SATIRA PREVENTIVA di Michele Serra
Sta per aprire i battenti la Fiera del Libro di Torino. Ecco gli appuntamenti più attesi e le principali novità e tendenze.
Noir italiano
Risolti i gravi problemi logistici: per riuscire a ospitare tutti gli scrittori di noir italiano (alcune centinaia), sono stati costruiti due nuovi alberghi nei dintorni del Lingotto, con stanze insonorizzate per coprire le urla di terrore delle cameriere quando rifanno i letti. Tra gli ospiti più attesi la rivelazione dell'anno Poldo Minuto, che rivisita la recente storia politica italiana attraverso l'omicidio di una prostituta; la coppia Poroni-Carattolo, che rivisita la recente storia politica italiana attraverso l'omicidio di un dentista; e la raccolta di racconti di giovani scrittori 'Carotide', che rivisitano la recente storia politica italiana attraverso l'omicidio di un commercialista, di una casalinga, di un idraulico, di una cartomante, di uno psichiatra e di una infermiera. In controtendenza l'emergente Amanda Kurt, che nel suo nuovo romanzo 'Pozze di sangue' rifiuta ostentatamente di mettere in relazione l'omicidio di un taxista con la recente storia politica italiana, spiazzando la critica e sconcertando i lettori.
Dibattiti
Molto atteso quello con André Glucksmann e Bernard-Henri Lévy 'Contro il divismo degli intellettuali', nel corso del quale alcuni celebri parrucchieri rifaranno la messa in piega alle due star della cultura europea mentre firmano autografi. Durante le prove generali i due, assistiti da un regista teatrale di fiducia e da un visagista, hanno lungamente discusso come sistemare le sedie per offrire al pubblico il profilo più fotogenico. Nella tavola rotonda 'La critica si giustifichi', i critici italiani dovranno spiegare perché hanno ignorato il libro di Marco Materazzi, preferendogli Philip Roth. Susanna Tamaro, come sempre molto riservata, non sarà presente alla serata a lei dedicata, 'Incontro con Susanna Tamaro', ma manderà alcune diapositive delle sue caprette, del suo cagnolino, del suo asino, della sua mucca, e forse anche qualche riga manoscritta del nuovo romanzo autobiografico 'Orazio e Clarabella'.
Federico Moccia
Avrà uno stand tutto suo, arredato dalle migliaia di peluche ricevuti dalle ammiratrici. Scriverà in diretta, nei cinque giorni della manifestazione, il suo nuovo romanzo 'Dimmi che mi vuoi tanto bene e fammi pucci pucci', storia di un adolescente scemo che si innamora della compagna di banco e solo alla fine dell'anno si accorge di avere sbagliato classe.
Lecturae Dantis
Il successo travolgente delle letture pubbliche di Benigni e Vittorio Sermonti ha fatto proseliti. Il direttore della Fiera Ernesto Ferrero ha ricevuto insistenti richieste di leggere Dante da parte di Elisabetta Canalis, Dolce e Gabbana, Franco Califano e Lapo Elkann, cedendo solo alle pressioni di quest'ultimo per ragioni di politica culturale: è proprietario del Lingotto e ha minacciato di sfrattare tutto il baraccone per rimetterci una catena di mietitrebbia. Altre letture pubbliche previste: monsignor Ravasi leggerà la Genesi nella nuova edizione a fumetti, mimando i vari personaggi e accompagnando le parole con i rumori di fondo richiesti (chi ha assistito alle prove giura che il rumore del tuono gli viene benissimo). Poco distante Guido Ceronetti leggerà l'Apocalisse, molto velocemente per riuscire a terminarla prima della fine del mondo, da lui prevista qualche ora prima della chiusura della Fiera del Libro. Alain Elkann leggerà la sua intera autobiografia nello spazio dietro il bar denominato 'Un minuto a testa'.
Letteratura etnica
Grande curiosità per Lambaranore Uikì Melamba, scrittrice congolese che scrive in congolese storie congolesi. Dopo la lunga trafila di scrittori africani che vivono a Parigi e scrivono in inglese, o scrittori creoli che vivono a New York e scrivono in spagnolo, ecco la sorprendente novità di una scrittrice che odia la contaminazione culturale, detesta i viaggi e mette le mani addosso a chiunque le parli di globalizzazione. Non è mai uscita dal Congo e verrà a Torino solo per la giornata, tornando a dormire a Brazzaville.
30.4.07
18.4.07
Al Family Day con i Killing Mother
SATIRA PREVENTIVA di Michele Serra
Fervono i preparativi per il Family Day, che poi sarebbe il Giorno della Famiglia, ma per vendere i diritti televisivi all'estero ha dovuto adeguarsi, sul modello della Coppa dei Campioni ribattezzata Champion's League. Il numero dei partecipanti si preannuncia imponente, soprattutto grazie al contributo di parecchi politici del centrodestra che porteranno in piazza almeno due o tre famiglie. Si temono tafferugli per la conquista della testa del corteo: il Coordinamento delle Seconde Mogli ha fatto sapere di non potere accettare una posizione defilata, ma dovrà vedersela con l'Unione di Primo Letto, potentissima lobby che sfila sventolando testamenti, rogiti e carte da bollo. La questione sarà probabilmente risolta facendo aprire il corteo da un cordone di parroci, che non avendo famiglia sono i più indicati per mantenere la calma.
È un'incognita l'atteggiamento dei Collettivi Autonomi Amanti, da sempre in clandestinità. Lo storico centro sociale Buonasera Dottore, che raccoglie le veterane e i veterani della relazione adulterina, minaccia di bruciare in piazza le migliaia di pullover e di cravatte ricevuti furtivamente a Natale dal proprio partner mentre era a Cortina in famiglia. Probabile un corteo autonomo, con concentramento al Motel Le Rose sul raccordo anulare, e un percorso a zig-zag per depistare gli investigatori privati.
