da Emilio Pierini
Dopo nove giorni torno dalla Germania. Mia moglie è tedesca (Freiburg – Foresta Nera) così almeno una volta all’anno (con mio grande piacere) tocca a far visita ai crucchi…..
Prima scena : ad un km da dove abitano i miei suoceri c’è un campo dedito alla floricoltura molto particolare. Vi si possono trovare dei fiori bellissimi. Tu ti rechi in questo campo, lasci una piccola offerta in un box che trovi ai lati della strada e ti prendi i fiori che vuoi. L’offerta viene destinata dal comune alla manutenzione dello stesso campo. Ve lo immaginate in Italia ?
Seconda scena : prendiamo la bici ed andiamo nel centro della città vecchia. Freiburg e’ circondata da 500 km di piste ciclabili con segnaletica dedicata (stop, semafori, dare precedenza). Tutti viaggiano in bici. Il centro storico non e’ accessibile alle auto ma solo ai tram di ultimissima generazione (e dunque non inquinanti). Davanti all’Università di Friburgo (una delle più importanti in Germania) non trovi Mercedes o Bmw come alla Bocconi. Trovi duemila biciclette assicurate a degli appositi spazi con degli enormi catenacci. I tedeschi pedalano……
Terza scena : capito per caso in un quartiere particolare. Si chiama Vauban. Si tratta di un quartiere sorto su una zona della città occupata fino all’inizio degli anni 90 dalle forze armate francesi (poi ritiratesi). Ebbene non ci crederete. E’ un quartiere dove risiedono circa 2.500 persone che hanno rinunciato all’auto. Se vuoi muoverti con le quattro ruote c’è una sorta di rent a car a prezzi accessibilissimi. Si viaggia in Tram (a prezzi agevolatissimi) ed in bicicletta.
L’unico requisito richiesto per abitarci e’ rinunciare all’auto. Ovviamente il quartiere e’ riscaldato grazie a pannelli fotovoltaici ed all’energia solare. Le case sono state progettate in materiali termici speciali, con tripli vetri e disposizione tale da favorire l’esposizione solare. Se lo vedesse Pecoraro Scanio questo quartiere……
Quarta scena : scopro che l’asilo del quartiere dove abita mia moglie ha un tetto interamente coperto da pannelli solari. All’ingresso della scuola c’è un computer con uno schermo visibile anche quando l’istituto e’ chiuso. Puoi consultare quando vuoi quanta energia si sta producendo ed il surplus che viene venduto dallo stesso Comune alla compagnia elettrica statale. I soldi del ricavato servono a finanziare altri progetti “verdi”. Mi prendo a schiaffi da solo per realizzare se e’ tutto vero……
Quinta scena : sono in città di nuovo. Aspetto il tram che ci riporta a casa dopo un pomeriggio di shopping. Il centro storico e’ bellissimo, circondato dalla foresta nera nella quale fanno capolino dalle vette più alte le grandi pale per l’energia eolica. Si sentono solo i rumori delle ruote delle biciclette in una città affollatissima visto che e’ l’ora di punta. Arriva il tram delle ore 13,11 alle ore 13.10 e 58 secondi. Si ferma, si aprono le porte, io e la mia famiglia saliamo.
Le porte si chiudono. Il semaforo dà il rosso ergo siamo ancora fermi. Una signora di una certa età bussa con insistenza alla porta chiusa del tram fermo. Vorrebbe semplicemente salire. L’autista non si scompone. Avrebbe dovuto soltanto premere un tasto, aprire mezza porta e richiudere nella attesa del “verde”. Niente. La signora si dispera. Io, da italiano, non capisco.
E quel mio non capire marca la differenza tra un paese che funziona ed uno che non funziona.
La vecchietta sarebbe potuta entrare senza recare nessun disturbo, medito. Mia moglie, dal suo fare teutonico, mi ricorda molto semplicemente che da lì a cinque minuti sarebbe passato un altro tram puntualissimo.
Viva la Germania….
30.6.07
25.6.07
Un elmo cornuto per capire il Nord
SATIRA PREVENTIVA di Michele Serra
Cultura La nuova giunta della vostra cittadina ha appena ridotto la cifra per le attività culturali da ventimila euro a cento, stanziandoli per l'acquisto di venti pesci rossi per la fontana civica. Se volete rendervi odioso, facendo pesare a gente che lavora la vostra presunta cultura, protestate pure. Non farete che approfondire il solco tra la sinistra snob e i genuini sentimenti popolari. Meglio, dunque, stabilire una collaborazione, mediando tra le vostre ubbie intellettuali e lo stato delle cose: proponete di realizzare, come programma culturale, una coreografia per pesci rossi, da far dirigere con una bacchetta di legno al presidente della Provincia. Lui si sentirà gratificato, voi avrete la vostra attività artistica del cazzo, che volete di più?
Etica sessuale Vi dà fastidio che Calderoli inveisca contro i culattoni? Non sopportate che il vostro garagista sia andato al Family Day con l'amante rumena dicendo alla moglie che andava a Roma a comperare uno spinterogeno? Vi ribellate se il parroco definisce contronatura gli omosessuali? Beh, vuol dire che vivete rinchiusi da anni nei vostri salotti fichetti, e non frequentate più i luoghi normali, come un bar pieno di camionisti turchi, il reparto punitivo di una caserma della Legione Straniera, un chiosco frequentato dai clienti delle prostitute. Avete perso i contatti con i sentimenti delle persone semplici. Siete voi che dovreste vergognarvi.
Smog Eravate convinti di essere in un garage sotterraneo e avete chiesto dov'era l'uscita. Vi hanno risposto che eravate già usciti e quel velo catramato sopra di voi era il cielo di Lombardia, così brutto quando è brutto. Beh, non fatela troppo lunga. L'operosità padana ha già pensato a tutto. Quando lo smog sarà così denso da formare una cupola compatta, basterà metterlo in sicurezza con un paio di tiranti da Torino a Trieste, e il Nord diventerà il più grande capannone del mondo. Non fate quella faccia. Il Nord si offende se voi siete tristi.
A che cosa è imputabile la recrudescenza della questione settentrionale? Gli esperti concordano: la questione settentrionale si è aggravata a causa della incomprensione della sinistra, incapace di cogliere le istanze profonde del Nord. Ecco dunque un breve prontuario di comportamento per le persone di sinistra desiderose di cambiare finalmente atteggiamento.
Razzismo Durante l'annuale Festa del Mestolone, in Val Trompia, vedete un energumeno travestito da guerriero cimbro che estrae dalla bisaccia di pelle di capra un randello e insegue un tunisino. Non cedete al pregiudizio: tirare in ballo il razzismo è pura pigrizia culturale. Quell'uomo è il sindaco, eletto con l'80 per cento dei voti, e sta celebrando la sua riscoperta delle radici ataviche, ubriacandosi di sidro e difendendo il focolare. Anche se il sidro vi ripugna, bevetene un bel boccale insieme a lui, indossate l'elmo cornuto che vi porge, recitate la preghiera druida e attendete l'alba cardando la lana grezza con uno spazzolone di ferro. Solo al primo lucore dell'aurora, quando sarete ben certo di non avere urtato la sensibilità del sindaco, potrete chiamare l'ambulanza per il tunisino.
Tasse Il padre del compagno di banco di vostro figlio è un piccolo industriale. Produce componenti per macchine a tubo. Ogni volta che vi incontra, vi deride perché pagate le tasse pur avendo un reddito che è un quarto del suo. Perché contrariarlo? Solo per sbattergli in faccia la vostra cosiddetta superiorità civica? Dimostratevi spiritosi, piuttosto: ridete insieme a lui del fatto, in effetti molto divertente, che siete voi, pur meno abbiente, a pagargli la sanità, la scuola del figlio, l'asfaltatura delle strade sulle quali sfreccia con la sua enorme Audi intestata a una società di leasing panamense. Perderete qualche grado della vostra spocchia di sinistra e guadagnerete un amico: per compensarvi, vi regalerà componenti per macchine a tubo. Se non sapete cosa farne, è perché vi sfugge la dinamica dell'economia del Nord.
Razzismo Durante l'annuale Festa del Mestolone, in Val Trompia, vedete un energumeno travestito da guerriero cimbro che estrae dalla bisaccia di pelle di capra un randello e insegue un tunisino. Non cedete al pregiudizio: tirare in ballo il razzismo è pura pigrizia culturale. Quell'uomo è il sindaco, eletto con l'80 per cento dei voti, e sta celebrando la sua riscoperta delle radici ataviche, ubriacandosi di sidro e difendendo il focolare. Anche se il sidro vi ripugna, bevetene un bel boccale insieme a lui, indossate l'elmo cornuto che vi porge, recitate la preghiera druida e attendete l'alba cardando la lana grezza con uno spazzolone di ferro. Solo al primo lucore dell'aurora, quando sarete ben certo di non avere urtato la sensibilità del sindaco, potrete chiamare l'ambulanza per il tunisino.
