 mila) ma, per pura coincidenza, appartiene alla Mondadori. Cioè alla casa editrice di proprietà del «principale» di Letizia Moratti, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.
Che le Poste Italiane vogliano bene al capo del governo non è un mistero. Prima di questo piacerino, per dire, avevano già fatto un accordo per mettere a disposizione di Mediolanum, la banca del premier, i loro 14 mila sportelli col risultato di trasformare una banca virtuale, quale era fino ad allora quella presieduta da Ennio Doris, nell'istituto di credito con la maggiore copertura territoriale. Non bastasse, Massimo Sarmi, l'amministratore delegato etichettato come vicino ad An e in particolare a Gianfranco Fini, era arrivato al punto di invitare a Roma il capo del governo, poco prima di Natale, all'inaugurazione del più bello e avveniristico ufficio postale d'Italia. Un gioiello che ruotava intorno al Sistema Informatico Livelli Virtuali di Integrazione Operativa. Ma che meraviglia di acronimo: S.i.l.v.i.o.!
28.7.05
26.7.05
Se la licenza d´uccidere è un pericolo per tutti
STEFANO RODOTA' (Repubblica, oggi)
QUALI devono essere le "regole d´ingaggio" in situazioni d´emergenza? Questa espressione ci è divenuta familiare nei giorni drammatici dell´uccisione di Nicola Calipari e torna d´attualità dopo la morte a Londra di un giovane brasiliano, colpito dalla polizia e risultato poi del tutto estraneo al terrorismo. Quando è legittimo sparare? Si può rilasciare una "licenza di uccidere"?
Siamo così di fronte al punto estremo delle discussioni rilanciate dagli ultimi attentati. Non si tratta soltanto di chiedersi in quale misura la sicurezza possa giustificare limitazioni della libertà personale, della privacy, della libertà di circolazione o di comunicazione. È in questione il bene supremo, il rispetto della vita.
Il caso Calipari dev´essere ricordato perché, allora, l´attenzione si concentrò proprio sulle regole alle quali dovevano attenersi i soldati americani, sulla situazione ambientale e psicologica in cui si trovavano, sulla proporzionalità della loro reazione. E una giustificazione venne cercata proprio nel fatto che i militari americani si trovavano ad operare in una situazione di perenne minaccia, di difficoltà nel distinguere comportamenti normali e comportamenti sospetti di terrorismo.
Ma, allora come oggi, una conclusione del genere non può essere considerata appagante. Anche se fosse tutto vero quel che si dice per assolvere soldati americani e poliziotti londinesi, la gravità della situazione impone di non accettare l´accaduto come inevitabile, di considerare l´eventualità del ripetersi di fatti del genere e, quindi, di ragionare sui modi migliori per ridurre un rischio così incombente. Proprio perché viviamo in tempi tanto calamitosi, nessuno può girare la testa dall´altra parte, e assolversi pensando o dicendo che «ormai così va il mondo».
La questione delle regole esiste. Ma sappiamo che il vero problema è sempre quello del clima, del contesto in cui una regola deve poi essere applicata. Ecco perché, soprattutto quando ci si trova in situazioni estreme, bisogna accompagnare le norme con una cultura che possa minimizzarne gli effetti negativi.
Se si alzano i toni, se si invitano tutti, poliziotti e cittadini, a tenere sempre il dito sul grilletto, a sparare a vista al minimo sospetto, è fatale la nascita di un clima di allarme nel quale il verificarsi di "incidenti" diventa inevitabile. Se, invece, si mantiene fermo il criterio dell´assoluta eccezionalità di alcune forme di intervento, se si ribadiscono con precisione le modalità d´impiego delle armi, è probabile una riduzione al minimo dei possibili danni.
Un passo indietro, verso gli anni Settanta, ai tempi della legge Reale che introdusse norme che allargavano i casi di uso legittimo delle armi da parte delle forze di polizia. Dopo l´entrata in vigore di quella legge, si fu costretti a tenere una macabra contabilità, registrando i morti ammazzati a posti di blocco senza che, poi, fosse possibile fornire adeguate giustificazioni delle sparatorie. La legge non aveva solo attribuito un potere. Aveva legittimato una cultura della violenza che non produceva sicurezza, ma rischi per i cittadini, come accadde ad una delle tante vittime, un giovane medico romano, ucciso di notte su un lungotevere per non essersi fermato ad un alt di poliziotti in borghese che ben poteva aver scambiato per rapinatori.
Ecco dov´è il punto vero. Non dobbiamo pensare a regole per una partita a due, tra polizia e terroristi. Vi è un terzo soggetto, il cittadino, la cui sicurezza è invocata per introdurre norme d´emergenza che, poi, possono produrre pericoli proprio per chi dovrebbero difendere. Viviamo già in una situazione che sta trasformando tutti i cittadini in sospetti, grazie a controlli capillari e di massa che vanno dalla videosorveglianza alla lunghissima conservazione dei dati riguardanti le telefonate e la posta elettronica. Dobbiamo evitare una ulteriore deriva, che potrebbe portare alla trasformazione del cittadino in bersaglio.
Torniamo alle regole d´ingaggio. Esistono già norme precise sull´uso legittimo delle armi che consentono alle forze di polizia di fronteggiare anche la nuova situazione creata dal terrorismo. Generalizziamo, se mai, informazioni ai cittadini sui comportamenti da tenere, come già si fa per i bagagli in stazioni ed aeroporti. Lasciamo l´invocazione della licenza d´uccidere a chi non spinge l´orizzonte della propria cultura al di là dei titoli dei film di James Bond. Riflettiamo piuttosto sui guasti culturali e sociali che possono essere prodotti dalle nuove norme sulla legittima difesa, che privatizzano pericolosamente l´uso della forza e, così facendo, aumentano il rischio di conflitti.
Poiché, poi, si è tanto parlato, a proposito e sproposito, di cultura della vita come frontiera invalicabile, teniamola a mente anche in questa situazione. Proprio il terrorismo ci mette di fronte a una radicale negazione della vita, che annienta attentatori e vittime. Guai se, in un impeto di reazione, ci lasciassimo coinvolgere in questa barbarie.
STEFANO RODOTA' (Repubblica, oggi)
QUALI devono essere le "regole d´ingaggio" in situazioni d´emergenza? Questa espressione ci è divenuta familiare nei giorni drammatici dell´uccisione di Nicola Calipari e torna d´attualità dopo la morte a Londra di un giovane brasiliano, colpito dalla polizia e risultato poi del tutto estraneo al terrorismo. Quando è legittimo sparare? Si può rilasciare una "licenza di uccidere"?
Siamo così di fronte al punto estremo delle discussioni rilanciate dagli ultimi attentati. Non si tratta soltanto di chiedersi in quale misura la sicurezza possa giustificare limitazioni della libertà personale, della privacy, della libertà di circolazione o di comunicazione. È in questione il bene supremo, il rispetto della vita.
Il caso Calipari dev´essere ricordato perché, allora, l´attenzione si concentrò proprio sulle regole alle quali dovevano attenersi i soldati americani, sulla situazione ambientale e psicologica in cui si trovavano, sulla proporzionalità della loro reazione. E una giustificazione venne cercata proprio nel fatto che i militari americani si trovavano ad operare in una situazione di perenne minaccia, di difficoltà nel distinguere comportamenti normali e comportamenti sospetti di terrorismo.
Ma, allora come oggi, una conclusione del genere non può essere considerata appagante. Anche se fosse tutto vero quel che si dice per assolvere soldati americani e poliziotti londinesi, la gravità della situazione impone di non accettare l´accaduto come inevitabile, di considerare l´eventualità del ripetersi di fatti del genere e, quindi, di ragionare sui modi migliori per ridurre un rischio così incombente. Proprio perché viviamo in tempi tanto calamitosi, nessuno può girare la testa dall´altra parte, e assolversi pensando o dicendo che «ormai così va il mondo».
La questione delle regole esiste. Ma sappiamo che il vero problema è sempre quello del clima, del contesto in cui una regola deve poi essere applicata. Ecco perché, soprattutto quando ci si trova in situazioni estreme, bisogna accompagnare le norme con una cultura che possa minimizzarne gli effetti negativi.
Se si alzano i toni, se si invitano tutti, poliziotti e cittadini, a tenere sempre il dito sul grilletto, a sparare a vista al minimo sospetto, è fatale la nascita di un clima di allarme nel quale il verificarsi di "incidenti" diventa inevitabile. Se, invece, si mantiene fermo il criterio dell´assoluta eccezionalità di alcune forme di intervento, se si ribadiscono con precisione le modalità d´impiego delle armi, è probabile una riduzione al minimo dei possibili danni.
Un passo indietro, verso gli anni Settanta, ai tempi della legge Reale che introdusse norme che allargavano i casi di uso legittimo delle armi da parte delle forze di polizia. Dopo l´entrata in vigore di quella legge, si fu costretti a tenere una macabra contabilità, registrando i morti ammazzati a posti di blocco senza che, poi, fosse possibile fornire adeguate giustificazioni delle sparatorie. La legge non aveva solo attribuito un potere. Aveva legittimato una cultura della violenza che non produceva sicurezza, ma rischi per i cittadini, come accadde ad una delle tante vittime, un giovane medico romano, ucciso di notte su un lungotevere per non essersi fermato ad un alt di poliziotti in borghese che ben poteva aver scambiato per rapinatori.
Ecco dov´è il punto vero. Non dobbiamo pensare a regole per una partita a due, tra polizia e terroristi. Vi è un terzo soggetto, il cittadino, la cui sicurezza è invocata per introdurre norme d´emergenza che, poi, possono produrre pericoli proprio per chi dovrebbero difendere. Viviamo già in una situazione che sta trasformando tutti i cittadini in sospetti, grazie a controlli capillari e di massa che vanno dalla videosorveglianza alla lunghissima conservazione dei dati riguardanti le telefonate e la posta elettronica. Dobbiamo evitare una ulteriore deriva, che potrebbe portare alla trasformazione del cittadino in bersaglio.