Molto complicate la trattative per convincere a sfilare nel corteo principale anche i figli. I più piccoli, dopo una sfibrante concertazione, hanno accettato di partecipare a patto che siano riforniti di palloncino, zucchero filato, skate-board, zainetto firmato e scarpe fosforescenti con i sonagli e le luci di posizione. Per evitare di smarrirsi, saranno preceduti da un enorme schermo televisivo che trasmette cartoni giapponesi. Secondo uno studio distribuito dagli organizzatori, il sentimento della famiglia è, nei più piccini, particolarmente forte, anche se il 56 per cento è convinto che la madre sia Cristina D'Avena e il padre il campione di wrestling Undertaker.
Ancora più difficili le trattative con gli adolescenti: ore di discussione inutili perché i rappresentanti dell'Unione Teen Agers avevano le cuffiette dell'i-Pod nelle orecchie e non hanno capito una mazza. Alla fine, in cambio di una mancia di 50 euro e di una felpa della band Killing Mother, hanno promesso che sfileranno per poter filmare i nonni che cadono e si fratturano il femore e metterli su YouTube nella sezione 'video divertenti'. Alcuni volontari, muniti di pertiche con l'uncino, seguiranno il corteo dei ragazzi per raccogliere i pantaloni a vita bassa che cadono a terra. Le adolescenti hanno promesso, in occasione del Family Day, di coprirsi l'ombelico. Ci applicheranno sopra un adesivo con la scritta 'Sex Forever'.
Pittoresco si preannuncia il corteo dei nonni e delle nonne, che sarà aperto da dieci coppie che festeggiano le nozze d'oro, accompagnati dalle badanti slave che gli spiegano dove sono. I cugini, i cognati e gli zii, riuniti nel rassemblement Parenti in Campo, saranno presenti dietro lo striscione 'Vengo a cena ma non stare a preparare niente di speciale', e leggeranno un documento programmatico con dieci menù elaborati. Un loro rappresentante chiederà al Parlamento di codificare, finalmente, la pratica dell'autoinvito.
Acceso dibattito, tra gli organizzatori, sull'eventuale adesione di famiglie molto tradizionali e devote, da Cosa Nostra alla Sacra Corona Unita, fondamentali nel processo identitario della società italiana, ma sorde alla richiesta di partecipare disarmate. Si cerca un compromesso: accettare chi è munito di porto d'armi, oppure chi si fa accompagnare da un secondino. Stupore per l'invito degli organizzatori a nuclei familiari formati da membri obesi. Si è poi capito che lo scopo era avere in corteo anche le famiglie allargate. Molti gli intellettuali che hanno annunciato la loro adesione: Federico Moccia.
Fervono i preparativi per il Family Day, che poi sarebbe il Giorno della Famiglia, ma per vendere i diritti televisivi all'estero ha dovuto adeguarsi, sul modello della Coppa dei Campioni ribattezzata Champion's League. Il numero dei partecipanti si preannuncia imponente, soprattutto grazie al contributo di parecchi politici del centrodestra che porteranno in piazza almeno due o tre famiglie. Si temono tafferugli per la conquista della testa del corteo: il Coordinamento delle Seconde Mogli ha fatto sapere di non potere accettare una posizione defilata, ma dovrà vedersela con l'Unione di Primo Letto, potentissima lobby che sfila sventolando testamenti, rogiti e carte da bollo. La questione sarà probabilmente risolta facendo aprire il corteo da un cordone di parroci, che non avendo famiglia sono i più indicati per mantenere la calma.
È un'incognita l'atteggiamento dei Collettivi Autonomi Amanti, da sempre in clandestinità. Lo storico centro sociale Buonasera Dottore, che raccoglie le veterane e i veterani della relazione adulterina, minaccia di bruciare in piazza le migliaia di pullover e di cravatte ricevuti furtivamente a Natale dal proprio partner mentre era a Cortina in famiglia. Probabile un corteo autonomo, con concentramento al Motel Le Rose sul raccordo anulare, e un percorso a zig-zag per depistare gli investigatori privati.
Molto complicate la trattative per convincere a sfilare nel corteo principale anche i figli. I più piccoli, dopo una sfibrante concertazione, hanno accettato di partecipare a patto che siano riforniti di palloncino, zucchero filato, skate-board, zainetto firmato e scarpe fosforescenti con i sonagli e le luci di posizione. Per evitare di smarrirsi, saranno preceduti da un enorme schermo televisivo che trasmette cartoni giapponesi. Secondo uno studio distribuito dagli organizzatori, il sentimento della famiglia è, nei più piccini, particolarmente forte, anche se il 56 per cento è convinto che la madre sia Cristina D'Avena e il padre il campione di wrestling Undertaker.
Ancora più difficili le trattative con gli adolescenti: ore di discussione inutili perché i rappresentanti dell'Unione Teen Agers avevano le cuffiette dell'i-Pod nelle orecchie e non hanno capito una mazza. Alla fine, in cambio di una mancia di 50 euro e di una felpa della band Killing Mother, hanno promesso che sfileranno per poter filmare i nonni che cadono e si fratturano il femore e metterli su YouTube nella sezione 'video divertenti'. Alcuni volontari, muniti di pertiche con l'uncino, seguiranno il corteo dei ragazzi per raccogliere i pantaloni a vita bassa che cadono a terra. Le adolescenti hanno promesso, in occasione del Family Day, di coprirsi l'ombelico. Ci applicheranno sopra un adesivo con la scritta 'Sex Forever'.