Tasse Il padre del compagno di banco di vostro figlio è un piccolo industriale. Produce componenti per macchine a tubo. Ogni volta che vi incontra, vi deride perché pagate le tasse pur avendo un reddito che è un quarto del suo. Perché contrariarlo? Solo per sbattergli in faccia la vostra cosiddetta superiorità civica? Dimostratevi spiritosi, piuttosto: ridete insieme a lui del fatto, in effetti molto divertente, che siete voi, pur meno abbiente, a pagargli la sanità, la scuola del figlio, l'asfaltatura delle strade sulle quali sfreccia con la sua enorme Audi intestata a una società di leasing panamense. Perderete qualche grado della vostra spocchia di sinistra e guadagnerete un amico: per compensarvi, vi regalerà componenti per macchine a tubo. Se non sapete cosa farne, è perché vi sfugge la dinamica dell'economia del Nord.
Cultura La nuova giunta della vostra cittadina ha appena ridotto la cifra per le attività culturali da ventimila euro a cento, stanziandoli per l'acquisto di venti pesci rossi per la fontana civica. Se volete rendervi odioso, facendo pesare a gente che lavora la vostra presunta cultura, protestate pure. Non farete che approfondire il solco tra la sinistra snob e i genuini sentimenti popolari. Meglio, dunque, stabilire una collaborazione, mediando tra le vostre ubbie intellettuali e lo stato delle cose: proponete di realizzare, come programma culturale, una coreografia per pesci rossi, da far dirigere con una bacchetta di legno al presidente della Provincia. Lui si sentirà gratificato, voi avrete la vostra attività artistica del cazzo, che volete di più?
Etica sessuale Vi dà fastidio che Calderoli inveisca contro i culattoni? Non sopportate che il vostro garagista sia andato al Family Day con l'amante rumena dicendo alla moglie che andava a Roma a comperare uno spinterogeno? Vi ribellate se il parroco definisce contronatura gli omosessuali? Beh, vuol dire che vivete rinchiusi da anni nei vostri salotti fichetti, e non frequentate più i luoghi normali, come un bar pieno di camionisti turchi, il reparto punitivo di una caserma della Legione Straniera, un chiosco frequentato dai clienti delle prostitute. Avete perso i contatti con i sentimenti delle persone semplici. Siete voi che dovreste vergognarvi.
Smog Eravate convinti di essere in un garage sotterraneo e avete chiesto dov'era l'uscita. Vi hanno risposto che eravate già usciti e quel velo catramato sopra di voi era il cielo di Lombardia, così brutto quando è brutto. Beh, non fatela troppo lunga. L'operosità padana ha già pensato a tutto. Quando lo smog sarà così denso da formare una cupola compatta, basterà metterlo in sicurezza con un paio di tiranti da Torino a Trieste, e il Nord diventerà il più grande capannone del mondo. Non fate quella faccia. Il Nord si offende se voi siete tristi.
Il vero viaggio si attua sempre dentro sé stessi
di Maria Pia Forte - La Sicila
Estate, tempo di partenze. Il senso di distanza da tutto e insieme di "ritorno a casa" che si prova entrando la sera in un'anonima camera d'albergo di una città estranea; la nudità dell'anima che ritroviamo in una stazione ferroviaria o in un aeroporto mentre ci scopriamo parte di una tribù ben più vasta di quella in cui trascorriamo la vita di ogni giorno, una tribù perennemente in cammino, per svago o per necessità; il sentimento di leggerezza che ci pervade non appena saliamo su qualsiasi mezzo che ci conduca altrove... Sono questi momenti che ci fanno capire quanto il viaggio sia un bisogno primigenio dell'uomo. Perché se partire è un po' morire, è anche vero che partire è vivere. Viviamo in quanto camminiamo, in cerca della nostra essenza più veritiera, o di conoscenza, lavoro, ricchezza, libertà, pace, persino di Dio; e così facendo maturiamo, imparando ad affrontare il viaggio della vita.
"L'uomo nasce nomade, oltre che nudo: senza città né accampamenti, senza difesa. Un marchio che rimane scolpito nelle sue profondità, per poi emergere a ogni occasione", scrive Sabino Chialà in Parole in cammino (edizioni Qiqajon, 226 pagine, 13,00 euro): un libro di affascinanti meditazioni su questo innato nomadismo umano, accompagnate da un ricco corredo di stralci letterari di ogni tempo e luogo, in particolare poetici, che le amplificano disegnando un periplo intorno al senso del viaggio, esaminato attraverso le sue tappe e le sue molteplici forme e dimensioni, senza trascurare i viaggi mitici come quelli di Gilgamesh, Enea, Ulisse o Dante.
A Sabino Chialà, che è monaco della Comunità di Bose fondata da Enzo Bianchi ed è studioso di ebraico e siriaco, chiedo che cosa l'abbia spinto a scrivere questo bel saggio che tutti dovrebbero mettere nella propria valigia per centellinarlo strada facendo.
"Negli ultimi dieci anni, viaggiando soprattutto in Medio Oriente soprattutto per ragioni di studio - mi dice questo affabile viaggiatore, - ho approfondito il senso del camminare. Si è fatta spazio in me la consapevolezza che camminare è vivere, che l'arte del camminare non è un 'di più' rispetto all'arte del vivere, ma ne è il volto per eccellenza. A questa consapevolezza mi sono sentito spesso guidato dalla lettura di alcune pagine, nelle quali mi è sembrato di cogliere un frammento dell'itinerario che si andava disegnando nel mio camminare, pagine che leggevo con sempre maggior passione e che infine ho deciso di raccogliere. Di qui il titolo Parole in cammino, nate in cammino e ancora in cammino. Questo non è un libro sul viaggio, ma vorrebbe essere un compagno di viaggio."
- Bruce Chatwin ha scritto che "il sapiente non tenterà di fermare, bensì di dare, con il viaggio, una forma all'irrequietezza umana". Ma a volte il viaggio non rischia di risolversi in una fuga, una ricerca di diversivi per colmare il vuoto della propria esistenza?
"Per questo abbiamo bisogno di imparare a viaggiare. Può accadere, però, che anche un 'fuggire' si trasformi, strada facendo, in 'camminare', che un 'disperdersi' si apra a un 'ritrovarsi'. La purificazione avviene per via. La speranza è che la superficialità, spossata dalla fatica del viaggio, ceda il passo alla profondità. E' camminando che s'impara a camminare e a trovare la direzione, o meglio, come direbbe Konstantinos Kavafis, a riconoscere la via che si sta percorrendo e a farsene pienamente partecipi."
- Il cammino, lei scrive, è un piacere in sé, a prescindere dalla meta: la meta è "disseminata in ogni istante del cammino". Tanto che Kavafis raccomanda : "Prega che sia lunga la via, / colma d'avventure colma di conoscenze". Un piacere che si è scoperto solo in epoca moderna, ma che proprio quest'epoca, con la sua ansia di sfruttare al massimo il tempo, rischia di vanificare. Come fare per essere dei viaggiatori capaci di fonderci, di "perderci" in ciò in cui c'imbattiamo?
"Viaggiare è innanzitutto un atto di umiltà: è pensare che vi è dall'altro oltre quello che siamo e sappiamo, che in un qualche luogo vi sia un qualcuno capace di consegnarci una parola di vita. Per questo ci mettiamo in cammino: per ascoltare, vedere, toccare, assaporare dell'altro. Per non vanificare dunque il nostro viaggio - anche quello della vita, - è necessario lottare contro tutto quello che tenta di convincerci del contrario. Dobbiamo coltivare in noi il 'bisogno dell'altro'. Solo chi avverte questo bisogno viaggia davvero."
- La storia è stata scritta dai trasmigratori - fuggitivi, carovanieri, pastori, pellegrini, esploratori, che hanno abbattuto barriere e tracciato strade, - più che dai fondatori di città?
"Tutte le grandi civiltà nascono da un esodo, da un distacco. Anche nell'ambito della fede, il grande padre dei credenti, Abramo, ci è presentato come uno 'scacciato'; le prime parole che un Dio a lui sconosciuto gli dice sono: 'Vattene dalla tua terra'. Davanti a lui vi è una promessa vaga ('verso la terra che io ti indicherò'); unica certezza è la necessità di una partenza. E' camminando che si crea. Le città sembrano essere nient'altro che caravanserragli, luoghi di ristoro e di conservazione, depositi di sapienza, anche ; ma di una sapienza cresciuta nelle asperità del camminare."
- L'amore per il cammino è il tratto che forse più accomuna i popoli e le letterature di Oriente e Occidente?
"E' quanto ho tentato di mostrare con l'ultima sezione del libro, dove ho evocato alcuni dei grandi racconti di viaggio, dal mito alla storia, da Gilgamesh a Chatwin. Essi attestano non solo che il viaggio è una delle esperienze primordiali dell'umanità, delle civiltà d'Oriente e d'Occidente, ma anche che gli esseri umani hanno sentito un bisogno irresistibile di narrare questo loro peregrinare, di consegnarlo ai posteri, come una delle eredità più preziose."
- Due bei versi del poeta sufi persiano Galal al-Din Rumi dicono : "O uomo! Viaggia da te stesso in te stesso, / ché da simile viaggio la terra diventa purissimo oro". Una "discesa in sé" che riuscirà più facilmente a chi viaggia da solo?
"Il viaggiatore è un solitario, ma allo stesso tempo è un essere comunitario: il viaggio crea le complicità più profonde che la vita possa riservare. Eppure il viaggiatore resta sempre anche un solitario, appunto perché il vero viaggio è in lui, verso un luogo a lui solo accessibile.