Torniamo alle regole d´ingaggio. Esistono già norme precise sull´uso legittimo delle armi che consentono alle forze di polizia di fronteggiare anche la nuova situazione creata dal terrorismo. Generalizziamo, se mai, informazioni ai cittadini sui comportamenti da tenere, come già si fa per i bagagli in stazioni ed aeroporti. Lasciamo l´invocazione della licenza d´uccidere a chi non spinge l´orizzonte della propria cultura al di là dei titoli dei film di James Bond. Riflettiamo piuttosto sui guasti culturali e sociali che possono essere prodotti dalle nuove norme sulla legittima difesa, che privatizzano pericolosamente l´uso della forza e, così facendo, aumentano il rischio di conflitti.
Poiché, poi, si è tanto parlato, a proposito e sproposito, di cultura della vita come frontiera invalicabile, teniamola a mente anche in questa situazione. Proprio il terrorismo ci mette di fronte a una radicale negazione della vita, che annienta attentatori e vittime. Guai se, in un impeto di reazione, ci lasciassimo coinvolgere in questa barbarie.
25.7.05
«Abbiamo coccolato troppo gli islamici»
La mamma di Theo Van Gogh: «Il problema è che loro non hanno avuto l’Illuminismo»
dal Corriere della Sera di ieri
L’AJA— «Theo ha rappresentato per l’Olanda quel che le bombe di Madrid e Londra sono state per Spagna e Inghilterra», dice la signora Anneke. Suo figlio, Theo Van Gogh, è stato ammazzato in strada lo scorso 2 novembre dall’islamico Mohammed Bouyeri. «L’Europa ha coccolato gli islamici che arrivavano qui. Mio figlio ebbe le prime minacce di morte nel ’97, dopo aver scritto che un bimbo olandese riceve la metà dei sussidi di un immigrato. Abbiamo sempre dato senza chiedere nulla, ci vergognavamo di farlo».
Suo figlio è stato il canarino nella miniera. Ad Anneke Van Gogh piace questa immagine. Iminatori che camminano portando avanti un canarino in una gabbia. «Quando l’uccellino cade stecchito, significa che c’è pericolo, i gas hanno invaso i tunnel ed è ora di correre al riparo. Credo che la storia di Theo sia quella dove si vede di più qual è la posta in gioco per l’Europa ». Theo Van Gogh, un canarino che era arrivato a pesare quasi due quintali, prima di festeggiare la nascita del suo Lieuwe facendosi mettere una valvola nello stomaco per perdere peso. Wassenaar è un posto per ricchi. Solo ville stupende, ognuna con il suo parco e il suo laghetto, a una decina di chilometri dall’Aja. Anneke e Johan Van Gogh hanno sempre vissuto qui. Nel salotto c’è un pendolo che quando suona copre le parole, sopra al camino c’è un Gauguin «apocrifo », ultimo superstite della collezione di famiglia venduta nel 1959 all’omonima Fondazione, con i quadri di Vincent e le lettere di suo fratello Theo, il nonno di Johan. «Eppure — dice Anneke —, è un omaggio a un altro Theo, al fratello di mio marito, uno dei pochi partigiani olandesi, che venne ucciso dai nazisti». Silenzio, solo il rumore del pendolo. «In fondo, i due Theo della famiglia sono morti difendendo la libertà di espressione».
Anneke Van Gogh è una donna dai capelli bianchi e gli occhi chiari. Lei e Johan si sono conosciuti a un convegno del PvdA, il partito laburista olandese, del quale all’epoca entrambi erano militanti. Lui più vecchio, è nato nel 1922, ha passato anni a studiare i comunismi europei. Lei non ha mai sfruttato la sua laurea in medicina perché nel 1957, quando aveva 21 anni, è arrivato Theo, seguito poi da due sorelle. Una olandese colta e di sinistra che due settimane fa in un’aula di tribunale ha guardato in faccia l’assassino di suo figlio. «Uno che viveva con il sussidio di disoccupazione pagato anche da me—dice con voce neutra — e quindi ha avuto tempo per preparare il suo lavoro». Theo Van Gogh è stato ammazzato lo scorso 2 novembre da Mohammed Bouyeri, un marocchino nato in Olanda che nel giro di due anni è passato dai film americani al radicalismo islamico. Van Gogh da anni criticava l’Islam con i suoi articoli. Il documentario Submission, denuncia della condizione della donna musulmana, gli è costato la vita. In aula, Bouyeri ha detto alla signora Van Gogh di non provare pietà per lei. Martedì verrà condannato all’ergastolo.Ma Anneke Van Gogh sa bene che Bouyeri è soltanto il sintomo di una malattia alla quale è difficile rispondere.
«Theo ha rappresentato per l’Olanda quel che le bombe di Madrid e Londra sono state per Spagna e Inghilterra. L’Europa ha coccolato gli islamici che arrivavano qui. Mio figlio ebbe le prime minacce di morte nel ’97, dopo aver scritto che a parità di reddito familiare un bimbo olandese riceve la metà dei sussidi per l’asilo che finiscono nelle tasche del figlio di un immigrato. Ma era vero. Qui per loro sono gratis anche i corsi di bicicletta, ci illudiamo che servano all’integrazione. Abbiamo sempre dato senza chiedere nulla, ci vergognavamo di farlo». Anneke Van Gogh non sempre era d’accordo con suo figlio. Lui sosteneva che Israele era l’unica vera democrazia in Medio Oriente, lei ancora oggi non la pensa così. «Ma credo che Theo avesse ragione nel temere la sopraffazione della nostra cultura. Qui nel ‘600 e nel ‘700 pubblicavamo Molière, Victor Hugo e Swift, autori proibiti nelle loro nazioni. L’assassino di Theo ha detto che non accetta nessuna discussione, nessun confronto. Solo la legge del Corano. Se sono in tanti a pensarla così, e mi sembra che lo siano, le prospettive sono brutte». La madre di Theo Van Gogh si alza e da un cassetto pieno di ritagli di giornale estrae una foto in bianco e nero. E’ la facciata della casa di Wassenaar dove vivevano fino a undici anni fa. Appese alle finestre delle stanze dei figli, ci sono i manifesti elettorali di altrettanti partiti: i laburisti per Theo, liberali e conservatori per le sue sorelle.
E’ orgogliosa di questa foto. La vede come un simbolo dell’apertura di vedute della sua famiglia. «L’Islam non ha mai avuto l’Illuminismo. È la differenza tra noi e loro. È una religione pietrificata. In Occidente a volte si critica e si interpreta la Bibbia, in alcuni Paesi islamici vigono ancora le leggi volute da Maometto. Senza pregiudizi: ma non è una idiozia?». Sul luogo dove è stato ucciso Theo Van Gogh non ci sarà nulla a ricordare ciò che è successo. Lo ha deciso il consiglio di quartiere. «Hanno detto: bisogna tenere conto delle varie sensibilità degli abitanti. Tradotto: non vogliamo urtare i marocchini della zona. Metteranno una piccola lapide in un parco poco distante. Così non si vede troppo. In piccolo, è l’atteggiamento dell’Europa nei confronti dell’Islam». La morte di Theo in fondo rappresenta una (amara) ironia, sostiene Anneke: «Ha dimostrato che aveva ragione. Gli altri pensavano quel che lui scriveva. Mail fatto che le persone abbiano problemi a dire quello che pensano realmente dell’Islam, dimostra che non siamo messi bene. Che stiamo indietreggiando. Come sosteneva mio figlio». Il pendolo suona. I coniugi Van Gogh si alzano. Tra poco andranno nella loro casa sul mare, che Theo amava tanto. Ieri sarebbe stato il suo quarantottesimo compleanno. Anneke e Johan hanno deciso di festeggiare lo stesso.
Marco Imarisio
24 luglio 2005
La mamma di Theo Van Gogh: «Il problema è che loro non hanno avuto l’Illuminismo»
dal Corriere della Sera di ieri
L’AJA— «Theo ha rappresentato per l’Olanda quel che le bombe di Madrid e Londra sono state per Spagna e Inghilterra», dice la signora Anneke. Suo figlio, Theo Van Gogh, è stato ammazzato in strada lo scorso 2 novembre dall’islamico Mohammed Bouyeri. «L’Europa ha coccolato gli islamici che arrivavano qui. Mio figlio ebbe le prime minacce di morte nel ’97, dopo aver scritto che un bimbo olandese riceve la metà dei sussidi di un immigrato. Abbiamo sempre dato senza chiedere nulla, ci vergognavamo di farlo».
Suo figlio è stato il canarino nella miniera. Ad Anneke Van Gogh piace questa immagine. Iminatori che camminano portando avanti un canarino in una gabbia. «Quando l’uccellino cade stecchito, significa che c’è pericolo, i gas hanno invaso i tunnel ed è ora di correre al riparo. Credo che la storia di Theo sia quella dove si vede di più qual è la posta in gioco per l’Europa ». Theo Van Gogh, un canarino che era arrivato a pesare quasi due quintali, prima di festeggiare la nascita del suo Lieuwe facendosi mettere una valvola nello stomaco per perdere peso. Wassenaar è un posto per ricchi. Solo ville stupende, ognuna con il suo parco e il suo laghetto, a una decina di chilometri dall’Aja. Anneke e Johan Van Gogh hanno sempre vissuto qui. Nel salotto c’è un pendolo che quando suona copre le parole, sopra al camino c’è un Gauguin «apocrifo », ultimo superstite della collezione di famiglia venduta nel 1959 all’omonima Fondazione, con i quadri di Vincent e le lettere di suo fratello Theo, il nonno di Johan. «Eppure — dice Anneke —, è un omaggio a un altro Theo, al fratello di mio marito, uno dei pochi partigiani olandesi, che venne ucciso dai nazisti». Silenzio, solo il rumore del pendolo. «In fondo, i due Theo della famiglia sono morti difendendo la libertà di espressione».