Pittoresco si preannuncia il corteo dei nonni e delle nonne, che sarà aperto da dieci coppie che festeggiano le nozze d'oro, accompagnati dalle badanti slave che gli spiegano dove sono. I cugini, i cognati e gli zii, riuniti nel rassemblement Parenti in Campo, saranno presenti dietro lo striscione 'Vengo a cena ma non stare a preparare niente di speciale', e leggeranno un documento programmatico con dieci menù elaborati. Un loro rappresentante chiederà al Parlamento di codificare, finalmente, la pratica dell'autoinvito.
Acceso dibattito, tra gli organizzatori, sull'eventuale adesione di famiglie molto tradizionali e devote, da Cosa Nostra alla Sacra Corona Unita, fondamentali nel processo identitario della società italiana, ma sorde alla richiesta di partecipare disarmate. Si cerca un compromesso: accettare chi è munito di porto d'armi, oppure chi si fa accompagnare da un secondino. Stupore per l'invito degli organizzatori a nuclei familiari formati da membri obesi. Si è poi capito che lo scopo era avere in corteo anche le famiglie allargate. Molti gli intellettuali che hanno annunciato la loro adesione: Federico Moccia.
5.4.07
Claudio Magris sul Corriere della Sera (2005)
C'è una sola persona moralmente e culturalmente autorizzata a pronunciare la «devolution» e qualche anno fa avevo anzi proposto che le fosse riconosciuto con una specifica legge il diritto esclusivo di usarla: Alberto Sordi, sovrano interprete della pagliaccesca vocazione italica a «fare l'americano», a darsi l'aria di frequentatore del West pur abitando nel Varesotto o a Porta Portese e ad adoperare senza necessità termini anglosassoni nonostante la propria esilarante pronuncia. Purtroppo Alberto Sordi è morto e i suoi involontari imitatori hanno poco del suo genio e molto della balordaggine dei personaggi da lui creati. Non c'è infatti alcun motivo di dire «devolution» anziché riforma federalista, così come fa ridere i polli chiamare «governatori» i presidenti delle Regioni, quasi essi potessero, come negli Stati Uniti, concedere o negare la grazia al condannato sulla sedia elettrica.
Il termine «devolution», ripetuto con coatta iattanza, è vacuo come il «cioè» postsessantottino; non è tanto una parola che esprima un concetto, quanto un rumore, come quelli che il corpo talora emette anche involontariamente, magari con effetti socialmente imbarazzanti; un segnale convenuto di riconoscimento fra simili, come il fischio di certi animali o quello irriferibile immortalato da una celebre canzone goliardica. Purtroppo, in questo caso, non è in gioco una festa delle matricole o di addio al celibato, bensì il Paese, l'Italia, lo Stato, la Patria o come vogliamo chiamarlo; il suo destino e il suo futuro, la sua dignità, il senso e il peso della sua presenza nel mondo.
La ributtante riforma costituzionale in cantiere, che si appresta a cancellare quel poco o tanto di buono che c'è ancora nello Stato italiano e il senso stesso dello Stato e dell'Italia, non nasce dalla doverosa e sacrosanta esigenza di decentramento. È ovvio che la democrazia inizia ed esiste concretamente dal basso, nella realtà di istituzioni e autogoverni locali attenti alla peculiarità dei loro compiti ed è ovvio che un centralismo elefantiaco (come quello statale, spesso peraltro imitato da quello regionale, a differenza dalla più viva realtà comunale) è non solo potenzialmente livellante e illiberale, bensì anche anchilosato e inefficiente.
Ma la devoluzione — okay, devolution — non si ispira a queste esigenze concrete. Essa nasce da una regressiva negazione dell'unità del Paese e dal livoroso desiderio di distruggerla. Non a caso, sino a poco fa, veniva strombazzata — pur senza alcuna intenzione di porla in atto — la parola «secessione», con cui si sciacquavano la bocca macchiette di provincia assai poco simili all'aristocrazia cavalleresca del vecchio Sud di Via col Vento.
E secessione significa, appunto, distruggere l'unità del Paese.
A questa unità — a questo senso di più vasta appartenenza comune, pur nella creativa e amata varietà di città, territori, tradizioni, dialetti e costumi diversi — si vuol contrapporre un ringhioso micronazionalismo locale, spiritualmente strozzato dal proprio cordone ombelicale conservato sott'olio e chiuso a ogni incontro, pronto ad alzare ponti levatoi i quali offendono anzitutto il libero e schietto amore per il luogo natio, che è il piccolo angolo in cui impariamo a conoscere e ad amare il mondo. Vissuto e amato liberamente, il paese natale non è una endogamia asfittica né una sfilata folcloristica; Dante diceva che l'Arno gli aveva insegnato ad amare fortemente Firenze, ma anche a sentire che la nostra Patria è il mondo, come per i pesci il mare. Le diversità sono il modo in cui si articola l'unità umana — come un albero nella varietà delle sue foglie, diceva Herder, scrittore illuminista e preromantico tedesco, amico e poi avversario di Goethe.