Estate, tempo di partenze. Il senso di distanza da tutto e insieme di "ritorno a casa" che si prova entrando la sera in un'anonima camera d'albergo di una città estranea; la nudità dell'anima che ritroviamo in una stazione ferroviaria o in un aeroporto mentre ci scopriamo parte di una tribù ben più vasta di quella in cui trascorriamo la vita di ogni giorno, una tribù perennemente in cammino, per svago o per necessità; il sentimento di leggerezza che ci pervade non appena saliamo su qualsiasi mezzo che ci conduca altrove... Sono questi momenti che ci fanno capire quanto il viaggio sia un bisogno primigenio dell'uomo. Perché se partire è un po' morire, è anche vero che partire è vivere. Viviamo in quanto camminiamo, in cerca della nostra essenza più veritiera, o di conoscenza, lavoro, ricchezza, libertà, pace, persino di Dio; e così facendo maturiamo, imparando ad affrontare il viaggio della vita.
"L'uomo nasce nomade, oltre che nudo: senza città né accampamenti, senza difesa. Un marchio che rimane scolpito nelle sue profondità, per poi emergere a ogni occasione", scrive Sabino Chialà in Parole in cammino (edizioni Qiqajon, 226 pagine, 13,00 euro): un libro di affascinanti meditazioni su questo innato nomadismo umano, accompagnate da un ricco corredo di stralci letterari di ogni tempo e luogo, in particolare poetici, che le amplificano disegnando un periplo intorno al senso del viaggio, esaminato attraverso le sue tappe e le sue molteplici forme e dimensioni, senza trascurare i viaggi mitici come quelli di Gilgamesh, Enea, Ulisse o Dante.
A Sabino Chialà, che è monaco della Comunità di Bose fondata da Enzo Bianchi ed è studioso di ebraico e siriaco, chiedo che cosa l'abbia spinto a scrivere questo bel saggio che tutti dovrebbero mettere nella propria valigia per centellinarlo strada facendo.
"Negli ultimi dieci anni, viaggiando soprattutto in Medio Oriente soprattutto per ragioni di studio - mi dice questo affabile viaggiatore, - ho approfondito il senso del camminare. Si è fatta spazio in me la consapevolezza che camminare è vivere, che l'arte del camminare non è un 'di più' rispetto all'arte del vivere, ma ne è il volto per eccellenza. A questa consapevolezza mi sono sentito spesso guidato dalla lettura di alcune pagine, nelle quali mi è sembrato di cogliere un frammento dell'itinerario che si andava disegnando nel mio camminare, pagine che leggevo con sempre maggior passione e che infine ho deciso di raccogliere. Di qui il titolo Parole in cammino, nate in cammino e ancora in cammino. Questo non è un libro sul viaggio, ma vorrebbe essere un compagno di viaggio."
- Bruce Chatwin ha scritto che "il sapiente non tenterà di fermare, bensì di dare, con il viaggio, una forma all'irrequietezza umana". Ma a volte il viaggio non rischia di risolversi in una fuga, una ricerca di diversivi per colmare il vuoto della propria esistenza?
"Per questo abbiamo bisogno di imparare a viaggiare. Può accadere, però, che anche un 'fuggire' si trasformi, strada facendo, in 'camminare', che un 'disperdersi' si apra a un 'ritrovarsi'. La purificazione avviene per via. La speranza è che la superficialità, spossata dalla fatica del viaggio, ceda il passo alla profondità. E' camminando che s'impara a camminare e a trovare la direzione, o meglio, come direbbe Konstantinos Kavafis, a riconoscere la via che si sta percorrendo e a farsene pienamente partecipi."
- Il cammino, lei scrive, è un piacere in sé, a prescindere dalla meta: la meta è "disseminata in ogni istante del cammino". Tanto che Kavafis raccomanda : "Prega che sia lunga la via, / colma d'avventure colma di conoscenze". Un piacere che si è scoperto solo in epoca moderna, ma che proprio quest'epoca, con la sua ansia di sfruttare al massimo il tempo, rischia di vanificare. Come fare per essere dei viaggiatori capaci di fonderci, di "perderci" in ciò in cui c'imbattiamo?
"Viaggiare è innanzitutto un atto di umiltà: è pensare che vi è dall'altro oltre quello che siamo e sappiamo, che in un qualche luogo vi sia un qualcuno capace di consegnarci una parola di vita. Per questo ci mettiamo in cammino: per ascoltare, vedere, toccare, assaporare dell'altro. Per non vanificare dunque il nostro viaggio - anche quello della vita, - è necessario lottare contro tutto quello che tenta di convincerci del contrario. Dobbiamo coltivare in noi il 'bisogno dell'altro'. Solo chi avverte questo bisogno viaggia davvero."
- La storia è stata scritta dai trasmigratori - fuggitivi, carovanieri, pastori, pellegrini, esploratori, che hanno abbattuto barriere e tracciato strade, - più che dai fondatori di città?
"Tutte le grandi civiltà nascono da un esodo, da un distacco. Anche nell'ambito della fede, il grande padre dei credenti, Abramo, ci è presentato come uno 'scacciato'; le prime parole che un Dio a lui sconosciuto gli dice sono: 'Vattene dalla tua terra'. Davanti a lui vi è una promessa vaga ('verso la terra che io ti indicherò'); unica certezza è la necessità di una partenza. E' camminando che si crea. Le città sembrano essere nient'altro che caravanserragli, luoghi di ristoro e di conservazione, depositi di sapienza, anche ; ma di una sapienza cresciuta nelle asperità del camminare."
- L'amore per il cammino è il tratto che forse più accomuna i popoli e le letterature di Oriente e Occidente?
"E' quanto ho tentato di mostrare con l'ultima sezione del libro, dove ho evocato alcuni dei grandi racconti di viaggio, dal mito alla storia, da Gilgamesh a Chatwin. Essi attestano non solo che il viaggio è una delle esperienze primordiali dell'umanità, delle civiltà d'Oriente e d'Occidente, ma anche che gli esseri umani hanno sentito un bisogno irresistibile di narrare questo loro peregrinare, di consegnarlo ai posteri, come una delle eredità più preziose."
- Due bei versi del poeta sufi persiano Galal al-Din Rumi dicono : "O uomo! Viaggia da te stesso in te stesso, / ché da simile viaggio la terra diventa purissimo oro". Una "discesa in sé" che riuscirà più facilmente a chi viaggia da solo?
"Il viaggiatore è un solitario, ma allo stesso tempo è un essere comunitario: il viaggio crea le complicità più profonde che la vita possa riservare. Eppure il viaggiatore resta sempre anche un solitario, appunto perché il vero viaggio è in lui, verso un luogo a lui solo accessibile.
21.6.07
La voce degli innocenti nel lager della memoria
di Giorgio Acquaviva
IL GIORNO 25 gennaio 2004
E' sceso in quel buco nero della storia dell'umanità che è Auschwitz, ne ha studiato ogni più piccolo angolo e svelato ogni più piccolo segreto, e vive portandosi appresso grumi di dolore. Eppure Marcello Pezzetti, 50 anni, lodigiano — fra i massimi studiosi mondiali della macchina di sterminio nazista — è un uomo che sprizza gioia e speranza da tutti i pori. E allora capisci perché l'incontro con Roberto Benigni, ai tempi del film "La vita è bella" fu qualcosa di straordinario: i due hanno in comune la capacità del sorriso anche di fronte alle tragedie più inumane.
Una speranza Pezzetti coltiva nel cuore: che ciò che fu non si ripeta, che le giovani generazioni crescano con consapevolezza e responsabilità, che sulla Shoà non cali l'oblio. (Una parentesi: dice sempre Shoà e non Olocausto, che è termine non amato dagli ebrei, perché ha un che di "sacrificale" che sembra fuori posto quando si parla di sterminio pianificato)
Quando gli chiedi come mai è finito a studiare proprio l'inferno di Auschwitz, Pezzetti risponde senza esitazione: «II problema non è come uno ci finisce dentro, ma se e come uno ne possa uscire. Eppure i sopravvissuti mi avevano messo in guardia: sei sicuro di volerti interessare di questo? E avevano ragione...
E' un peso tremendo convivere con il male assoluto..". Per chi si interessa a quel tema - pochissimi al mondo -non c'è più distinzione fra vita privata e lavoro: «II vero rischio è di fare dei nostri figli, "figli della Shoà"». Marcello Pezzetti ha cominciato prestissimo a interessarsi di Auschwitz, ai tempi dell'università. Cominciò a frequentare il Centro di documentazione ebraica di Milano (in via Eupili) e decise che quello sarebbe stato il suo lavoro, per sempre. La prima volta, all'inizio degli anni '70, ci mise tre mesi ad avere il visto per andare a Oswjecim, nella Polonia comunista, e ad entrare nel recinto del lager. Uno choc. «Non si capiva cosa era successo veramente. Se non era propaganda, ci somigliava molto. Il dépliant faceva l'inventario degli orrori, ma non spiegava nulla. Da nessuna parte ho trovato la parola "ebrei"».