Anneke Van Gogh è una donna dai capelli bianchi e gli occhi chiari. Lei e Johan si sono conosciuti a un convegno del PvdA, il partito laburista olandese, del quale all’epoca entrambi erano militanti. Lui più vecchio, è nato nel 1922, ha passato anni a studiare i comunismi europei. Lei non ha mai sfruttato la sua laurea in medicina perché nel 1957, quando aveva 21 anni, è arrivato Theo, seguito poi da due sorelle. Una olandese colta e di sinistra che due settimane fa in un’aula di tribunale ha guardato in faccia l’assassino di suo figlio. «Uno che viveva con il sussidio di disoccupazione pagato anche da me—dice con voce neutra — e quindi ha avuto tempo per preparare il suo lavoro». Theo Van Gogh è stato ammazzato lo scorso 2 novembre da Mohammed Bouyeri, un marocchino nato in Olanda che nel giro di due anni è passato dai film americani al radicalismo islamico. Van Gogh da anni criticava l’Islam con i suoi articoli. Il documentario Submission, denuncia della condizione della donna musulmana, gli è costato la vita. In aula, Bouyeri ha detto alla signora Van Gogh di non provare pietà per lei. Martedì verrà condannato all’ergastolo.Ma Anneke Van Gogh sa bene che Bouyeri è soltanto il sintomo di una malattia alla quale è difficile rispondere.
«Theo ha rappresentato per l’Olanda quel che le bombe di Madrid e Londra sono state per Spagna e Inghilterra. L’Europa ha coccolato gli islamici che arrivavano qui. Mio figlio ebbe le prime minacce di morte nel ’97, dopo aver scritto che a parità di reddito familiare un bimbo olandese riceve la metà dei sussidi per l’asilo che finiscono nelle tasche del figlio di un immigrato. Ma era vero. Qui per loro sono gratis anche i corsi di bicicletta, ci illudiamo che servano all’integrazione. Abbiamo sempre dato senza chiedere nulla, ci vergognavamo di farlo». Anneke Van Gogh non sempre era d’accordo con suo figlio. Lui sosteneva che Israele era l’unica vera democrazia in Medio Oriente, lei ancora oggi non la pensa così. «Ma credo che Theo avesse ragione nel temere la sopraffazione della nostra cultura. Qui nel ‘600 e nel ‘700 pubblicavamo Molière, Victor Hugo e Swift, autori proibiti nelle loro nazioni. L’assassino di Theo ha detto che non accetta nessuna discussione, nessun confronto. Solo la legge del Corano. Se sono in tanti a pensarla così, e mi sembra che lo siano, le prospettive sono brutte». La madre di Theo Van Gogh si alza e da un cassetto pieno di ritagli di giornale estrae una foto in bianco e nero. E’ la facciata della casa di Wassenaar dove vivevano fino a undici anni fa. Appese alle finestre delle stanze dei figli, ci sono i manifesti elettorali di altrettanti partiti: i laburisti per Theo, liberali e conservatori per le sue sorelle.
E’ orgogliosa di questa foto. La vede come un simbolo dell’apertura di vedute della sua famiglia. «L’Islam non ha mai avuto l’Illuminismo. È la differenza tra noi e loro. È una religione pietrificata. In Occidente a volte si critica e si interpreta la Bibbia, in alcuni Paesi islamici vigono ancora le leggi volute da Maometto. Senza pregiudizi: ma non è una idiozia?». Sul luogo dove è stato ucciso Theo Van Gogh non ci sarà nulla a ricordare ciò che è successo. Lo ha deciso il consiglio di quartiere. «Hanno detto: bisogna tenere conto delle varie sensibilità degli abitanti. Tradotto: non vogliamo urtare i marocchini della zona. Metteranno una piccola lapide in un parco poco distante. Così non si vede troppo. In piccolo, è l’atteggiamento dell’Europa nei confronti dell’Islam». La morte di Theo in fondo rappresenta una (amara) ironia, sostiene Anneke: «Ha dimostrato che aveva ragione. Gli altri pensavano quel che lui scriveva. Mail fatto che le persone abbiano problemi a dire quello che pensano realmente dell’Islam, dimostra che non siamo messi bene. Che stiamo indietreggiando. Come sosteneva mio figlio». Il pendolo suona. I coniugi Van Gogh si alzano. Tra poco andranno nella loro casa sul mare, che Theo amava tanto. Ieri sarebbe stato il suo quarantottesimo compleanno. Anneke e Johan hanno deciso di festeggiare lo stesso.
Marco Imarisio
24 luglio 2005
22.7.05
Paradossi di guerra
Contrordine di Alessandro Robecchi (Il Manifesto - 10 luglio 2005)
Cinismo per cinismo, orrore per orrore - tanto per essere in sintonia coi tempi - quando leggeremo sui giornali un trafiletto minuscolo dal titolo "Londra. Al Quaeda ammette vittime civili"? Dopo Londra (e dopo Madrid, e dopo Ground Zero) non ci sembrerebbe un titolino simile uno schiaffo su una ferita aperta, addirittura una folle irrisione dei morti e dei feriti? E non saremmo offesi forse anche dalle dimensioni della notizia, un piccolo trafiletto a una colonna, nelle pagine interne, camuffato insieme ad altre "varie dal mondo"? Non ne proveremmo vergogna e dispetto? Certo che sì. Eppure quella notizia c'è tutti i giorni, arriva puntuale qualche ora (o giorno) dopo una strage dopo silenzi e depistagli, dopo mezze ammissioni e facce finto-contrite. Iraq: il Pentagono ammette vittime civili. Afghanistan: il Pentagono ammette vittime civili. Ammette "abusi" e "tragici errori", ammette di aver bombardato un matrimonio, o un villaggio di contadini. Oppure (altro titolo che vediamo tutti i giorni): "Il Pentagono apre un'inchiesta". E ancora: "Accerterà le responsabilità". E poi, andiamo, non si riesce a metter le manette ai soldati americani che qui, attorno alle basi del Veneto, scazzottano gli indigeni davanti alle discoteche o violentano ragazzine del luogo, figurarsi tredici spie della Cia, figurarsi il soldato sul campo a Baghdad. Nemmeno uno che spara il colpo di grazia a un ferito in una moschea, ripreso e rimandato da tutte le televisioni del pianeta, viene punito.
Anzi "dopo attenta analisi", si dice che ha rispettato le regole d'ingaggio. insomma ha fatto bene.
Ora si capirà che il cinismo c'è ma c'entra fino a un certo punto, così come fino a un certo punto c'entrano i discorsi dei grandi della terra su democrazia e violenza. Tutti hanno visto Tony Blair, spalleggiato a falange dai potenti del mondo, fare un bel discorso, bello davvero, sulla violenza e la volontà di sconfiggerla. Discorso impeccabile, condivisibile e da sottoscrivere subito, se non fosse stato pronunciato da uno degli uomini più violenti del mondo, alle cui spalle stava serissimo Bush. l'uomo più violento del mondo, con accanto Putin, il violentissimo, e Berhisconi che ai due più violenti offre le sue truppe per supportare e mascherare quelle violenze.
Tutti sanno che per sconfiggere qualcosa, qualsiasi cosa, dal cancro a una semplice infiammazione, da un problema economico a una rissa, tutto lo schifo del mondo compresa Al Quaeda, bisogna circoscrivere il male. Arginarlo. Chiuderlo in un angolino, esser sicuri che sia lui, e poi menare come fabbri. Occorre che il resto del corpo sia sano. Occorre non fare errori e picchiare forte soltanto i veri colpevoli, non tutti quanti, non sparare nel mucchio. Ecco: con il terrorismo è stato fatto esattamente il contrario. Invece di stanare i cattivi (che se la sono data a gambe in motoretta, o che rimangono lassù sulle montagne e ogni tanto ci mandano un filmino a fare marameo), si è allargato il campo, e ogni giorno lo si allarga di più. Si è attaccato l'Iraq, che terroristi non ne aveva, facendone la patria elettiva e la fabbrica mondiale. Si è bombardato l'Afghanistan con quelle bombe "taglia-margherite" che uccidevano tutto nel giro di chilometri, e in quel tutto soprattutto civili. Si sono popolate le cronache di torture, esecuzioni sommarie, violenze gratuite. Si è pisciato sul Corano e si è sparato alla nuca a innocenti anonimi (e anche meno anonimi, come il cugino del diplomatico iracheno all'Onu che con i marines voleva "esercitare il suo inglese": dead). E insieme a tutto questo, però, si vorrebbe passare per i buoni, quelli che hanno ragione e che vogliono diffondere i loro "valori", che esportano libertà e democrazia, in un crescendo fallaciano di violenza. Chiunque direbbe che non va bene, così, che è il modo migliore per incendiare invece che spegnere, per rischiare di più tutti, sempre di più e sempre più tutti (anche noi, quindi). A uno dei suoi giovani contadini Cesare Pavese fa dire: "Non può finire, quando la guerra è dappertutto come adesso, non può finire mai più". E questa pare la situazione, oggi: due poteri specularmente folli e assetati di sangue e qualche miliardo di potenziali vittime civili.