Anche la cultura esiste nella peculiarità delle sue forme ed è giusto che una Regione possa e debba curare, nell'istruzione e nelle iniziative culturali, la propria specificità, ma sempre nell'ambito di una formazione generale che interessa il Paese. La sicilianità di Verga è inscindibile dalla sua grandezza, ma non interessa un veneto meno di un siciliano; un'esclusiva competenza locale in materia scolastica che inducesse gli scolari piemontesi a ignorare Leopardi per studiare Gianduia sarebbe disastrosa anzitutto per quegli scolari. Già oggi dilaga un concetto regressivo della particolarità culturale: ad esempio, per ottenere — nella miseria totale in cui versa l'Università — qualche minimo finanziamento che permetta di comprare qualche libro o qualche rivista indispensabile, dobbiamo inventarci, a Trieste, qualche fasulla ricerca locale. Così il (poco) denaro verrà speso non per studiare Goethe, Mann o le conseguenze culturali della divisione della Germania dopo il '45, bensì per studiare qualche viaggiatore letterato tedesco che, andando a Venezia, abbia passato una notte a Trieste, dicendo magari, il mattino, «che bella città». Le peculiarità locali compongono, costituiscono l'unità del Paese; se la distruggono, distruggono se stesse, così come un dialetto, parlato con gioiosa e spontanea naturalezza, viene falsificato in una tonta ideologia se lo si vuol sostituire o contrapporre alla lingua nazionale.
La «devolution» mira, oggettivamente, a disfare l'Italia, al contrario del federalismo patriottico (e antinazionalista) propugnato già in anni lontani da forze risorgimentali come il Partito Repubblicano — oggi snaturato e autoridicolizzato — che miravano a un Paese unitario e articolato nelle sue preziose varietà e destinato a integrarsi, senza dissolversi, in una unitaria e variegata Europa. La «devolution» è propugnata da partiti che costituiscono oggi la maggioranza parlamentare, benché divisi su molti problemi e soprattutto sul senso della Patria, visto che An, che organizza le marce e feste del Tricolore, governa insieme alla Lega, il cui leader ha dichiarato di volersi pulire il sedere col Tricolore. In realtà la «devolution» non si limita a intaccare la Nazione e lo Stato, ma si propone di evirare gli organi dello Stato capaci di impedire l'abuso dei poteri, non solo locali; mina l'armoniosa vita civile di una vasta e pluralistica comunità, retta da quel sistema di separazione, controllo e contrappeso di poteri elaborato dal pensiero liberale per garantire i cittadini e le libertà.
La riforma costituzionale che la maggioranza vuole varare è un attentato al patriottismo e al buon governo. Ma il Parlamento è composto di eletti che, secondo la Costituzione, sono responsabili verso il Paese, non verso il partito o la circoscrizione in cui sono stati eletti. Si è già visto come, nella maggioranza, a proposito della «devolution» ci siano persone cui sta più a cuore l'Italia che il proprio partito. È da sperare che parecchi avranno la dignità e il fegato di ribellarsi a questa mutilazione, di capire che essa deturpa anche il loro volto.
4.4.07
Chi ha munto la vacca dei nostri telefoni
EUGENIO SCALFARI - REPUBBLICA
ROMA- L'affare Telecom approda in Parlamento; in Senato col ministro Gentiloni avremo la prova generale, poi alla Camera la prossima settimana con Prodi in persona. L'affare Telecom - come ama chiamarlo usando un francesismo peggiorativo l'ex ministro Tremonti - in realtà non è un "affaire", ma è certamente un problema. Del quale giova esaminare la dimensione, le incognite, le possibili soluzioni. E i protagonisti: Prodi (e Rovati), Tronchetti Provera, Guido Rossi. Nello sfondo del passato Colaninno; nello sfondo del futuro forse Berlusconi. Al centro l'azienda telefonica, malamente privatizzata e di fatto ancora in posizione monopolistica.
Proprio dall'azienda deve cominciare la nostra analisi. Dai suoi debiti. Dai suoi ricavi. Dai suoi (insufficienti) investimenti. Dal suo azionariato. Con una prima precisazione per sfatare un luogo comune ripetuto in questi giorni da tutti, nessuno escluso: non è affatto vero che Telecom sia schiacciata dal suo debito. Non è quella la sua malattia. Esso ammonta a 41 miliardi; probabilmente, calcolando operazioni a breve su titoli "derivati", si arriva a 45. Si tratta certamente d'una mole imponente e tuttavia gestibile. In buona parte sotto forma di bond a tasso fisso e lontana scadenza, e di anticipazioni bancarie a lungo termine.
A fronte di questo debito ci sono ricavi e "cash flow" altrettanto imponenti e un attivo patrimoniale di tutto rispetto. Non è dunque questo il punto debole dell'azienda, bensì la struttura dell'azionariato di controllo. Il punto debole, anzi debolissimo e patologico, non sta dentro Telecom Italia ma a monte, nella lunga catena societaria al vertice della quale troviamo la finanziaria personale di Tronchetti Provera il quale, da quel puntino lontano lontano, controlla la più grande azienda italiana con soltanto l'1 per cento di capitale, attraverso Pirelli e Olimpia. Anche queste società - che sono soltanto scatole finanziarie salvo un pallido residuo industriale nella Pirelli - sono fortemente indebitate senza tuttavia generare flussi di ricavi e di "cash flow". La loro fonte di sostentamento unica è Telecom, a condizione ovviamente che la grande azienda a valle trasformi a ritmo accelerato i suoi profitti in dividendi per i piani alti e altissimi della catena di controllo.
Si configura in tal modo una geometria non nuova nel capitalismo italiano, spinta in questo caso al suo limite estremo: il potere di comando che dal remoto puntino Tronchetti si irradia verso la base aziendale incatenandone le decisioni agli interessi dell'azionista di riferimento e il flusso di risorse finanziarie che quell'azionista confisca a proprio vantaggio depauperando l'azienda che le produce. Il paradosso è qui: Telecom Italia dovrebbe essere l'azienda-figlia, invece nella realtà dei fatti è l'azienda-madre dei suoi genitori Olimpia, Pirelli e, su su, Marco Tronchetti Provera.