Finché un giorno fece la scoperta fondamentale, lo snodo attorno a cui ruotava la "soluzione finale". Sulla Jù-den Rampe di Auschwitz avveniva la selezione: da una parte gli ebrei (e gli zingari), subito destinati alla morte; dall'altra i polacchi, i russi, i romeni, prigionieri di guerra, politici, minoranze varie, destinati al lavoro forzato.
E allora ecco emergere - anche dalle carte dei piani di costruzione maniacalmente conservate dai tedeschi - Auschwitz-1 (il campo di concentramento) e Auschwitz-2 o Birkenau, con le strutture per lo sterminio, le camere a gas, i forni crematori'. Le fosse. Ora si può dire che quella macchina di morte non ha più segreti.
Con buona pace dei "revisionisti" e dei "negazionisti". E il mondo non può far più finta di non sapere che ci fu una unicità, una specificità atroce nello sterminio degli ebrei. Il che non significa sottovalutazione delle sofferenze degli altri, dal genocidio degli armeni alle foibe titine, anche perché risulterebbe inumano qualsiasi tentativo di fare una classifica del dolore e delle sofferenze. E ora Pezzetti trascorre buona parte del tempo a parlare, illustrare, convincere, spiegare, raccontare.
E' consulente della Commissione Europea e del Ministero dell'Istruzione, lavora con Yadva
Shem la Shoà) a Gerusalemme e con istituti storici di mezzo mondo. La sua "tana" rimane il Cdec che è tuttora il più accreditato istituto storico ebraico italiani (ma perché non collegarlo ai nuovi musei di Roma e Ferrara per mettere in circuito la straordinaria videoteca di cui dispone?). Il Centro soffre di scarsità di mezzi finanziari: ha un bilancio di 600 milioni di lire, i contributi pubblici arrivano a stento a 90.
C'è un via vai continuo di troupe televisive e di ricercatori, di studenti che lavorano alla tesi di laurea e gruppi di alunni dei licei in cerca di materiale. Non sarebbe il caso di rico-noscergli pubblicamente (e concretamente) una funzione sociale e fame un luogo in cui si custodisce la memoria collettiva che - sola - può fare da base a ogni futuro discorso di pace? A proposito: fra due giorni (il 27 gennaio, che ricorda l'arrivo dell'Armata Rossa ad Auschwitz) si celebra la "Giornata della memoria".
Un grazie di cuore a Marcello e agli altri come lui.
IL GIORNO 25 gennaio 2004
E' sceso in quel buco nero della storia dell'umanità che è Auschwitz, ne ha studiato ogni più piccolo angolo e svelato ogni più piccolo segreto, e vive portandosi appresso grumi di dolore. Eppure Marcello Pezzetti, 50 anni, lodigiano — fra i massimi studiosi mondiali della macchina di sterminio nazista — è un uomo che sprizza gioia e speranza da tutti i pori. E allora capisci perché l'incontro con Roberto Benigni, ai tempi del film "La vita è bella" fu qualcosa di straordinario: i due hanno in comune la capacità del sorriso anche di fronte alle tragedie più inumane.
Una speranza Pezzetti coltiva nel cuore: che ciò che fu non si ripeta, che le giovani generazioni crescano con consapevolezza e responsabilità, che sulla Shoà non cali l'oblio. (Una parentesi: dice sempre Shoà e non Olocausto, che è termine non amato dagli ebrei, perché ha un che di "sacrificale" che sembra fuori posto quando si parla di sterminio pianificato)
Quando gli chiedi come mai è finito a studiare proprio l'inferno di Auschwitz, Pezzetti risponde senza esitazione: «II problema non è come uno ci finisce dentro, ma se e come uno ne possa uscire. Eppure i sopravvissuti mi avevano messo in guardia: sei sicuro di volerti interessare di questo? E avevano ragione...
E' un peso tremendo convivere con il male assoluto..". Per chi si interessa a quel tema - pochissimi al mondo -non c'è più distinzione fra vita privata e lavoro: «II vero rischio è di fare dei nostri figli, "figli della Shoà"». Marcello Pezzetti ha cominciato prestissimo a interessarsi di Auschwitz, ai tempi dell'università. Cominciò a frequentare il Centro di documentazione ebraica di Milano (in via Eupili) e decise che quello sarebbe stato il suo lavoro, per sempre. La prima volta, all'inizio degli anni '70, ci mise tre mesi ad avere il visto per andare a Oswjecim, nella Polonia comunista, e ad entrare nel recinto del lager. Uno choc. «Non si capiva cosa era successo veramente. Se non era propaganda, ci somigliava molto. Il dépliant faceva l'inventario degli orrori, ma non spiegava nulla. Da nessuna parte ho trovato la parola "ebrei"».
Finché un giorno fece la scoperta fondamentale, lo snodo attorno a cui ruotava la "soluzione finale". Sulla Jù-den Rampe di Auschwitz avveniva la selezione: da una parte gli ebrei (e gli zingari), subito destinati alla morte; dall'altra i polacchi, i russi, i romeni, prigionieri di guerra, politici, minoranze varie, destinati al lavoro forzato.
E allora ecco emergere - anche dalle carte dei piani di costruzione maniacalmente conservate dai tedeschi - Auschwitz-1 (il campo di concentramento) e Auschwitz-2 o Birkenau, con le strutture per lo sterminio, le camere a gas, i forni crematori'. Le fosse. Ora si può dire che quella macchina di morte non ha più segreti.
Con buona pace dei "revisionisti" e dei "negazionisti". E il mondo non può far più finta di non sapere che ci fu una unicità, una specificità atroce nello sterminio degli ebrei. Il che non significa sottovalutazione delle sofferenze degli altri, dal genocidio degli armeni alle foibe titine, anche perché risulterebbe inumano qualsiasi tentativo di fare una classifica del dolore e delle sofferenze. E ora Pezzetti trascorre buona parte del tempo a parlare, illustrare, convincere, spiegare, raccontare.
E' consulente della Commissione Europea e del Ministero dell'Istruzione, lavora con Yadva
Shem la Shoà) a Gerusalemme e con istituti storici di mezzo mondo. La sua "tana" rimane il Cdec che è tuttora il più accreditato istituto storico ebraico italiani (ma perché non collegarlo ai nuovi musei di Roma e Ferrara per mettere in circuito la straordinaria videoteca di cui dispone?). Il Centro soffre di scarsità di mezzi finanziari: ha un bilancio di 600 milioni di lire, i contributi pubblici arrivano a stento a 90.
C'è un via vai continuo di troupe televisive e di ricercatori, di studenti che lavorano alla tesi di laurea e gruppi di alunni dei licei in cerca di materiale. Non sarebbe il caso di rico-noscergli pubblicamente (e concretamente) una funzione sociale e fame un luogo in cui si custodisce la memoria collettiva che - sola - può fare da base a ogni futuro discorso di pace? A proposito: fra due giorni (il 27 gennaio, che ricorda l'arrivo dell'Armata Rossa ad Auschwitz) si celebra la "Giornata della memoria".
Un grazie di cuore a Marcello e agli altri come lui.
12.6.07
ATTENTI A QUEI DUE
da Domenico De Franco
Avrei dovuto capirlo subito che era una trappola. " Non preoccupatevi, arrivate quando volete, quando siete qui a Cornedo, partiamo!" ci aveva rassicurati Claudio. Io, Paolo, Tommaso e Paola li abbiamo li aspettati nella hall (!?!) dell'Hotel Vittoria. Durante l'attesa pensavo ai 25-30 chilometri che avremmo dovuto percorrere, chiedendomi se ce l'avrei fatta senza problemi. Poi, considerando che il gruppo era composto da un'insegnate di matematica, da un pensionato vicentino, da due giornalisti, uno dalla barba bianca e l'altro fisiognomicamente molto diverso da un decatleta, dicevo, tra me e me, che lì in mezzo in fondo non sfiguravo. Quanto mi sbagliassi l'avrei scoperto solo dopo!
Pochi minuti e li abbiamo visti scendere sfoggiando le splendide magliette tecniche della marcetta: Giorgio con la versione rossa (molto bella) e Claudio con quella bianca (più adatta alla marcia sotto il solleone). Dopo i saluti di rito diamo un'occhiata ai rispettivi zaini: avevo premesso a Claudio, vittima di un brutto mal di schiena, di fare a turno con Tommy per portarglielo: è all'incirca alto come un bambino in età scolare (lo zaino intendo...). Provo ad alzarlo: pesa anche, come un bambino delle elementari. Ovviamente non faccio nessun commento, anche perchè il Sabellone se lo incolla lui: "Per i primi chilometri dovrei farcela!".
Così, di buona lena, ci avviamo lungo la pista ciclabile che costeggia il fiume. Tutto sembra perfetto: la splendida giornata di sole, la compagnia, l'umore dei partecipanti che subito familiarizzano chiacchierando alacremente. Giorgio, che non conoscevo di persona, si rivela subito un ragazzo simpatico e affabile. Di domenica procedere a piedi, su una pista ciclabile dove sfrecciano insofferenti torme di ciclisti, in un gruppo scomposto di trekker non è meno pericoloso di farsi contromano il tratto appenninico in autostrada.