Contrordine di Alessandro Robecchi (Il Manifesto - 10 luglio 2005)
Cinismo per cinismo, orrore per orrore - tanto per essere in sintonia coi tempi - quando leggeremo sui giornali un trafiletto minuscolo dal titolo "Londra. Al Quaeda ammette vittime civili"? Dopo Londra (e dopo Madrid, e dopo Ground Zero) non ci sembrerebbe un titolino simile uno schiaffo su una ferita aperta, addirittura una folle irrisione dei morti e dei feriti? E non saremmo offesi forse anche dalle dimensioni della notizia, un piccolo trafiletto a una colonna, nelle pagine interne, camuffato insieme ad altre "varie dal mondo"? Non ne proveremmo vergogna e dispetto? Certo che sì. Eppure quella notizia c'è tutti i giorni, arriva puntuale qualche ora (o giorno) dopo una strage dopo silenzi e depistagli, dopo mezze ammissioni e facce finto-contrite. Iraq: il Pentagono ammette vittime civili. Afghanistan: il Pentagono ammette vittime civili. Ammette "abusi" e "tragici errori", ammette di aver bombardato un matrimonio, o un villaggio di contadini. Oppure (altro titolo che vediamo tutti i giorni): "Il Pentagono apre un'inchiesta". E ancora: "Accerterà le responsabilità". E poi, andiamo, non si riesce a metter le manette ai soldati americani che qui, attorno alle basi del Veneto, scazzottano gli indigeni davanti alle discoteche o violentano ragazzine del luogo, figurarsi tredici spie della Cia, figurarsi il soldato sul campo a Baghdad. Nemmeno uno che spara il colpo di grazia a un ferito in una moschea, ripreso e rimandato da tutte le televisioni del pianeta, viene punito.
Anzi "dopo attenta analisi", si dice che ha rispettato le regole d'ingaggio. insomma ha fatto bene.
Ora si capirà che il cinismo c'è ma c'entra fino a un certo punto, così come fino a un certo punto c'entrano i discorsi dei grandi della terra su democrazia e violenza. Tutti hanno visto Tony Blair, spalleggiato a falange dai potenti del mondo, fare un bel discorso, bello davvero, sulla violenza e la volontà di sconfiggerla. Discorso impeccabile, condivisibile e da sottoscrivere subito, se non fosse stato pronunciato da uno degli uomini più violenti del mondo, alle cui spalle stava serissimo Bush. l'uomo più violento del mondo, con accanto Putin, il violentissimo, e Berhisconi che ai due più violenti offre le sue truppe per supportare e mascherare quelle violenze.
Tutti sanno che per sconfiggere qualcosa, qualsiasi cosa, dal cancro a una semplice infiammazione, da un problema economico a una rissa, tutto lo schifo del mondo compresa Al Quaeda, bisogna circoscrivere il male. Arginarlo. Chiuderlo in un angolino, esser sicuri che sia lui, e poi menare come fabbri. Occorre che il resto del corpo sia sano. Occorre non fare errori e picchiare forte soltanto i veri colpevoli, non tutti quanti, non sparare nel mucchio. Ecco: con il terrorismo è stato fatto esattamente il contrario. Invece di stanare i cattivi (che se la sono data a gambe in motoretta, o che rimangono lassù sulle montagne e ogni tanto ci mandano un filmino a fare marameo), si è allargato il campo, e ogni giorno lo si allarga di più. Si è attaccato l'Iraq, che terroristi non ne aveva, facendone la patria elettiva e la fabbrica mondiale. Si è bombardato l'Afghanistan con quelle bombe "taglia-margherite" che uccidevano tutto nel giro di chilometri, e in quel tutto soprattutto civili. Si sono popolate le cronache di torture, esecuzioni sommarie, violenze gratuite. Si è pisciato sul Corano e si è sparato alla nuca a innocenti anonimi (e anche meno anonimi, come il cugino del diplomatico iracheno all'Onu che con i marines voleva "esercitare il suo inglese": dead). E insieme a tutto questo, però, si vorrebbe passare per i buoni, quelli che hanno ragione e che vogliono diffondere i loro "valori", che esportano libertà e democrazia, in un crescendo fallaciano di violenza. Chiunque direbbe che non va bene, così, che è il modo migliore per incendiare invece che spegnere, per rischiare di più tutti, sempre di più e sempre più tutti (anche noi, quindi). A uno dei suoi giovani contadini Cesare Pavese fa dire: "Non può finire, quando la guerra è dappertutto come adesso, non può finire mai più". E questa pare la situazione, oggi: due poteri specularmente folli e assetati di sangue e qualche miliardo di potenziali vittime civili.
L'obiettivo qualunque
di ADRIANO SOFRI (Repubblica - 9 luglio 2005)
CI SONO pensieri così elementari che non vengono più pensati, se non quando la tela della vita ordinaria si strappa. Uno è questo: che la convivenza umana si fonda sul presupposto, appunto scontato e non più pensato, che fra gli umani ci sia una simpatia reciproca, una solidarietà e una compassione preliminari. Se ne accorgono, gli individui o le comunità, quando la disgrazia li bracca o le assedia e costringe a guardarsi le spalle in ogni atto della vita quotidiana, a paventare un assassino in ogni passante che attraversi la loro strada.
Se andate ad ammirare le cascate di Iguazù, o il panorama del mondo dal Windows on the World della Torre Nord di Manhattan o il paesaggio di Pisa dall'anello più alto della Torre pendente, dovete confidare che i turisti che si sporgono accanto a voi dal parapetto, che stanno dietro di voi nella fila, non vi diano una spinta per buttarvi di sotto. Che siano, benché sconosciuti, anzi a maggior ragione perché sconosciuti, vostri simili, magari non inclini a volervi bene, ma senz'altro alieni dalla tentazione di farvi del male o di sterminarvi. Senza questa simpatia preventiva e inavvertita - la chiamerei "naturale", se non fosse essa stessa il frutto di una seconda natura che faticò tanto a svolgersi, ed è sempre sul punto d'esser sopraffatta - la convivenza umana non ci sarebbe, e tanto meno ci sarebbero le città, congegni così delicati e vulnerabili che si può viverci solo facendosi mutuamente credito di una benevolenza, e almeno di una non belligeranza.
Il terrorismo ha in odio quella simpatia. La sua chiave di volta è la gratuità. Per questo predilige i luoghi più comuni e affabili della mobilità e della cordialità urbana: l'autobus, la metropolitana, il treno, un bar, un grande magazzino... Lo si razionalizza fin troppo prestandogli l'intenzione di rendere insicuri e angosciosi i gesti della vita ordinaria. Prima ancora, il terrore si sazia dei bersagli non scelti, le vittime colpite nel mucchio, alla cieca, fossero pure i propri correligionari, i propri connazionali, i propri stessi famigliari.
L'obiettivo più fortuito e qualunque è l'obiettivo preferito. Non i grandi della terra, non la fotografia di gruppo del G8 o di qualunque altra potenza, che servono ormai a moltiplicare l'eco dell'esplosione: i bersagli veri sono i corpi bruciati o sbrindellati alla rinfusa nei vagoni, le città sventrate e infartuate. (Nell'osceno e terribile falso dei "Protocolli dei Savi Anziani di Sion", del resto perenne bestseller nei paesi arabi, e non solo, il paragrafo intitolato "Il finimondo" recitava: "In quel tempo tutte le città avranno ferrovie metropolitane e passaggi sotterranei: da questi faremo saltare in aria tutte le città del mondo, insieme alle loro istituzioni e ai loro documenti". Attribuisci al fantasma del tuo nemico odiato i disegni più nefandi, e mettili tu in atto. Mancava ancora un secolo alla Tokyo del gas nervino, quasi un secolo e mezzo alla mattina di Londra).
È vero che c'è una guerra del terrore. E che i suoi nemici giurati sono le donne e gli uomini - i cittadini dell'Occidente, di cui riparlava qui ieri Ezio Mauro: e dunque agli uomini e alle donne spetta anche di resistere ai guerrieri del terrore, di temerli e disprezzarli, perché sono vigliacchi e ottusi e spregevoli. Meno vera è la dichiarazione che "siamo in guerra", perché non si ricorda abbastanza dell'enorme differenza che separa ancora il tempo delle nostre città dal tempo di guerra. E perché la "guerra al terrorismo" non è l'inevitabile complemento logico e morale della "guerra del terrorismo", almeno non quando voglia coincidere con la guerra mossa all'Iraq, o con l'ideale della guerra per imporre la democrazia.
La risposta al terrorismo delle bombe nella metropolitana o dei kamikaze sugli autobus non ha bisogno tanto di parole grosse (noi ne abbiamo psicologicamente bisogno, e la più grossa che conosciamo resta quella: guerra) quanto di fatti. La polizia - parola cittadina per eccellenza - non fa la guerra se non per metafora, ma non è esonerata dai fatti, né da fatti altrettanto o più efficaci.
Ancora Mauro fa bene a ricordare che l'11 settembre non c'era la guerra in Iraq. Ormai c'è, e il suo futuro è la responsabilità ineludibile di chi l'aveva appoggiata come di chi la avversò. Questo non toglie che in ogni momento se ne debba aggiornare il bilancio, lezione per il futuro, e insieme verifica del punto cui siamo. Il bilancio si è amaramente aggravato con l'esito delle elezioni iraniane. E anche, temo, con i dati secondo cui fra i terroristi in Iraq i non iracheni sono la gran maggioranza.
Quei dati per un verso segnalano la relativa estraneità del terrorismo al paese, e confermano che la più vera e tenace resistenza vi viene dalle file di poliziotti e miliziani, in servizio o aspiranti, decimati dalle autobomba e dai kamikaze. Per l'altro, danno l'idea di un'internazionale del terrore in cui il richiamo ideologico del fanatismo islamista prevale di lunga su quello nazionale o etnico. Nel grembo della Londra cui a buon diritto Blair aveva rivendicato il giorno prima, festeggiando l'assegnazione delle Olimpiadi, il primato dell'universalismo e della mescolanza di culture e di genti, cresce anche l'internazionale islamista e terrorista: non la meta di emissari venuti da montagne e caverne remote, ma l'altra Londra dell'odio e della vendetta.