Questa anomalia c'è sempre stata in Telecom fin da quando fu privatizzata e affidata al "nocciolino duro" in cui la Fiat fungeva da leader di riferimento. All'epoca - si parla di un decennio fa - la Fiat con una decina di altri nomi rutilanti guidò per circa un anno la ex Stet monopolista pubblica della telefonia, con una partecipazione dello 0,6 per cento del capitale. Il consiglio d'amministrazione era guidato dalla famiglia Agnelli e da istituti bancari amici. Presidente era Guido Rossi che aveva accettato l'incarico per guidare la ex Stet privatizzata verso una struttura di "public company", cioè una società senza azionisti di riferimento guidata da un forte management.
Rossi non ha mai nascosto questa sua preferenza verso la "public company" quando si tratta di società di grandissime dimensioni con impegni di investimento ben superiori alle capacità del capitalismo familiare. Ma nel caso Telecom non riuscì a far passare quel suo disegno. Gli Agnelli glielo impedirono, forse anche per non mettere in crisi "ideologica" il capitalismo familiare che aveva il suo massimo esempio proprio a Torino nella struttura dell'accomandita di famiglia che attraverso Ifi-Ifil controllava il pianeta Fiat con il 30 per cento del capitale. Rossi abbandonò. E abbandonarono anche i torinesi subito dopo sotto l'offensiva di un'Opa di proporzioni per l'Italia colossali, lanciata dalla cosiddetta "razza padana": Colaninno-Gnutti sull'asse Mantova-Brescia, alla conquista di Roma. Con la simpatia del governo D'Alema e con i soldi delle banche. Cioè col debito. Che fu, all'epoca, di 38 miliardi.
C'è una differenza strutturale tra la Telecom di Colaninno-Gnutti e quella di Tronchetti-Benetton (nella quale per altro i bresciani di Gnutti sono rimasti fino all'altro ieri)? Una differenza c'è e non è da poco. La Telecom di Colaninno possedeva una rete di partecipazioni in aziende telefoniche all'estero che costituivano altrettanti tesoretti. Sono stati tutti venduti da Tronchetti due anni fa al prezzo di realizzo di 15 miliardi, salvo la Telefonica do Brasil che dovrebbe essere venduta nel prossimo futuro ad un prezzo tra i 7 e i 9 miliardi. Ciò vuol dire che il debito dell'epoca Colaninno, al netto di questi "asset", non era di 38 bensì di 13 miliardi, oppure di 23 se non si considera la società brasiliana. Fa una bella differenza rispetto ai 41 e passa miliardi di debito odierno.
Si tratta ora di capire come mai il debito all'epoca di Tronchetti sia raddoppiato e che fine abbiano fatto i 15 miliardi ricavati dalla vendita delle partecipazioni estere. Presto detto: sono serviti a finanziare l'Opa per l'acquisto delle partecipazioni di minoranza di Tim, la società di telefonia mobile che un anno e mezzo fa Tronchetti aveva deciso di fondere con Telecom portandone la partecipazione dal 70 al 100 per cento.
Ma perché volle il possesso totale del capitale Tim? Perché altrimenti la sua partecipazione in Telecom tramite Olimpia si sarebbe annacquata con l'ingresso dei soci minoritari di Tim. Per conseguenza il flusso di risorse finanziarie da Telecom ai piani alti della struttura societaria sarebbe diminuito. E perché - ultima domanda - voleva fondere Tim in Telecom? Per far lievitare il prezzo di Borsa di Telecom. Tronchetti comprò da Colaninno-Gnutti al prezzo di oltre 4 euro per azione, il doppio della quotazione di allora e di oggi in Borsa. Cercò in tutti i modi di risollevare quel prezzo cui sono legati i margini di garanzia chiesti dalle banche sui debiti di Olimpia e di Pirelli.
In sostanza l'intera politica di Tronchetti è stata condizionata dalla debolezza delle sue società a monte di Telecom, cioè dal suo personale interesse a dispetto di quello della Telecom e dell'ingente massa dei suoi azionisti-risparmiatori.
Questo è il punto debolissimo di Telecom: la confisca delle sue risorse in favore dell'azionista di riferimento.
A suo tempo Raul Gardini fece più o meno lo stesso con la Montedison. Il caso vuole che anche allora, per riparare a quel drammatico crack, fosse chiamato Guido Rossi. Anche allora il buco non era in Montedison ma in Ferruzzi-Gardini. Lo schema è identico. Ha ragione Bersani: l'anomalia è il capitalismo italiano, debole e monopoloide.
Questo è dunque il problema Telecom. Su di esso nasce "l'affaire" politico-mediatico. Tronchetti, che è già consapevole di essere arrivato alla fine della corsa, tenta il diversivo Murdoch: scorporare la rete telefonica di Telecom e scorporare anche Tim. La seconda per venderla e usare i soldi per diminuire il debito, la prima per trasformare Telecom in una società mediatica utilizzando la banda larga della rete e ottenendo da Murdoch i contenuti: programmi, sport, film, intrattenimento.
Deve necessariamente informare il presidente del Consiglio: la rete lavora infatti con licenza dello Stato, occupa suolo pubblico, è un bene pubblico a tutti gli effetti. Non può farne ciò che crede alla chetichella. Per di più lo Stato possiede ancora in Telecom la "golden share". Non intende usarla in conformità alle direttive europee ma essa gli dà tuttavia il diritto di essere informato.