Al km 3 avverto uno strano bruciore alla pianta dei piedi: come un pirla, anzichè indossare degli scarponcini da trekking, porto dei sandali. Avevo pensato: fa caldo, coi sandali non dovrei surriscaldarmi i piedi. Niente di più sbagliato: la mancanza dei calzini costringe il piede ad un continuo sfregamento della pianta; inoltre sullo sterrato ogni 10 metri sei costretto a fermarti per togliere i sassolini. E così al km 7 lo sfregamento aveva già prodotto due simpatiche bolle: una sotto la pianta del piede destro e una sul mignolo. Ma ancora è solo allarme giallo e non dico niente. Così, approfittando di una sosta foto, avviene il micidiale scambio degli zaini. Il mio contiene un panino e una bottiglietta di minerale. Quello di Claudio, a considerare la consistenza, oltre all'attrezzatura d'ordinanza, contiene senz'altro un'incudine da viaggio, uno stabilizzatore per televisore b/n o, in subordine un porceddo sardo già cucinato. Lungo la pista, ci fermiamo a chiedere a un signore dall'aria non sveglissima, fermo sul greto di un fiume secco con la sua Diane d'epoca e il suo setter, quanto manca per Montecchio Maggiore. Ci risponde: 10 chilometri. Claudio gli chiede se può farci uno sconto, ma la battuta la capisce solo il cane, che scodinzola. Dai resoconti del blog sull'accurata pianificazione della marcetta (mappe militari, satellitari e via dicendo) ero convinto che per ogni tappa ci fosse un accurato disegno del percorso e delle altimetrie, un pò come per il Giro d'Italia. La realtà è ben diversa: navigazione scala uno a occhio.
Arriviamo nei pressi dell'autostazione di Montecchio per l'ora di pranzo. Proviamo a chiedere informazioni per un bar. Incontriamo nell'ordine: due Sik col turbante, una coppia di indiani (lei molto bella nel suo velo giallo e arancione), tre maggiorate di colore e finalmente un indigeno (inteso come Vicentino!) che ci conferma ciò che il nostro stomaco paventava: la domenica a Montecchio è come The Day After. Ma un angelo inviato da nostro Signore, con le sembianze di un pensionato e nostro compagno di viaggio, tira fuori come dalla borsa di Mary Poppins, ogni ben di Dio. Il pranzo è salvo e gli acidi gastrici sono sedati.
La marcia riprende sotto al solleone: sudo così tanto che non ho nemmeno bisogno di fare pipì. Girato l'angolo ci appare un salvifico bar, di quelli con le vaschette dei gelati in bella mostra. Senza che nessuno dica nulla ci troviamo seduti tutti in torno a un tavolo. Gli altri ordinano birra o thè ghiacciato. Io un taxi. Scambiando il mio per un motto di spirito, la cameriera porta anche a me un thè freddo.
Lì è stato l'inizio della fine. Al km 18 le bolle erano diventate piaghe. Al 23° cancrena. Fortunatamente la putrefazione è sopraggiunta a soli due chilometri dall'arrivo. Dopo aver incocciato una gara di giovanissimi ciclisti (fortissima la tentazione di accoppare il fanalino di coda ed espropriargli proletariamente la bici) è iniziata la più lunga micidiale, rovente e fantozziana salita che la storia del trekking ricordi. E' nelle difficoltà che il vero carattere dell'uomo si appalesa. Il cervello bolle, ognuno reagisce a modo suo: Paolo è diventato dello stesso colore della maglia del Toro, Tommy e Claudio parlano di nuovi modelli di scaldabagno (ve lo giuro su mia madre!). Giorgio parla col suo navigatore e gli chiede come mai le informazioni che ci dà sono in aperta contraddizione con ciò che ci dice Paolo che abita lì. Da diverse prove, io e Claudio, impossessatici del diabolico strumento, notiamo che l'ago elettronico della bussola non si muove più di quello del navigatore del camper di Barbie. L'evidenza sperimentale getta Giorgio in uno stato di prostrazione, come se gli avessimo rivelato a trent'anni che è un figlio adottivo. Subito dopo, chiuso in un mutismo inspiegabile irrompe a casa di una contadina per riempire le sue bottigliette d'acqua, spacciandosi per un pellegrino diretto a Roma per l'Anno Santo. La signora ci saluta chiedendoci di recitare, una volta in Vaticano, un rosario anche per lei.
Comincia il discesone finale. In preda ad un attacco di autolesionismo (cos'ha più da perdere?) Giorgio si butta in mezzo a un vigneto, forse per tagliare un tornante o forse per farla finita sniffando verderame. Come pecoroni, obnubilati da un livello della volontà sotto il livello di guardia, lo seguiamo. Per ritornare sulla strada occorre scendere da una scarpata in mezzo ai rovi. Scivoliamo, cadiamo, Claudio filma tutto. Io maledico il momento in cui sono venuto alla luce e prego il Dio dei giornalisti di scagliare una folgore sui due mitomani che stiamo seguendo.
Il navigatore segna 2,6 km all'arrivo. Paolo dice che mancano trecento metri. E' soprattutto nei momenti estremi che la mente umana tende a pensare positivo. E fortunatamente spesso c'azzecca! Dietro al curvone, in Via dei Sette Martiri, davanti al Monumento dei Caduti (vi giuro che non me lo sto inventando!) si staglia, con la sua sobria architettura minimal, l'albergo.
Ci sbrachiamo sulle eleganti sedie di plastica verdone del pergolato. Claudio, mosso da
compassione (o da tremendi sensi di colpa...) medica le mie vesciche chiedendo qualcosa per bucarle. La moglie di Paolo, che nel frattempo ci aveva raggiunti, tira fuor dalla sua elegante borsetta una cesoia!!! (Che Dio mi fulmini se non è vero!). Risolviamo tutto con un banale spillino.
Intanto Giorgio entra per contrattare la cena con la proprietaria, fresca di una tintura corvina ai capelli. Esce con l'aria sconsolata dicendo che è tardi per mangiare. Ci riprova Claudio. Esce gongolante, invitandoci ad accomodarci al tavolo. Di sicuro avrà sfoggiato, oltre all'indubbio fascino canuto, la sempre efficace panzana dei giornalisti del Gambero Rosso.
A Dio piacendo, mettiamo le gambe sotto un tavolo e ci alziamo solo dopo che quei due crapuloni di Giorgio e Claudio hanno finito di sorseggiare la quinta birra media della giornata (a testa!). In quel momento l'illuminazione: che sia il luppolo il misterioso agente dopante che li sostiene?
Dieci di sera: salutiamo calorosamente i nostri mentori ed aguzzini. La moglie dell'angelo Paolo ci riaccompagna alla macchina. Nel cofano della monovolume c'è il loro pastore tedesco. Il cattivo odore è insopportabile, infatti il cane avvicina schifato il suo naso al finestrino... Ci rimettiamo alla guida, alla fine di una delle giornate più memorabili degli ultimi anni. Nel bene e nel male. Mi auguro di non dover mai frenare durante il tragitto: ho male solo a schiacciare l'acceleratore.
Scrivo queste poche righe immobilizzato in un letto, al solo scopo, non già di sfogo, ma per mettere in guardia tutti gli incolpevoli lobbisti che volessero unirsi ai due Sadici Marcettari. Decidete voi. Ma non dite che non vi avevo avvisato!
Avrei dovuto capirlo subito che era una trappola. " Non preoccupatevi, arrivate quando volete, quando siete qui a Cornedo, partiamo!" ci aveva rassicurati Claudio. Io, Paolo, Tommaso e Paola li abbiamo li aspettati nella hall (!?!) dell'Hotel Vittoria. Durante l'attesa pensavo ai 25-30 chilometri che avremmo dovuto percorrere, chiedendomi se ce l'avrei fatta senza problemi. Poi, considerando che il gruppo era composto da un'insegnate di matematica, da un pensionato vicentino, da due giornalisti, uno dalla barba bianca e l'altro fisiognomicamente molto diverso da un decatleta, dicevo, tra me e me, che lì in mezzo in fondo non sfiguravo. Quanto mi sbagliassi l'avrei scoperto solo dopo!
Pochi minuti e li abbiamo visti scendere sfoggiando le splendide magliette tecniche della marcetta: Giorgio con la versione rossa (molto bella) e Claudio con quella bianca (più adatta alla marcia sotto il solleone). Dopo i saluti di rito diamo un'occhiata ai rispettivi zaini: avevo premesso a Claudio, vittima di un brutto mal di schiena, di fare a turno con Tommy per portarglielo: è all'incirca alto come un bambino in età scolare (lo zaino intendo...). Provo ad alzarlo: pesa anche, come un bambino delle elementari. Ovviamente non faccio nessun commento, anche perchè il Sabellone se lo incolla lui: "Per i primi chilometri dovrei farcela!".
Così, di buona lena, ci avviamo lungo la pista ciclabile che costeggia il fiume. Tutto sembra perfetto: la splendida giornata di sole, la compagnia, l'umore dei partecipanti che subito familiarizzano chiacchierando alacremente. Giorgio, che non conoscevo di persona, si rivela subito un ragazzo simpatico e affabile. Di domenica procedere a piedi, su una pista ciclabile dove sfrecciano insofferenti torme di ciclisti, in un gruppo scomposto di trekker non è meno pericoloso di farsi contromano il tratto appenninico in autostrada.