È vero che l'Europa tiene la testa voltata altrove, mentre nel mondo, e nelle sue stesse belle città, il terrorismo islamista affila i coltelli del sacrificio? È vero. Non tanto (non più, almeno), per quegli antiglobalisti militanti che a distanza di anni continuano a farsi un punto d'onore di piantare la bandierina oltre la linea rossa. Non sono più tanti, e sono eclissati nello spazio di una mattina dalla carneficina terrorista. "Ragazzini, lasciateci lavorare". Spariti di colpo. Le armi sequestrate nei loro accampamenti, dicono le cronache, erano "sbarre di ferro, asce, fionde, una sega e 90 litri di olio da cucina, che avrebbero potuto essere usati contro i cavalli".
Contro i cavalli. Vi ricordate? Già a Genova si era detto che fosse stata ventilata da terroristi islamisti l'incursione di un aereo suicida dentro il Palazzo del G8, mentre gli assedianti no global violavano la linea rossa con le corazze di gommapiuma. I dirigenti altromondialisti protestano - a ragione - che il terrorismo mette a repentaglio le loro aspirazioni e le loro conquiste. Avrebbero ancora più ragione se protestassero, prima che in nome dei propri obiettivi (che spesso condivido), in nome dell'abitudine a salire su un autobus, a prendere una metropolitana, ad affacciarsi da un parapetto panoramico. Come tutti.
A proposito di questa Europa e delle sue corte furbizie, c'è una coincidenza cui non voglio rinunciare: è di domani il decimo anniversario dello sterminio di Srebrenica. Troverete forse forzata o impropria la sua evocazione in questo contesto: interrogatevi, e scoprirete, temo, che il fastidio viene dall'irrilevanza delle vite dei disgraziati ammucchiati in quel luglio nell'enclave internazionalmente protetta di Srebrenica, e là massacrati - in ottomila, o forse diecimila. Gente povera, già fuggita e spaventata. Il legame c'è.
L'Europa, che aveva in solido e partitamente - il francese generale Morillon, e tanti altri - solennemente garantito la sicurezza di quel popolo, lasciò compiersi lo sterminio, il più vasto e feroce dopo Auschwitz, e quanto più visibile!, senza muovere un dito, e anzi voltando la testa. Schermi europei trasmisero la carezza di Mladic al bambino terrorizzato, un momento prima che desse inizio al mattatoio. Ufficiali olandesi dell'Onu brindarono con Mladic, e poi assistettero inerti all'orrore. L'Olanda, che ha preso una parte così importante nella rivelazione dell'anima profonda d'Europa, da Pym Fortuyn a Theo Van Gogh, al referendum sul trattato costituzionale, aveva conosciuto prima, benché troppi anni dopo la vergogna, le dimissioni del proprio governo, per la macchia di Srebrenica.
Nel resto d'Europa non si è dimesso neanche un caporale di giornata. Morale a parte, una lezione politica è che l'Europa non è cedevole fino alla cecità o alla viltà solo di fronte all'islam: perché quelle migliaia di trucidati di Srebrenica erano europei (e slavi) di fede musulmana, e i loro carnefici erano europei (e slavi) di fede cristiana ortodossa, e il film agghiacciante dei boia amatori ci ha appena mostrato il pope serbista che li benediceva alla partenza per la strage. Anche di immagini come queste occorre serbare memoria quando si discuta della menzione delle radici cristiane nella carta d'identità europea. C'è un'accezione del nome di cristiano cui una persona perbene, credente o no, e in qualunque fede, non saprebbe a nessun costo rinunciare. Tuttavia non è la sola. Bisogna tenerne conto, no?
La benedizione del pope serbista Gavrilo agli assassini era "anticristiana" o no? Il terrorismo di Londra, o l'assassinio del diplomatico egiziano, "amico degli ebrei", in Iraq, sono anticristiani o anche antiebraici e anche anti-islamici? Certo che il terrorismo che muove guerra all'Occidente e alla libertà delle sue donne e delle sue città è islamista, ma i suoi nemici e le sue vittime sono all'ingrosso anche, se non soprattutto, i musulmani renitenti alla sua leva.
La risposta deve ancora e sempre distinguere. Distinguere non vuol dire affatto cedere. Il terrorismo delle torri o delle metropolitane è altra cosa dalla teocrazia fascista e nuclearista dell'Iran di Ahmadinejad. La prepotenza patriarcale contro le donne musulmane in Europa è altra cosa dal fondamentalismo islamista. Il terrorismo è affare di polizia. L'Iran nucleare è affare della comunità internazionale, strumenti militari compresi. La prepotenza tradizionalista è affare delle nostre leggi, della nostra cultura, della nostra solidarietà civile. E dell'affetto che merita il nostro modo di vita, quando lo merita, senza riparare per paura o per arroganza in una sua ridotta fondamentalista.
di ADRIANO SOFRI (Repubblica - 9 luglio 2005)
CI SONO pensieri così elementari che non vengono più pensati, se non quando la tela della vita ordinaria si strappa. Uno è questo: che la convivenza umana si fonda sul presupposto, appunto scontato e non più pensato, che fra gli umani ci sia una simpatia reciproca, una solidarietà e una compassione preliminari. Se ne accorgono, gli individui o le comunità, quando la disgrazia li bracca o le assedia e costringe a guardarsi le spalle in ogni atto della vita quotidiana, a paventare un assassino in ogni passante che attraversi la loro strada.
Se andate ad ammirare le cascate di Iguazù, o il panorama del mondo dal Windows on the World della Torre Nord di Manhattan o il paesaggio di Pisa dall'anello più alto della Torre pendente, dovete confidare che i turisti che si sporgono accanto a voi dal parapetto, che stanno dietro di voi nella fila, non vi diano una spinta per buttarvi di sotto. Che siano, benché sconosciuti, anzi a maggior ragione perché sconosciuti, vostri simili, magari non inclini a volervi bene, ma senz'altro alieni dalla tentazione di farvi del male o di sterminarvi. Senza questa simpatia preventiva e inavvertita - la chiamerei "naturale", se non fosse essa stessa il frutto di una seconda natura che faticò tanto a svolgersi, ed è sempre sul punto d'esser sopraffatta - la convivenza umana non ci sarebbe, e tanto meno ci sarebbero le città, congegni così delicati e vulnerabili che si può viverci solo facendosi mutuamente credito di una benevolenza, e almeno di una non belligeranza.
Il terrorismo ha in odio quella simpatia. La sua chiave di volta è la gratuità. Per questo predilige i luoghi più comuni e affabili della mobilità e della cordialità urbana: l'autobus, la metropolitana, il treno, un bar, un grande magazzino... Lo si razionalizza fin troppo prestandogli l'intenzione di rendere insicuri e angosciosi i gesti della vita ordinaria. Prima ancora, il terrore si sazia dei bersagli non scelti, le vittime colpite nel mucchio, alla cieca, fossero pure i propri correligionari, i propri connazionali, i propri stessi famigliari.
L'obiettivo più fortuito e qualunque è l'obiettivo preferito. Non i grandi della terra, non la fotografia di gruppo del G8 o di qualunque altra potenza, che servono ormai a moltiplicare l'eco dell'esplosione: i bersagli veri sono i corpi bruciati o sbrindellati alla rinfusa nei vagoni, le città sventrate e infartuate. (Nell'osceno e terribile falso dei "Protocolli dei Savi Anziani di Sion", del resto perenne bestseller nei paesi arabi, e non solo, il paragrafo intitolato "Il finimondo" recitava: "In quel tempo tutte le città avranno ferrovie metropolitane e passaggi sotterranei: da questi faremo saltare in aria tutte le città del mondo, insieme alle loro istituzioni e ai loro documenti". Attribuisci al fantasma del tuo nemico odiato i disegni più nefandi, e mettili tu in atto. Mancava ancora un secolo alla Tokyo del gas nervino, quasi un secolo e mezzo alla mattina di Londra).
È vero che c'è una guerra del terrore. E che i suoi nemici giurati sono le donne e gli uomini - i cittadini dell'Occidente, di cui riparlava qui ieri Ezio Mauro: e dunque agli uomini e alle donne spetta anche di resistere ai guerrieri del terrore, di temerli e disprezzarli, perché sono vigliacchi e ottusi e spregevoli. Meno vera è la dichiarazione che "siamo in guerra", perché non si ricorda abbastanza dell'enorme differenza che separa ancora il tempo delle nostre città dal tempo di guerra. E perché la "guerra al terrorismo" non è l'inevitabile complemento logico e morale della "guerra del terrorismo", almeno non quando voglia coincidere con la guerra mossa all'Iraq, o con l'ideale della guerra per imporre la democrazia.
La risposta al terrorismo delle bombe nella metropolitana o dei kamikaze sugli autobus non ha bisogno tanto di parole grosse (noi ne abbiamo psicologicamente bisogno, e la più grossa che conosciamo resta quella: guerra) quanto di fatti. La polizia - parola cittadina per eccellenza - non fa la guerra se non per metafora, ma non è esonerata dai fatti, né da fatti altrettanto o più efficaci.
Ancora Mauro fa bene a ricordare che l'11 settembre non c'era la guerra in Iraq. Ormai c'è, e il suo futuro è la responsabilità ineludibile di chi l'aveva appoggiata come di chi la avversò. Questo non toglie che in ogni momento se ne debba aggiornare il bilancio, lezione per il futuro, e insieme verifica del punto cui siamo. Il bilancio si è amaramente aggravato con l'esito delle elezioni iraniane. E anche, temo, con i dati secondo cui fra i terroristi in Iraq i non iracheni sono la gran maggioranza.