Ci sono due colloqui tra Tronchetti e Prodi. Vertono sullo scorporo della rete. Non una parola sullo scorporo di Tim. Prodi legge quest'ultima decisione sui giornali. Tronchetti sostiene d'averlo informato. Prodi risponde con un comunicato nel quale racconta gli argomenti toccati nei due colloqui. Tim non c'è. Ci sono però altri dati sensibili sulla trattativa con Murdoch. Tronchetti protesta (con ragione) per quelle indiscrezioni del presidente del Consiglio. Ma non si limita a protestare. Fa recapitare a "24 Ore" e al "Corriere della Sera" un documento inviatogli pochi giorni prima dal consigliere di Prodi, Rovati, che contiene un piano (probabilmente redatto da una banca d'affari) per far acquistare dalla Cassa depositi e prestiti il 30 per cento della rete Telecom risanando in tal modo gran parte del debito dell'azienda telefonica.
Scandalo e altissime proteste politiche ed anche confindustriali: il governo vuole dunque resuscitare l'Iri? Rinazionalizzare Telecom?
La difesa di Prodi è debole. Nega di conoscere il piano Rovati. Nega di pensare ad un nuovo Iri. Ricorda (con ragione) che la Cassa depositi e prestiti è stata trasformata in società per azioni da Tremonti e predisposta ad operazioni private con soldi pubblici.
Ma ormai il problema è diventato "affaire" e come tale - dopo ulteriori resistenze di Prodi - sbarca in Parlamento, dove purtroppo si parlerà della spuma politica anziché della sostanza. Di Prodi, Rovati, Tronchetti, anziché di Telecom.
Sulla sostanza intanto è arrivato Guido Rossi. Anche lui suscitando con la sua ascesa-bis alla presidenza della società telefonica, un sommovimento nella Federcalcio e nel Coni.
Per ora Rossi è imperscrutabile, come è giusto che sia. Ma alcune induzioni si possono comunque fare fondatamente.
1. Allo stato dei fatti in Telecom c'è ancora un azionariato di comando: Olimpia, alias Tronchetti più Benetton. Rossi è stato eletto presidente da Olimpia, cioè dal consiglio di Telecom dominato da Olimpia. Immagino che, al momento della nomina, Tronchetti gli abbia chiesto se avrebbe proseguito o invece contrastato le decisioni di scorporo prese pochi giorni prima dal consiglio d'amministrazione. Immagino anche che Rossi gli abbia risposto positivamente.
2. Infatti appena insediato Rossi ha reso esplicita questa sua posizione: accetta le delibere del consiglio. Gli è stato chiesto: quindi Tim sarà venduta? Ha risposto: nelle delibere del consiglio la vendita non è prevista. E' la verità, non è prevista. Se vendere o no è un caso aperto ma lo decide non più Tronchetti bensì Rossi e il consiglio.
3. Olimpia possiede in Telecom il 18 per cento, alcuni fondi d'investimento e altri investitori istituzionali italiani e stranieri arrivano a più del 50 per cento. Il resto è di piccoli azionisti-risparmiatori. Personalmente credo che Rossi al più presto convocherà i fondi per sondare le loro intenzioni su Telecom, sulle sue controllate e sulla sua "governance" futura. Credo anche che punterà per la seconda volta a trasformare Telecom in una "public company".
4. Ovviamente Rossi è contrario ad un'ipotesi di intervento pubblico in Telecom e nella rete distributiva.
Ma qui non avrà ostacoli di sorta.
5. Una cordata italiana o mista per allargare il nocciolo duro? L'opinione di Rossi è sempre stata che l'epoca del capitalismo familiare - anche se composto da famiglie finanziariamente cospicue - è improprio per un'impresa delle dimensioni di Telecom. Personalmente credo perciò che non sarà questa la strada di Rossi. Se invece lo fosse, probabilmente su quella strada incontrerebbe la Fininvest di Berlusconi con tutte le complicanze che il conflitto di interessi dell'ex premier si porta appresso.
Comunque vedremo molto presto in quale direzione Rossi si inoltrerà. E' un grande tecnico. Ho notato che da qualche tempo ha acquistato anche un'esperienza politica prima nascosta dalla ruvidezza del giurista. Non può che essergli d'aiuto nella nuova impresa con cui dovrà cimentarsi.
(21 settembre 2006)
ROMA- L'affare Telecom approda in Parlamento; in Senato col ministro Gentiloni avremo la prova generale, poi alla Camera la prossima settimana con Prodi in persona. L'affare Telecom - come ama chiamarlo usando un francesismo peggiorativo l'ex ministro Tremonti - in realtà non è un "affaire", ma è certamente un problema. Del quale giova esaminare la dimensione, le incognite, le possibili soluzioni. E i protagonisti: Prodi (e Rovati), Tronchetti Provera, Guido Rossi. Nello sfondo del passato Colaninno; nello sfondo del futuro forse Berlusconi. Al centro l'azienda telefonica, malamente privatizzata e di fatto ancora in posizione monopolistica.
Proprio dall'azienda deve cominciare la nostra analisi. Dai suoi debiti. Dai suoi ricavi. Dai suoi (insufficienti) investimenti. Dal suo azionariato. Con una prima precisazione per sfatare un luogo comune ripetuto in questi giorni da tutti, nessuno escluso: non è affatto vero che Telecom sia schiacciata dal suo debito. Non è quella la sua malattia. Esso ammonta a 41 miliardi; probabilmente, calcolando operazioni a breve su titoli "derivati", si arriva a 45. Si tratta certamente d'una mole imponente e tuttavia gestibile. In buona parte sotto forma di bond a tasso fisso e lontana scadenza, e di anticipazioni bancarie a lungo termine.