Al km 3 avverto uno strano bruciore alla pianta dei piedi: come un pirla, anzichè indossare degli scarponcini da trekking, porto dei sandali. Avevo pensato: fa caldo, coi sandali non dovrei surriscaldarmi i piedi. Niente di più sbagliato: la mancanza dei calzini costringe il piede ad un continuo sfregamento della pianta; inoltre sullo sterrato ogni 10 metri sei costretto a fermarti per togliere i sassolini. E così al km 7 lo sfregamento aveva già prodotto due simpatiche bolle: una sotto la pianta del piede destro e una sul mignolo. Ma ancora è solo allarme giallo e non dico niente. Così, approfittando di una sosta foto, avviene il micidiale scambio degli zaini. Il mio contiene un panino e una bottiglietta di minerale. Quello di Claudio, a considerare la consistenza, oltre all'attrezzatura d'ordinanza, contiene senz'altro un'incudine da viaggio, uno stabilizzatore per televisore b/n o, in subordine un porceddo sardo già cucinato. Lungo la pista, ci fermiamo a chiedere a un signore dall'aria non sveglissima, fermo sul greto di un fiume secco con la sua Diane d'epoca e il suo setter, quanto manca per Montecchio Maggiore. Ci risponde: 10 chilometri. Claudio gli chiede se può farci uno sconto, ma la battuta la capisce solo il cane, che scodinzola. Dai resoconti del blog sull'accurata pianificazione della marcetta (mappe militari, satellitari e via dicendo) ero convinto che per ogni tappa ci fosse un accurato disegno del percorso e delle altimetrie, un pò come per il Giro d'Italia. La realtà è ben diversa: navigazione scala uno a occhio.
Arriviamo nei pressi dell'autostazione di Montecchio per l'ora di pranzo. Proviamo a chiedere informazioni per un bar. Incontriamo nell'ordine: due Sik col turbante, una coppia di indiani (lei molto bella nel suo velo giallo e arancione), tre maggiorate di colore e finalmente un indigeno (inteso come Vicentino!) che ci conferma ciò che il nostro stomaco paventava: la domenica a Montecchio è come The Day After. Ma un angelo inviato da nostro Signore, con le sembianze di un pensionato e nostro compagno di viaggio, tira fuori come dalla borsa di Mary Poppins, ogni ben di Dio. Il pranzo è salvo e gli acidi gastrici sono sedati.
La marcia riprende sotto al solleone: sudo così tanto che non ho nemmeno bisogno di fare pipì. Girato l'angolo ci appare un salvifico bar, di quelli con le vaschette dei gelati in bella mostra. Senza che nessuno dica nulla ci troviamo seduti tutti in torno a un tavolo. Gli altri ordinano birra o thè ghiacciato. Io un taxi. Scambiando il mio per un motto di spirito, la cameriera porta anche a me un thè freddo.
Lì è stato l'inizio della fine. Al km 18 le bolle erano diventate piaghe. Al 23° cancrena. Fortunatamente la putrefazione è sopraggiunta a soli due chilometri dall'arrivo. Dopo aver incocciato una gara di giovanissimi ciclisti (fortissima la tentazione di accoppare il fanalino di coda ed espropriargli proletariamente la bici) è iniziata la più lunga micidiale, rovente e fantozziana salita che la storia del trekking ricordi. E' nelle difficoltà che il vero carattere dell'uomo si appalesa. Il cervello bolle, ognuno reagisce a modo suo: Paolo è diventato dello stesso colore della maglia del Toro, Tommy e Claudio parlano di nuovi modelli di scaldabagno (ve lo giuro su mia madre!). Giorgio parla col suo navigatore e gli chiede come mai le informazioni che ci dà sono in aperta contraddizione con ciò che ci dice Paolo che abita lì. Da diverse prove, io e Claudio, impossessatici del diabolico strumento, notiamo che l'ago elettronico della bussola non si muove più di quello del navigatore del camper di Barbie. L'evidenza sperimentale getta Giorgio in uno stato di prostrazione, come se gli avessimo rivelato a trent'anni che è un figlio adottivo. Subito dopo, chiuso in un mutismo inspiegabile irrompe a casa di una contadina per riempire le sue bottigliette d'acqua, spacciandosi per un pellegrino diretto a Roma per l'Anno Santo. La signora ci saluta chiedendoci di recitare, una volta in Vaticano, un rosario anche per lei.
Comincia il discesone finale. In preda ad un attacco di autolesionismo (cos'ha più da perdere?) Giorgio si butta in mezzo a un vigneto, forse per tagliare un tornante o forse per farla finita sniffando verderame. Come pecoroni, obnubilati da un livello della volontà sotto il livello di guardia, lo seguiamo. Per ritornare sulla strada occorre scendere da una scarpata in mezzo ai rovi. Scivoliamo, cadiamo, Claudio filma tutto. Io maledico il momento in cui sono venuto alla luce e prego il Dio dei giornalisti di scagliare una folgore sui due mitomani che stiamo seguendo.
Il navigatore segna 2,6 km all'arrivo. Paolo dice che mancano trecento metri. E' soprattutto nei momenti estremi che la mente umana tende a pensare positivo. E fortunatamente spesso c'azzecca! Dietro al curvone, in Via dei Sette Martiri, davanti al Monumento dei Caduti (vi giuro che non me lo sto inventando!) si staglia, con la sua sobria architettura minimal, l'albergo.
Ci sbrachiamo sulle eleganti sedie di plastica verdone del pergolato. Claudio, mosso da
compassione (o da tremendi sensi di colpa...) medica le mie vesciche chiedendo qualcosa per bucarle. La moglie di Paolo, che nel frattempo ci aveva raggiunti, tira fuor dalla sua elegante borsetta una cesoia!!! (Che Dio mi fulmini se non è vero!). Risolviamo tutto con un banale spillino.
Intanto Giorgio entra per contrattare la cena con la proprietaria, fresca di una tintura corvina ai capelli. Esce con l'aria sconsolata dicendo che è tardi per mangiare. Ci riprova Claudio. Esce gongolante, invitandoci ad accomodarci al tavolo. Di sicuro avrà sfoggiato, oltre all'indubbio fascino canuto, la sempre efficace panzana dei giornalisti del Gambero Rosso.
A Dio piacendo, mettiamo le gambe sotto un tavolo e ci alziamo solo dopo che quei due crapuloni di Giorgio e Claudio hanno finito di sorseggiare la quinta birra media della giornata (a testa!). In quel momento l'illuminazione: che sia il luppolo il misterioso agente dopante che li sostiene?
Dieci di sera: salutiamo calorosamente i nostri mentori ed aguzzini. La moglie dell'angelo Paolo ci riaccompagna alla macchina. Nel cofano della monovolume c'è il loro pastore tedesco. Il cattivo odore è insopportabile, infatti il cane avvicina schifato il suo naso al finestrino... Ci rimettiamo alla guida, alla fine di una delle giornate più memorabili degli ultimi anni. Nel bene e nel male. Mi auguro di non dover mai frenare durante il tragitto: ho male solo a schiacciare l'acceleratore.
Scrivo queste poche righe immobilizzato in un letto, al solo scopo, non già di sfogo, ma per mettere in guardia tutti gli incolpevoli lobbisti che volessero unirsi ai due Sadici Marcettari. Decidete voi. Ma non dite che non vi avevo avvisato!
2.6.07
L'ultima partita del Comandante "Andarmene? Non ci penso neanche"
di Carlo Bonini - Repubblica.it
NELL'EPILOGO, dunque, il generale di fanteria Roberto Speciale da Petraperzia (Enna), "Ciccio il comandante", come ama farsi vezzeggiare dai suoi amici forzisti e di Alleanza nazionale, non batte i tacchi. Nella sua uscita non c'è traccia di uno di quei suoi "Ossequiosamente obbedisco", "Subordinatamente La saluto", con cui per dodici mesi ha omaggiato un nuovo padrone politico cui scavava la fossa. In trenta minuti di colloquio in via XX Settembre, comunica al ministro dell'Economia Padoa-Schioppa, che gliele chiede, che lui alle dimissioni "non ci pensa nemmeno". Si fa mettere alla porta e destituire dal comando con effetto immediato lasciandosi offrire un posticino alla Corte dei conti (che forse accetterà, o forse no).
Perché questo contemplava il format che il centro-destra aveva scritto e che con diligenza lui ha interpretato in queste due settimane. L'uscita di scena doveva essere rumorosa. E rumorosa è stata. Perché, da oggi, in un'ultima operazione di "spin", rumore possa chiamare altro rumore ("La destituzione è un golpe". "Un attentato alla Costituzione". "Un'esecuzione gappista") convincendo il Paese di essere rimasto orfano di un generale "spezzaferro", di un "civil servant", che non si è piegato all'arroganza della politica.