Quei dati per un verso segnalano la relativa estraneità del terrorismo al paese, e confermano che la più vera e tenace resistenza vi viene dalle file di poliziotti e miliziani, in servizio o aspiranti, decimati dalle autobomba e dai kamikaze. Per l'altro, danno l'idea di un'internazionale del terrore in cui il richiamo ideologico del fanatismo islamista prevale di lunga su quello nazionale o etnico. Nel grembo della Londra cui a buon diritto Blair aveva rivendicato il giorno prima, festeggiando l'assegnazione delle Olimpiadi, il primato dell'universalismo e della mescolanza di culture e di genti, cresce anche l'internazionale islamista e terrorista: non la meta di emissari venuti da montagne e caverne remote, ma l'altra Londra dell'odio e della vendetta.
È vero che l'Europa tiene la testa voltata altrove, mentre nel mondo, e nelle sue stesse belle città, il terrorismo islamista affila i coltelli del sacrificio? È vero. Non tanto (non più, almeno), per quegli antiglobalisti militanti che a distanza di anni continuano a farsi un punto d'onore di piantare la bandierina oltre la linea rossa. Non sono più tanti, e sono eclissati nello spazio di una mattina dalla carneficina terrorista. "Ragazzini, lasciateci lavorare". Spariti di colpo. Le armi sequestrate nei loro accampamenti, dicono le cronache, erano "sbarre di ferro, asce, fionde, una sega e 90 litri di olio da cucina, che avrebbero potuto essere usati contro i cavalli".
Contro i cavalli. Vi ricordate? Già a Genova si era detto che fosse stata ventilata da terroristi islamisti l'incursione di un aereo suicida dentro il Palazzo del G8, mentre gli assedianti no global violavano la linea rossa con le corazze di gommapiuma. I dirigenti altromondialisti protestano - a ragione - che il terrorismo mette a repentaglio le loro aspirazioni e le loro conquiste. Avrebbero ancora più ragione se protestassero, prima che in nome dei propri obiettivi (che spesso condivido), in nome dell'abitudine a salire su un autobus, a prendere una metropolitana, ad affacciarsi da un parapetto panoramico. Come tutti.
A proposito di questa Europa e delle sue corte furbizie, c'è una coincidenza cui non voglio rinunciare: è di domani il decimo anniversario dello sterminio di Srebrenica. Troverete forse forzata o impropria la sua evocazione in questo contesto: interrogatevi, e scoprirete, temo, che il fastidio viene dall'irrilevanza delle vite dei disgraziati ammucchiati in quel luglio nell'enclave internazionalmente protetta di Srebrenica, e là massacrati - in ottomila, o forse diecimila. Gente povera, già fuggita e spaventata. Il legame c'è.
L'Europa, che aveva in solido e partitamente - il francese generale Morillon, e tanti altri - solennemente garantito la sicurezza di quel popolo, lasciò compiersi lo sterminio, il più vasto e feroce dopo Auschwitz, e quanto più visibile!, senza muovere un dito, e anzi voltando la testa. Schermi europei trasmisero la carezza di Mladic al bambino terrorizzato, un momento prima che desse inizio al mattatoio. Ufficiali olandesi dell'Onu brindarono con Mladic, e poi assistettero inerti all'orrore. L'Olanda, che ha preso una parte così importante nella rivelazione dell'anima profonda d'Europa, da Pym Fortuyn a Theo Van Gogh, al referendum sul trattato costituzionale, aveva conosciuto prima, benché troppi anni dopo la vergogna, le dimissioni del proprio governo, per la macchia di Srebrenica.
Nel resto d'Europa non si è dimesso neanche un caporale di giornata. Morale a parte, una lezione politica è che l'Europa non è cedevole fino alla cecità o alla viltà solo di fronte all'islam: perché quelle migliaia di trucidati di Srebrenica erano europei (e slavi) di fede musulmana, e i loro carnefici erano europei (e slavi) di fede cristiana ortodossa, e il film agghiacciante dei boia amatori ci ha appena mostrato il pope serbista che li benediceva alla partenza per la strage. Anche di immagini come queste occorre serbare memoria quando si discuta della menzione delle radici cristiane nella carta d'identità europea. C'è un'accezione del nome di cristiano cui una persona perbene, credente o no, e in qualunque fede, non saprebbe a nessun costo rinunciare. Tuttavia non è la sola. Bisogna tenerne conto, no?
La benedizione del pope serbista Gavrilo agli assassini era "anticristiana" o no? Il terrorismo di Londra, o l'assassinio del diplomatico egiziano, "amico degli ebrei", in Iraq, sono anticristiani o anche antiebraici e anche anti-islamici? Certo che il terrorismo che muove guerra all'Occidente e alla libertà delle sue donne e delle sue città è islamista, ma i suoi nemici e le sue vittime sono all'ingrosso anche, se non soprattutto, i musulmani renitenti alla sua leva.
La risposta deve ancora e sempre distinguere. Distinguere non vuol dire affatto cedere. Il terrorismo delle torri o delle metropolitane è altra cosa dalla teocrazia fascista e nuclearista dell'Iran di Ahmadinejad. La prepotenza patriarcale contro le donne musulmane in Europa è altra cosa dal fondamentalismo islamista. Il terrorismo è affare di polizia. L'Iran nucleare è affare della comunità internazionale, strumenti militari compresi. La prepotenza tradizionalista è affare delle nostre leggi, della nostra cultura, della nostra solidarietà civile. E dell'affetto che merita il nostro modo di vita, quando lo merita, senza riparare per paura o per arroganza in una sua ridotta fondamentalista.
12.7.05
da Vincenzo Rocchino, Genova
5 aprile 2001, Silvio Berlusconi: "Riscriverò i Codici. Se ne sono occupati Napoleone, Giustiniano... Noi siamo piccolissimi, ma ci proveremo".
Ecco il "Codice Berlusconi". Alcune nuove leggi sono già state approvate, con rapidità mai vista, spesso con il ricorso alla fiducia. Altre sono in arrivo. Di seguito l'elenco delle più significative.
Informazione
23 luglio 2003 il Senato approva la legge Gasparri sulla rai-tv, non firmata dal presidente Ciampi a norma dell'articolo 74 della Costituzione, ritoccata dal Parlamento in modo non sostanziale, rimandata al Quirinale e obbligatoriamente promulgata. La proroga per le trasmissioni in analogico di Rete4 è già un primo risultato clamoroso della "riforma dell'emittenza", ma c'è anche l'abolizione delle norme che vietano incroci e limiti della proprietà tra tv e carta stampata e un paniere che amplia le potenzialità pubblicitarie.
Giustizia
Il falso in bilancio, legge approvata nei primi cento giorni del governo Berlusconi depenalizza di fatto il reato di falso in bilancio, trasformato da "reato di pericolo" (che protegge interessi diffusi) a "reato di danno" (che protegge chi ha ricevuto un danno economico). Secondo la nuova legge, nel caso di società non quotate in Borsa il falso in bilancio può essere perseguito soltanto in seguito a querela di parte: querela assolutamente improbabile, poiché di norma i soci, che avrebbero titolo a querelare, sono coloro che traggono benefici dal reato. Piercamillo Davigo: "Sarebbe come pretendere che il furto divenga perseguibile a querela del ladro". Il 5 maggio 2005 la Ue ha bocciato il ricorso dei giudici milanesi. Nel 2004 la Corte costituzionale s'era già pronunciata a favore della legge. Oltre ad allontanare investitori esteri, allarmati da uno Stato lassista, si sono disinnescate le indagini sul caso All Iberian.
Le rogatorie internazionali
Legge approvata a tambur battente nel 2001 e inapplicata nella pratica giudiziaria perché è prevalente il diritto internazionale. Disciplina le rogatorie internazionali e ratifica la convenzione di cooperazione giudiziaria tra Italia e Svizzera. Nel passaggio al Senato la legge ha subito due modifiche piuttosto particolari: si può applicare ai processi in corso e annulla le rogatorie macchiate da vizi formali. Così sono divenute inutilizzabile le imbarazzanti dichiarazioni sui movimenti nei conti correnti esteri di Previti, di Squillante e del responsabile di Mediaset).
Il lodo Schifani la legge blocca processi per le cinque più alte cariche dello Stato viene approvata a giugno del 2001. La Corte Costituzionale l'ha giudicato incompatibile con la nostra Costituzione (soprattutto con l'art.3) ma è bastata qualche piccola modifica e la legge è stata varata.
La legge Cirami-Carrara sul legittimo sospetto, è legge dal novembre del 2002, ritenuta senza effetti dalla Corte di Cassazione. Il legittimo sospetto è essenzialmente il dubbio che il tribunale chiamato a giudicare non sia imparziale. Il giudice può essere ricusato se ha espresso pubblicamente un orientamento sul processo oppure se ha rapporti con l'imputato. Se la Cassazione riconosce che il giudice non garantisce imparzialità, trasferisce il processo in un'altra città, dove ricomincerà da zero. L'effetto è bloccare, errando di città in città, le conclusioni del processo, in attesa della prescrizione.
La legge sull'ordinamento giudiziario (non firmata da Ciampi per motivi di palese incostituzionalità e rimandata il 16 dicembre 2004 al Parlamento) approvata dal senato il 29 giugno 2005. Prevede tra l'altro:
1) Divisione delle funzioni dei magistrati. Diventerebbe più difficile passare dalla funzione inquirente a quella giudicante e viceversa.
2) Alla Corte di cassazione verrebbe concesso un ruolo di vertice dell'organizzazione giudiziaria, con attribuzioni erose anche al Csm. Una scelta che tradisce lo spirito della nostra Carta costituzionale, la quale alla Cassazione riserva un ruolo di controllo delle sentenze, non anche dei giudici che le hanno emesse.