A fronte di questo debito ci sono ricavi e "cash flow" altrettanto imponenti e un attivo patrimoniale di tutto rispetto. Non è dunque questo il punto debole dell'azienda, bensì la struttura dell'azionariato di controllo. Il punto debole, anzi debolissimo e patologico, non sta dentro Telecom Italia ma a monte, nella lunga catena societaria al vertice della quale troviamo la finanziaria personale di Tronchetti Provera il quale, da quel puntino lontano lontano, controlla la più grande azienda italiana con soltanto l'1 per cento di capitale, attraverso Pirelli e Olimpia. Anche queste società - che sono soltanto scatole finanziarie salvo un pallido residuo industriale nella Pirelli - sono fortemente indebitate senza tuttavia generare flussi di ricavi e di "cash flow". La loro fonte di sostentamento unica è Telecom, a condizione ovviamente che la grande azienda a valle trasformi a ritmo accelerato i suoi profitti in dividendi per i piani alti e altissimi della catena di controllo.
Si configura in tal modo una geometria non nuova nel capitalismo italiano, spinta in questo caso al suo limite estremo: il potere di comando che dal remoto puntino Tronchetti si irradia verso la base aziendale incatenandone le decisioni agli interessi dell'azionista di riferimento e il flusso di risorse finanziarie che quell'azionista confisca a proprio vantaggio depauperando l'azienda che le produce. Il paradosso è qui: Telecom Italia dovrebbe essere l'azienda-figlia, invece nella realtà dei fatti è l'azienda-madre dei suoi genitori Olimpia, Pirelli e, su su, Marco Tronchetti Provera.
Questa anomalia c'è sempre stata in Telecom fin da quando fu privatizzata e affidata al "nocciolino duro" in cui la Fiat fungeva da leader di riferimento. All'epoca - si parla di un decennio fa - la Fiat con una decina di altri nomi rutilanti guidò per circa un anno la ex Stet monopolista pubblica della telefonia, con una partecipazione dello 0,6 per cento del capitale. Il consiglio d'amministrazione era guidato dalla famiglia Agnelli e da istituti bancari amici. Presidente era Guido Rossi che aveva accettato l'incarico per guidare la ex Stet privatizzata verso una struttura di "public company", cioè una società senza azionisti di riferimento guidata da un forte management.
Rossi non ha mai nascosto questa sua preferenza verso la "public company" quando si tratta di società di grandissime dimensioni con impegni di investimento ben superiori alle capacità del capitalismo familiare. Ma nel caso Telecom non riuscì a far passare quel suo disegno. Gli Agnelli glielo impedirono, forse anche per non mettere in crisi "ideologica" il capitalismo familiare che aveva il suo massimo esempio proprio a Torino nella struttura dell'accomandita di famiglia che attraverso Ifi-Ifil controllava il pianeta Fiat con il 30 per cento del capitale. Rossi abbandonò. E abbandonarono anche i torinesi subito dopo sotto l'offensiva di un'Opa di proporzioni per l'Italia colossali, lanciata dalla cosiddetta "razza padana": Colaninno-Gnutti sull'asse Mantova-Brescia, alla conquista di Roma. Con la simpatia del governo D'Alema e con i soldi delle banche. Cioè col debito. Che fu, all'epoca, di 38 miliardi.
C'è una differenza strutturale tra la Telecom di Colaninno-Gnutti e quella di Tronchetti-Benetton (nella quale per altro i bresciani di Gnutti sono rimasti fino all'altro ieri)? Una differenza c'è e non è da poco. La Telecom di Colaninno possedeva una rete di partecipazioni in aziende telefoniche all'estero che costituivano altrettanti tesoretti. Sono stati tutti venduti da Tronchetti due anni fa al prezzo di realizzo di 15 miliardi, salvo la Telefonica do Brasil che dovrebbe essere venduta nel prossimo futuro ad un prezzo tra i 7 e i 9 miliardi. Ciò vuol dire che il debito dell'epoca Colaninno, al netto di questi "asset", non era di 38 bensì di 13 miliardi, oppure di 23 se non si considera la società brasiliana. Fa una bella differenza rispetto ai 41 e passa miliardi di debito odierno.
Si tratta ora di capire come mai il debito all'epoca di Tronchetti sia raddoppiato e che fine abbiano fatto i 15 miliardi ricavati dalla vendita delle partecipazioni estere. Presto detto: sono serviti a finanziare l'Opa per l'acquisto delle partecipazioni di minoranza di Tim, la società di telefonia mobile che un anno e mezzo fa Tronchetti aveva deciso di fondere con Telecom portandone la partecipazione dal 70 al 100 per cento.
Ma perché volle il possesso totale del capitale Tim? Perché altrimenti la sua partecipazione in Telecom tramite Olimpia si sarebbe annacquata con l'ingresso dei soci minoritari di Tim. Per conseguenza il flusso di risorse finanziarie da Telecom ai piani alti della struttura societaria sarebbe diminuito. E perché - ultima domanda - voleva fondere Tim in Telecom? Per far lievitare il prezzo di Borsa di Telecom. Tronchetti comprò da Colaninno-Gnutti al prezzo di oltre 4 euro per azione, il doppio della quotazione di allora e di oggi in Borsa. Cercò in tutti i modi di risollevare quel prezzo cui sono legati i margini di garanzia chiesti dalle banche sui debiti di Olimpia e di Pirelli.
In sostanza l'intera politica di Tronchetti è stata condizionata dalla debolezza delle sue società a monte di Telecom, cioè dal suo personale interesse a dispetto di quello della Telecom e dell'ingente massa dei suoi azionisti-risparmiatori.