Roberto Speciale non è stato né l'uno, né l'altro. Roberto Speciale è un fungo cresciuto nel sottobosco in cui, per cinque anni, il centro-destra ha coltivato un disegno di controllo degli apparati che doveva avere nell'intelligence politico-militare, il Sismi di Nicolò Pollari, e nelle Fiamme Gialle, un nuovo potente e pervasivo strumento di controllo e intervento a uso politico. Un grumo di potere non più misterioso almeno da quattro anni. Di cui il governo di centro-sinistra conosceva e conosce uomini e coordinate. Di cui ha fatto le spese (la campagna sul caso Unipol, le intrusioni abusive nelle anagrafi tributarie, il sistema di spionaggio illegale in Telecom). Ma a cui sin qui non ha voluto (o potuto) mettere mano. Per insipienza, per miopia, per divisioni interne. E a cui oggi sacrifica, non a caso, il viceministro Vincenzo Visco (l'unico, a quanto pare, ad aver avvistato per tempo "criticità" che altri non hanno voluto vedere).
Eppure, non era necessario un indovino per intuire come sarebbe andata a finire. Per comprendere quale fosse la posta in gioco. Nell'autunno scorso, con l'uscita di Pollari dal Sismi, Speciale perde il suo mentore e rimane unico custode della potente macchina che, nel luglio 2003, gli era stata consegnata con ben altre e per lui più consone mansioni. E' un Carneade, "Ciccio il comandante". E, in quell'estate, quando decidono di nominarlo comandante generale della Finanza, Berlusconi e Tremonti ne ignorano persino l'esistenza. E' Nicolò Pollari, siciliano come Speciale, che garantisce per lui. Che ne sollecita e impone la nomina.
E' l'uomo giusto, al posto giusto, al momento giusto, ragiona l'allora direttore del Sismi. E' una muffa degli Stati Maggiori della Difesa che a fatica ha superato l'Accademia militare di Modena. Un burocrate furbissimo con un debole per le belle cose (arredi e orologi), la bella gente, i bei luoghi (Capri). Che in dieci anni (dal 1993 al 2003), da poltrone di nessuna visibilità, ha coltivato una fitta rete di benevolenze. Ha comandato infatti il primo Reparto dello Stato maggiore Esercito e quindi il primo Reparto dello Stato maggiore Difesa, da dove ha controllato "il personale" (avanzamenti e stato giuridico della truppa e dei quadri ufficiali. Per un periodo anche la leva).
Nell'estate 2003, Pollari ha bisogno di una testa di legno che governi per conto terzi (per suo conto) la Guardia di Finanza. Il tempo necessario al governo di centro-destra per varare la riforma che (come per l'Arma dei carabinieri) dovrebbe consentire di nominare al comando del corpo un proprio generale. Che prepari cioè a Pollari, generale di corpo d'armata delle Fiamme Gialle, il suo grande rientro quando si tratterà di lasciare il Sismi. E' un piano di cui Pollari si compiace e che Speciale racconta in giro, vantandosene. Pollari dispone. "Ciccio" esegue. Il Sismi si gonfia di ufficiali della Finanza e, va da sé, anche del figlio di Speciale, cui per qualche tempo viene affidato (con esiti disastrosi) il centro di Abu Dhabi. Speciale ridisegna i vertici del Corpo con organigrammi dettati da Pollari e dal suo delfino, il generale Emilio Spaziante, che dalla Lombardia (di cui controlla ogni ufficiale) viene portato a Roma, come capo di Stato Maggiore. Speciale fa e disfa, ritenendo di non dover neppure informare il suo comandante in seconda.
Poi, il piano Pollari va a farsi benedire. E con lui la direzione del Sismi e l'osmosi tra la nostra intelligence militare e le Fiamme Gialle. Speciale resta il solo garante, con pieni poteri di comando, di una ragnatela pazientemente tessuta per quattro anni. Di un apparato che è stato il braccio operativo dell'esecutivo di ieri, oggi opposizione. Il tentativo di Visco di cominciare a intaccarne i gangli (Milano) è troppo. Ma è anche una magnifica occasione. L'operazione può cominciare. E Speciale ne conosce l'epilogo. Si aggiusterà la fascia in vita e si farà saltare come un martire nel governo di centro-sinistra. Forse, farà qualcosa di più. Se è vero, come dicono quando ormai è notte, che oggi, da destituito, sederà ai Fori imperiali nel palco autorità della Festa della Repubblica. Se è vero che in queste ore lo accende l'idea di mummificarsi in Viale XXI Aprile ricorrendo a qualche tribunale amministrativo contro la decisione del governo.
NELL'EPILOGO, dunque, il generale di fanteria Roberto Speciale da Petraperzia (Enna), "Ciccio il comandante", come ama farsi vezzeggiare dai suoi amici forzisti e di Alleanza nazionale, non batte i tacchi. Nella sua uscita non c'è traccia di uno di quei suoi "Ossequiosamente obbedisco", "Subordinatamente La saluto", con cui per dodici mesi ha omaggiato un nuovo padrone politico cui scavava la fossa. In trenta minuti di colloquio in via XX Settembre, comunica al ministro dell'Economia Padoa-Schioppa, che gliele chiede, che lui alle dimissioni "non ci pensa nemmeno". Si fa mettere alla porta e destituire dal comando con effetto immediato lasciandosi offrire un posticino alla Corte dei conti (che forse accetterà, o forse no).
Perché questo contemplava il format che il centro-destra aveva scritto e che con diligenza lui ha interpretato in queste due settimane. L'uscita di scena doveva essere rumorosa. E rumorosa è stata. Perché, da oggi, in un'ultima operazione di "spin", rumore possa chiamare altro rumore ("La destituzione è un golpe". "Un attentato alla Costituzione". "Un'esecuzione gappista") convincendo il Paese di essere rimasto orfano di un generale "spezzaferro", di un "civil servant", che non si è piegato all'arroganza della politica.
Roberto Speciale non è stato né l'uno, né l'altro. Roberto Speciale è un fungo cresciuto nel sottobosco in cui, per cinque anni, il centro-destra ha coltivato un disegno di controllo degli apparati che doveva avere nell'intelligence politico-militare, il Sismi di Nicolò Pollari, e nelle Fiamme Gialle, un nuovo potente e pervasivo strumento di controllo e intervento a uso politico. Un grumo di potere non più misterioso almeno da quattro anni. Di cui il governo di centro-sinistra conosceva e conosce uomini e coordinate. Di cui ha fatto le spese (la campagna sul caso Unipol, le intrusioni abusive nelle anagrafi tributarie, il sistema di spionaggio illegale in Telecom). Ma a cui sin qui non ha voluto (o potuto) mettere mano. Per insipienza, per miopia, per divisioni interne. E a cui oggi sacrifica, non a caso, il viceministro Vincenzo Visco (l'unico, a quanto pare, ad aver avvistato per tempo "criticità" che altri non hanno voluto vedere).
Eppure, non era necessario un indovino per intuire come sarebbe andata a finire. Per comprendere quale fosse la posta in gioco. Nell'autunno scorso, con l'uscita di Pollari dal Sismi, Speciale perde il suo mentore e rimane unico custode della potente macchina che, nel luglio 2003, gli era stata consegnata con ben altre e per lui più consone mansioni. E' un Carneade, "Ciccio il comandante". E, in quell'estate, quando decidono di nominarlo comandante generale della Finanza, Berlusconi e Tremonti ne ignorano persino l'esistenza. E' Nicolò Pollari, siciliano come Speciale, che garantisce per lui. Che ne sollecita e impone la nomina.
E' l'uomo giusto, al posto giusto, al momento giusto, ragiona l'allora direttore del Sismi. E' una muffa degli Stati Maggiori della Difesa che a fatica ha superato l'Accademia militare di Modena. Un burocrate furbissimo con un debole per le belle cose (arredi e orologi), la bella gente, i bei luoghi (Capri). Che in dieci anni (dal 1993 al 2003), da poltrone di nessuna visibilità, ha coltivato una fitta rete di benevolenze. Ha comandato infatti il primo Reparto dello Stato maggiore Esercito e quindi il primo Reparto dello Stato maggiore Difesa, da dove ha controllato "il personale" (avanzamenti e stato giuridico della truppa e dei quadri ufficiali. Per un periodo anche la leva).
Nell'estate 2003, Pollari ha bisogno di una testa di legno che governi per conto terzi (per suo conto) la Guardia di Finanza. Il tempo necessario al governo di centro-destra per varare la riforma che (come per l'Arma dei carabinieri) dovrebbe consentire di nominare al comando del corpo un proprio generale. Che prepari cioè a Pollari, generale di corpo d'armata delle Fiamme Gialle, il suo grande rientro quando si tratterà di lasciare il Sismi. E' un piano di cui Pollari si compiace e che Speciale racconta in giro, vantandosene. Pollari dispone. "Ciccio" esegue. Il Sismi si gonfia di ufficiali della Finanza e, va da sé, anche del figlio di Speciale, cui per qualche tempo viene affidato (con esiti disastrosi) il centro di Abu Dhabi. Speciale ridisegna i vertici del Corpo con organigrammi dettati da Pollari e dal suo delfino, il generale Emilio Spaziante, che dalla Lombardia (di cui controlla ogni ufficiale) viene portato a Roma, come capo di Stato Maggiore. Speciale fa e disfa, ritenendo di non dover neppure informare il suo comandante in seconda.