3) Potenziato il ruolo dei Consigli giudiziari, organi decentrati in cui sarebbero rappresentati anche gli avvocati e gli enti locali interessati alla gestione dei servizi dell'amministrazione giudiziaria. Ma così i membri «laici» (cioè non magistrati) parteciperebbero a delibere relative anche allo status dei magistrati, in contrasto con la Costituzione che garantisce l'autonomia delle toghe, soggette soltanto alla legge.
La legge salva-Previti, ex Cirielli. Il senatore Previti è stato condannato a undici anni per la vicenda Imi-Sir e a cinque anni per la Sme (corruzione); la legge è stata approvata il 16 dicembre 2004 dalla Camera. Di fatto, dimezza i termini di prescrizione e libera l'avvocato e deputato di Forza Italia dal rischio di veder confermare in appello le sue condanne a 16 anni per tre corruzioni giudiziarie (casi Imi-Sir, Lodo Mondadori e Squillante). La legge però ha l'effetto di spazzare via moltissimi altri processi in attesa di sentenza definitiva. Tra questi, la maggior parte dei dibattimenti per omicidi colposi e lesioni anche gravi, quelli contro truffatori, ladri e in generale tutti coloro che hanno commesso reati puniti con una pena massima non superiore a cinque anni. L'effetto economico è che le vittime o i loro parenti non potranno ottenere il risarcimento dei danni come parti civili.
In preparazione la legge salva-Dell'Utri, condannato l'11 dicembre 2004 a nove anni per concorso in associazione mafiosa dal Tribunale di Palermo.
Meno soldi alla giustizia: il ministero della Giustizia ha ridotto i fondi a disposizione delle Corti d'appello per la gestione ordinaria. L'effetto è stato di rendere più difficile il lavoro nei palazzi di Giustizia italiani. Al Csm che faceva presente la situazione al ministro, Roberto Castelli spiegava che i tagli delle spese per la giustizia sono necessari per mantenere gli impegni elettorali della maggioranza e poter ridurre la pressione fiscale, come promesso da Berlusconi nel suo «patto con gli elettori».
Legge Pittelli: 45 articoli presentati dall'avvocato Giancarlo Pittelli, di Forza Italia, unificano e organizzano le proposte di una ventina di parlamentari di diverse forze politiche (tra cui Anedda, Pecorella, Mormino, Cola, Soda, Fragalà), proponendo una nutrita serie di modifiche al codice di procedura penale e al codice penale, "in attuazione dei principi del giusto processo". Ecco le modifiche più rilevanti.
1) L'avviso di garanzia dovrà essere inviato immediatamente all'apertura delle indagini. Alla persona iscritta sul registro degli indagati dovrà essere subito comunicata non solo l'iscrizione, ma anche i suoi motivi, con "l'indicazione delle norme di legge che si assumono violate". Un mafioso o un pedofilo, per esempio, dovrebbero essere subito avvertiti che si sta aprendo un'inchiesta su di loro, così potrebbero interrompere ogni contatto e ogni attività, rendendo vane le indagini.
2) Diventano più ampi e numerosi i casi in cui scattano incompatibilità, astensione e ricusazione di un giudice. Potrà essere ricusato per esempio "se ha manifestato il proprio convincimento sui fatti oggetto del procedimento". Così potrebbe essere obbligato a lasciare il processo un magistrato che faccia parte del collegio di un processo di mafia e sia intervenuto in un convegno antimafia.
3) Diminuiscono i casi in cui può essere concessa la custodia cautelare in carcere. Sarà più difficile mandare in cella anche i mafiosi.
4) Più difficile per l'accusa anche ottenere le intercettazioni telefoniche e ambientali, che possono essere concesse soltanto in presenza di "gravi indizi di reato" e devono essere "assolutamente indispensabili ai fini della prosecuzione delle indagini".
5) La difesa avrà la possibilità di impugnare davanti alla Cassazione tutte le ordinanze del tribunale, quelle che decidono sulle questioni preliminari, sull'utilizzabilità degli atti, sulle nullità concernenti il decreto di rinvio a giudizio, sulle richieste di prova: con il risultato di intasare la Cassazione e di ottenere continue interruzioni (ciascuna di 6 mesi) dei processi, che diventerebbero lunghissimi e incelebrabili.
6) Le condanne diventano praticamente impossibili: il pubblico ministero avrà "l'onere di provare la colpevolezza dell'imputato aldilà di ogni ragionevole dubbio"; il giudice, "nel valutare la prova", dovrà accertare che "la responsabilità dell'imputato risulti provata aldilà di ogni ragionevole dubbio", e di questo dovrà dare "conto nella motivazione" della sentenza.
7) Il giudice non potrà più utilizzare, per le sue decisioni, le sentenze definitive. Così nei processi di criminalità organizzata, per esempio, bisognerà dimostrare ogni volta che Cosa nostra esiste, che è un'organizzazione mafiosa, che è strutturata e centralizzata, che ha una Commissione che la governa. Sarebbe la fine dei processi di mafia.
8) Diventa obbligatorio per il giudice concedere la diminuzione di un terzo della pena agli imputati incensurati. Così anche uno stupratore, purché fin quel momento insospettato, potrà ottenere una pena ridotta. Tutti gli incensurati potranno poi sperare nella prescrizione, i cui termini saranno naturalmente ridotti in proporzione alla diminuzione della pena.
Fisco
Rientro dei capitali: è stato permesso per legge, con una modica tassazione (del 2,5 per cento), il rientro dei capitali (anche quelli opachi) fuggiti all'estero e per anni invisibili al fisco. Una forma creativa di sanatoria, un modo per il Tesoro di fare cassa. Ma anche una inedita forma di riciclaggio di Stato, di ricettazione istituzionalizzata.
Condono fiscale: uno schiaffo morale per i cittadini che hanno regolarmente pagato le tasse, uno strumento interessante per le aziende di Berlusconi. Alle dichiarazioni del premier che Mediaset non si sarebbe avvalsa del condono è seguita una adesione e un risparmio di centinaia di milioni di euro.
Bancarotta: Un progetto di legge presentato alla Camera da Niccolò Ghedini, avvocato di Berlusconi, prevede che il reato di bancarotta fraudolenta, ora severamente punito con pene dai 3 ai 10 anni e prescritto in 22 anni, diventi un reato «leggero», con pena massima 3 anni, dunque senza carcere. Secondo la legge Ghedini, il bancarottiere diventa poi del tutto non punibile se risarcisce una parte del danno. Rubare diventerebbe dunque di fatto legale, purché lo si faccia alla grande e con metodi da colletto bianco: non punibile sarebbe, per esempio, chi fa bancarotta per 100 miliardi, poi restituisce 70 e se ne intasca, all'estero, 30. La legge sarebbe retroattiva. Il progetto era stato nascosto all'interno del maxiemendamento sulla Competitività approvato a maggio del 2005. Prevedeva una riduzione di pena da 10 a 6 anni per i bancarottieri, poi però con un emendamento è stata corretta e riportata a 10.
Opere pubbliche
Legge Obiettivo : È una legge sulle opere pubbliche e l'ambiente. Approvata rapidamente nei primi mesi del governo Berlusconi, la legge Obiettivo indebolisce la valutazione ambientale, depotenzia i controlli e rende minore la trasparenza nella costruzione delle opere pubbliche.
( Livia Michilli)
10.7.05
da Mauro Manco, Napoli
Caro Subcomandante CSF, essendo il mio primo post, ho molte domande da porle. Trascurerò quelle sulla vera questione morale di questi giorni, che come tutti sanno è l' ammissione del Napoli alla serie B, ed il passaggio di Vieri al Milan, perchè credo di essere inadeguato a trattare temi così scottanti. Pertanto le mie domande riguarderanno esclusivamente la tragedia di Londra, e come dovremmo comportarci quì in Italia.
Premetto che ho scelto un periodo pessimo per iniziare a scrivere. Quì al sud il caldo soffoca, e tra i suoi vapori si possono distinguere le propaggini dell' Impero Ottomano che si allungano sul "ventre molle dell' Eurabia", e, dopo averla infibulata, la stuprano a Madrid e a Londra ( ho romanzato ma il senso dell' articolo del Goldoni più o meno era quello ). Inoltre sempre grazie al Goldoni io mi accorgo, solo a ventisei anni, di essere nato in un "brodo di cultura islamico" e non riesco a non chiedermi se questo tipo di concepimento sia compatibile con le nuove leggi sulla fecondazione assistita o se mi debba autodenunciare e magari consegnare alla più vicina centrale di polizia.
A peggiorare la mia giornata c'è l' allarmismo riguardo i pericoli di sicurezza che corre questo nostro vecchio paese. Son passati due giorni da quando Berlusconi ha chiarito che le minaccie islamiche lo hanno spinto a costruire un tunnel nella roccia ed un porto nella sua villa in Sardegna. Da allora per le strade è tutto un fiorire di ponti levatoi, mura fortificate, fossati, soppalchi, e persino mio padre, ieri, vittima evidente di questa mania per la sicurezza, mi ha chiamato invitandomi a partecipare alla costruzione di due piani con mansarda ad Ischia, adducendo indubitabili motivi di miglioramento del collegamento aereo con Capodichino.
Io mi sforzo di essere sereno, caro CSF, consapevole che si, è vero che i terroristi vogliono annientare l' Europa, ma, seguendo Beppe Grillo, l' Europa dovrebbe essere "sorridente, multirazziale, unita dagli stessi valori, in cui lo Stato viene sempre prima delle dottrine religiose e dei fanatici", insomma il prossimo obiettivo è al massimo la Germania. Poi quando verrà il nostro turno, e sarà solo dopo la Grecia, il Portogallo, etc... abbiamo governanti abili che faranno di tutto per farci uscire dalla comunità europea prima dell' irreparabile ( il cavaliere ci stà lavorando sopra già da quattro anni perchè aveva capito tutto prima ).