Questo è il punto debolissimo di Telecom: la confisca delle sue risorse in favore dell'azionista di riferimento.
A suo tempo Raul Gardini fece più o meno lo stesso con la Montedison. Il caso vuole che anche allora, per riparare a quel drammatico crack, fosse chiamato Guido Rossi. Anche allora il buco non era in Montedison ma in Ferruzzi-Gardini. Lo schema è identico. Ha ragione Bersani: l'anomalia è il capitalismo italiano, debole e monopoloide.
Questo è dunque il problema Telecom. Su di esso nasce "l'affaire" politico-mediatico. Tronchetti, che è già consapevole di essere arrivato alla fine della corsa, tenta il diversivo Murdoch: scorporare la rete telefonica di Telecom e scorporare anche Tim. La seconda per venderla e usare i soldi per diminuire il debito, la prima per trasformare Telecom in una società mediatica utilizzando la banda larga della rete e ottenendo da Murdoch i contenuti: programmi, sport, film, intrattenimento.
Deve necessariamente informare il presidente del Consiglio: la rete lavora infatti con licenza dello Stato, occupa suolo pubblico, è un bene pubblico a tutti gli effetti. Non può farne ciò che crede alla chetichella. Per di più lo Stato possiede ancora in Telecom la "golden share". Non intende usarla in conformità alle direttive europee ma essa gli dà tuttavia il diritto di essere informato.
Ci sono due colloqui tra Tronchetti e Prodi. Vertono sullo scorporo della rete. Non una parola sullo scorporo di Tim. Prodi legge quest'ultima decisione sui giornali. Tronchetti sostiene d'averlo informato. Prodi risponde con un comunicato nel quale racconta gli argomenti toccati nei due colloqui. Tim non c'è. Ci sono però altri dati sensibili sulla trattativa con Murdoch. Tronchetti protesta (con ragione) per quelle indiscrezioni del presidente del Consiglio. Ma non si limita a protestare. Fa recapitare a "24 Ore" e al "Corriere della Sera" un documento inviatogli pochi giorni prima dal consigliere di Prodi, Rovati, che contiene un piano (probabilmente redatto da una banca d'affari) per far acquistare dalla Cassa depositi e prestiti il 30 per cento della rete Telecom risanando in tal modo gran parte del debito dell'azienda telefonica.
Scandalo e altissime proteste politiche ed anche confindustriali: il governo vuole dunque resuscitare l'Iri? Rinazionalizzare Telecom?
La difesa di Prodi è debole. Nega di conoscere il piano Rovati. Nega di pensare ad un nuovo Iri. Ricorda (con ragione) che la Cassa depositi e prestiti è stata trasformata in società per azioni da Tremonti e predisposta ad operazioni private con soldi pubblici.
Ma ormai il problema è diventato "affaire" e come tale - dopo ulteriori resistenze di Prodi - sbarca in Parlamento, dove purtroppo si parlerà della spuma politica anziché della sostanza. Di Prodi, Rovati, Tronchetti, anziché di Telecom.
Sulla sostanza intanto è arrivato Guido Rossi. Anche lui suscitando con la sua ascesa-bis alla presidenza della società telefonica, un sommovimento nella Federcalcio e nel Coni.
Per ora Rossi è imperscrutabile, come è giusto che sia. Ma alcune induzioni si possono comunque fare fondatamente.
1. Allo stato dei fatti in Telecom c'è ancora un azionariato di comando: Olimpia, alias Tronchetti più Benetton. Rossi è stato eletto presidente da Olimpia, cioè dal consiglio di Telecom dominato da Olimpia. Immagino che, al momento della nomina, Tronchetti gli abbia chiesto se avrebbe proseguito o invece contrastato le decisioni di scorporo prese pochi giorni prima dal consiglio d'amministrazione. Immagino anche che Rossi gli abbia risposto positivamente.
2. Infatti appena insediato Rossi ha reso esplicita questa sua posizione: accetta le delibere del consiglio. Gli è stato chiesto: quindi Tim sarà venduta? Ha risposto: nelle delibere del consiglio la vendita non è prevista. E' la verità, non è prevista. Se vendere o no è un caso aperto ma lo decide non più Tronchetti bensì Rossi e il consiglio.
3. Olimpia possiede in Telecom il 18 per cento, alcuni fondi d'investimento e altri investitori istituzionali italiani e stranieri arrivano a più del 50 per cento. Il resto è di piccoli azionisti-risparmiatori. Personalmente credo che Rossi al più presto convocherà i fondi per sondare le loro intenzioni su Telecom, sulle sue controllate e sulla sua "governance" futura. Credo anche che punterà per la seconda volta a trasformare Telecom in una "public company".
4. Ovviamente Rossi è contrario ad un'ipotesi di intervento pubblico in Telecom e nella rete distributiva.
Ma qui non avrà ostacoli di sorta.
5. Una cordata italiana o mista per allargare il nocciolo duro? L'opinione di Rossi è sempre stata che l'epoca del capitalismo familiare - anche se composto da famiglie finanziariamente cospicue - è improprio per un'impresa delle dimensioni di Telecom. Personalmente credo perciò che non sarà questa la strada di Rossi. Se invece lo fosse, probabilmente su quella strada incontrerebbe la Fininvest di Berlusconi con tutte le complicanze che il conflitto di interessi dell'ex premier si porta appresso.
Comunque vedremo molto presto in quale direzione Rossi si inoltrerà. E' un grande tecnico. Ho notato che da qualche tempo ha acquistato anche un'esperienza politica prima nascosta dalla ruvidezza del giurista. Non può che essergli d'aiuto nella nuova impresa con cui dovrà cimentarsi.
(21 settembre 2006)