Poi, il piano Pollari va a farsi benedire. E con lui la direzione del Sismi e l'osmosi tra la nostra intelligence militare e le Fiamme Gialle. Speciale resta il solo garante, con pieni poteri di comando, di una ragnatela pazientemente tessuta per quattro anni. Di un apparato che è stato il braccio operativo dell'esecutivo di ieri, oggi opposizione. Il tentativo di Visco di cominciare a intaccarne i gangli (Milano) è troppo. Ma è anche una magnifica occasione. L'operazione può cominciare. E Speciale ne conosce l'epilogo. Si aggiusterà la fascia in vita e si farà saltare come un martire nel governo di centro-sinistra. Forse, farà qualcosa di più. Se è vero, come dicono quando ormai è notte, che oggi, da destituito, sederà ai Fori imperiali nel palco autorità della Festa della Repubblica. Se è vero che in queste ore lo accende l'idea di mummificarsi in Viale XXI Aprile ricorrendo a qualche tribunale amministrativo contro la decisione del governo.
1.6.07
Mandiamo su Giove i rifiuti campani
SATIRA PREVENTIVA di Michele Serra
La Regione Campania ha indetto un concorso internazionale per risolvere il problema dello smaltimento dei rifiuti. Sono pervenute da tutto il mondo (perfino dall'Italia) numerose proposte. Ecco quelle che sono state giudicate le più realizzabili.
Il miracolo
È la proposta avanzata dal Comitato scientifico della Cei, che suggerisce di trasportare davanti a ogni cumulo di rifiuti una statua della Vergine, portata in processione dalle autorità locali, e riunirsi in preghiera fino a che i rifiuti spariscano, lasciando nell'aria un intenso profumo di rose. Interessanti risultati delle simulazioni effettuate dai tecnici vaticani: i fedeli, dopo un quarto d'ora in ginocchio nelle discariche, a 36 gradi centigradi, hanno avuto le visioni. A molti è apparsa Santa Chiquita, protettrice delle banane. Altri giurano di avere visto Maradona che calciava un cocomero, con l'effetto a spiovere, centrando una lavatrice sfondata a quaranta metri di distanza.
Vesuvio bis
Un pool di artisti giapponesi, specializzati in installazioni gigantesche purché fuori dal Giappone, propone di ammucchiare i rifiuti fino a realizzare un Vesuvio bis, di uguali dimensioni e di identica forma. Le esalazioni del materiale in decomposizione arricchiranno il Vesuvio bis del caratteristico pennacchio di fumo. Sulle pendici, rese scivolose dai liquami, si potrà sciare anche d'estate.
Capri due
Il sovraffollamento turistico dell'isola ha suggerito a un gruppo di intellettuali l'idea di costruire con i rifiuti una enorme piattaforma galleggiante accanto a Capri. Una Capri due con tanto di faraglioni di pneumatici usati, piazzetta per lo shopping e tavolino di Raffaele La Capria.
Su Giove
Una flottiglia di gigantesche astronavi per trasportare tutta l'immondizia su Giove: è la ragionevole proposta alternativa suggerita dai sindaci dei comuni campani che rifiutano le discariche sul loro territorio. Le astronavi verrebbero guidate da autisti dell'azienza comunale dei trasporti in aspettativa, quasi tutti parenti di Mastella. Due problemi: il costo enorme delle astronavi, troppo elevato anche per essere inserito tra le spese di rappresentanza della Regione, e la ferma opposizione dei sindaci di Giove, che hanno annunciato blocchi stradali accumulando fotoni e neutrini lungo le rotte intergalattiche.
Partita di giro
È un'interessante proposta fatta da un Consorzio di famiglie camorriste. Ogni Comune vende i rifiuti alla Provincia, che li rivende alla Regione, che li rivende alla camorra, che infine li rivende allo Stato quando il prezzo al quintale, dopo tutti quei passaggi, ha ormai raggiunto il costo all'ingrosso del caviale. Resta il problema dello smaltimento, perché i rifiuti rimarrebbero dove sono: ma la camorra assicura che, con i miliardi di euro ricavati, potrebbe aprire un centro studi per il riciclaggio, con docenti di Harvard e premi Nobel prelevati nelle loro case, legati, imbavagliati e portati a Napoli.
Guapperia
I guappi dei Quartieri Spagnoli non condividono le sofisticherie finanziarie della nuova camorra. Propongono i vecchi metodi: sparare ai camion della nettezza urbana per tenerli lontani dai loro quartieri. Il metodo ha un'indubbia efficacia a breve termine. A lungo termine, i camion in fuga incolonnati al Brennero rischiano di guastare i rapporti con la Regione Alto Adige.
Contrabbando
Ecco una vecchia risorsa dell'economia meridionale che può tornare a nuova vita. I motoscafi dei contrabbandieri, rimessi a nuovo con una mano di vernice e tappi di sughero a chiudere i buchi prodotti dalla ruggine, potrebbero portare clandestinamente i rifiuti nei Paesi del Mediterraneo e scaricarli sulle spiagge arabe, cantando 'Caravan Petrol'.
In famiglia
I promotori del Family Day sono stati presi in parola: poiché la famiglia è il nucleo fondamentale della società, ogni famiglia dovrà tenere i suoi rifiuti in casa, e provvedere a smaltirli all'interno delle mura domestiche, ingoiandola, senza rompere le balle al prossimo.
La Regione Campania ha indetto un concorso internazionale per risolvere il problema dello smaltimento dei rifiuti. Sono pervenute da tutto il mondo (perfino dall'Italia) numerose proposte. Ecco quelle che sono state giudicate le più realizzabili.
Il miracolo
È la proposta avanzata dal Comitato scientifico della Cei, che suggerisce di trasportare davanti a ogni cumulo di rifiuti una statua della Vergine, portata in processione dalle autorità locali, e riunirsi in preghiera fino a che i rifiuti spariscano, lasciando nell'aria un intenso profumo di rose. Interessanti risultati delle simulazioni effettuate dai tecnici vaticani: i fedeli, dopo un quarto d'ora in ginocchio nelle discariche, a 36 gradi centigradi, hanno avuto le visioni. A molti è apparsa Santa Chiquita, protettrice delle banane. Altri giurano di avere visto Maradona che calciava un cocomero, con l'effetto a spiovere, centrando una lavatrice sfondata a quaranta metri di distanza.
Vesuvio bis
Un pool di artisti giapponesi, specializzati in installazioni gigantesche purché fuori dal Giappone, propone di ammucchiare i rifiuti fino a realizzare un Vesuvio bis, di uguali dimensioni e di identica forma. Le esalazioni del materiale in decomposizione arricchiranno il Vesuvio bis del caratteristico pennacchio di fumo. Sulle pendici, rese scivolose dai liquami, si potrà sciare anche d'estate.
Capri due
Il sovraffollamento turistico dell'isola ha suggerito a un gruppo di intellettuali l'idea di costruire con i rifiuti una enorme piattaforma galleggiante accanto a Capri. Una Capri due con tanto di faraglioni di pneumatici usati, piazzetta per lo shopping e tavolino di Raffaele La Capria.
Su Giove
Una flottiglia di gigantesche astronavi per trasportare tutta l'immondizia su Giove: è la ragionevole proposta alternativa suggerita dai sindaci dei comuni campani che rifiutano le discariche sul loro territorio. Le astronavi verrebbero guidate da autisti dell'azienza comunale dei trasporti in aspettativa, quasi tutti parenti di Mastella. Due problemi: il costo enorme delle astronavi, troppo elevato anche per essere inserito tra le spese di rappresentanza della Regione, e la ferma opposizione dei sindaci di Giove, che hanno annunciato blocchi stradali accumulando fotoni e neutrini lungo le rotte intergalattiche.
Partita di giro
È un'interessante proposta fatta da un Consorzio di famiglie camorriste. Ogni Comune vende i rifiuti alla Provincia, che li rivende alla Regione, che li rivende alla camorra, che infine li rivende allo Stato quando il prezzo al quintale, dopo tutti quei passaggi, ha ormai raggiunto il costo all'ingrosso del caviale. Resta il problema dello smaltimento, perché i rifiuti rimarrebbero dove sono: ma la camorra assicura che, con i miliardi di euro ricavati, potrebbe aprire un centro studi per il riciclaggio, con docenti di Harvard e premi Nobel prelevati nelle loro case, legati, imbavagliati e portati a Napoli.
Guapperia
I guappi dei Quartieri Spagnoli non condividono le sofisticherie finanziarie della nuova camorra. Propongono i vecchi metodi: sparare ai camion della nettezza urbana per tenerli lontani dai loro quartieri. Il metodo ha un'indubbia efficacia a breve termine. A lungo termine, i camion in fuga incolonnati al Brennero rischiano di guastare i rapporti con la Regione Alto Adige.
Contrabbando
Ecco una vecchia risorsa dell'economia meridionale che può tornare a nuova vita. I motoscafi dei contrabbandieri, rimessi a nuovo con una mano di vernice e tappi di sughero a chiudere i buchi prodotti dalla ruggine, potrebbero portare clandestinamente i rifiuti nei Paesi del Mediterraneo e scaricarli sulle spiagge arabe, cantando 'Caravan Petrol'.
In famiglia
I promotori del Family Day sono stati presi in parola: poiché la famiglia è il nucleo fondamentale della società, ogni famiglia dovrà tenere i suoi rifiuti in casa, e provvedere a smaltirli all'interno delle mura domestiche, ingoiandola, senza rompere le balle al prossimo.