Caro Subcomandante CSF la smetto di tediare e vengo alla domanda. Il dubbio che mi assale è questo: non è che i terroristi hanno già vinto? Non è che hanno fatto esplodere bombe chimiche nascoste e sparse negli scantinati di mezzo mondo già quattro o cinque anni fà? Non è che ci hanno indotto, con molecole sin'ora sconosciute, a votare Borghezio, Calderoli, Berlusconi, Previti, i loro amici Bush, il compagno Blair, etc... politici adatti a risolvere i problemi di attacco del Milan o ad imbastire spedizioni alla "Brancaleone và alle crociate" in Iraq, mentre i terroristi indisturbati ammazzano persone come se mietessero il grano, quì tra noi? W il PaPoPo.
5.7.05
Se parallelo è il governo
ALESSANDRO ROBECCHI PER IL MANIFESTO
Ok, tutti più divertiti che scandalizzati dalla polizia parallela, una delle più gustose patacche degli ultimi tempi, con tanto di tatuaggi massonici sotto le ascelle (!), P2, dediche del Gran Maestro, grande attività di intelligence (?) volta a scoprire «moschee sotterranee» e inni a George Bush. Un impasto memorabile, tanto memorabile che c'è da scommetterci: passerà qualche giorno e nessuno se ne ricorderà più, archiviato come una delle tante stramberie italiane dove basta farsi la carta intestata coi trasferelli per difendere l'Occidente minacciato (e chiedere soldi). Per contorno - e perché non si sa mai - qualche arma in cantina, retaggio culturale dei boia chi molla. Servirebbe qualche cautela: ogni volta che ci si è trovati di fronte a simili associazioni benefico-manesche è scattato immediato il tam-tam della ridicolizzazione. La P2? Una sciocchezza, una pantomima risibile, tanto che il tesserato numero 1816 (dott. S. Berlusconi) ricevette la tessera con scritto «muratore» e ne rise coi suoi sodali: muratore a me? E se non ci fosse stato il Cossiga a rivendicare, e se i «combattenti contro il comunismo» non avessero chiesto la pensione da gladiatori, anche l'armata parallela di Capo Marrangiu sarebbe virata in operetta. Troncare, sopire, far finta di niente, riderne un po' finché si calmano le acque e poi passare ad altro. Illuminante il titolo del Tg5 dell'altra sera che alla polizia parallela del fascista Saya affiancava per metafora le truffe di Totò.
Strabilia dunque - e per davvero - che con tutto questo scoprire strutture parallele e sedicenti, nessuno (tranne, forse, il subcomandante Follini) abbia volto lo sguardo verso la vera struttura parallela, pataccara, surreale e coperta di ridicolo, che è, oggi, il governo italiano. La faccia paciosa di Giovanardi che declama davanti al Parlamento che l'Italia nulla sapeva e nulla avrebbe potuto sapere di una ventina di spie della Cia che veniva qui a rapire una persona "sottoposta a controlli" non sarebbe una cosa à la Totò?
E il presidente del Consiglio che convoca l'ambasciatore americano - il quale per inciso gli dice che noi sapevamo tutto, sù, Silvio, non fare il furbino - non vale forse la figura della banda del buco che sfonda un muro cercando la banca e si ritrova in cucina? Il capo dell'opposizione Follini - che inopinatamente siede al governo e ne vota supino tutte le più immense porcate - che si scaglia veemente contro la campagna acquisti del Milan non fa parte di quella commedia all'italiana che è ancora oggi, dopo decenni, un vanto nazionale? E chi annuisce alla relazione, dagli scranni degli ospiti illustri? I Forlani, i Gava, come se veri dinosauri andassero al cinema a vedere Jurassic Park.
Urge svolta mediatica: così come si ridicolizza la polizia parallela dei peracottari in orbace, così come si minimizzano i crimini contro l'umanità compiuti in casa nostra dall'amico americano, così come si sghignazza sulla P2 (cosa vecchia, superata), bisognerebbe cominciare a dire - anche nei titoli dei tg, anche nei commenti della grande stampa - che ci troviamo di fronte a un governo parallelo, pataccaro e ridicolo, davvero da operetta, o magari modello Bagaglino. Un governo che si fa pure lui la carta intestata coi trasferelli, proprio nello stesso modo in cui fa le previsioni economiche, e come alla Parlamalat si facevano i bilanci. Fortuna che c'è una sana e rigorosa opposizione, roba forte, tosta, che non le manda a dire, che sta sulla palla e non ne lascia passare una. Quando il Giovanardi parallelo declamava la sua storiella davanti al Parlamento (non sapevamo, non c'eravamo. Chi? Cosa?), gli esponenti di questa severissima opposizione erano una decina, svogliati anzichenò, i leader assenti, a seguire regate veliche da sapienti telecronisti o in viaggio negli Usa, o chissà dove. Perché questo è il dramma: che la polizia parallela fa ridere i polli, che il governo parallelo fa ridere i polli, che Giovanardi fa ridere i polli. Ma i polli ridono tanto, e si sbellicano, che non trovano nemmeno il tempo di andare in Parlamento al dibattito sugli americani che rapiscono gente in casa nostra. Polli paralleli. Che ridere, eh!
(alessandro robecchi)
1.7.05
Idea: castriamo anche le donne
Lo stato maggiore leghista trascorre l'estate a Pontedilegno, per stabilire il programma che cambierà il volto di questo paese
Michele Serra per la Repubblica
Lo stato maggiore leghista trascorre l'estate a Pontedilegno, nella nuova dacia tutta perlinata (perlinatura doppia per la tavernetta) che Bossi si è fatto costruire lungo lo stradone omplanare, perlinato anch'esso, compresi i guard-rail e i platani, su iniziativa del sindaco per compiacere l'illustre ospite. Sotto il pergolato in lamiera ondulata, mentre sul barbecue sfrigolano le braciole della Conad ancora incellofanate, un pugno di uomini in pantaloncini corti, canottiera, calzini bianchi e sandali, che parlano nei vari dialetti padani, con l'aiuto di un interprete stabiliranno il programma che cambierà definitivamente il volto di questo paese.
Il punto più delicato è trovare un equilibrio politico tra le due priorità di programma: la proposta Castelli, buttare via le chiavi della cella di Adriano Sofri, e la proposta Calderoli, castrare gli stupratori. Si arriverà quasi sicuramente a una sintesi che accontenti tutti: castrare Adriano Sofri.
Ma vediamo gli altri punti in discussione.
Europa: Verrà abolita in base alle leggi saliche, riscoperte dal giurista della Lega, un elettrauto amico d'infanzia di Roberto Castelli. Bossi propende per l'adesione della Padania al Sacro Romano Impero, ipotesi gradita anche al presidente del Senato Marcello Pera che si sta adoperando, con un faticoso lavoro diplomatico, affinché Strasburgo torni sotto la potestà del papato. Rimane aperta la questione degli eretici: Calderoli propone di castrarli. Infine il professor Miglio, rievocato da Bossi e amici in una seduta spiritica attorno al tavolino delle angurie, ha suggerito di puntare sul modello pangermanista a lui caro, dividendo in Land anche l'Isola d'Elba e restituendo l'Alsazia, la Lorena e la Polonia alla patria tedesca. Nel documento finale, in un codicillo voluto da Calderoli, si afferma che i francesi sono tutti pederasti.
Moneta: Si stanno studiando le alternative all'euro, il cui possesso, su suggerimento di Calderoli, verrà punito con la castrazione. Per adesso le soluzioni monetarie più probabili sono la balla di fieno (nelle diverse pezzature: balla, ballino e l'enorme e pittoresco ballun della Val Grugna, che viene trasportato da sei pariglie di buoi) oppure la stretta di mano, tutt'ora in auge in certe vallate prealpine nella compravendita delle galline. Ma verrà introdotta anche la Pantalone Card, con una capacità di credito smisurata perché la copertura finanziaria è garantita dall'evasione fiscale, migliaia di miliardi accuratamente cuciti, lungo i decenni e le generazioni, nei materassi padani.
Donne: Sarà loro permesso di lavorare, ma l'orario di lavoro deve tassativamente tenere conto delle esigenze del marito, che quando rincasa deve trovare la polenta nel paiolo e la moglie che la mescola. Anche la polenta già pronta e venduta in panetti al supermercato dovrà essere comunque messa nel paiolo e mescolata, a norma di legge. Le donne che non intendono onorare questa tradizione rischiano la castrazione, su proposta di Calderoli che ritiene che le donne, in fondo, altro non sono che dei pederasti assai abili nel travestimento.
Diritti civili: Le unioni civili, pur essendo un'offesa insopportabile alla famiglia tradizionale (composta da padre, madre, figli, nonni, barbecue e coppia di cani da guardia), saranno consentite, ma solo previa castrazione dei contraenti e successivo esilio in Spagna o in Francia, patrie naturali dei depravati. Le coppie tradizionali, nucleo di ogni società sana, dovranno comunque contrarre matrimonio religioso: Marcello Pera si sta adoperando affinché anche le nozze civili, per legge, diventino religiose, ordinando sacerdoti i sindaci pochi minuti prima della cerimonia. Il numero consigliato di figli è 12, tutti con fecondazione naturale (cioè trombando, ha fatto scrivere Calderoli, per maggiore chiarezza, nel documento finale). La fecondazione artificiale è reato in qualunque forma, cioè qualunque forma abbia la provetta, come ha preteso che venisse specificato, nel documento finale, l'esperto di etica della Lega, un ballerino di Varese ex compagno di scuola di un amico di Bossi.